Magistratura democratica
Prassi e orientamenti

L’effettività dell’assistenza quale requisito per l’inoppugnabilità delle rinunce e transazioni ai sensi dell’art. 2113 comma 4 cc. Lineamenti giurisprudenziali

di Amato Carbone
giudice del Tribunale di Lecce
Il giudice di merito è di frequente chiamato a sindacare la genuinità della volontà transattiva espressa dal lavoratore in occasione di accordi in sede sindacale. Quali requisiti deve presentare la tutela offerta per risultare effettiva ed efficace?

Premessa

L’art. 2113 cc rappresenta uno dei capisaldi della tutela dei diritti del lavoratore. Esso – sebbene la sanzione di invalidità del negozio fosse presente anche nella formulazione originaria del Codice civile – rappresenta, nella sua nuova formulazione, un potenziato strumento che la riforma del 1973 ha inteso fornire alla parte debole del rapporto a tutela dei suoi diritti. Per tale motivo il legislatore ha deciso di rafforzare la disciplina “di protezione” meglio valorizzando una scelta di bilanciamento tra diritto del lavoratore alla tutela dei propri diritti e tutela del datore alla certezza dei rapporti giuridici. Questo contemperamento si attua, da un lato, prevedendo l’invalidità delle rinunce e transazioni di diritti la cui fonte risiede in disposizioni di legge o pattizie inderogabili, dall’altro prevedendo un termine entro il quale il lavoratore può “denunciare” l’atto abdicativo/transattivo [1] e porlo nel nulla (anche stragiudizialmente).

Parimenti, altra norma di bilanciamento tra le due contrapposte esigenze sopra citate è quella dell’ultimo comma dell’art. 2113 cc. La disciplina dei primi tre commi dell’articolo non trova infatti applicazione laddove l’accordo transattivo/abdicativo abbia trovato la propria genesi in una “sede protetta”. Tale disciplina rende maggiormente evidente la ratio di tutela del soggetto debole e, al contempo, di contemperamento di interessi in un’ottica di certezza del diritto.

È bene sottolineare che in quest’ultimo caso la salvaguardia della parte debole risiede nella procedura stessa [2] (tipica ipotesi ove si può affermare che la forma diventa essa stessa sostanza).

Ciò detto, lo scopo della presente trattazione è limitato allo specifico punto della effettività dell’assistenza prestata al lavoratore in sede sindacale. La necessità di una simile disamina nasce non tanto da esigenze dogmatiche quanto dalla casistica che il giudice di merito, di primo grado in particolare, si trova ad affrontare. Si tenterà quindi di specificare quale sia il quoziente minimo per poter definire come tale l’assistenza del rappresentante sindacale, e di chiarire come si ritiene vada allocato l’onere della prova in queste circostanze. Quanto sopra assume rilievo pratico anche nella misura in cui molto spesso ipotesi transattivo/abdicative avvengono tra soggetti (datore e lavoratore) non aderenti ad alcun ente esponenziale di categoria.

1.1. L’effettività dell’assistenza come elemento necessario per l’inoppugnabilità di cui all’art. 2113 comma 4 cc

Si è detto che l’effettività dell’assistenza è uno degli elementi che consente di escludere l’applicabilità dei primi tre commi dell’art. 2113 cc [3]. La ragione di tale esclusione è già stata dichiarata in premessa (cfr. nota 1).

Quello che appare necessario puntualizzare – attraverso l’analisi della giurisprudenza di legittimità – è quale deve essere il ruolo dell’esponente sindacale e quale “vincolo fiduciario” deve intercorrere tra costui e il lavoratore [4].

In via preliminare, è utile richiamare Cass., n. 9255/16 che, pur se ad altro fine, ha sinteticamente delineato il ruolo e gli orientamenti attuali circa il “conciliatore sindacale” affermando che:

