Magistratura democratica

L’impatto della riforma Cartabia sul procedimento disciplinare

di Simone Perelli

La legge n. 71 del 17 giugno 2022, tra i vari settori di intervento, si occupa anche del procedimento disciplinare dei magistrati (art. 11). Certamente non si tratta del tratto caratterizzante della riforma; tuttavia, alcune modifiche al catalogo degli illeciti disciplinari e l’introduzione dell’istituto della riabilitazione meritano una prima riflessione “a caldo”, nell’attesa che sia la giurisprudenza a chiarire l’esatta portata delle modifiche introdotte.

1. Benché non riguardi il procedimento disciplinare in senso stretto, l’art. 3, comma 1, lett. i, n. 4 della legge delega interviene a regolare le ricadute dei fatti accertati in sede disciplinare sulla valutazione di professionalità, stabilendo espressamente che: «i fatti accertati in via definitiva in sede di giudizio disciplinare siano oggetto di valutazione ai fini del conseguimento della valutazione di professionalità successiva all’accertamento, anche se il fatto si colloca in un quadriennio precedente, ove non sia già stato considerato ai fini delle valutazioni di professionalità relativa a quel quadriennio». 

Si tratta di norma opportuna, perché destinata a porre fine alle incertezze interpretative in merito alla permeabilità del procedimento amministrativo della valutazione di professionalità rispetto ai fatti accertati in sede di giudizio disciplinare. L’intervento legislativo, oltre a sancire la doverosità di una interrelazione possibile già oggi in via ermeneutica (con tutti i rischi e i problemi che accompagnano tale opzione), afferma opportunamente che tali fatti non debbano essere obliterati neppure se si collocano al di fuori del quadriennio in valutazione, a meno che non siano stati già valutati nel quadriennio precedente.

La norma non distingue tra fatti commessi nell’esercizio delle funzioni ovvero al di fuori da tale esercizio. A prima vista, potrebbe sembrare iniquo che la valutazione di professionalità possa essere influenzata da fatti extra-funzionali. Ma, a ben vedere, non è eccentrico prevedere che un fatto che ha dato luogo a un illecito disciplinare extra-funzionale possa essere di notevole interesse anche per la valutazione della professionalità del magistrato. D’altra parte, tra i requisiti da esaminare in sede di valutazione della professionalità vi sono quelli dell’indipendenza, della correttezza e dell’equilibrio, rispetto ai quali un fatto che integra un illecito disciplinare extra-funzionale può raccontare molto e, quindi, risultare molto utile ai fini della valutazione della professionalità del magistrato, ben di più della ricorrente formula di stile “nulla da rilevare”, che si legge solitamente nei pareri dei capi degli uffici.

Peraltro, ciò che la legge-delega richiede è che tali fatti, accertati in via definitiva in sede di giudizio disciplinare, siano oggetto di esame anche nel procedimento di valutazione di professionalità, lasciando opportunamente all’organo amministrativo preposto piena autonomia in merito alla considerazione di quel fatto e alle sue ricadute sulla valutazione di professionalità del magistrato che lo ha commesso (pertanto, l’organo amministrativo ben potrebbe concludere nel senso dell’irrilevanza di un fatto disciplinare sul giudizio di professionalità).

Dunque, non è la sentenza disciplinare a dover essere presa in esame in sede di valutazione di professionalità, ma i fatti accertati in via definitiva in sede di giudizio disciplinare. 

Ci si potrebbe domandare se, tra i fatti accertati in sede disciplinare, rientrino anche quelli esitati in una pronuncia liberatoria. A questa domanda mi pare corretto rispondere distinguendo tra assoluzione per essere rimasto escluso l’addebito e assoluzione per scarsa gravità del fatto (art. 3-bis) ovvero, limitatamente all’illecito disciplinare di cui all’art. 2, comma 1 lett. q, assoluzione per estinzione dell’illecito in seguito al rispetto del piano di smaltimento (art. 3-ter, introdotto con la riforma in esame – vds. infra).

Certamente, una sentenza di assoluzione per essere rimasto escluso l’addebito non può avere effetti negativi sulla valutazione di professionalità del magistrato, neppure ove l’assoluzione sia dipesa da ragioni squisitamente giuridiche e non fattuali, per la considerazione che essa non presuppone un accertamento definitivo di fatti. Quand’anche la sezione disciplinare dovesse effettuare, nella motivazione della sentenza, affermazioni impegnative in tal senso, non per questo tali argomentazioni potrebbero essere assimilate a un accertamento definitivo di fatti, atteso che l’incolpato non ha possibilità di reagire mediante ricorso per cassazione avverso una pronuncia pienamente liberatoria, ancorché contenente passaggi motivazionali poco indulgenti, critici o di contrario segno.

A diverse conclusioni deve, invece, pervenirsi con riferimento alla pronuncia assolutoria per la scarsa gravità del fatto ovvero per estinzione dell’illecito ex art. 3-ter. In questi casi vi è, da parte del giudice disciplinare, un vero e proprio accertamento in merito alla sussistenza del fatto contestato e alla sua commissione da parte dell’incolpato, onde solo in caso di integrazione dell’illecito si può pervenire all’assoluzione reputando disciplinarmente non rilevante quella condotta ovvero dichiarare l’estinzione dell’illecito in seguito alla corretta osservanza del piano di smaltimento.

