Magistratura democratica

Giudizi e pregiudizi

di Francesco Petrelli

La riforma dell’ordinamento giudiziario, frutto dei lavori della Commissione Luciani, appare non solo incapace di risolvere i profili di criticità del nostro sistema, ma anche figlia di una cultura conservativa che contrasta con la necessità di operare un ripensamento del tradizionale paradigma ordinamentale e di realizzare una sua radicale riforma. L’ostilità dimostrata nel tempo da alcuni settori della magistratura verso l’idea del superamento del mero diritto di tribuna in favore di un più accentuato ruolo partecipativo dell’avvocatura nell’organizzazione e nell’amministrazione della giustizia, costituisce soltanto uno dei sintomi di un pericoloso arroccamento che confligge con le aspirazioni di una giustizia moderna, democratica e aperta alla società. Il riconoscimento dell’insicurezza e del bisogno di giustizia che attraversano la collettività impone a tutti noi di dare risposte urgenti e concrete perché, se manchiamo questa sfida, nella società non resteranno che la paura e l’insicurezza, che cercheranno e troveranno soddisfazione altrove, in un non auspicabile ritorno al passato.

Ad uno sguardo superficiale, si potrebbe immaginare che la questione relativa alla presenza attiva dell’avvocatura nella valutazione di professionalità dei magistrati all’interno dei consigli giudiziari si collochi ai margini della riforma dell’ordinamento giudiziario. Una riforma che aveva inteso investire gangli politico-istituzionali di ben maggior respiro, come i distaccamenti dei magistrati presso i ministeri, i meccanismi elettorali del Csm, la regolamentazione dell’accesso dei magistrati in politica, la sottrazione del contenzioso relativo agli incarichi direttivi alla competenza della giurisdizione ordinaria, i profili della responsabilità disciplinare, la progressione in carriera, l’accesso agli incarichi direttivi e i criteri stessi relativi alle valutazioni della professionalità dei magistrati[1]. Tutti, in qualche modo, volti a risolvere la crisi strutturale nella quale versa l’intero ordinamento giudiziario. 

Tuttavia, come spesso accade, anche l’osservazione di aspetti apparentemente secondari delle riforme consente di cogliere assetti ideologici e prospettive culturali che costituiscono il fondamento stesso, ovvero la visione del mondo sottesa all’intero impianto riformatore, e di restituire interamente la natura degli equilibri e dei rapporti di forza che in esse si celano[2]. Che la questione non sia affatto marginale, lo si coglie facilmente se solo si rivisiti la storia più o meno recente dei conflitti e delle polemiche che hanno caratterizzato i diversi tentativi di dare una voce e un ruolo all’avvocatura nelle valutazioni di professionalità[3].

Si tratta di regole che avrebbero dovuto governare sin dalla nascita della nostra democrazia costituzionale l’ordinamento giudiziario, nel segno di una più moderna aereazione e cooperazione fra soggetti legati a culture e formazioni differenti, fra funzioni pubbliche e funzioni “private”. Il fatto che ancora oggi si discuta di quel minimo di intervento nell’avvocatura che superi la marginalità di quel “diritto di tribuna”, dimostra quale sia il limite originario che ha segnato nel nostro Paese la storia dei rapporti della magistratura con la società, svelando un radicato atteggiamento antimoderno, burocratico ed elitario di alcuni suoi settori che, sebbene non appaiano maggioritari, ne caratterizzano certamente le scelte a livello politico-sindacale[4]

D’altronde, la questione non è né banale né nuova. Le proposte relative a un possibile allargamento della valutazione da parte di rappresentanti dell’avvocatura hanno sempre trovato un solido fronte di opposizione, che ha di fatto impedito che la questione venisse affrontata nell’ambito di una sana e vantaggiosa prospettiva di mutuo riconoscimento e di reciproca legittimazione. Come ha di recente ricordato Paolo Borgna[5], «la presenza a pieno titolo di “laici” (non solo avvocati ma anche membri eletti dai Consigli provinciali o regionali) è una vecchia proposta della sinistra. Che fu formalizzata la prima volta in un progetto di legge del 1965 (primo firmatario Vittorio Martuscelli, magistrato eletto alla Camera nelle file del Psi); e poi ripresa da proposte di Magistratura Democratica e, nel 1980, dal professore Vittorio Grevi».