«Il conciliatore sindacale non è un pubblico ufficiale ma un semplice terzo che, in sede sindacale e nel momento in cui le parti addivengono ad un determinato assetto di interessi, garantisce con la sua presenza l'assenza di uno stato di inferiorità o soggezione tra lavoratore e datore del lavoro che giustifica la previsione di cui all'art. 2113, co. 4, cod. proc. civ. e cioè l'immediata validità di tale conciliazione che non può essere impugnata nel termine di sei mesi ivi previsto, salvo il caso del mancato rispetto dei requisiti minimi di validità del contratto (si veda Cass., 18 agosto 2004, n. 16168; si vedano, sulla effettività della partecipazione del sindacato alla conciliazione, non essendo sufficiente una presenza meramente formale del rappresentante sindacale, Cass. 22 maggio 2008, n. 13217; Cass. 3 aprile 2002, n. 4730, Cass. 13 novembre 1997, n. 11248, sulla necessità che l'assistenza sia offerta dall'associazione cui il lavoratore abbia conferito mandato sindacale, Cass. 22 ottobre 1991, n. 11167; sul rispetto della procedura conciliativa stabilita nei contratti collettivi, Cass. 3 settembre 2003, n. 12858; Cass. 3 aprile 2002, n. 4730)».

La parte di motivazione qui riportata è quindi una sorta di summa della giurisprudenza in materia. La concreta analisi degli arresti più rilevanti si ritiene possa apportare maggiore chiarezza circa l’oggetto della discussione.

In proposito è perentoria Cass., n. 24024/2013:

«In materia di atti abdicativi di diritti del lavoratore subordinato, le rinunce e le transazioni aventi ad oggetto diritti del prestatore di lavoro previsti da disposizioni inderogabili di legge o di contratti collettivi, contenute in verbali di conciliazione conclusi in sede sindacale, non sono impugnabili, a condizione che l'assistenza prestata dai rappresentanti sindacali − della quale non ha valore equipollente quella fornita da un legale − sia stata effettiva, così da porre il lavoratore in condizione di sapere a quale diritto rinunci e in quale misura, nonché, nel caso di transazione, a condizione che dall'atto stesso si evinca la questione controversa oggetto della lite e le “reciproche concessioni” in cui si risolve il contratto transattivo ai sensi dell'art. 1965 cod. civ».

Esemplificativo appare anche il caso affrontato da Cass. n. 4730/02, secondo cui:

«Con riferimento alla conciliazione in sede sindacale ex art. 411, terzo comma, cod. proc. civ., al fine di verificare che l'accordo sia raggiunto con un'effettiva assistenza del lavoratore da parte di esponenti della propria organizzazione sindacale occorre valutare se, in base alle concrete modalità di espletamento della conciliazione, sia stata correttamente attuata quella funzione di supporto che la legge assegna al sindacato nella fattispecie conciliativa (nella specie, la sentenza impugnata, confermata dalla S.C., aveva ritenuto valida la conciliazione che, in base ad una specifica e dettagliata proposta formulata dal lavoratore, era stata perfezionata dinanzi ad un sindacalista indicato dallo stesso lavoratore)».

Orbene, nel caso di specie, sussistevano elementi di una certa pregnanza rispetto alla validità dell’accordo. Infatti, il sindacalista era stato indicato dal lavoratore stesso e la proposta conciliativa derivava da richieste formulate in prima battuta da quest’ultimo.

In una ipotesi del genere appare quindi difficile ipotizzare una forzatura della volontà (o comunque delle prerogative) del lavoratore al fine di accettare la rinuncia o la transazione.

Ancora maggior rigore sembra mostrare Cass., n. 13217/2008:

«L'accordo tra il lavoratore ed il datore di lavoro, nel quale sia identificata la lite da definire ovvero quella da prevenire (unitamente, in tal caso, all'individuazione dell'interesse del lavoratore) e che contenga lo scambio tra le parti di reciproche concessioni, è qualificabile come atto di transazione ed assume rilievo, quale conciliazione in sede sindacale ai sensi dell'art. 411, terzo comma, cod. proc. civ., ove sia stato raggiunto con un'effettiva assistenza del lavoratore da parte di esponenti dell'organizzazione sindacale indicati dal medesimo, dovendosi valutare, a tal fine, se, in relazione alle concrete modalità di espletamento della conciliazione, sia stata correttamente attuata la funzione di supporto che la legge assegna al sindacato nella fattispecie conciliativa (nella specie, la S.C. ha rilevato che correttamente il giudice di merito aveva escluso che si fosse in presenza di una transazione redatta ai sensi degli articoli 410 e 411 cod. proc. civ. in quanto non sussisteva alcuna controversia tra le parti, la sola società datrice di lavoro aveva interesse a regolare i rapporti con i propri dipendenti nella prospettiva di trasformarsi in s.r.l., e il sindacalista, chiamato dalla società e non dal lavoratore, si era limitato ad elaborare i conteggi, restando estraneo alla vicenda e svolgendo un ruolo di testimone di operazioni  elaborazioni di conteggi  e di fatti  ricostruzione della storia lavorativa del lavoratore  che, lungi dal fornire una consapevole assistenza, era stato successivamente stigmatizzato dallo stesso sindacato di appartenenza)».