D’altra parte, come sappiamo, una condotta scarsamente significativa sul piano disciplinare può risultare molto rilevante ai fini della valutazione di professionalità. Pertanto, in questi casi, è corretto concludere nel senso che i fatti accertati in una sentenza definitiva di assoluzione, pronunciata ai sensi dell’art. 3-bis d.lgs n. 109/2006, debbano essere presi in considerazione in sede di valutazione di professionalità, in conformità alla norma che si commenta.

Stesse considerazioni possono essere ripetute con riferimento alla nuova causa di «estinzione dell’illecito» (così la rubrica) di cui all’art. 3-ter d.lgs n. 109/2006, di novella introduzione, contenuta nell’art. 11, comma 1, lett. d (modifica normativa direttamente operante, non essendo contenuta nella legge delega). Anche in questo caso, l’illecito disciplinare di cui all’art. 2, lett. q, d.lgs n. 109/2006 (ritardi nel deposito dei provvedimenti) si estingue per effetto del rispetto del piano di smaltimento, ma il fatto dei ritardi deve ritenersi positivamente accertato e, conseguentemente, non può non essere adeguatamente soppesato in sede di valutazione della professionalità del magistrato.

 

2. Le modifiche in materia di illeciti disciplinari sono contenute nell’art. 11. Sono, dunque, entrate in vigore con l’approvazione della legge, rientrando nel capo II concernente le modifiche alle disposizioni dell’ordinamento giudiziario (a differenza di quelle contenute nel capo I, aventi ad oggetto la «Delega al governo per la riforma ordinamentale della magistratura»). 

La riforma introduce alcune nuove fattispecie di illecito disciplinare e apporta alcune modifiche su quelle già esistenti.

Esaminiamole brevemente.

 

2.1. In primo luogo, viene ampliata la portata derogatoria di cui all’art. 2, lett. a. Questa disposizione, prima della modifica, suonava così: «[Costituiscono illeciti disciplinari nell’esercizio delle funzioni:] fatto salvo quanto previsto dalle lettere b) e c) i comportamenti che, violando i doveri di cui all’art. 1, arrecano un ingiusto danno o indebito vantaggio a una delle parti».

Come si ricorderà, i doveri di cui all’art. 1 sono quelli di carattere generale che devono contrassegnare la condotta del magistrato, ovvero i doveri di imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo, equilibrio e rispetto della dignità della persona.

L’art. 2, lett. a, conferiva dunque rilevanza a disciplinare unicamente quelle condotte che, violando i citati doveri, arrecavano un ingiusto danno o un indebito vantaggio a una delle parti, «fatto salvo quanto previsto dalle lettere b) e c)» dello stesso articolo 2: ossia, ad eccezione dell’omessa comunicazione di situazioni di incompatibilità, ai sensi degli artt. 18 e 19 dell’ordinamento giudiziario, ovvero della violazione del dovere di astensione come disciplinata dai codici di rito.

Con la modifica in esame, il legislatore si è preoccupato di estendere la portata derogatoria all’operatività di questa fattispecie anche alle disposizioni previste dall’art. 2 alle lett. g e m, ossia alla grave violazione di legge, determinata da ignoranza o negligenza inescusabile (lett. g), nonché all’adozione di provvedimenti non consentiti dalla legge per negligenza grave e inescusabile, che ledano diritti personali o, in modo rilevante, diritti patrimoniali (lett. m).

Benché non sia ravvisabile un rapporto di specialità (come riconosciuto pacificamente dalla giurisprudenza), la novella esclude il concorso formale – anche – tra l’illecito di cui all’art. 2, lett. a e l’illecito di cui all’art. 2, lett. g. Col risultato che la grave violazione di legge, sintomatica della violazione (quanto meno) del dovere di diligenza, non può (più) concorrere con la violazione della lett. a nonostante l’ingiusto danno o l’indebito vantaggio arrecato a una delle parti. 

Più comprensibile è il riferimento alla violazione prevista dalla lett. m. In questo caso, è più agevole ravvisare un rapporto di specialità di tale disposizione rispetto alla condotta di cui alla lett. a, posto che viene in rilievo l’adozione di provvedimenti non consentiti dalla legge che ledono diritti personali o, in modo rilevante, diritti patrimoniali (lett. m). Pertanto, l’ampliamento della portata derogatoria in questo caso finisce per sottolineare il rapporto di specialità esistente tra le due fattispecie. 

 

2.2. L’art. 11, comma 1, n. 2 amplia pure il raggio di operatività dell’illecito disciplinare di cui all’art. 2, comma 1, lett. n, prevedendo espressamente che anche la reiterata o grave inosservanza delle direttive possa dare luogo all’integrazione dell’illecito disciplinare.

Sull’effettiva utilità di questa modifica è lecito nutrire più di un dubbio, posto che anche nella formulazione precedente la violazione delle disposizioni organizzative concernenti il servizio giudiziario o i servizi organizzativi e informatici, adottate dagli organi competenti, era in grado di integrare l’illecito disciplinare in esame.

La modifica in oggetto attrae espressamente nell’area dell’illecito disciplinare anche la violazione delle direttive, lasciando così intendere che la precedente violazione di tali disposizioni non costituiva illecito disciplinare.

Indipendentemente dalla correttezza di tale esegesi, occorre certamente interrogarsi sulla natura di tali direttive ovvero sulla possibilità che anche le direttive emanate da organi ministeriali (ad esempio, dalla direzione preposta ai servizi organizzativi e informatici) ovvero dal Csm possano dare luogo all’integrazione dell’illecito.

