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Quali riforme per una giustizia civile in cambiamento

di Matilde Betti
giudice del Tribunale di Bologna

Le riforme della giustizia civile inserite nel PNRR riguardano essenzialmente il processo civile ordinario. L’analisi dei procedimenti civili pendenti nei tribunali rivela che la domanda di giustizia odierna riguarda ambiti diversi – tutelare, protezione internazionale, famiglia – per cui altre sono le necessarie riforme: una differente allocazione delle risorse giudiziarie e un diverso modello di giudice, che non va verso la giustizia predittiva ma utilizza piuttosto modelli interpretativi offerti dalla dottrina giusfilosofica nordamericana.

Le riforme che si annunciano nel processo civile, almeno da una prima lettura delle emendamenti governativi proposti per il P.N.R.R. ed in funzione della riduzione del 40% dei tempi del processo, riguardano da un lato il potenziamento delle Alternative Dispute Resolutions e dall’altro riforme “di rito”: concentrazione delle attività nella prima udienza di comparizione, modello uniforme di decisione, unificazione dei plurimi riti in materia di famiglia, provvedimenti sommari e provvisori con efficacia esecutiva, più ampio filtro per l’appello, unificazione dei riti camerali in Cassazione e rinvio pregiudiziale in Cassazione.

Ma in una prospettiva di riforma della giustizia civile è prima necessario interrogarsi su quello che essa è oggi, per poi chiedersi di cosa la giustizia civile avrebbe bisogno. Bisogna prima capire cioè di che cosa si occupa la giurisdizione civile dei nostri tribunali e che cosa riguardano i procedimenti pendenti davanti a noi giudici. 

Per riflettere su come dovrebbe essere la giurisdizione civile, dobbiamo prima di tutto analizzare quale sia la giurisdizione praticata nei tribunali negli anni 20 del 2000.

Un buon esempio può essere quello di un medio tribunale distrettuale come Bologna, dove al 30 giugno 2020 le statistiche dell’ufficio rilevavano circa 32.000 procedimenti pendenti (escluse le esecuzioni e comprese tutte le altre procedure civili: lavoro e previdenza, volontaria giurisdizione, decreti ingiuntivi, famiglia, civile ordinario ecc.). Di questi, 8.700 erano amministrazioni di sostegno e tutele e 6.200 erano procedimenti della sezione protezione internazionale. Su 32.000 procedimenti, circa 15.000 erano procedimenti trattati dal giudice tutelare e dalla sezione specializzata protezione internazionale: quasi la metà.

Se si considera che al 30/6/2021 i procedimenti pendenti alla sezione protezione internazionale sono circa 8.500, più della metà dei procedimenti pendenti oggi nel tribunale di Bologna non corrisponde né alla giustizia civile oggetto delle modifiche previste per il P.N.N.R. né alla giustizia civile di cui ordinariamente si dibatte fra giudici, accademici ed avvocati.

Se si vuole davvero discutere delle riforme necessarie per la giustizia civile, è quindi indispensabile spostare lo sguardo da quello che affolla la mente dei giuristi a quello che succede davvero nei tribunali italiani. E’ necessario capire innanzitutto quale è la domanda di giustizia a cui la giurisdizione è chiamata a rispondere.

Questi procedimenti – le amministrazioni di sostegno, le domande di protezione internazionale e oltre queste anche le cause in materia di famiglia - hanno caratteristiche molto diverse dal processo civile ordinario sotto vari profili:

- in questi procedimenti non c’è parità delle parti. Nei procedimenti di protezione internazionale il richiedente asilo agisce contro il Ministero degli interni, diventa cioè sua convenuta in causa l’autorità che ha emesso il provvedimento impugnato; nella famiglia una parte centrale, il cui interesse è posto al centro della decisione, è il minore che non è rappresentato nel giudizio; nei procedimenti di amministrazione di sostegno la fase contenziosa vede il disabile solo contro tutti (familiari o servizi ricorrenti) e normalmente neppure rappresentato da procuratore.

- Il tempo del processo è rilevante sulla decisione della causa, perché tutte le decisioni sono prese allo stato degli atti. L’oggetto della controversia non è cristallizzato al momento della domanda, ma riguarda un processo in corso: nell’amministrazione di sostegno la limitazione della capacità di agire dipende dalla evoluzione del processo patologico; nei procedimenti di famiglia la sola crescita dei figli durante il processo porta modifiche alle disposizioni economiche e sull’affido; nei procedimenti di protezione internazionale il tempo dell’integrazione sul nostro territorio durante il procedimento è rilevante per il riconoscimento della protezione complementare.

- L’oggetto della decisione si sposta dall’atto al rapporto. Questo è di tutta evidenza nelle controversie familiari, dove le caratteristiche e la durata del rapporto incidono anche sulle determinazioni economiche; nelle amministrazioni di sostegno la solidità delle relazioni familiari incide sulla necessità della misura protettiva; per la protezione speciale l’integrazione e lo sviluppo di rapporti familiari e sociali influenza il riconoscimento del diritto dello straniero a permanere lecitamente sul territorio.