In questo caso, ad essere valorizzata – in senso sfavorevole − non è stata la sola mera funzione “notarile” del sindacalista ma lo sono state anche le complessive situazioni di fatto nelle quali si è venuto a realizzare l’atto abdicativo transattivo. Invero, il “criterio dell’interesse” è certamente un elemento presuntivo valorizzabile in sede di giudizio, soprattutto laddove la necessità di definizione di questioni tra datore di lavoro e lavoratore sia “sfumata” e quindi l’utilizzo della procedura conciliativa possa considerarsi strumentale ad altri interessi aziendali (dimostrati dal fatto che il sindacalista fosse stato contattato dalla stessa società).

Cass., n. 13910/1999 – in motivazione − ha affermato che:

«È evidente che non minori debbano essere le garanzie formali in caso di conciliazione sindacale, per la quale pure si deve pretendere che essa risulti da un documento sottoscritto dalle parti e dai rispettivi rappresentanti sindacali, anche al fine di verificare, con la loro contestuale sottoscrizione, il rapporto fiduciario intercorrente, sicché il requisito della fiduciarietà può ritenersi normalmente integrato dalla firma contestuale del lavoratore e del rispettivo rappresentante sindacale. Infatti dal principio di libertà sindacale di cui all'art. 39 1^ comma Cost. e dalla funzione dell'assistenza sindacale alla conciliazione di cui all'art. 411 3^ comma c.p.c., discende quanto affermato da questa Corte (Cass. Sent. 11167/1991 cit.) circa la necessità che il lavoratore sia assistito da esponente di sindacato di fiducia del lavoratore stesso».

La stessa sentenza richiama la necessità di una effettiva partecipazione del rappresentante sindacale.

Ancora prima, Cass., n. 11248/1997 aveva affermato che:

«Il Tribunale, nel delineare l'ambito delle rinunzie e transazioni sottratte al regime ordinario previsto dall'art. 2113 cit., ha espresso un principio pienamente coerente a quello più di recente enunciato da questa Corte (secondo cui la conciliazione in sede sindacale, ex art. 411 c.p.c., presuppone “un'effettiva assistenza” del lavoratore da parte degli esponenti dell'organizzazione sindacale, e non la mera partecipazione di essi alla relativa procedura”)».

La citata decisione richiama il precedente di cui a Cass., n. 11167/1991 secondo cui:

«La suddetta forma di protezione giuridica è stata però ritenuta non necessaria (art. 2113, ult. comma cod. civ.) in presenza di adeguate garanzie costituite dall'intervento di organi pubblici qualificati e cioè il giudice (art. 185 cod. proc. civ.) e la commissione di conciliazione istituita presso ciascun ufficio provinciale del lavoro e della massima occupazione (artt. 410 e 411, commi 1 e 2, cod. proc. civ., nuovo testo) nonché degli organismi sindacali (art. 411, comma 3). Con riferimento a questi ultimi e ritenendosi ormai dalla maggior parte della dottrina nonché dalla giurisprudenza di questa Corte (cfr. p. es. le sentenze 2 settembre 1986 n.5379, 15 giugno 1987 n. 5274, n. 5832 del 1987 cit. e Sez. Un. 10 maggio 1988 n. 3425) la relativa inclusione nella deroga di cui al cit. art. 2113, ult. comma va subito detto che […] ciò che è imprescindibile è che positivamente risulti che vi sia stata un'effettiva assistenza del lavoratore da parte di “propri” rappresentanti sindacali. Quale che possa essere invero la configurazione giuridica del rapporto fra il sindacato e l'aderente ad esso, è evidente che solo i “propri” rappresentanti sindacali sono quelli qualificati ad assistere il lavoratore ed a tutelare i di lui interessi, impedendo pertanto quel vizio d'invalidità che altrimenti inquinerebbe l'atto di rinunzia o transazione. È questo un profilo delicato e sommamente importante dell'indagine che deve compiere il giudice di merito onde accertare che vi sia stata effettiva assistenza del lavoratore, assistenza che può essere offerta solo dagli esponenti di quell'organizzazione sindacale alla quale il lavoratore medesimo abbia ritenuto di affidarsi. Altre forme di presenza non possono pertanto ritenersi al riguardo idonee a sottrarre la rinunzia e la transazione al regime legale d'invalidità di cui si è detto, in relazione al che va richiamato quanto esplicitamente enunciato da questa Corte circa la inidoneità, per ritenere inoppugnabile la transazione, di una solo “generica assistenza sindacale” (cfr. la sentenza 17 gennaio 1984 n. 391 richiamata dal ricorrente)».