Non a caso, nel suo parere il Csm ha espresso perplessità, evidenziando come la norma non chiarisca il significato da attribuire all’espressione «direttive», potendosi così intendere riferita sia a quelle consiliari sia a quelle del potere esecutivo nell’ambito dei servizi organizzativi e informatici, con conseguenti criticità in punto di tassatività. Inoltre, lo stesso Consiglio ha osservato come le direttive consiliari non pongano precetti specifici e immediatamente prescrittivi, ma forniscano ai magistrati un supporto all’interpretazione delle norme, mentre quelle del potere esecutivo siano espressione di un concetto elastico e indefinito, collocato in una zona d’ombra del diritto a causa della difficoltà di ricostruirne il regime giuridico.

Resta ancora da interrogarsi se, nel concetto in esame, siano sussumibili anche le direttive in materia di organizzazione del servizio eventualmente emanate dal capo dell’ufficio e inserite nel documento organizzativo dell’ufficio stesso (tabelle o progetto organizzativo). La latitudine della formulazione porta a dare una risposta affermativa e a ritenere che anche la violazioni di tali disposizioni possa dar luogo all’integrazione dell’illecito in esame.

 

2.3. Nel catalogo degli illeciti funzionali descritti dall’art. 2, comma 1, d.lgs n. 109/2006 fa la sua comparsa, dopo la lett. q (che sanziona il ritardo nel deposito dei provvedimenti), la lett. q-bis, che sanziona «l’omessa collaborazione del magistrato nell’attuazione delle misure di cui all’art. 37, comma 5-bis, del decreto legge 6 luglio 2011 n. 98, convertito, con motivazioni, dalla legge 15 luglio 2011 n. 111, nonché la reiterazione, all’esito dell’adozione di tali misure, delle condotte che le hanno imposte, se attribuibili al magistrato». 

L’art. 14 modifica, infatti, l’art. 37 dl 6 luglio 2011, n. 98, convertito nella l. 15 luglio 2011, n. 111, prevedendo l’inserimento del comma 5-bis, secondo il quale: «Il capo dell’ufficio, al verificarsi di gravi e reiterati ritardi da parte di uno o più magistrati dell’ufficio, ne accerta le cause e adotta ogni iniziativa idonea a consentirne l’eliminazione, con la predisposizione di piani mirati di smaltimento, anche prevedendo, ove necessario, la sospensione totale o parziale delle assegnazioni e la redistribuzione dei ruoli e dei carichi di lavoro. La concreta funzionalità del piano è sottoposta a verifica ogni tre mesi. Il piano mirato di smaltimento, anche quando non comporta modifiche tabellari, nonché la documentazione relativa all’esito delle verifiche periodiche sono trasmessi al consiglio giudiziario, o nel caso riguardi magistrati in servizio presso la Corte di cassazione, al relativo consiglio direttivo, i quali possono indicare interventi diversi da quelli adottati». 

Pertanto, con la lettera q-bis si punisce disciplinarmente, con sanzione non inferiore alla censura, l’omessa collaborazione del magistrato nell’attuazione del piano mirato di smaltimento dei ritardi, nonché la reiterazione, all’esito dell’adozione di tali misure, delle condotte che le hanno determinate, se attribuibili al magistrato. 

Come si vede, questa disposizione introduce due tipi di illecito disciplinare: l’omessa collaborazione del magistrato nell’attuazione del piano mirato di smaltimento dei ritardi nonché la reiterazione delle condotte che hanno comportato la necessità di adottare il piano mirato di smaltimento, ove attribuibili al magistrato.

A una prima lettura, potrebbe profilarsi un problema di tassatività della norma, non essendo descritte, neppure dall’art. 37, comma 5-bis, l. n. 111/2011, le condotte di mancata collaborazione del magistrato al piano mirato di smaltimento. Ma si tratta di preoccupazione destinata a venir meno dopo l’adozione di norme regolamentari, o di dettaglio, funzionali alla descrizione del piano mirato di smaltimento, con indicazione di un cronoprogramma e delle relative verifiche periodiche del rispetto degli obiettivi. Sicché, al verificarsi del mancato raggiungimento di uno di questi obiettivi, potrà dirsi integrato l’elemento materiale dell’illecito disciplinare in esame, per la cui configurazione occorrerà – comunque – che il magistrato versi in una situazione di colpa.

Anche con riferimento alle condotte che comportano la necessità di adottare il piano mirato di smaltimento occorre attendere la disciplina di dettaglio, onde comprendere quale sarà la soglia dei ritardi nel deposito dei provvedimenti superata la quale si deve procedere all’adozione del piano (fermo restando che il ritardo nei depositi è comunque sanzionato dalla lett. q dell’articolo 2).

 

2.4. Vengono, pure, previste nuove fattispecie di illecito disciplinare per i capi degli uffici o i presidenti di sezione.

Infatti, con l’introduzione della lettera ee-bis, si sanziona «l’omessa adozione da parte del capo dell’ufficio delle iniziative di cui all’art. 37 commi 5-bis e 5-ter del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, nonché l’omessa segnalazione al capo dell’ufficio da parte del presidente di sezione delle situazioni di cui all’art. 37-quater del citato decreto legge n. 98 del 2011». 

Mentre la lettera ee-ter punisce «l’omissione, da parte del capo dell’ufficio, o del presidente di sezione, della comunicazione, rispettivamente, al consiglio giudiziario e al consiglio direttivo della Corte di cassazione o al capo dell’ufficio, delle condotte del magistrato dell’ufficio che non collabori nell’attuazione delle misure di cui all’art. 37, comma 5-bis, del decreto legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito con modificazioni dalla legge 15 luglio 2011, n. 111».

