Magistratura democratica
Giurisprudenza e documenti

La Corte di Cassazione e la resistibile ascesa della giurisprudenza Taricco

di Gabriele Fiorentino
Magistrato addetto all'Ufficio studi del CSM
Note in relazione alla sentenza della Terza Sezione della Corte di Cassazione n. 2210 del 15 settembre 2015, in materia di disapplicazione della disciplina nazionale della prescrizione, a seguito della sentenza Taricco della Corte Europea di Giustizia

Con la sentenza n. 2210 del 15 settembre 2015, depositata il 20 gennaio 2016, della III Sezione penale della Corte di Cassazione, il giudice di legittimità italiano si è per la prima volta confrontato con gli effetti, sul nostro ordinamento penale, della pronuncia dell’8 settembre 2015 della Grande Camera della Corte di giustizia dell’Unione Europea, resa nel caso Taricco.

Come è noto, con tale pronuncia il giudice europeo ha fatto obbligo all’autorità giudiziaria nazionale di non applicare una particolare disciplina relativa al termine di prescrizione di certi reati tributari, lesivi degli interessi dell’Unione. Quest’ultima ne richiede infatti la repressione con sanzioni adeguate, efficaci e dissuasive.

Ci si aspettava che l’organo supremo della nostra giurisdizione, utilizzando l’armamentario giuridico nazionale si esercitasse, come spesso è stato costretto a fare, a compiere la indispensabile opera di mediazione ed armonizzazione, per rendere compatibile con la tradizione consolidata del diritto penale nostrano proposizioni interpretative vincolanti, ma potenzialmente confliggenti con i principi costituzionali proprio del diritto penale italiano, quali, perlomeno a prima vista, sembrerebbero quelle adottate dalla Corte di Giustizia, con la sentenza Taricco.

Con il noto corollario per cui, ove tale opera di adeguamento armonico non sia obbiettivamente praticabile, per la incompatibilità della soluzione normativa imposta dal diritto europeo con principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale – i cd. controlimiti -, la questione deve essere rimessa alla Corte Costituzionale, unico organo nazionale in grado, in sede accentrata , di disegnare i confini estremi ed invalicabili della sovranità giuridica nazionale, anche rispetto all’obbligo, pure costituzionalmente sancito, di conformarsi ai vincoli internazionali e a quelli derivanti dal diritto dell’Unione.

Tale aspettativa, ad una prima sommaria lettura delle motivazioni della sentenza, appare in gran parte delusa.

 

2. In particolare ed in estrema sintesi, con la sentenza Taricco la Corte di Giustizia ha affermato l'obbligo per il giudice penale italiano di non applicare il combinato disposto degli artt. 160 e 161 c.p. nella misura in cui egli ritenga che tale normativa - fissando un limite massimo al corso della prescrizione, pur in presenza di atti interruttivi, pari di regola al termine prescrizionale ordinario più un quarto - impedisce allo Stato italiano di adempiere agli obblighi di tutela effettiva degli interessi finanziari dell'Unione imposti dall'art. 325 del Trattato sul funzionamento dell'Unione (TFUE).

Secondo la Corte, nei casi in cui il giudice nazionale di merito ritenga che la disciplina limitativa esaminata impedisca in concreto di infliggere “sanzioni effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione”,  ovvero preveda “per i casi di frode che ledono gli interessi finanziari dello Stato membro interessato, termini di prescrizione più lunghi di quelli previsti per i casi di frode che elidono gli interessi finanziari dell’Unione” avrà l’obbligo  - derivante dal diritto dell’Unione – di condannare l’imputato ritenuto colpevole dei reati ascrittigli, senza tenere conto dell’eventuale decorso del termine prescrizionale calcolato sulla base degli art. 160 e 161 del codice penale. L’effetto sarebbe quello di riespandere la disciplina generale della interruzione della prescrizione, secondo cui ad ogni atto interruttivo il termine ordinario di cui all’art. 157 c.p. ricomincia a decorrere per intero, senza limite massimo derogatorio.