Sembra invece assumere una posizione intermedia Cass., n. 12858/2003:

«Essendo, infatti, essenziale l'assistenza effettiva dell'esponente sindacale, idonea a sottrarre il lavoratore a quella condizione di inferiorità che, secondo la “mens legis”, potrebbe indurlo altrimenti ad accordi svantaggiosi, sembrano alla Corte sufficienti, alla realizzazione di tale scopo, a far ritenere cioè la idoneità dello stesso rappresentante sindacale a prestare in sede conciliativa l'assistenza prevista dalla legge, l'appartenenza del rappresentante sindacale al medesimo sindacato e il conferimento da parte del lavoratore dell'incarico necessariamente sottostante all'attività svolta dal primo (cfr. sulla sussistenza di un mandato Cass. 11 dicembre 1999, n. 13910 in motivazione). La compresenza del rappresentante sindacale legittimato e dello stesso lavoratore al momento della conciliazione lascia di per sé presumere l'assistenza del primo, tale essendo lo scopo per cui è stato chiamato a prestare opera di conciliatore, sicché sarebbe stato onere del dipendente tempestivamente dedurre e quindi provare che il rappresentante sindacale, pur presente, non abbia prestato assistenza di sorta».

Per tale sentenza, la presenza di un sindacalista appartenente all’organizzazione di fiducia del lavoratore costituisce indice presuntivo di effettività dell’assistenza, ribaltando l’onere della prova a carico del lavoratore che vuole invalidare l’accordo [5].

In senso maggiormente “estensivo” (pur nella sinteticità della motivazione) sembra collocarsi anche Cass., n. 15874/2015 che ha affermato, in motivazione, che:

«Il mandato al sindacalista per l'assistenza in sede di conciliazione sindacale, in ossequio al principio della libertà delle forme, in assenza di previsione di forme sacramentali specifiche, può ben essere presunta dalla presenza effettiva del sindacalista stesso che ha sottoscritto l'atto di accordo senza alcuna contestazione da parte della lavoratrice».

In questa scia sembra anche porsi Cass., n. 20201/17 secondo cui:

«Quanto alla lamentata mancata piena assistenza sindacale, la sede sindacale stessa depone, anche a livello presuntivo, per l'esistenza di una effettiva assistenza e dunque per una volontà non coartata del lavoratore; la sentenza impugnata ha comunque accertato che vi era un sindacalista che assisteva la lavoratrice, pur non essendo quest'ultima iscritta alla relativa associazione sindacale».

La citata decisone ritiene che sia la sede sindacale di per sé a essere indice presuntivo di effettiva assistenza e ritiene irrilevante che la lavoratrice non fosse iscritta alla associazione del sindacalista stesso. È ben vero che tale sentenza richiama Cass., n. 4720/2002 ma è altrettanto vero che Cass., n. 20201 cit. appare addossare alla ricorrente l’onere della prova circa la effettività dell’assistenza. Certamente la decisione potrebbe essere stata influenzata dal caso concreto sottoposto alla sua attenzione, ma non sfugge che la stessa rinviene – espressamente, come si evince dalla parte di motivazione richiamata – una presunzione di effettiva assistenza nella “sede sindacale” in sé [6].

Tale impostazione appare, almeno in parte, richiamare risalente giurisprudenza quale Cass., n. 1804/88 secondo cui:

«Qualora, mediante reciproche concessioni, il datore di lavoro ed il lavoratore definiscano in Sede sindacale, secondo le formalità fissate dall'art. 411 cod. proc. civ., una contesa già in atto, o anche una contesa potenziale in relazione a pretese non ancora esteriorizzate in specifiche istanze, l'inoppugnabilità del relativo negozio transattivo, pure per la parte in cui contenga une rinuncia del lavoratore a propri diritti, secondo l'espressa previsione dell'ultimo comma dell'art. 2113 cod. civ., non richiede che il verbale conciliativo contenga una specifica approvazione per iscritto di detta rinuncia (non ricorrendo ipotesi di applicabilità dell'art. 1341 cod. civ.) ne' che il verbale stesso venga depositato e sottoposto al controllo del pretore per essere reso esecutivo, restando inoltre irrilevante la circostanza che l'ufficio provinciale del lavoro o la commissione di conciliazione, o i conciliatori nominati dalle rispettive organizzazioni di categoria, abbiano attivamente partecipato alla composizione o si siano limitati a registrare l'accordo intervenuto direttamente fra le parti, dato che in entrambe le ipotesi la presenza di detti organi è idonea a sottrarre il lavoratore ad una condizione di soggezione rispetto al datore di lavoro. (principio affermato con riguardo a conciliazioni stipulate da singoli lavoratori in attuazione dell'accordo sindacale del 17 giugno 1977 sul cosiddetto esodo agevolato e considerate preclusive dell'accoglimento della pretesa di computo del compenso per lavoro straordinario nella Determinazione di competenze indirette)».

È conforme a tale massima la ancora più risalente Cass., n. 4413/84.

Alla luce di questo complessivo excursus della giurisprudenza di legittimità, deve nondimeno ritenersi che – in un sistema nel quale, complessivamente, le tutele del lavoratore hanno subito un arretramento – sia ancora da ritenersi valido l’orientamento, che può definirsi maggioritario, secondo cui la mera presenza di un rappresentante sindacale «non può certamente ritenersi quale sinonimo di assistenza effettiva». Invero, la valutazione degli esiti conciliativi e della loro inoppugnabilità resta ancorata alla valutazione di effettività secondo le regole sull’onere della prova che saranno di seguito esposte. Discorso parzialmente diverso, cfr. infra, è quello se il rappresentante sindacale debba provenire dalla medesima associazione sindacale di cui fa parte il lavoratore o comunque essere da questo indicato [7] (si ritiene di poter affrontare questo aspetto nella parte relativa all’onere della prova).

1.2 Impugnazione dell’atto abdicativo/transattivo, effetti e onere della prova

Anche nel caso di impugnazione stragiudiziale di un atto formalmente conclusosi in sede sindacale si ritiene che scaturiscano gli effetti di cui a Cass., n. 13466/2004 [8] ovverosia la caducazione del negozio in questione salvo che – in giudizio – il datore di lavoro deduca (e provi, ove necessario) la non tempestività della impugnazione (l’eccezione di tardività è eccezione in senso stresso, cfr. anche Cass., n. 552/1995 e n. 908/1995) ovverosia il rispetto dei requisiti di cui al comma 4 dell’art. 2113 cc.

Non vi è ragione per differenziare sotto il profilo degli effetti un atto stipulato fuori dalla sede sindacale o uno stipulato invalidamente in sede sindacale.

Ciò detto, dall’analisi della giurisprudenza sopra riportata si deve delineare quale sia l’allocazione dell’onere della prova e si tenterà di rappresentare se la recente evoluzione fattuale dei rapporti tra lavoratore e sindacato (per esempio la minore sindacalizzazione, una certa qual fuga dai sindacati confederali maggiori) possa aver inciso sulla portata delle massime sopra richiamate.

Nella prassi, la questione della validità dell’accordo ex art. 2113, comma 4 cc nasce principalmente non quale azione immediatamente diretta a far valere l’invalidità del negozio abdicativo/transattivo; più probabilmente, essa troverà una propria genesi quale eccezione da parte del datore di lavoro evocato in giudizio. Si pone quindi, nella maggior parte dei casi, quale evoluzione, sia permesso dire incidentale, del giudizio avente ad oggetto il bene della vita richiesto dal lavoratore. Appare opportuno precisare che ovviamente la regola sull’onere della prova relativamente all’accertamento sulla validità dell’accordo è autonoma rispetto alla regola della prova sulla spettanza del “bene principale” oggetto di ricorso (che potrà, a sua volta, diversamente allocarsi a seconda della azione concretamente avviata).

