Magistratura democratica
Magistratura e società

«Fare Giustizia»

di Edmondo Bruti Liberati
già procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano

La recensione al volume di Giuseppe Pignatone, edito da Laterza nel 2021

1. «Quello della giustizia è un sistema complesso, il cui funzionamento può essere garantito solo dalla integrazione tra componenti diverse che sono le forze di polizia, il personale ammnistrativo, gli avvocati, nonché i cittadini nei vari ruoli di giudici popolari, periti, consulenti, testimoni e così via». Così Giuseppe Pignatone nell’introduzione alla sua ultima pubblicazione (Fare Giustizia, Laterza, Bari-Roma 2021), sottolineando che il compito di amministrare la giustizia non è questione dei soli magistrati, né tanto meno dei soli pubblici ministeri.

Sul filo della complessità del “sistema giustizia” si svolge la riflessione che Pignatone da qualche tempo propone in articoli su diversi quotidiani. La ripubblicazione di questi scritti vale a smentire il vecchio detto per il quale "Un giornale, il giorno dopo, è buono solo per incartare il pesce". A partire dagli spunti offerti dalla cronaca sono svolte analisi che affrontano questioni di fondo, analisi tanto più interessanti perché muovono dai dati delle esperienze maturate sul campo dall’A. nelle diverse rilevanti funzioni esercitate nel corso della sua carriera. 

Dopo la Palermo delle stragi di mafia e le indagini su Cosa nostra, Pignatone come Procuratore della Repubblica di Reggio Calabria affronta i mutamenti intervenuti nella pratica criminale della ’ndrangheta con l’indagine Crimine- Infinito, condotta in stretta collaborazione con la Direzione Distrettuale Antimafia di Milano, guidata dal Procuratore Aggiunto Ilda Boccassini. Venti anni prima importanti indagini avevano mostrato il radicamento della ‘ndrangheta nel territorio milanese con i sequestri di persona dapprima e poi con il controllo del traffico degli stupefacenti, costellato da guerre interne e regolamenti di conti omicidi.

L’indagine che ha condotto agli arresti del luglio 2010 ha messo in luce i mutamenti intervenuti nell’operare di questa organizzazione criminale. E’ emerso in particolare il tema delle “relazioni esterne” del sodalizio mafioso, del “capitale sociale” mafioso. E’ quella rete di relazioni che il mafioso intrattiene con il mondo politico, imprenditoriale, giudiziario, delle libere professioni, relazioni che possono integrare un reato oppure rimanere nel concetto di contiguità non punibile. La c.d. “area grigia” non è un’entità unitaria: l’appartenente all’associazione mafiosa si rapporta in modo diverso con l’imprenditore, con il politico, con l’avvocato, con il magistrato, con il professionista, individuandone in qualche modo i punti deboli. Non sempre è l’appartenente alla mafia che “si infiltra” nella società civile, ma esiste anche un movimento in senso inverso (dalla società civile alla associazione mafiosa), quando l’appartenente all’’ndrangheta viene cercato e usato da esponenti della società civile e delle istituzioni. La ‘ndrangheta è apparsa come una realtà polivalente: organizzazione criminale violenta, impresa economica, apparato simbolico e struttura di potere in rapporto con il mondo istituzionale e con la società civile.

Come Procuratore della Repubblica di Roma dal 2012 al 2019, Giuseppe Pignatone si è misurato con i fenomeni criminali della Capitale e, insieme, con i problemi organizzativi e di gestione di un grande ufficio giudiziario, affrontando temi delicati con indicazioni operative innovative, come ad esempio con la circolare sulla iscrizione delle notizie di reato.

La peculiarità delle analisi proposte rispetto alle numerose pubblicazioni che si susseguono sui temi di giustizia è proprio quella del radicamento sulle esperienze affrontate sul campo dall’A.

La prima parte è dedicata al “Servizio giustizia”, la seconda parte, questa inedita, affronta i temi della corruzione e della criminalità mafiosa, la terza ripercorre con uno sguardo retrospettivo l’intervento della giustizia sulla criminalità organizzata e segnala gli “scenari aperti”.