Da allora, prosegue Borgna, «non è cambiata la diffidenza verso qualunque giudizio, sulla loro professionalità, esterno alla corporazione» e, «al contrario, tale diffidenza sembra essersi irrigidita, a seguito di un arroccamento che da quarant’anni ha ormai abituato due generazioni di magistrati ad un clima di cittadella assediata». Ma dovrebbe essere proprio questa duplice ragione a imporre, oramai, di fare di questa inevitabile riforma l’oggetto di una rivisitazione condotta su basi meno ideologiche, libera da antichi preconcetti e pregiudizi tanto inutili quanto offensivi. Basti ricordare in proposito le esternazioni di Marcello Maddalena, risalenti alla seconda metà degli anni ottanta, con le quali si manifestava un’aperta e radicale avversione ad ogni ipotesi di apertura, esclamando: «Non scherziamo. Qui si sta proponendo di chiedere il parere su di noi ai rappresentanti dei delinquenti»[6]

Posizioni successivamente riprese, allorché ancora nel 2016 il Ministro Orlando, con l’avallo di Giovanni Canzio, rilanciò la proposta di allargamento del diritto di voto agli avvocati[7], provocando una durissima reazione della corrente di destra “davighiana”, la quale evocava il rischio di condizionamento nelle «realtà locali con forte infiltrazione criminale»[8]. Per giungere, infine, ad altre posizioni più “moderate”, come quella secondo la quale sarebbe comunque «pericoloso affidare la valutazione di professionalità di un magistrato a un avvocato a cui magari il giorno prima quel magistrato ha dato torto in un processo»[9]

Purtroppo questa ostilità, sebbene sia manifestata con differenti modalità, sembra essere sopravvissuta negli anni senza alcuna sensibile mutazione, se è vero che pochi mesi fa il presidente di Anm ha espresso ancora una «ferma contrarietà» all’ipotesi di riforma, sostenendo che già i consigli godono di una «composizione “allargata”» e che «il diritto di tribuna o addirittura il diritto di voto sulle valutazioni di professionalità (…) determinerebbe solo interferenze con l’indipendente esercizio della funzione giudiziaria»[10]

Nessuna delle obiezioni poste a fondamento di tali posizioni appare irresistibile; tutte mostrano poco coraggio e scarsa lungimiranza. Sono valutazioni che, nella loro “varietà”, esemplificano una distorta visione dell’avvocatura, segnata da un’evidente fallacia naturalistica, più attenta alle singole possibili patologie che non alle reali dinamiche dei rapporti fra avvocatura e magistratura, e soprattutto indifferente alle smagliature della cd. indipendenza interna. L’esperienza quotidiana e anche alcuni recenti fatti di cronaca dimostrano, infatti, quali possano essere i sentimenti manifestati da un pubblico ministero nei confronti di un giudice che abbia respinto una sua istanza. Per non dire delle esternazioni e delle valutazioni captate a un noto esponente del Csm, nelle quali viene ad emersione una assai distorta declinazione di quella indipendenza. Si tratta di accadimenti fisiologici e non, che devono tuttavia farci riflettere sulla necessità di affrontare la questione in termini più ragionevoli, sottratti al paradosso teratologico. 

Si tratta di uno snodo del sistema ordinamentale che, sebbene non fondamentale, appare dotato di un forte significato simbolico. Tali valutazioni ci fanno pensare, infatti, non tanto che la magistratura non voglia essere valutata dagli avvocati (l’esperienza concreta dei consigli giudiziari ci fornisce indicazioni in senso contrario), ma che vi sia una parte della magistratura che, coltivando una errata idea di indipendenza, sembra considerare ogni valutazione e ogni giudizio, anche interno, come un insostenibile pericolo e una minaccia alla sua consistenza istituzionale. 

Un atteggiamento, questo, che ha finito con lo scolorire anche la riforma dei consigli giudiziari, sterilizzando di fatto il contributo dell’avvocatura nell’ambito della valutazione di professionalità dei magistrati; riforma che avrebbe dovuto attuare principi e criteri direttivi tali da “consentire” agli avvocati di esprimere un voto unitario sul magistrato in verifica.