Non possono essere in questa sede esaminate dettagliatamente le questioni interpretative più dettagliate, quali l’ambito di reati cui la prescrizione possa applicarsi – le frodi gravi, o tutti gli interessi finanziari protetti dall’art. 325 tfue -; gli strumenti processuali utilizzabili per compiere le verifiche del caso; la effettività e dissuasività della sanzione che risulti applicabile secondo il regime giuridico nazionale.

Per l’interprete nazionale, il nodo centrale della sentenza europea, che interpella il tema generale dell’armonizzabilità strutturale degli ordinamenti, è quello relativo alla compatibilità della soluzione proposta dalla Corte del Lussemburgo con il principio di legalità formale che fonda l’ordinamento italiano di diritto penale e, in particolare con la garanzia di irretroattività della incriminazione penale stabilito dall’art. 25, comma 2, della Costituzione.

Si tratta cioè della possibilità di pronunciare condanna omettendo di applicare la disciplina più favorevole all’imputato derivante dalla normativa della prescrizione  di cui agli artt. 160 e 161 c.p., vigente al momento in cui il reato che si accerta è stato commesso. Ci si chiede se tale soluzione violi il principio di legalità in materia penale, secondo cui nessuna responsabilità penale può sussistere se non in forza della legge vigente al tempo del fatto. Ne deriverebbe, in sostanza, la retroattività dell’assetto normativo più severo sopravvenuto.

La questione è stata affrontata in maniera diretta, lineare e completa dalla ordinanza della Corte d’appello di Milano del 18 settembre 2015, che ha sollevato questione di legittimità costituzionale sull'art. 2 della legge 2 agosto 2008, n. 130 con cui è stata ordinata l'esecuzione nell'ordinamento italiano del Trattato sul Funzionamento dell'Unione europea (TFUE), "nella parte che impone di applicare la disposizione di cui all'art. 325 §§ 1 e 2 TFUE, dalla quale - nell'interpretazione fornitane dalla Corte di giustizia nella sentenza in data 8.9.2015, causa C-105/14, Taricco - discende l'obbligo per il giudice nazionale di disapplicare gli artt. 160 ultimo comma e 161 secondo comma c.p. in presenza delle circostanze indicate nella sentenza, anche se dalla disapplicazione discendano effetti sfavorevoli per l'imputato, per il prolungamento del termine di prescrizione, in ragione del contrasto di tale norma con l'art. 25, secondo comma, Cost.".

La Corte milanese, con dovizia di citazioni giurisprudenziali, ricostruisce in maniera ampia le ragioni per cui ritiene che la soluzione offerta dai giudici del Lussemburgo sia in diretto ed insanabile conflitto con la tradizione interpretativa costituzionale italiana consolidata secondo cui la prescrizione è istituto di diritto penale sostanziale che contribuisce in maniera diretta a definire il regime di punibilità di una condotta vietata dalla legge, e quindi rientra nell’ambito di applicazione del principio fondamentale  di legalità in tutti i suoi corollari - in particolare, riserva di legge e irretroattività dei mutamenti sfavorevoli della relativa disciplina -.

Da ciò deriva, ricorda la Corte d’appello di Milano, l'inammissibilità – stabilmente dichiarata dal giudice delle leggi - delle questioni di legittimità costituzionale miranti a modificare in senso più sfavorevole all’imputato  la disciplina della prescrizione, in quanto il loro accoglimento determinerebbe l’introduzione, da parte della Corte, di un effetto di diritto penale in malam partem, e, dunque un’ingerenza della Corte Costituzionale in un dominio riservato esclusivamente al legislatore in forza, appunto, dell’art. 25, comma 2, Cost”.

Dato conto della inconciliabilità di tale indirizzo interpretativo con la opposta ricostruzione offerta in ambito eurounitario (di cui infra), il giudice lombardo ha ritenuto di dover rimettere gli atti alla Corte costituzionale perché sia sindacato il possibile contrasto della prescrizione - cui  il giudice italiano è in linea di principio vincolato in base all’art. 11 Cost. - con i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale, comprensivi dei diritti fondamentali della persona, che giustificherebbe il rigetto della soluzione imposta dalla Corte europea, mediante  dichiarazione di illegittimità costituzionale della legge di esecuzione nell'ordinamento interno del Trattato di Lisbona, nella misura in cui attribuisce forza cogente all'art. 325 TFUE.