La ricchezza degli argomenti trattati suggerisce di proporre una sorta di guida alla lettura, anche attraverso numerose citazioni testuali.

 

2. Un filo che percorre tutto il libro è la presa di distanza dall’illusione repressiva e dal populismo penale: «Bisognerebbe, soprattutto, abbandonare il convincimento – meglio: l’illusione - di poter risolvere qualsivoglia problema con l’intervento, quasi miracolistico, del giudice penale e affermare, invece, le responsabilità di altri protagonisti della vita economica e sociale: in primo luogo della politica, cui competono le scelte di carattere generale. […] Il sistema penale viene chiamato a compiti non suoi, che vanno oltre i suoi limiti, correndo il rischio costante – al di là di singoli episodici successi e della gratificazione di singoli protagonisti – di dover rispondere degli inevitabili insuccessi, giacché mancano i provvedimenti necessari a risolvere i problemi in radice» (p.8).

Nella stessa linea, a proposito del reato di abuso di ufficio, mentre avanza proposte di riforma, conclude: «Sono molti i casi in cui andrebbero svolti altri tipi di controllo di carattere amministrativo, rinunciando alla “scorciatoia penalistica”, che si risolve spesso in una costosa illusione. E, trattandosi solitamente di settori riservati all’attività anche discrezionale della pubblica amministrazione, larga parte di questo auspicabile controllo andrebbe lasciata anche al giudizio dei cittadini nelle sedi proprie della democrazia». (p. 21).

A conclusione di un’analisi sui criteri di priorità l’A. conclude: «E’ una pia illusione quella di poter fissare regole che riducano ogni decisione a una mera operazione tecnica, che eviti tanto la necessità di una scelta quanto la possibilità dell’errore umano. […] Rimane però sempre un margine, più o meno ampio, di valutazione discrezionale, che non significa arbitrio ma lo sforzo di individuare la soluzione migliore e più corretta nella situazione concreta, tenendo di tutta la complessità delle questioni in gioco e – insieme – dei limiti oggettivi costituiti dalle risorse di mezzi e di tempo disponibili. Questo rimane inevitabilmente compito e responsabilità del magistrato, ricordando che, come scrisse Rosario Livatino, il “giudice ragazzino” assassinato in Sicilia trenta anni fa, “decidere è scegliere e, a volte, scegliere fra numerose cose o strade o soluzioni. E scegliere è una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato a fare”» (p.27-28).

Il paragrafo intitolato «L’onore dei medici» si apre con un accento polemico: «“Si tratta di atto dovuto”. Così è stata spiegata l'iscrizione di alcune persone - soprattutto medici e infermieri - quali indagati per il reato di omicidio colposo, a seguito della morte improvvisa di soggetti cui - nella primavera 2021 - era stato da poco somministrato il vaccino Astrazeneca» (p. 54); segue una approfondita analisi dei problemi posti dalla iscrizione nel registro notizie di reato nella quale l’A. riprende le linee della Circolare che a suo tempo aveva emanato. 

Tema ritornato di viva attualità dopo la “Riforma Cartabia” sul processo penale, così che vale la pena di proporre le conclusioni dell’A.: «L’eliminazione delle iscrizioni non necessarie contribuirebbe anche a far diminuire i casi di persone danneggiate, senza alcuna loro responsabilità, dalla diffusione della notizia di un atto che, paradossalmente, il Codice prevede a garanzia del cittadino e che non significa affatto anticipazione di un giudizio di condanna. Si parla spesso, a questo proposito, di “gogna mediatica”, che si dovrebbe far cessare: ma su questo è bene non coltivare troppe illusioni. Nell' opinione pubblica prevale da tempo un atteggiamento che indulge al sospetto e alla pretesa di una giustizia immediata che non collima con i tempi fisiologici di un processo, per quanto bene e celermente sia condotto. Si tratta di un fenomeno culturale ormai consolidato e non sarà una maggiore cautela nelle iscrizioni - peraltro necessaria - o in altre attività di indagine, a determinarne la fine» (p. 56-57) .