La delega in base alla quale si sarebbero dovute individuare «modalità idonee ad acquisire il parere del consiglio dell’ordine degli avvocati competente per territorio» è stata difatti attuata attraverso un meccanismo che non conferisce la necessaria pienezza al contributo valutativo dell’avvocatura. La valutazione dell’avvocato presente nei singoli consigli giudiziari trova, infatti, il suo presupposto nell’esistenza di segnalazioni specifiche – positive o negative – sul magistrato in verifica, espresse da parte del consiglio dell’ordine competente. Segnalazioni il cui contenuto non può essere disatteso se non dando luogo a un nuovo parere, che non è dato comprendere se sia vincolante o meno per il rappresentante che siede in consiglio. La complessa articolazione di questa forma di giudizio, filtrata e differita dai consigli dell’ordine, rende evidente come non vi possa essere, tuttavia, alcun serio contributo valutativo da parte della componente laica. 

In base ai dati esperienziali disponibili, possiamo dire che i consigli dell’ordine avranno infatti a disposizione solo eventuali segnalazioni negative, che non si comprende in base a quali conoscenze ulteriori (escluse valutazioni di tipo personale e soggettivo dei singoli consiglieri) potranno essere oggetto di una più globale e ponderata valutazione. Sembra evidente come, senza una condivisa e paritetica conoscenza del fascicolo del magistrato e al di fuori, dunque, di una specifica e piena conoscenza della vicenda professionale del magistrato sottoposto a valutazione, non vi possa essere alcun proficuo e ragionevole contributo valutativo. Un sistema fondato su una simile asimmetria sembra destinato al fallimento. 

La diffidenza (si vedano ancora le «forti perplessità» manifestate sul punto dal Csm in sede di parere sulla riforma Cartabia) sembra avere ancora una volta governato le cadenze di questa incerta riforma, impedendo di prevedere modalità più ampie e condivise di valutazione, nel timore che l’avvocatura, senza il filtro istituzionale, possa nuocere agli equilibri stessi della valutazione e che la magistratura possa uscirne condizionata nell’esercizio della sua funzione.

Siamo convinti, invece, non solo che l’avvocatura e la magistratura siano di gran lunga migliori, più mature e più consapevoli dei loro congiunti destini di quanto le cronache e il sentire comune sembrerebbero dirci, ma anche oramai consapevoli che solo questa apertura reciproca possa costituire un progresso per la giustizia. Un progresso fatto di una maggiore presenza nel Csm e di inserimenti laterali dell’avvocatura all’interno della magistratura giudicante, di cognizione e di legittimità. 

Quello relativo ai criteri di valutazione dei magistrati, che è il vero punto critico rispetto al quale trovare nuove ed efficaci soluzioni tecniche, dovrebbe essere un punto d’incontro di queste diverse esigenze e di queste differenti sensibilità, ma la presenza diretta e autorevole della avvocatura nei consigli giudiziari avrebbe dovuto costituire l’indispensabile premessa di queste riflessioni. Non ci siamo forse accorti che, mentre cercavamo vecchie risposte, le domande erano cambiate.

Se è dunque vero che le posizioni dominanti sembrano ancora arroccate su di una chiusura dell’orizzonte e su di una politica fondata sull’illusione che antichi schemi mentali e vecchi strumenti ideologici possano riuscire a leggere gli scenari del tutto nuovi che la giustizia del futuro ci propone, siamo tutti chiamati a guardare con realismo la sempre più grave delegittimazione della funzione giudiziaria. Ma ciò significa che il nostro riconoscimento dell’insicurezza e del bisogno di giustizia che attraversano la collettività si deve accompagnare, necessariamente, alla ricerca delle risposte da dare in concreto a queste sempre più urgenti richieste. Se manchiamo la sfida e non siamo in grado di dare risposte a quei problemi, non resteranno che la paura e l’insicurezza, che cercheranno e troveranno altrove, in un non auspicabile ritorno al passato, la loro obliqua soddisfazione.

Parafrasando De Tocqueville, potremmo dire che «più la [magistratura] cessa di essere aristocrazia e più sembra divenire casta»[11]. Se questa mutazione sarà favorita dalla crisi corrente, la magistratura rischia di chiudersi alla società e di nutrire un pericoloso spirito cetuale, timoroso di contaminazioni e di controlli, arroccandosi a difesa di una fraintesa indipendenza esterna e dimenticando spesso i pericoli che provengono dalla mancanza di una vera indipendenza interna. 