 

3. Nel contesto descritto si colloca la pronuncia Cassazione, oggetto di commento.

In essa il giudice di legittimità, dopo avere in primo luogo affermato la ricorrenza nella fattispecie sottoposta al suo giudizio delle condizioni obbiettive che giustificano la applicazione, sotto il profilo dell’inquadramento giuridico, della norma dell’art. 325 tfue – natura del reato contestato, interessi  protetti, gravità della violazione – è pervenuto alla conclusione che dovesse nella vicenda di specie farsi applicazione delle prescrizioni formulate nella sentenza Taricco, con la mancata applicazione degli art. 160 e 161 c.p. nella parte in cui pongono un limite massimo insuperabile al termine prescrizionale, e l’applicazione della regola generale per cui ogni atto interruttivo provoca la nuova decorrenza, integrale, dell’intera durata della prescrizione nella misura stabilita dall’art. 157 c.p..

La sentenza, d’altra parte, precisa che tale operazione è possibile solo in relazione a reati per i quali la estinzione per decorso del tempo non sia stata già dichiarata, ritenendo che ove vi sia stata pronuncia in tal senso nelle precedenti fasi del giudizio, anche se erronea, sia maturato un diritto soggettivo dell’imputato, in quanto tale irrevocabile.

La Cassazione argomenta il proprio enunciato esaminando la questione della compatibilità delle prescrizioni della Corte di Giustizia con l’ordinamento costituzionale nazionale, escludendo la ricorrenza di principi fondamentali di segno contrario, ovvero di diritti fondamentali della persona che giustifichino l’opposizione di controlimiti, tali da costringere a fare ricorso alla Corte costituzionale secondo il meccanismo di controllo individuato dallo stesso giudice delle leggi a partire dalla sentenza n. 170 del 1984.

Per giungere a tanto il giudice illustra - ripercorrendo l’iter argomentativo contenuto nella stessa sentenza Taricco – la tesi interpretativa eurounitaria secondo cui la disciplina della prescrizione non rientra nell’ambito di garanzia del principio del nullum crimen, stabilito dall’art. 49 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione. Alla regola sancita da tale ultima disposizione – che recepisce i principi di legalità e proporzionalità dei reati e delle pene - è attribuita, sulla base dell’art. 52 del medesimo testo normativa, l’estensione riconosciuta dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo formatasi sulla corrispondente previsione dell’art. 7 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

Secondo tale giurisprudenza la materia della prescrizione non attiene al diritto penale sostanziale, ma costituisce una mera condizione di procedibilità del reato. A rafforzare tale affermazione sono richiamate le suggestive conclusioni dell’Avvocato Generale nella vicenda Taricco per cui, se l’imputato ha diritto a non essere sorpreso da sanzioni penali non prevedibili al momento della commissione del fatto - in relazione alla individuazione della condotta punita ed alla sanzione applicabile - non può essere ravvisato un affidamento meritevole di tutela a che le norme applicabili in materia di prescrizione vigenti al tempo del fatto rimangano immutate.

Quindi, insistendo sulla precisazione che ciò che è messo in discussione dalla giurisprudenza eurounitaria è, non l’istituto e la disciplina della prescrizione in sé, ma il solo termine massimo stabilito dagli artt. 160 e 161 c.p., la Corte di cassazione ritiene che anche nell’ordinamento italiano tali disposizioni non rientrino nella copertura costituzionale del principio di irretroattività della normativa penale sfavorevole, e quindi non sia ravvisabile un contrasto con principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale, tale da indurre a rimettere la valutazione relativa ai controlimiti alla Corte costituzionale.

In primo luogo, osserva il giudice, lo stesso legislatore italiano non pare avere sempre convintamene aderito all’affermazione per cui la prescrizione è elemento sostanziale nella fattispecie penale, avendo sottoscritto e ratificato il Quarto Protocollo alla Convenzione del Consiglio d’Europa del 1957 sulla estradizione, in base al quale il decorso della prescrizione del reato nello Stato richiesto non è causa impeditiva della consegna della persona allo Stato richiedente.