Dunque, da un lato, si punisce il capo dell’ufficio che, al ricorrere dei presupposti, non si attivi per adottare il piano di smaltimento dell’arretrato, ovvero il presidente di sezione che ometta di segnalare al capo dell’ufficio i ritardi che impongono l’adozione di un piano di smaltimento e, dall’altro, l’omessa segnalazione al consiglio giudiziario (o al consiglio direttivo) o al capo dell’ufficio delle condotte del magistrato dell’ufficio che non collabori nell’attuazione delle misure del piano di smaltimento.

Si tratta di due illeciti omissivi, di pura condotta, destinati a sensibilizzare i capi degli uffici e i presidenti di sezione al rispetto dei termini nel deposito dei provvedimenti giudiziari e, più in generale, allo smaltimento dei procedimenti nella misura e nei termini stabiliti. Sicché, ove all’interno di un ufficio o di una sezione si verifichi una situazione di sofferenza tale da rendere necessaria l’adozione di una misura prevista dall’art. 37, comma 5-bis o 5-ter dl n. 98/2011, in caso di colpevole inerzia il capo dell’ufficio e/o il presidente di sezione possono incorrere nell’illecito disciplinare di cui all’art. 2, comma 1, lett. ee-bis d.lgs n. 109/2006.

Parallelamente, gli stessi organi apicali incorrono nella violazione dell’art. 2, comma 1, lett. ee-ter qualora omettano di comunicare, rispettivamente, al consiglio giudiziario o al capo dell’ufficio, le condotte del magistrato che non collabori nell’attuazione delle misure di cui all’art. 37, comma 5-bis, dl n. 98/2011 (piano di smaltimento).

Per queste violazioni è opportunamente prevista la sanzione della incapacità ad esercitare un incarico direttivo o semidirettivo, come risulta dall’art. 11, lett. e, n. 2.

 

2.5. È stata, poi, inserita una nuova causa di estinzione dell’illecito. Infatti, dopo l’art. 3-bis è stato inserito l’art. 3-ter, ai termini del quale:

«1. L’illecito disciplinare previsto dall’art. 2, comma 1, lettera q), è estinto quando il piano di smaltimento, adottato ai sensi dell’articolo 37, comma 5-bis, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, è stato rispettato. 

2. Il beneficio di cui al comma 1 può essere applicato una sola volta».

Si tratta di una disposizione da salutare con favore, finalizzata a incentivare il rispetto del piano di smaltimento: un segnale di disponibilità nei confronti dei magistrati che hanno generato ritardi per inesperienza o incapacità organizzative, ovvero che si sono trovati alle prese con ruoli complicati, pesanti o gestiti male, senza l’accortezza di informare il presidente di sezione o il dirigente dell’ufficio per ottenere consigli e/o strumenti per la soluzione del problema.

L’osservanza del piano di smaltimento pone il magistrato al riparo dalla sanzione disciplinare, premiando il suo impegno e la sua sollecitudine nel rimediare al disservizio causato dai ritardi colpevolmente accumulati.

Peraltro, onde evitare che il ricorso al piano di smaltimento possa tramutarsi in una sorta di modus operandi, il secondo comma della norma in esame prevede che questo beneficio (ossia l’estinzione dell’illecito) possa essere riconosciuto una sola volta.

 

2.6. L’art. 11 modifica pure l’illecito disciplinare di cui all’art. 2, comma 1, lett. v del d.lgs n. 109/2006, concernente la violazione, da parte dei magistrati della Procura della Repubblica, delle regole che disciplinano i rapporti con gli organi di informazione.

Attualmente, questa norma punisce la violazione dell’art. 5, comma 2 del d.lgs n. 106/2006, a termini del quale «[o]gni informazione inerente alle attività della Procura della Repubblica deve essere fornita attribuendola in modo impersonale all’ufficio ed escludendo ogni riferimento ai magistrati assegnatari del procedimento».

Con la riforma, la condotta è stata ampliata e l’illecito disciplinare è stato esteso anche alla violazione dei commi 1, 2, 2-bis e 3 dell’art. 5 d.lgs n. 106/2006, come risultanti dalla modifica operata dal d.lgs 8 novembre 2021, n. 188, in vigore dal 14 dicembre 2021, che ha dato attuazione alla direttiva 2016/343/UE sulla presunzione di innocenza. 

Alla luce di questa estensione, sono passibili di integrare l’illecito disciplinare di cui all’art. 2, lett. v, d.lgs n. 109/2006 le condotte che violano l’art. 5, commi 1, 2, 2-bis e 3 dell’art. 5 d.lgs n. 106/2006, concernenti i rapporti con gli organi di informazione e, conseguentemente, la violazione delle disposizioni normative secondo cui: 

«1. Il procuratore della Repubblica mantiene personalmente, ovvero tramite un magistrato dell’ufficio appositamente delegato, i rapporti con gli organi di informazione, esclusivamente tramite comunicati ufficiali oppure, nei casi di particolare rilevanza pubblica dei fatti, tramite conferenze stampa. La determinazione di procedere a conferenza stampa è assunta con atto motivato in ordine alle specifiche ragioni di pubblico interesse che la giustificano. Ogni informazione inerente alle attività della procura della Repubblica deve essere fornita attribuendola in modo impersonale all’ufficio ed escludendo ogni riferimento ai magistrati assegnatari del procedimento. 