Ciò detto, deve ritenersi che la deduzione in giudizio dell’esistenza dell’accordo ex art. 2113 comma 4 cc abbia valore di fatto estintivo dell’altrui pretesa. Pertanto, contestatane la validità nella prima difesa utile (e tale contestazione può avvenire anche implicitamente per la giurisprudenza di legittimità, cfr. Cass., n. 77/1995 e n. 5582/1999) o ancora eccepitane direttamente l’invalidità sin dal ricorso introduttivo, sarà onere del datore di lavoro (usualmente nelle vesti di resistente) provare la validità di tale accordo. Questo orientamento si pone direttamente a conferma della ricostruzione giurisprudenziale – sopra citata – che vede il lavoratore “liberato dal vincolo” negoziale con la mera “denuncia” dell’atto.

Per quanto riguarda l’ipotesi che la mera presenza di un rappresentante sindacale sia indice di effettiva assistenza, deve respingersi tale tesi. Se la ratio della norma è la protezione del lavoratore deve ritenersi che tale esigenza venga meno solo quando la ratio stessa della disposizione è pienamente soddisfatta. Non appare sufficiente quindi un dato meramente formale che attesti la presenza né potranno considerarsi di per sé (ed a prescindere) valide le usuali formule di stile apposte negli atti redatti in sede sindacale.

Parimenti, la presenza di un sindacalista appartenente alla associazione sindacale di cui fa parte il ricorrente può essere considerato quale argomento di prova in favore di una valida assistenza ma non è elemento che consente di invertire l’onere della prova.

In tal senso, infatti, l’onere della prova altro non costituisce che un riflesso sotto il profilo processuale degli elementi costitutivi della pretesa e delle opposte eccezioni, con i limiti e le deroghe previste dalla legge.

Se la validità del negozio ex art. 2113, comma 4 cc è elemento estintivo/impeditivo dell’altrui pretesa l’onere della prova non può essere traslato in virtù di una circostanza di mero fatto. Questo a maggior ragione perché l’appartenenza alla medesima organizzazione sindacale è solo uno dei requisiti che la giurisprudenza ha richiesto al fine di ritenere venuto meno il metus (o comunque la posizione di svantaggio) del lavoratore nei confronti del datore (cfr. la richiamata Cass., n. 11167/1991).

Né, come detto, la mera presenza può ritenersi elemento sufficiente. La “ratifica” di accordi già intercorsi col datore di lavoro non si sottrae alla ratio di tutela voluta dal legislatore. Né appare facilmente riconducibile allo schema legale l’ipotesi di rappresentante sindacale individuato dal datore di lavoro quale soggetto che presta assistenza al lavoratore. In questo caso, anche a voler richiamare Cass., n. 15874/2015, appare difficilmente conciliabile con una norma di protezione la scelta del soggetto garante della tutela da parte del soggetto forte del rapporto. Questo rileva ancor di più allorquando accada che il lavoratore aderisca ad organizzazione diversa da quella del sindacalista chiamato a prestare la propria assistenza. In tale ipotesi (cfr. anche infra), anche a non voler parlare di una presunzione di invalidità, particolarmente rigorosa dovrebbe essere la dimostrazione del requisito dell’effettività e difficilmente potrebbe bastare a indicare il rilascio di mandato la mera assenza di rimostranze in sede di redazione dell’atto.

In tutte queste ipotesi, opzioni interpretative volte anche solo a invertire l’onere della prova appaiono peccare di formalismo, ribaltando sul ricorrente un gravoso onere. Né invero nel caso di specie, sussistono i presupposti per invocare il cd. principio di vicinanza della prova. Non si ritiene infatti che possa considerarsi onerosa per il datore la prova, che si sostanzia nell’ascolto dei soggetti, non parti del giudizio, che hanno preso parte alla vicenda conciliativa. Ma per valorizzare pienamente la ratio della norma non è – come detto – del pari sufficiente che il sindacalista che presta assistenza sia appartenente alla medesima organizzazione del lavoratore.

Tale circostanza può essere un argomento di prova ma, come detto, non ha valenza presuntiva e può concorrere, unitamente alla condotta processuale delle parti (arg. ex art. 116 cpc) alla definizione della controversia.

In sostanza, esclusi i casi in cui gli venga in rilievo una procedura conciliativa già procedimentalizzata da un atto normativo quadro (per esempio un CCNL che disciplini anche la “provenienza” del sindacalista), l’appartenenza del rappresentante sindacale alla medesima organizzazione cui è iscritto il ricorrente o la scelta di costui da parte del ricorrente stesso rappresentano argomenti di prova che dovranno essere valorizzati dal giudice nel complesso di tutti gli elementi a sua disposizione.