Sul rapporto tra procure e polizia giudiziaria l’A, ricorda che «le cronache di questi anni hanno offerto esempi chiari dei gravi problemi che si possono creare, anche sul piano istituzionale, quando l’interfaccia costituita dalle procure è assente, debole, poco efficace o viene scavalcata. Come accade, per esempio, quando un sostituto sceglie di agire in totale isolamento rispetto all’ufficio ed è, quindi, allo stesso tempo meno autorevole e, pur se in perfetta buona fede, più soggetto ad errori e condizionamenti». Si tratta, conclude l’A, di questioni che «dovrebbero trovare spazio e risposte in un dibattito pubblico su un tema fondamentale per la tenuta democratica del paese» (p. xvi-xvii) e infatti rimandano alla posizione ordinamentale del pm e all’assetto interno delle procure.

 

3. Il sovraccarico della giustizia penale conduce l’A. a proporre non solo una più decisa depenalizzazione e un maggiore spazio per i riti alternativi ma anche «modifiche incisive, che non tocchino garanzie importanti e che consentano l’utilizzo ottimale delle (scarse) risorse disponibili» (p.17). Tra queste “modifiche incisive” alcune, fortemente controverse, come l’«eventuale esclusione dell’appello per un numero significativo di reati meno gravi e meno complessi» o l’abolizione del divieto di reformatio in peius. Ma per la verità, proprio seguendo l’approccio molto pragmatico che caratterizza tutta la riflessione dell’A, sembra a chi scrive che sia più proficuo muoversi sulle tante opportune modifiche e semplificazioni proposte nel libro, senza avventurarsi su profili che incidono sul delicato equilibrio dei diritti da assicurare alla difesa. Si comprende che queste proposte abbiano suscitato critiche da parte di associazioni di avvocati penalisti. Molto meno comprensibile il fin de non-recevoir opposto con toni apocalittici dall’Unione Camere penali sulla questione del numero degli avvocati ed in particolare di quelli ammessi al patrocinio in Cassazioni. I numeri e il confronto con altri paesi europei pongono questioni ineludibili e, fuori di ogni polemica, dovrebbe essere l’avvocatura per prima ad affrontare la questione.

L’A. rammenta che «la politica, spesso molto debole per un insieme di ragioni, non riesce più a dare regole chiare, ma si limita a dare indicazioni di massima, non di rado incerte e tra loro contradditorie» (p.10): di qui polemiche che investono l’azione della magistratura: «Le decisioni assunte presentano così, inevitabilmente, margini di discrezionalità e opinabilità che rendono più frequenti le discrepanze fra le diverse fasi previste dal processo e inevitabili le critiche, anche violente, al di fuori di esso. La situazione è poi aggravata da un’opposizione sistematica all’azione della magistratura, un’avversione preconcetta che spesso prescinde dal merito, alimentata da uno schieramento che comprende partiti, organi di informazione e settori di opinione pubblica, mentre una tifoseria contrapposta, in modo altrettanto sbagliato, esalta comunque ed in ogni caso l’operato dei magistrati, che viene quindi utilizzato – con o senza il loro consenso – nella lotta politica. Il risultato è oggi davanti agli occhi di tutti: viene messa in dubbio l’imparzialità dei magistrati, dapprima dei pubblici ministeri ma ormai anche dei giudici, la cui credibilità è invece un bene prezioso per la democrazia». (p.13)

 

4. Una approfondita analisi è proposta sotto il titolo «La direttiva europea sulla presunzione di innocenza e diritto di critica». Nel rinviare alla lettura del testo si riporta la conclusione: «In un ordinamento democratico le autorità hanno il "dovere" di spiegare il loro operato per sottoporlo al giudizio della pubblica opinione e dei media. Tale controllo è un aspetto irrinunciabile del principio di responsabilità, valido per chiunque eserciti un potere ed è un incentivo fortissimo al buon esercizio della giurisdizione. Ma vi è di più. Come afferma Glauco Giostra, che ha molto approfondito queste tematiche, “l'accesso della pubblica opinione alla giustizia penale non si pone in termini di opportunità, ma di necessità politica: per un ordinamento democratico moderno […]  è inconcepibile una giustizia segreta”, che rischierebbe di diventare "torbido strumento di affermazione di parte"», determinando una "gravissima involuzione civile e democratica". Questo è tanto più vero in una società conflittuale come la nostra, in cui indagini e processi sono utilizzati strumentalmente in ogni campo - economico, finanziario, sociale - e troppo spesso, per ragioni risalenti alla storia stessa del nostro Paese, come arma di lotta politica» (p. 59-60).