Il giudice di legittimità, inoltre, mette in dubbio che possa, comunque, ravvisarsi, nella specie, una ipotesi di applicazione retroattiva di disciplina più sfavorevole, considerato che la regola giurisprudenziale affermata dalla sentenza Taricco ha natura non costitutiva ma dichiarativa di un precetto, l’art. 325 tfue, che ribadisce una regola già presente nelle precedenti edizioni del Trattato, e quindi vigente già al momento in cui i reati per cui si procede sono stati commessi.

Infine la Corte italiana ha ritenuto decisivo, nella sua esposizione giustificativa, l’argomento per cui la stessa Corte Costituzionale italiana ha già avuto modo di esaminare la portata del principio di legalità di cui all’art 7 CEDU, come interpretato dalla Corte di Strasburgo, nella sentenza n. 236 del 2011, e ne ha precisato l’estensione ridotta rispetto all’analogo principio nazionale, posto che esso non concerne il regime normativo della prescrizione.

Ora, si legge nella sentenza annotata, la Corte avrebbe richiamato la regola dell’art. 25 della Costituzione, ed attivato i relativi controlimiti, se avesse ritenuto che la disciplina convenzionale violasse principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale.

Sulla base dell’apparato argomentativo sinteticamente illustrato, la Corte di Cassazione ha quindi escluso la estinzione dei reati per cui, pur essendo decorso il termine massimo calcolato in base al combinato disposto degli artt. 160 e 161 c.p.c., non fosse stata ancora dichiarata la prescrizione, ritenendo che essendo intervenuti atti interruttivi, dall’ultimo di essi debba farsi decorrere nuovamente e per intero il termine ordinario stabilito dall’art. 157 c.p.

 

4. La pronuncia della Corte di Cassazione, si presta, ad opinione di chi scrive, a plurimi rilievi, in relazione alle argomentazioni di dettaglio utilizzate e, soprattutto, alla impostazione generale del ragionamento giustificativo.

Quanto ai primi, appare discutibile, in primo luogo, la delimitazione della controvertibilità interpretativa alla sola prescrizione che non sia stata già dichiarata nelle precedenti fasi del giudizio, che sembrerebbe attribuire alla dichiarazione giudiziale una funzione costitutiva della estinzione del reato per il decorso del tempo, mentre è pacifico che l’effetto estintivo è prodotto dalla mero spirare del termine, a prescindere dall’accertamento che dello stesso sia compiuto in giudizio.

Non può quindi la dichiarazione giudiziale costituire lo spartiacque tra fattispecie tuttora giudicabili, a seguito della disapplicazione delle norme limitative del computo, e reati per cui il giudizio non è più procedibile in alcun caso, essendosi consolidato in merito un diritto soggettivo dell’imputato.

Scarsamente convincente pare poi il rilievo per cui lo Stato italiano avrebbe dimostrato di avere  accettato o tollerato il minor vigore della legalità processuale in sede europea, firmando il Quarto Protocollo della Convenzione del Consiglio d’europa del 1957 sulla estradizione, a mente del quale il decorso della prescrizione per il reato nello Stato richiesto non può impedire la consegna della persona allo Stato richiedente.

Si potrebbe pensare che la Cassazione abbia inteso optare, sulla base di questo elemento, per una riqualificazione della prescrizione, anche ai fini interni, come istituto processuale, anziché sostanziale, ma, a parte la evidente fragilità dell’argomento, lo stesso giudice esclude un simile effetto, attribuendo rilievo alla sola qualificazione dell’istituto vigente in ambito europeo. Del resto, non si capisce proprio come desumere dall’assunzione di un obbligo di estradizione nell’ambito delle relazioni internazionali conseguenze sul divieto di applicazione retroattiva della legge penale sfavorevole, che è questione del tutto diversa.