Conclusioni

Giunti alla fine di questo excursus deve ritenersi che la norma analizzata mantenga la propria valenza nell’ordinamento giuslavoristico quale punto di equilibrio tra le opposte posizioni. Invero, sebbene la norma non trovi applicazione nel capo dei diritti disponibili (per esempio dimissioni o impugnazioni di licenziamenti) [9] e nei casi di nullità della rinuncia/transazione, la stessa mantiene un ruolo centrale nel sistema di “protezione” del lavoratore sia per la residualità delle ipotesi di nullità per come elaborate dalla giurisprudenza sia perché la materia dei licenziamenti costituisce un settore con proprie peculiari caratteristiche (ma cfr. la nota n. 9).

L’utilità di una siffatta analisi deriva principalmente dal fatto che l’istituto trova una consistente applicazione pratica e dal fatto che anche di recente le «sedi di cui all’art. 2113 cc», hanno trovato un richiamo nel testo dell’art. 2103 cc (modificato dal d.lgs n. 81/2015).

Tale ultima norma prevede anche che il «lavoratore può farsi assistere da un rappresentante dell’associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato o da un avvocato o da un consulente del lavoro».

Questa alternatività tra i soggetti titolari della facoltà di assistenza invero potrebbe avere riflessi sulla interpretazione della norma oggetto della presente analisi; questo non tanto (o non solo) per far diventare generalmente equipollente la difesa tecnica [10] (ribaltando quindi l’orientamento di Cass., n. 24024/2013), quanto per considerare come sufficiente la presenza di un rappresentante sindacale ancorché scelto dal datore di lavoro e al quale sia conferito mandato nell’immediatezza dell’atto (o addirittura privo di mandato se il lavoratore è assistito anche da un legale). In ogni caso, anche a volte utilizzare questa interpretazione estensiva (in linea probabilmente con fenomeno di desindacalizzazione in atto) ad avviso di chi scrive resta nondimeno sempre da provarsi – ai fini dell’art. 2113 comma 4 cc – che l’assistenza sia stata effettiva e questo per scongiurare il conferimento di mandati contestuali alla stipula del negozio abdicativo/transattivo (e anche questo elemento può essere usato come indice di non effettività) a soli fini elusivi. Infatti, appare che nel caso dell’art. 2103 cc sia la stessa verifica della sussistenza delle causali che legittimano il ricorso alla procedura in «sede protetta» a fungere da ulteriore argine di tutela per il lavoratore (nonché quale requisito di legittimità del patto di demansionamento).

In attesa di valutare se una simile modifica impatterà sull’interpretazione della giurisprudenza di merito, prima, ed eventualmente di legittimità, si resta comunque fermi nel ribadire l’importanza del rigoroso accertamento da parte del giudice di merito di una effettiva assistenza, unico punto di equilibrio tra posizioni negoziali non paritarie (e forse sempre più squilibrate).



[1] Il vizio fatto valere è qualificato in termini di annullabilità da parte della giurisprudenza e della dottrina; altri preferiscono parlare di invalidità speciale (cfr. Grandi-Pera, a cura di De Luca Tamajo-Mazzotta, Commentario breve alle leggi sul lavoro, sub art. 2113, Cedam, Padova, 2018). Si parla di invalidità speciale soprattutto perché viene riconosciuta, anche dalla giurisprudenza di legittimità, la possibilità di esperire anche le ordinarie azioni di invalidità ove ne sussistano gli specifici e diversi presupposti di legge.

[2] Cass., n. 16168/2004: «Come è stato rilevato in dottrina, il legislatore ha reputato che la presenza del giudice o dei funzionari dell'organo amministrativo e l'effettiva assistenza del lavoratore da parte di esponenti sindacali della propria associazione, assicuri imparzialità ed equanimità nella ponderazione degli interessi in contrasto, facendo venir meno lo stato di inferiorità del lavoratore in ragione del quale è sancita l'indisponibilità, seppur relativa, dei diritti attribuitigli da norme inderogabili di legge o di contratto collettivo».