 

5. Il tema della mafia, e non poteva essere diversamente in un lavoro di Giuseppe Pignatone, è oggetto di un’ampia analisi, sotto diversi profili.

Puntuali osservazioni sono proposte sul rapporto tra mafia e corruzione. E’ vero che «sempre più di frequente le organizzazioni mafiose ricorrono ai metodi corruttivi/collusivi piuttosto che alla violenza» (p.75), e che «le mafie usano la corruzione come strumento del tutto normale nello svolgimento delle loro attività criminose» ( p.78), ma la conclusione dell’A è netta: «Mafia e corruzione restano tuttavia fenomeni diversi e non automaticamente collegati» e dunque si deve «evitare di estendere ad altri fenomeni criminali meno gravi le stesse norme più severe messe in campo contro la mafia. La materia è delicata perché stiamo parlando di leggi che trovano giustificazione nella eccezionale pericolosità delle associazioni mafiose e che proprio per questo possono essere accettate, nel nostro sistema democratico, da un’opinione pubblica consapevole, che le riterrebbe tuttavia esagerate se applicate in altri campi» (p.166)

La vicenda processuale di Mafia Capitale non è elusa, anzi è trattata diffusamente nella parte del libro appositamente scritta per l’occasione. E infatti non è parlar d’altro ripercorrere la vicenda del maxiprocesso di Palermo: «Quella mafia corleonese è stata sconfitta dallo Stato, cioè da tutti noi, perché l’apporto della società civile è stato importante quanto quello del legislatore, della magistratura, degli apparati della pubblica amministrazione. E mi pare incontestabile che la norma cardine su cui si sono costruite tutte le indagini e tutti i processi nei confronti degli uomini di Cosa nostra è stato l’art 416 bis c.p. proprio per la capacità di questo strumento di ‘leggere’ – e quindi di contrastare – le caratteristiche fondamentali dell’associazione mafiosa» (p.86). 

Ora l’attenzione si è spostata: «Lo spazio lasciato vuoto dalla mafia siciliana, soprattutto nel traffico mondiale di stupefacenti è stato occupato dagli ‘ndranghetisti, diventati oggi i primi interlocutori di messicani e sudamericani nel traffico di cocaina» (p.91). Nella analisi della struttura della ‘ndrangheta fondamentale è stata l’indagine Crimine-Infinito condotta in totale collaborazione tra la Procura di Reggio Calabri allora retta da Giuseppe Pignatone e la Procura di Milano. 

Come ormai è stato riconosciuto in diverse sentenze della Cassazione «la ‘ndrangheta non è, come si riteneva, ‘semplicemente’ un arcipelago di clan o cosche fondate su basi soprattutto familiari […] La mafia calabrese è invece un organismo con le stesse caratteristiche di unitarietà e di organizzazione verticistica della mafia siciliana». (p.94) ed inoltre «Le cosche di ‘ndrangheta che riconoscono il primato di Reggio Calabria sono presenti anche in Europa, come testimonia la strage di Duisburg del 15 agosto 2007, con la morte di sei giovani calabresi, e hanno ramificazioni persino in Australia e Canada» (p.95). 

Le indagini sulla ‘ndrangheta hanno mostrato l’efficacia delle misure che permettono di salvare le imprese dai clan: amministrazione giudiziaria e controllo giudiziario adottati al fine di far «proseguire l’attività di impresa, neutralizzare i rischi di infiltrazione mafiosa o di utilizzo per sistematiche attività di corruzione e restituzione del bene risanato ai suoi titolari». (p.147). La mafia non vince sempre: «Gli imprenditori debbono comprendere che interagire con le cosche non è un normale costo aziendale e che, sia pure nella drammatica situazione attuale, non devono accettare questi anomali “finanziatori” nell’illusione di poter liberarsene una volta migliorata la situazione dell’azienda» (p.150).