2-bis. La diffusione di informazioni sui procedimenti penali è consentita solo quando è strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini o ricorrono altre specifiche ragioni di interesse pubblico. Le informazioni sui procedimenti in corso sono fornite in modo da chiarire la fase in cui il procedimento pende e da assicurare, in ogni caso, il diritto della persona sottoposta a indagini e dell’imputato a non essere indicati come colpevoli fino a quando la colpevolezza non è stata accertata con sentenza o decreto penale di condanna irrevocabili. 

3. È fatto divieto ai magistrati della Procura della Repubblica di rilasciare dichiarazioni o fornire notizie agli organi di informazione circa l’attività giudiziaria dell’ufficio». 

Non può dubitarsi che questa riforma intenda sanzionare disciplinarmente i pubblici ministeri che intrattengano rapporti con gli organi di informazione, ove non siano stati a ciò previamente delegati dal procuratore della Repubblica. La norma prevede che sia il procuratore a mantenere questi rapporti, fatta salva la possibilità di delegare tale compito a un magistrato del suo ufficio (evidentemente, mediante disposizione di carattere generale da inserire nel progetto organizzativo ovvero in un ordine di servizio).

La stessa disposizione normativa prevede, poi, come debbano essere intrattenuti tali rapporti: esclusivamente mediante comunicati ufficiali ovvero, nei casi di particolare rilevanza pubblica dei fatti, tramite conferenze stampa la cui decisione deve essere assunta con atto motivato in ordine alle specifiche ragioni di pubblico interesse che la giustificano. 

Viene pure vietato ai magistrati della Procura della Repubblica, al di fuori dei comunicati ufficiali o delle conferenze stampa nei casi di cui al comma 1, di rilasciare dichiarazioni o fornire notizie agli organi di informazione circa l’attività giudiziaria dell’ufficio.

Resta disciplinarmente rilevante la necessità che ogni informazione relativa alle attività della Procura della Repubblica debba essere attribuita in modo impersonale all’ufficio, escludendo ogni riferimento ai magistrati assegnatari del procedimento (comma 2 dell’art. 5 d.lgs n. 106/2006).

Pur potendosi convenire con quanti dubitano dell’effettiva necessità di questa modifica[1], nondimeno, non può negarsi come l’ampliamento del raggio di operatività della lett. v, onde ricondurvi anche le violazioni dei commi 1, 2, 2-bis e 3 dell’art. 5 d.lgs n. 106/2006 (come risultanti dalla modifica operata dal già citato d.lgs 8 novembre 2021, n. 188), abbia una forte valenza simbolica finalizzata a sensibilizzare – ulteriormente – sia i magistrati della Procura della Repubblica al rispetto della disciplina dei rapporti con gli organi di informazione, sia – e soprattutto – i titolari dell’azione disciplinare a prestare la dovuta attenzione alle violazioni di tali norme e alla (eventuale) integrazione dell’illecito disciplinare in discorso.

Riguardo a questa modifica, il parere formulato dal Csm evidenzia notevoli criticità sia sotto il profilo della tassatività della norma sia sotto il profilo della garanzia d’indipendenza del pubblico ministero. Secondo il Csm, le disposizioni richiamate avrebbero un contenuto troppo ampio ed elastico, rinviando a concetti indeterminati quali la rilevanza pubblica dei fatti ovvero le specifiche ragioni di interesse pubblico o le specifiche esigenze investigative, concetti che si caratterizzano per la loro discrezionalità o per valutazioni di opportunità che mal si prestano a un sindacato disciplinare. Secondo il parere del Csm, poi, l’ampiezza del divieto imposto ai magistrati del pubblico ministero finisce per risultare irrazionale e in contrasto con il diritto costituzionale di manifestazione del pensiero, attribuendo ai titolari dell’azione disciplinare un potere di controllo e di condizionamento sui procuratori della Repubblica e sui magistrati del pubblico ministero.

 

2.7. Sempre nell’ambito degli illeciti funzionali, è stato ridisegnato l’illecito di cui all’art. 2, lett. gg, che ora suona così: «L’emissione di un provvedimento restrittivo della libertà personale in assenza dei presupposti previsti dalla legge determinata da negligenza grave e inescusabile; l’avere indotto l’emissione di un provvedimento restrittivo della libertà personale in assenza dei presupposti previsti dalla legge, omettendo di trasmettere al giudice, per negligenza grave e inescusabile, elementi rilevanti».

La prima parte della condotta è stata modificata con la sostituzione delle parole «fuori dei casi consentiti dalla legge» con l’espressione «in assenza dei presupposti previsti dalla legge». 

L’operazione di chirurgia semantica compiuta dal legislatore, all’apparenza scarsamente incisiva, a ben vedere è destinata ad ampliare il raggio di operatività della disposizione in ragione della massima attenzione che l’ordinamento (giustamente) riserva ai provvedimenti illegittimi restrittivi della libertà personale. 

Pertanto, se prima della modifica la fattispecie in esame trovava applicazione nei confronti del giudice e/o del pubblico ministero in caso di emissione di un provvedimento restrittivo della libertà personale al di fuori dei casi consentiti dalla legge, ovvero per un reato la cui cornice edittale non consentiva l’adozione di tale misura, ora tale disposizione può trovare applicazione anche in caso di adozione di un provvedimento restrittivo della libertà in assenza dei presupposti previsti dalla legge – di tutti i presupposti previsti dalla legge – determinata da negligenza grave e inescusabile.