Sebbene la caduta delle ideologie abbia sottratto alle correnti la loro originaria carica propulsiva, che aveva contribuito alla crescita del Paese, al rinnovamento della giurisdizione e alla riforma in senso democratico dei codici, è tuttavia evidente che nella magistratura, così come nell’avvocatura, vi sono forze che non sono affatto legate a un’idea autoreferenziale del proprio ruolo. Si tratta di comunità politiche capaci di guardare al futuro e dotate delle forze intellettuali necessarie per poter governare i profondi mutamenti che stanno inevitabilmente investendo, assieme all’intera società, anche il mondo della giustizia, il cui sguardo potrà aprirsi senza timore ai nuovi orizzonti di ben più incisive e radicali riforme.

 

 

1. Si vedano, in proposito, le opinioni di Nello Rossi e Carlo Guarnieri nell’ambito della tavola rotonda moderata da Rinaldo Romanelli, tenutasi il 24 settembre 2021, nell’ambito del XVIII Congresso ordinario dell’UCPI («Cambiare la giustizia, cambiare il Paese» – vds. www.radioradicale.it/scheda/649399/cambiare-la-giustizia-cambiare-il-paese-le-proposte-dellavvocatura-penale-per-una). 

2. Dobbiamo rilevare come la Commissione abbia audito il Comitato di presidenza del Csm (che pure sul ddl Bonafede relativo all’ordinamento giudiziario aveva reso più di un parere), il presidente e il segretario di Anm e i rappresentanti del Cnf (che hanno inviato uno scritto), ma non abbia ritenuto di convocare in audizione l’Unione delle Camere penali italiane.

3. Sembra interessante richiamare qui gli esiti del referendum del 12 giugno, con riferimento al quesito relativo alla valutazione dei magistrati nei consigli giudiziari da parte dei membri laici, che ha visto esprimersi il 20,92 % degli aventi diritto al voto (circa 10 milioni di cittadini): il 71,94 % di questo consistente “campione” di elettori si è infatti espresso favorevolmente per l’estensione del voto nei consigli giudiziari anche agli avvocati. 

4. Vale la pena qui di ricordare i dati riportati da Giuseppe Di Federico, La valutazione di professionalità dei magistrati, in C. Guarnieri - G. Insolera - L. Zilletti (a cura di), Anatomia del potere giudiziario, Carocci, Bologna, 2016, pp. 79 ss., e quanto ivi si afferma in ordine al «venir meno» di uno dei «cardini del modello organizzativo burocratico di tradizione weberiana (…) che caratterizza ancora, in vario modo, gli altri sistemi giudiziari dell’Europa continentale ove le promozioni seguitano ad essere competitive» (p. 81).

5. P. Borgna, Ma i magistrati devono augurarsi anche il giudizio degli avvocati, Avvenire, 28 luglio 2021.

6. M. Bordin, Maddalena, gli avvocati e le manette, Il Foglio, 15 ottobre 2016.

7. Cfr. il Convegno Cnf «La componente laica nel consiglio giudiziario ed il suo ruolo», Milano, 12 dicembre 2017.

8. E. Novi, Magistrati: “gli avvocati stiano fuori”. La corrente di Davigo in rivolta, Il Dubbio, 14 ottobre 2016; posizione ripresa da Piercamillo Davigo anche di recente: cfr. A. Riva, Conflitto d’interessi per gli avvocati? Davigo lo tema a proposito dei suoi ex colleghi… , ivi, 6 luglio 2021.

9. P. Borgna, Ma i magistrati, cit.

10. V. Stella, «Diritto di tribuna agli avvocati? A rischio l’indipendenza dei magistrati», intervista a Salvatore Casciaro, presidente di Anm, Il Dubbio, 25 maggio 2021 (www.ildubbio.news/2021/05/24/diritto-di-tribuna-agli-avvocati-rischio-lindipendenza-dei-magistrati/; www.associazionemagistrati.it/allegati/casciaro--il--dubbio--25052021.pdf).

11. A. De Tocqueville, L’Antico regime e la Rivoluzione, Rizzoli, Milano, 2011, p. 127. Nel testo originale, che fu pubblicato per la prima volta nel 1856, il riferimento è alla nobiltà.