[3] Cass., n. 11107/2002, precisa tuttavia che «l'assunto sopra indicato, certamente valido e corretto negli atti di transazione e rinuncia fra le parti, riconducibili a quelli previsti dai primi tre commi dell'art. 2113 c.c., non possa con altrettanta certezza riferirsi a quelli, come l'atto in esame, espressamente disciplinati dal quarto comma del medesimo articolo, intervenuti “ai sensi degli artt. 185, 410 e 411 del codice di procedura civile” ai quali le precedenti disposizioni del detto articolo non si applicano, e che lo stesso Tribunale correttamente ritiene assoggettabili, come qualsiasi altro negozio giuridico, alle azioni di nullità e di annullamento ai sensi degli articoli rispettivamente 1418 e seguenti e 1441 e seguenti c.c.». Si pongono in conformità con questa affermazione Cass., n. 12929/1991 e n. 1805/1987.

[4] Come affermato da Cass, n. 18864/2016: «In tema di conciliazione sindacale, il lavoratore può dolersi della mancata o insufficiente assistenza del proprio sindacalista ma non dell'assenza di quello che tutela la controparte datoriale (che, nella specie, non aveva sottoscritto contestualmente l'atto) nel cui esclusivo interesse interviene». Manca del tutto, in questo caso, l’interesse del lavoratore a far valere una potenziale lesione degli altrui diritti dalla quale egli stesso – in concreto – non avrebbe potuto di certo trarre svantaggio. Tale massima consente di meglio chiarire che le formalità della procedura conciliativa e le tutele di cui all’art. 2113 cc non sono disegnate per trascendere nel formalismo.

[5] Appare invece difficilmente collocabile Cass., n. 16207/2016 rispetto alla quale, invero, dalla parte motiva riesce a cogliersi in maniera meno distinta l’orientamento di riferimento. Appaiono parimenti intimamente connesse al caso di specie le ipotesi affrontate da Cass., n. 14711/2015 e n. 14254/2015 dalle quali non si ritiene di poter trarre principi generali.

[6] Invero la sentenza stigmatizza anche la mancata impugnazione nel termine semestrale dell’accordo e questo sarebbe argomento assorbente rispetto ad ogni altra questione ma l’affermazione sulla effettività è chiaramente scandita e il dubbio circa un potenziale contrasto in nuce resta forte.

[7] Rimangono allo stato in disparte i casi in cui ci si avvalga di procedure conciliative regolate direttamente dai contratti collettivi e che prevedano particolari modalità compositive dell’organo “conciliativo”. In questo caso il rispetto dei requisiti ivi previsti assurge a elemento costitutivo della fattispecie.

[8] Cfr. anche Cass. 11616/1999: Ai fini dell'impugnativa di cui all'art. 2113 cc non è necessaria la richiesta di annullamento dell'atto di rinunzia o di transazione, ma al lavoratore viene concesso di liberarsi dai vicoli derivanti dall'atto compiuto sulla base di una semplice manifestazione di volontà, alla quale si collega direttamente l'effetto di privare di efficacia l'atto dismissorio, attraverso una pronuncia giudiziale di mero accertamento.

[9] Cfr. tuttavia Cass., n. 18285/2009 secondo cui: «Nell'ipotesi in cui la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, o le dimissioni (riferibili ad un diritto disponibile del lavoratore e quindi sottratte alla disciplina dell'art. 2113 cod. civ.) siano poste in essere nell'ambito di un contesto negoziale complesso, il cui contenuto investa anche altri diritti del prestatore derivanti da disposizioni inderogabili di legge o dall'autonomia collettiva, il precetto posto dall'art. 2113 cit. trova applicazione in relazione all'intero contenuto dell'atto (che è quindi soggetto a impugnazione), sempre che la clausola relativa alle dimissioni non sia autonoma ma strettamente interdipendente con le altre e che i diritti inderogabili transatti siano noti e specificati, non potendosi desumere da una formula generica contenuta in una clausola di stile». Nella specie, avente ad oggetto un accordo transattivo tra le Poste italiane s.p.a. e alcuni dipendenti, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che, escluda la presenza di un atto complesso, aveva ritenuto che la rinunzia a diritti indisponibili integrasse una mera clausola di stile e che l'unico effettivo oggetto della transazione fosse un diritto rinunziabile e disponibile, quale il recesso dal rapporto di lavoro in cambio di un corrispettivo nell'ambito di una ristrutturazione produttiva della società datrice di lavoro).

[10] Si deve ritenere che la disposizione vigente dell’art. 2103 cc mantenga una sua specialità e che la finalità dell’accordo – possibile per specifiche causali elencate dalla norma – renda inestensibile il novero dei soggetti «idonei ad assistere». Trattasi tuttavia di interpretazione senza ancora riscontro in sede di legittimità.

10/07/2019
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