Ancora, è difficilmente condivisibile l’argomento per cui, in fondo, un problema di applicazione retroattiva di normativa sfavorevole nella specie neppure esisterebbe, in quanto la norma eurounitaria che oggi impone la disapplicazione, sia pure con una formulazione diversa, esisteva già al momento della commissione dei fatti, avendo natura meramente dichiarativa e non costituiva l’interpretazione che oggi la Corte di giustizia ne ha fornito.

La tesi, prima di tutto, avrebbe l’effetto contraddittorio di vanificare tutto il residuo sforzo argomentativo profuso nella stessa decisione, in relazione alla natura, all’estensione  ed alla cogenza del principio di legalità. Essa nega in fatto la stessa ragion d’essere della questione che, come si è visto, ha già impegnato la stessa Corte di giustizia e la Corte d’appello di Milano.

Sotto il profilo giuridico, pur a volere ritenere che la regola giurisprudenziale rappresenti soltanto una composizione interpretativa innovativa ma con effetti solo dichiarativi di un sistema di fonti – con la diretta applicabilità nell’ordinamento nazionale della regola europea – preesistente, si deve considerare che, come è chiarito nella stessa pronuncia Taricco, l’effetto di disapplicazione non è conseguenza automatica della sola esistenza della norma dell’art. 325 tfue. Invero, si è già visto, la conclusione interpretativa su fonda su la ricorrenza di condizioni materiali di insufficiente operatività concreta dell’apparato sanzionatorio nazionale.

Così secondo la Corte, le regole limitative del termine di prescrizione non sono in sé incompatibili con il diritto dell’Unione, ma solo in quanto – nel concreto funzionamento dell’ordinamento in cui si collocano - impediscano una tutela effettiva degli interessi finanziari europei, precludendo di fatto l’irrogazione di sanzioni effettive e dissuasive nella generalità dei casi (punti 46 e 47 sentenza Tarocco) . Il tema quindi, è quello delle condizioni materiali di scarsa efficienza del sistema giudiziario italiano che, come è noto, è – per una molteplicità di fattori che in questa sede non è il caso di indagare – alla stato cronicamente incapace di fornire risposte di giustizia in tempi ragionevoli, soprattutto per reati di complesso accertamento quali quelli tributari.

Allora, si capisce che non basta a negare la retroattività della soluzione, l’affermazione che la regola applicata esisteva al momento del fatto, dovendosi indagare quali fossero le condizioni materiali di operatività del sistema giudiziario penale dell’epoca. Se, in ipotesi, potesse affermarsi che al tempo della condotta, in ragione del carico di lavoro degli uffici giudiziari e delle altre circostanze obbiettive rilevanti, il sistema fosse in grado di garantire la punizione dei reati in maniera effettiva e dissuasiva anche nei più ristretti limiti temporali di cui agli artt. 160 e 161 c.p., la disapplicazione di essi non avrebbe avuto motivo all’epoca di essere pronunciata, e l’imputato vedrebbe applicarsi oggi, con la soluzione proposta dalla giurisprudenza europea e sulla base dei tempi attuali della risposta di giustizia, una disciplina più gravosa di quella cui sarebbe stato sottoposto al momento del fatto.

Infine, e soprattutto, appare del tutto improprio il richiamo alla sentenza n. 236 del 2011 della Corte costituzionale, che costituirebbe un precedente dimostrativo della compatibilità con i fondamenti della Costituzione italiana dell’effetto implicato dalla sentenza Taricco.

Il fraintendimento della decisione della nostra Corte è evidente.

Nel caso oggetto della sentenza n. 236 del 2011, si poneva il problema di stabilire se l’art. 7 della CEDU attribuisse all’imputato il diritto a godere retroattivamente di più favorevoli termini di prescrizione, introdotti dal legislatore dopo la commissione del fatto. Posto che la Corte EDU aveva ritenuto che il principio della retroattività della lex mitior fosse assicurato dall’art. 7 CEDU, si trattava di chiarire se esso concernesse anche il regime legale della prescrizione. La risposta della Corte fu negativa, poiché nell’ordinamento europeo l’art. 7 CEDU non si estende ai termini di prescrizione, stante la natura processuale di questo istituto.