La seconda fattispecie è, invece, più specifica e mira a sanzionare la condotta del pubblico ministero che abbia «indotto» il giudice a emettere un provvedimento restrittivo della libertà personale in assenza dei presupposti previsti dalla legge, omettendo di trasmettergli elementi rilevanti, per negligenza grave e inescusabile. 

Dunque, l’integrazione di questa fattispecie è data dall’adozione di un provvedimento restrittivo della libertà illegittimo a causa della mancata trasmissione al giudice di elementi rilevanti per la decisione; quindi il pm, nel selezionare gli elementi da sottoporre al giudice a corredo della propria richiesta, dovrà prestare la massima attenzione a non tralasciare l’allegazione di atti in grado di inficiare la decisione del giudice in sede di gravame, pena la commissione dell’illecito in discorso allorché l’omissione sia stata contrassegnata da negligenza grave e inescusabile.

 

2.7.1. È stato poi previsto che, in caso di emissione di un provvedimento restrittivo della libertà personale in assenza dei presupposti previsti dalla legge, determinata da negligenza grave e inescusabile (condotta punita dall’art. 2, comma 1, lett. gg), qualora sia seguito il riconoscimento dell’ingiusta detenzione ai sensi dell’art. 314 cpp, la sanzione da applicare debba essere non inferiore alla sospensione dalle funzioni (cfr. art. 11, comma 1, lett. e, n. 3).

Si tratta di un sensibile inasprimento del trattamento sanzionatorio finalizzato a rafforzare il presidio di tutela al bene della libertà personale violato da provvedimenti giurisdizionali adottati al di fuori dei casi consentiti dalla legge, per negligenza grave e inescusabile, che abbiano pure dato luogo al riconoscimento dell’ingiusta detenzione.

Quindi, si tratta di sanzione destinata a colpire unicamente i provvedimenti giurisdizionali illegittimi in materia di custodia cautelare o di arresti domiciliari dopo il riconoscimento dell’ingiusta detenzione.

Peraltro, trattandosi di evenienza destinata a verificarsi molto tempo dopo i fatti (spesso il riconoscimento dell’ingiusta detenzione avviene molto tempo dopo l’emissione del provvedimento custodiale illegittimo ovvero al termine di un complesso iter processuale non di rado contrassegnato da tre gradi di giudizio), vi è il concreto rischio che la norma sia destinata a restare lettera morta, siccome fulminata dal termine prescrizionale decennale di cui all’art. 15, comma 1-bis, d.lgs n. 109/2006.

Senza considerare che il procedimento disciplinare per emissione di ordinanza custodiale in assenza dei presupposti previsti dalla legge normalmente viene avviato nell’imminenza dell’accertamento giudiziale incidentale, senza attendere l’esito del processo di merito (che, in taluni casi, può persino non esservi). Conseguentemente, non è eccentrico prevedere che il procedimento disciplinare possa concludersi ben prima della decisione sulla domanda di risarcimento per ingiusta detenzione e, quindi, senza che la norma in esame possa trovare applicazione.

 

3. La riforma tocca pure gli illeciti extra-funzionali, di cui all’art. 3 d.lgs n. 109/2006.

 

3.1. Il primo intervento riguarda l’illecito di cui alla lett. e dell’art. 3, primo comma, che viene opportunamente ampliato rendendo disciplinarmente rilevante l’ottenimento di prestiti o agevolazioni da parti, indagati o testimoni «per sé o per altri».

In tal modo, si supera l’interpretazione restrittiva della giurisprudenza (sez. unite civili, sent. del 9 dicembre 2019, n. 32111) che affermava che, in tema di responsabilità disciplinare dei magistrati, ai fini dell’integrazione dell’elemento materiale dell’illecito in esame, era necessaria la prova che il magistrato avesse personalmente ottenuto, direttamente o indirettamente, prestiti o agevolazioni da uno dei soggetti indicati dalla norma, atteso che tale disposizione – a differenza di quella contenuta nella lett. a dello stesso art. 3 – non prevedeva che il conseguimento del vantaggio da parte del magistrato potesse avvenire «per sé o per altri». Sì da rendere disciplinarmente irrilevante la condotta del magistrato che avesse ottenuto prestiti o agevolazioni a favore di altre persone, ancorché a lui strettamente legate (quali familiari, conviventi, etc.). 

 

3.2. La nota riunione all’Hotel Champagne, ma soprattutto l’archivio telefonico di uno dei partecipanti ad essa hanno poi indotto il legislatore a prevedere due nuove fattispecie di illecito disciplinare, inserite nell’art. 3, comma 1, dopo la lett. l.

Infatti, con la lett. l-bis, è ora punito «l’adoperarsi per condizionare indebitamente l’esercizio delle funzioni del Consiglio superiore della magistratura, al fine di ottenere un ingiusto vantaggio per sé o per altri o di arrecare un danno ingiusto ad altri».

Mentre, con la lett. l-ter, si punisce «l’omissione, da parte del componente del Consiglio superiore della magistratura, della comunicazione agli organi competenti di fatti a lui noti che possono costituire illecito disciplinare ai sensi della lettera l-bis».

La prima fattispecie pone alcuni problemi di inquadramento sistematico.

Va premesso che la condotta in discorso, ancorché inserita nell’ambito degli illeciti commessi al di fuori delle funzioni giurisdizionali, non si pone in rapporto di specialità con l’art. 2, lett. d, d.lgs n. 109/2006.