Se oltre la metà dei procedimenti pendenti nei nostri tribunali ha caratteristiche così diverse dal processo civile che si studia all’università, qualunque proposta di riforma della giustizia civile non può evitare di interrogarsi sulla realtà dei procedimenti civili effettivamente trattati nelle nostre aule di giustizia.

Diventa inevitabile chiedersi che significato abbia - e se ce l’ha – discutere di come modificare il tempo delle preclusioni o le scansioni delle udienze, quando i procedimenti davvero pendenti davanti a noi hanno caratteristiche molto diverse dal processo civile ordinario, che per molteplici ragioni negli anni recenti è lentamente e stabilmente in calo nelle statistiche giudiziarie.

Se ci si pone in un’ottica di riforma della giustizia civile non si può perdere il contatto con la realtà, sotto gli occhi di tutti ma che i giuristi sembrano non voler vedere. Oggi le persone, gli utenti della giustizia, si rivolgono ai tribunali più per gestire le finanze di un anziano, per decidere delle terapie di un disabile o le decisioni del fine vita, per regolare la permanenza lecita di uno straniero sul territorio e la possibilità di assumerlo, piuttosto che per dirimere controversie relative a contratti ed illeciti. Le decisioni in queste materie ed in quelle di famiglia sono molto più rilevanti per le persone di quella giustizia civile presente più nella mente dei giuristi che nella realtà.

E allora, se la giustizia civile nei nostri tribunali è diversa perché non si occupa di atti ma di rapporti, non di parti autonome e uguali ma di parti in relazione asimmetriche di cura o dipendenza, forse è necessario pensare a una riforma che non vada verso la modifica delle procedure, ma verso un modello diverso di giudice che questi rapporti sappia comprendere e regolare.

Forse occorre rivolgere la nostra attenzione alla giurisdizione piuttosto che al procedimento.

Il giudice che decide in queste materia non deve solo conoscere il diritto, che è naturalmente indispensabile criterio di decisione, ma prima deve essere capace di comprendere il fatto, il rapporto, la relazione in modo completo e privo di quei preconcetti inconsapevoli che lo guidano nella comprensione dei fatti da decidere. 

Questo è vero sempre, ma assume maggiore rilievo nei casi in cui la decisione non è su un atto singolo ma sulla complessità dei rapporti e sulla evoluzione delle situazioni.

Quando si praticano queste materie – famiglia, tutelare, protezione internazionale - assume un rilievo fondamentale tutta l’elaborazione teorica sull’empatia cognitiva che viene dal costituzionalismo americano, e non solo.

Durante la sua prima campagna presidenziale Obama individuò un requisito essenziale che avrebbe considerato nella scelta fra i candidati a comporre la Corte Suprema e disse: «Abbiamo bisogno di qualcuno che abbia il cuore, l’empatia, di capire cosa significa essere una giovane mamma adolescente. L’empatia di capire cosa significa essere povero o afroamericano o disabile o vecchio o gay e questo è il criterio con cui io sceglierò i miei giudici». Con questa frase Obama chiamava in causa una discussione giusfilosofica sul concetto giuridico di empatia che nel decennio precedente aveva avuto uno sviluppo molto rilevante ed in particolare il discorso giuridico sulla funzione dell’empatia nel diritto, in stretta connessione con gli spazi della discrezionalità interpretativa nell’esercizio della giurisdizione.

In questo ambito non ci si riferisce alla empatia come fenomeno affettivo, non si tratta di empatia come moto di compassione o immedesimazione nell’altro, ma al contrario di empatia cognitiva o intellettuale, quella che viene chiamata “cold empathy”. Mentre l’empatia emotiva porta il desiderio di essere d’aiuto, l’empatia cognitiva consiste nella capacità umana priva di valenza emotiva di comprendere i desideri, le emozioni e i sentimenti dell’altro, ma non richiede alcuna azione per aiutarlo a raggiungere i suoi scopi. 

Nella discussione giusfilosofica all’interno del movimento “law and emotion” si collocano ad esempio Susan Bandes[1] e Martha Nussbaum. Per Nussbaum l’empatia «rende le persone capaci di abitare per un momento il mondo di un’altra persona e di vedere il significato degli eventi nel mondo da un punto di vista esterno»[2]. La quaestio facti del processo viene quindi ricostruita dando voce agli esseri umani in quanto protagonisti delle loro particolari esperienze di vita, di cui non si può non tenere conto nel momento in cui si producono norme o decisioni. Questi orientamenti interpretativi da un lato riflettono e fanno emergere l’umanità delle persone nella loro diversità e dall’altro mettono in luce i condizionamenti determinati dalla cultura sul diritto: al riguardo è immediato il riferimento ai movimenti femministi, alla queer theory ed alla critical race theory e comunque a tutti quei movimenti volti a promuovere le diversità.