La Corte costituzionale ribadì espressamente nell’occasione che: “È dunque chiaro che, a differenza di quello di irretroattività della legge penale sfavorevole, il principio di retroattività della legge favorevole non può essere senza eccezioni

Nella vicenda originata dalla sentenza Taricco, appunto, viene sollevato un caso di “irretroattività della legge penale sfavorevole”,  che avrebbe dovuto essere valutato non secondo i paradigmi del diritto europeo, come pretende la Cassazione, ma sulla base della Costituzione, ed in particolare dell’art. 25 Cost. (disposizione, difatti, del tutto estranea al giudizio concluso con la sentenza n. 236 del 2011).

Per affermare il contrario, la sentenza in commento sostiene che con la pronuncia n. 236 del 2011 “la Corte costituzionale non ha ritenuto di attivare il controlimite”. Ma non è chiaro di quale controlimite avrebbe potuto trattarsi, posto che la stessa Cassazione subito dopo ammette che in quel caso si trattava della retroattività di una norma in bonam partem rispetto alla quale nessun divieto può farsi derivare dall’art. 25 Cost. circa la retroattività della lex mitior.

E’ difficile commentare l’ulteriore ed estremo tentativo di giustificare il rilievo del precedente citato in relazione alla diversa questione esaminata, attribuendo significato espressivo del contenuto motivazionale di esso a l’esempio citato nella motivazione della sentenza, che  si riferisce proprio alla ritenuta conformità dell’art. 7 CEDU di una legge belga sulla prescrizione retroattiva in malam partem .

Ma la sentenza in commento, soprattutto, si segnala per quello che omette, più che per quello che contiene; essa indugia sul diritto europeo per spiegare che esso non pone problemi sul piano della retroattività in malam partem incidente sulla prescrizione, e poi risolve il quesito, ovvero la conformità di tutto ciò all’art. 25 Cost., sulla base di una lettura fortemente opinabile di affermazioni contenute nella motivazione di un precedente della Corte costituzionale, che sembrerebbe chiaramente occuparsi d’altro.

Essa però non fa ciò che in primo luogo gli spetterebbe, ovverosia un approfondito esame dell’ordinamento nazionale onde verificarne la tendenza normativa e gli indirizzi interpretativi, la esistenza e l’estensione delle garanzie stabilite dalla Costituzione in materia penale, e considerare l’ipotesi che principi fondamentali di carattere costituzionale, e diritti inalienabili dell’individuo, possano opporsi alla automatica introduzione dei precetti di matrice eurounitaria.

Eppure, la Corte costituzionale nella recente sentenza n. 49 del 2015 - pur riferita al parzialmente diverso contesto dei rapporti con le prescrizioni rivenienti dalla Corte europea dei diritti dell’uomo - ha chiaramente spiegato come spetti al giudice nazionale principiare la propria indagine con l’esame dell’ordinamento interno, per garantire la “prevalenza assiologica” della Costituzione.

Nella sua incompletezza, la motivazione, mentre attribuisce un discutibile rilievo determinante al precedente di cui sopra, non riferisce di alcuna delle innumerevoli decisioni della Corte costituzionale di contenuto opposto alla tesi propugnata, dettagliatamente individuate nella ordinanza della Corte d’appello di Milano e comunemente note. Si fornisce, in sostanza, una rappresentazione parziale dello stato della materia dell’ordinamento nazionale, dandosi per accertato che il meccanismo di limitazione del termine di prescrizione di cui agli artt. 160 e 161 c.p. “non gode  - anche secondo la giurisprudenza costituzionale, oltre che secondo quella europea – della copertura della citata norma costituzionale di cui all’art. 25” (par. 18 della sentenza).

La sentenza in sintesi, fonda la decisione su argomenti opinabili, imprecisi, talvolta contraddittori e sostanzialmente comunque  marginali, in uno sforzo che appare permeato dall’affanno di sottrarsi al dubbio di compatibilità della soluzione euounitaria con la Costituzione.

La Corte di Cassazione, sposando integralmente e – parrebbe – pregiudizialmente la lettura europea, sembra avere prescelto una soluzione elusiva di un serio e delicato problema sistematico, di carattere epocale, che caratterizza l’attuale fase delle incerte fortune delle tradizioni giuridiche nazionali, rispetto al preponderante impatto delle fonti giurisprudenziali di carattere eurounitario e convenzionale.