Punisce infatti una condotta di indebito condizionamento delle funzioni consiliari ben compatibile, al ricorrere dei presupposti, con il comportamento gravemente scorretto sanzionato dall’art. 2, nell’ambito degli illeciti funzionali, nella lata accezione – correttamente – fornita dalla giurisprudenza di questi ultimi anni (ovvero nell’accezione dinamica correlata allo status di magistrato anche al di fuori dell’attività strettamente giurisdizionale).

La condotta in discorso si inserisce dunque nello spazio esistente tra l’art. 2, lett. d, come costantemente interpretato dalla più recente giurisprudenza, e l’art. 3, lett. i, d.lgs n. 109/2006.

Quest’ultima disposizione, com’è noto, punisce «l’uso strumentale della qualità che, per la posizione del magistrato o per le modalità di realizzazione, è diretto a condizionare l’esercizio di funzioni costituzionalmente previste».

Si tratta di una disposizione contestata anche ai magistrati partecipanti alla riunione notturna dell’Hotel Champagne (compresi i consiglieri in carica) e convalidata dalla giurisprudenza di merito (vds. sent. sez. discipl. 14 settembre 2021, n. 143, dep. 6 dicembre 2021, nel processo disciplinare Cartoni + 4; nel caso Palamara, vds. sent. sez. discipl. n. 139/2020, dep. 21 dicembre 2020, confermata da sez. unite, n. 22302, dep. 4 agosto 2021).

Orbene, da un rapido raffronto di queste due norme è agevole riscontrare come la nuova disposizione sia destinata ad avere un raggio di operatività più ampio e, al contempo, più mirato.

Più ampio, perché non è richiesto l’uso strumentale della qualità di magistrato diretto a condizionare l’esenzione delle funzioni del Consiglio superiore della magistratura, essendo sufficiente l’adoperarsi per condizionare indebitamente le funzioni consiliari «al fine di ottenere un ingiusto vantaggio per sé o per altri o di arrecare un danno ingiusto ad altri».

Più mirato, perché la condotta vietata consiste nell’indebito condizionamento delle funzioni consiliari per ottenere un vantaggio ingiusto (per sé o per altri) ovvero per arrecare un danno ingiusto. 

Pertanto, con questa fattispecie il legislatore ha vietato tutte le condotte di indebito condizionamento dell’attività consiliare. 

La lettura della norma potrebbe portare a ritenere che residui uno spazio di condizionamento disciplinarmente irrilevante ove avvenga non indebitamente. Peraltro, la corretta interpretazione di questo avverbio non può prescindere dal nesso finalistico predicato dalla stessa norma, dovendosi concludere che sia disciplinarmente illecito il condizionamento dell’attività consiliare finalizzato a ottenere un vantaggio ingiusto (per sé o per altri) ovvero ad arrecare un ingiusto danno. Dove l’ingiustizia del vantaggio o del danno caratterizzano con maggior precisione l’illiceità della condotta, non potendosi immaginare un condizionamento non indebito ove diretto al conseguimento di quei fini.

Ne deriva che nel raggio di operatività di questa disposizione può ricomprendersi anche la mera raccomandazione o auto-promozione, sino ad oggi non contemplata dal catalogo degli illeciti disciplinari.

Ne deriva che l’avvicinamento di un consigliere togato con modalità non istituzionali o formali ben potrebbe essere in grado di integrare quelle modalità indebite necessarie per la configurazione dell’illecito. Poco importa che tale avvicinamento avvenga di persona, telefonicamente o per iscritto; ciò che rileva è che tale condotta sia potenzialmente idonea a condizionare le funzioni del consigliere, che avvenga indebitamente – ossia al di fuori delle occasioni e delle modalità regolamentate – e che sia diretta al conseguimento di un vantaggio o di un danno ingiusto.

Quindi anche un intervento per le cd. “vie brevi”, meramente sollecitatorio, teso a sottolineare le proprie capacità o i propri meriti (o i meriti altrui), ovvero a perorare una valutazione attenta del proprio curriculum o degli elementi contenuti nel proprio fascicolo, può essere idoneo a integrare l’illecito disciplinare in discorso, giacché alterando la procedura (posto che tali sollecitazioni non sono previste dal procedimento amministrativo finalizzato alla decisione) mira al conseguimento di un vantaggio ingiusto, foss’anche limitato alla richiesta di un trattamento particolare, di maggiore attenzione o di maggiore ponderazione della decisione.

Di contro, l’invio formale di documentazione o di istanze formali alla Commissione competente, alla segreteria del Consiglio o ad uno stesso componente del Consiglio, finalizzato all’apertura di una pratica ovvero a completamento di una pratica già pendente, difficilmente può rivelarsi idoneo a configurare questa fattispecie, non potendosi ritenere compiuto indebitamente: quand’anche si trattasse di invio illegittimo, l’organo competente sarebbe comunque in grado salvaguardare la regolarità del procedimento amministrativo disponendo la non acquisizione della documentazione o il rigetto dell’istanza e, in ogni caso, trattandosi di passaggi formali, “tracciati”, i controinteressati sarebbero nella condizione di poter reagire alla decisione adottata (se del caso, adendo la via giurisdizionale), salvaguardando la regolarità e la correttezza della decisione finale.

Trattasi, in sostanza, di fattispecie tesa a porre un argine al malcostume invalso tra i magistrati di avvicinare – per le vie brevi – i consiglieri per ottenere una raccomandazione o sponsorizzazione.

Per assicurare effettività a questa disposizione normativa, il legislatore ha previsto pure l’omissione della segnalazione agli organi competenti, da parte del componente del Csm, di fatti a lui noti che possano costituire illecito disciplinare ai sensi della lett. l-bis (art. 3, lett. l-ter).