Dalla evoluzione intervenuta tra la mafia corleonese e la ‘ndrangheta, l’analisi si sposta sulle “nuove mafie”.

Dopo aver ribadito che la norma sull’associazione mafiosa ha svolto un ruolo decisivo nelle indagini sulla mafia dapprima e quindi sulla ‘ndrangheta, che peraltro fino al 2010 non era nemmeno citata nell’art. 416 bis, l’A. dà atto che «Decisamente più discussa è stata l’applicazione della stessa norma alle organizzazioni criminali diverse da quelle tradizionali, le cosiddette nuove mafie, espressione che comprende sia le mafie straniere sia le organizzazioni criminali chiaramente delineate grazie alle indagini degli ultimi anni, in particolare a Roma e nel Lazio». 

 

6. Come già si accennava, la vicenda di Mafia Capitale non è elusa: «Non si può non prendere in esame l’indagine diventata nota come Mafia capitale (benché la Procura di Roma l’avesse denominata Mondo di mezzo». (p.102) L’A. ripercorre alcuni passaggi della vicenda processuale. «La tesi accusatoria- fatta propria in riforma della sentenza di primo grado, dalla Corte di Appello di Roma - non ha trovato conferma nella decisione della Suprema Corte, che ha escluso la sussistenza del reato di cui all’art. 416 bis cp e ha invece confermato la condanna per il reato di associazione a delinquere semplice e per numerosi altri reati, soprattutto delitti contro la pubblica amministrazione. […] Nella stessa sentenza si mette in rilievo che la decisione, opposta a quella espressa dalla stessa sezione nel 2015, non deriva da una diversa ricostruzione del quadro normativo, bensì dall’aver ritenuto che in dibattimento non era stata raggiunta la prova di alcuni elementi di fatto emersi dalle indagini preliminari, che – in quel momento – avevano pienamente giustificato (la Suprema Corte lo sottolinea espressamente) l’emissione dei provvedimenti cautelari.[…] La sentenza del 2019 nei confronti di Buzzi, Carminati e altri ha cercato di fissare principi precisi – e per quanto mi riguarda del tutto condivisibili – per evitare una eccessiva dilatazione del campo di applicazione dell’art. 416 bis cp, sottolineando la necessità di una prova particolarmente rigorosa degli elementi costitutivi del reato quando si tratti di nuove mafie o delle piccole mafie» (p. 103,107,108). Si è ritenuto di proporre questa lunga citazione testuale per segnalare come sia possibile affrontare in modo pacato e costruttivo un “insuccesso processuale” della tesi accusatoria. L’A. rammenta anche che altre decisioni della Cassazione hanno qualificato come associazioni mafiose a norma dell’art 461 bis cp. «anche le “piccole” organizzazioni di Roma e Ostia» (p. 101).

In conclusione, sotto il titolo «Chi può salvare la Calabria», l’A. ripropone, con riferimento specifico alle mafie, quello che in realtà è il filo conduttore di tutta l’analisi svolta nel libro: «E’ necessaria un’azione repressiva di polizia e magistratura seria, costante ed efficace. Non deve essere però la lotta di uno o pochi “eroi” solitari che appartengano essi alla magistratura o ad altre categorie. Così infatti si crea un (falso) mito doppiamente pericoloso: alimenta illusioni destinate a cadere perché nessuno da solo può sconfiggere un’organizzazione mafiosa, sia essa la ‘ndrangheta, Cosa nostra o la camorra e, allo stesso tempo, offre uno splendido alibi a tutti gli altri – singoli cittadini, istituzioni, realtà economiche, gruppi sociali -, cui invece spetterebbe il compito più decisivo: costruire una società più sicura, organizzata, efficiente e pulita» (p.159-160). 

19/02/2022
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