Il problema nasce ovviamente dall’intersezione tra ordinamenti forgiati da vicissitudini storiche all’osservanza del principio di legalità formale da un lato, e il diritto europeo dall’altro. Quest’ultimo, se non altro per ragioni cronologiche, considera risolte quelle vicende, e si proietta di conseguenza verso una dimensione sostanzialistica, meno sensibile al primato della produzione normativa democraticamente legittimata, che non alle aspirazioni di tutela dei diritti nelle pieghe dei casi della vita, illuminati dalla sapienza curiale.

Fino a quando questa via porta ad un allargamento effettivo dei diritti, e purché esso non si riverberi nella compressione di contrapposti diritti, le perplessità restano confinate ad una dimensione meramente speculativa.

Ma la sentenza Taricco mostra che si può avere il caso inverso. L’esigenza di uniformità propria e peculiare al diritto dell’Unione, e la sua pretesa di sanzionare con effettività l’inosservanza degli obblighi ad essa conseguenti, richiede in questa ipotesi il  sacrificio di un baluardo della legalità formale, costituzionalmente protetto, a vantaggio dell’interesse pubblico (comunitario) alla repressione di particolari reati tributari.

Se, infatti, si tiene ferma la natura della prescrizione quale istituto di diritto penale sostanziale, che è stata reiteratamente affermata dalla Corte costituzionale, non si sfugge al divieto assoluto che una disciplina meno favorevole possa produrre effetti retroattivi, ai sensi dell’art. 25 della Costituzione.

A questo punto, non vi è chi non veda che la qualità e l’importanza dei quesiti che ne derivano non possono che rendere tali questioni oggetto della giurisdizione costituzionale, nel confronto con la Corte di giustizia, e pur sempre sulla base del primato assoluto, persino nei riguardi del diritto dell’Unione, dei principi supremi dell’ordine costituzionale dello Stato.

La mancata applicazione di una norma di legge per incompatibilità con il diritto comunitario direttamente applicabile è difatti sempre subordinata alla verifica che il precetto comunitario non violi i cd. controlimiti, e tale verifica compete non al giudice comune, ma alla Corte costituzionale, a condizione, naturalmente, che il primo abbia almeno un dubbio in tal senso.

È infatti il caso di rammentare che nel nostro ordinamento, diversamente che altrove, il giudice ha l’obbligo di sollevare questione di costituzionalità, ogni qual volta si trovi ad applicare disposizioni primarie sulle quali possa gravare anche solo un sospetto, non irragionevole, di contrasto con la Costituzione.

Per questo motivo, in tempi ormai lontani, un autore, commentando una decisione della Cassazione che aveva dedicato molte pagine a dichiarare manifestamente non fondata un’eccezione di illegittimità costituzionale, chiosava argutamente che il numero stesso di quelle pagine dimostravano l’esatto contrario di quanto si era deciso.

La stessa osservazione è facilmente rivolgibile alla pronuncia di cui oggi ci occupiamo, che si dilunga assai largamente a dimostrare che l’applicazione in malam partem del diritto dell’Unione ad un istituto di diritto penale non pone (manifestamente!) alcun dubbio di legittimità costituzionale.

La sentenza disvela quindi la tentazione del giudice della legittimità a fare da sé, rifuggendo la complessità problematica, pretendendo di risolvere (nel caso di specie, peraltro, con argomenti la cui congruità è opinabile) questioni di sistema che involgono il rapporto tra la legge nazionale, il diritto dell’Unione, e i principi supremi dell’ordine costituzionale dello Stato. Questioni, che, invece, competono alla Corte costituzionale, come ha colto la Corte di appello di Milano, con l’apprezzabile ordinanza di rimessione cui si è accennato prima.

E’ quindi il caso di rammentare, conclusivamente, che la soggezione del giudice alla legge è anche soggezione al sistema costituzionale delle fonti, e che neppure la Corte Suprema può surrogarsi al giudice costituzionale.

01/02/2016
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