Trattasi di un illecito disciplinare proprio, che può essere commesso esclusivamente dal componente togato del Csm e che sancisce una evidente asimmetria con i consiglieri laici, i quali, pur essendo destinatari dell’obbligo di segnalazione, al pari dei togati, sono però immuni dalla giurisdizione disciplinare dei magistrati.

Forse il legislatore ha perso una buona occasione per varare un codice deontologico dei consiglieri superiori, prevedendo illeciti disciplinari “propri” di tutti componenti del Csm e il loro assoggettamento al relativo giudizio disciplinare da parte di un organismo ad hoc

 

4. Con la riforma in commento è stato introdotto l’istituto della riabilitazione dalle condanne disciplinari “lievi”, che hanno comportato l’irrogazione della sanzione dell’ammonimento o della censura (art. 11, comma 1, lett. f).

Al capo II, è stato infatti inserito l’art. 25-bis, che detta le condizioni per la riabilitazione e che recita:

«1. La condanna disciplinare che ha comportato l’applicazione della sanzione disciplinare dell’ammonimento perde ogni effetto dopo che siano trascorsi tre anni dalla data in cui la sentenza disciplinare di condanna è divenuta irrevocabile, a condizione che il magistrato consegua una successiva valutazione di professionalità positiva.

2. La condanna disciplinare che ha comportato l’applicazione della sanzione disciplinare della censura perde ogni effetto dopo che siano trascorsi cinque anni dalla data in cui la sentenza disciplinare di condanna è divenuta irrevocabile, a condizione che il magistrato consegua una successiva valutazione di professionalità positiva.

3. Per i magistrati che hanno conseguito la settima valutazione di professionalità, la riabilitazione di cui ai commi 1 e 2 è subordinata, oltre che al decorso del termine di cui ai medesimi commi 1 e 2, alla positiva valutazione del loro successivo percorso professionale nelle forme e nei modi stabiliti dal Consiglio superiore della magistratura.

4. Il Consiglio superiore della magistratura stabilisce le forme e i modi per l’accertamento delle condizioni previste per la riabilitazione di cui al presente articolo, comunque assicurando che vi si provveda in occasione del primo procedimento in cui ciò sia rilevante».

Come risulta dalla piana lettura della norma, la riabilitazione è sottoposta alla ricorrenza di due condizioni: il decorso di un certo periodo di tempo dal passaggio in giudicato della sentenza e il conseguimento di una successiva valutazione di professionalità positiva. 

Pertanto, dopo il passaggio in giudicato della sentenza di condanna occorre attendere tre o cinque anni (a seconda che la sanzione inflitta sia stata l’ammonimento o la censura), al compimento dei quali il magistrato deve avere conseguito una valutazione di professionalità positiva. Ricorrendo queste due condizioni, la riabilitazione consegue ope legis senza necessità che intervenga un provvedimento dichiarativo o ricognitivo da parte del giudice, ovvero della sezione disciplinare.

Opportunamente, la norma in questione si occupa della riabilitazione anche dei magistrati a fine carriera, ossia di quelli che hanno già conseguito l’ultima valutazione di professionalità. Per evitare che a costoro sia – di fatto – preclusa la riabilitazione, in mancanza di una successiva valutazione di professionalità, il legislatore ha demandato al Consiglio superiore della magistratura di prevedere forme e modi in grado di surrogare tale mancanza, condizionandola comunque a una positiva valutazione del loro successivo percorso professionale.

Occorre, dunque, attendere la normativa di dettaglio che sarà dettata dal Consiglio. Si può, nondimeno, ipotizzare che per i magistrati che esercitano funzioni direttive o semi-direttive la positiva valutazione possa essere rappresentata dal provvedimento di conferma allo scadere del quadriennio, sempre che ciò intervenga dopo lo spirare del termine di tre o cinque anni dal passaggio in giudicato della sentenza di condanna.

Invece, per i magistrati privi di tali funzioni, dovrà essere il Csm a procedimentalizzare la riabilitazione, se del caso prevedendo un procedimento ad hoc finalizzato a operare una positiva valutazione del loro percorso professionale «comunque assicurando che vi si provveda in occasione del primo procedimento in cui ciò sia rilevante» (ad esempio, in occasione di una domanda di partecipazione a un bando di concorso o di trattenimento in servizio). 

 

 

1. Vds. L. Salvato, Profili della presunzione di innocenza e della modalità di comunicazione nel d.lgs. n. 188 del 2021, in Giustizia insieme, 1° aprile 2022 (www.giustiziainsieme.it/en/giustizia-comunicazione/2270-profili-della-presunzione-di-innocenza-e-della-modalita-della-comunicazione-nel-d-lgs-n-188-del-2021). Secondo questo Autore, anche prima della modifica normativa le violazioni dei commi 1, 2, 2-bis e 3 dell’art. 5 d.lgs n. 106/2006 erano – già – passibili di integrare varie fattispecie di illecito disciplinare: «la violazione della presunzione di innocenza nella comunicazione, nella declinazione datane dal decreto legislativo, può integrare non poche fattispecie. Esemplificativamente: può determinare un ingiusto danno, rilevante ai sensi dell’art. 2 lettera a); può costituire condotta gravemente scorretta, ex art. 2 lettera d); può permettere un’interpretazione più rigorosa dell’ingiustificata interferenza (art. 2 lettera e); può dare luogo ad una grave violazione di legge (art. 2 lettera g); può integrare gli illeciti di cui all’articolo 2 lettere l) e n)».