Nel bell’articolo di Alessandra Callegari su Questione Giustizia di qualche anno fa, l’empatia cognitiva in ambito giudiziario viene quindi intesa come assunzione intellettuale della prospettiva delle parti del processo, che disvela anche i condizionamenti culturali del giudice[3].

L’empatia in ambito giudiziario è uno strumento che, se diretto in conformità ai principi costituzionali, può permettere ai giudici di ottenere una maggiore comprensione del caso loro sottoposto.

Questo approccio intellettuale è di particolare rilievo per comprendere quaestiones facti ben più complesse di un contratto o di un incidente stradale perché durature nel tempo, relative a relazioni asimmetriche e in mutamento.

Ed è particolarmente utile nelle decisioni in materia di protezione internazionale, dove la differenza e l’alterità del richiedente è massima e dove – conseguentemente – è altissimo il rischio nel giudicante di inconsapevoli preconcetti e fraintendimenti.

La riforma più necessaria della giustizia civile, quindi, quella di cui hanno bisogno i cittadini che entrano nei tribunali, va prima di tutto nella direzione del riconoscimento di questa domanda di giustizia, il che comporta la destinazione di risorse adeguate a darvi risposta.

Va anche nella direzione di un giudice consapevole del tipo di domanda di giustizia posta ai tribunali di oggi ed attrezzato intellettualmente a comprenderla.

E’ paradossale che questo grande cambiamento della giurisdizione civile - che dovrebbe essere sotto gli occhi di tutti quelli che lavorano nei tribunali - non venga visto. Né dai dirigenti - che non destinano risorse proporzionate alla domanda di giustizia in queste materie spesso delegandole alla magistratura onoraria – né dai giuristi, con una formazione accademica ormai datata e non conforme alla attuale realtà dei tribunali civili italiani.

Mentre invece un nuovo modo di fare il giudice civile, di comprendere situazioni e rapporti complessi, è indispensabile se si vuole che la giurisdizione garantisca i diritti fondamentali, che sono quelli al rispetto della vita privata e familiare dei disabili, delle decisioni sul fine vita, del diritto a non subire persecuzioni o danni gravi in un paese straniero che non sa proteggere i suoi cittadini.

Vanno quindi pensate riforme nella direzione indicata da Obama ben più di 10 anni fa, con una giustizia organizzata per rispondere alle effettive domande poste oggi dai cittadini e con un diverso modello di giudice, piuttosto che dirette a scarsi aggiustamenti processuali.

Questo modello di giudice si colloca in una prospettiva significativamente diversa dalla giustizia predittiva di cui sempre più spesso si discute. Giustizia predittiva che è intrinsecamente conservatrice, basandosi sulla elaborazione delle decisioni precedenti, che trascura la complessità ermeneutica del rapporto oggetto del giudizio, che non esplicita e mantiene oscure le ragioni della decisione nel singolo caso concreto. E’ uno strumento non dissimile logicamente dalla mera replica delle massime giudiziarie nella decisione, perché offre una soluzione decisoria disancorata dal caso concreto, ma ancora più opaco, perché nasconde la ragione della soluzione, e che mal si adatta ad essere utilizzato nei procedimenti sopra descritti e oggi portati davanti ai giudici.

La domanda di giustizia oggi posta nelle aule dei tribunali ha sempre più per oggetto i diritti fondamentali della persona, e funzione essenziale della giurisdizione è garantirne il rispetto. Come chiaramente spiegato dal prof. Ferraioli, è il ruolo di garanti dei diritti fondamentali che costituisce la primaria fonte di legittimazione dei giudici all’interno della nostra costituzione personalistica[4].

E se la giustizia civile non è in grado di rispondere a questa contemporanea domanda di giustizia, è la sua stessa legittimazione ad essere messa in discussione. Se quindi le riforme proposte con P.N.R.R. hanno un orizzonte necessitato dalla esigenza della ripresa dopo la crisi pandemica, la giustizia civile deve interrogarsi più a fondo, guardandosi allo specchio. Scoprendosi diversa da come credeva, dovrà trovare altre vie per mantenere la sua legittimazione in una società democratica in cui ci si rivolge alla giurisdizione per trovare tutela dei propri diritti fondamentali. 

 
[1] S.A. Bandes, Moral Imagination in Judging, in Washburn Law Journal, 51, 2011.

[2] M.C. Nussbaum, L’intelligenza delle emozioni, Il Mulino, Bologna,2001.

[3] A. Callegari, Problemi fondamentali dell’empatia ed esperienza costituzionale americana, in Questione Giustizia, 4/11/17.

[4] L. Ferrajoli, La costruzione della democrazia e il ruolo dei giudici, lectio magistralis introduttiva del XXIII congresso di Magistratura Democratica (9 luglio 2021). 

 

 

23/07/2021
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