Magistratura democratica

La giustizia e la performance

di Ottavia Civitelli

La credibilità e l’efficacia della giurisdizione e la professionalità del magistrato si misurano e sono riconosciuti dalla collettività in base alla capacità di rendere giustizia. Ciò ha poco a che vedere con una performance individuale del magistrato, con parametri di rendimento e di risultato che assumono significato soprattutto nell’ottica della selezione individuale e di progressioni di “carriera”. Tra criticità e opportunità della riforma Cartabia, prospettive sulla valutazione della professionalità dei magistrati.

1. Introduzione / 2. La riforma e la protesta / 3. Le valutazioni di professionalità dei magistrati nella legge delega 17 giugno 2022, n. 71 / 4. La professionalità del magistrato: una questione di metodo / 5. Le criticità della riforma / 6. Oltre le critiche / 6.1. La storia professionale del magistrato: una valutazione concreta, calata in un contesto concreto / 6.2. Ampliare le fonti di conoscenza: potenzialità e limiti di una scelta controversa

 

1. Introduzione

Parliamo di ordinamento giudiziario dopo l’entrata in vigore della legge delega 17 giugno 2022, n. 71, in questa inquieta stagione di crisi della democrazia, della politica e della rappresentanza e, parallelamente, dell’associazionismo giudiziario e del governo autonomo della magistratura, con la pandemia in agguato, la guerra alle porte e la crisi energetica ad aggravare ulteriormente difficoltà e diseguaglianze.

Ne parliamo nella consapevolezza che ogni crisi è crogiuolo di difficoltà e opportunità, in ogni caso foriera di cambiamento, alla ricerca di discernimento e prospettiva, con lo sguardo rivolto al percorso che porterà all’adozione dei decreti legislativi, oltre che della normazione consiliare, interrogandoci sulle strade migliori da percorrere per la costruzione di una giustizia moderna ed efficace.

 

2. La riforma e la protesta

Condizionata dalla tensione del dibattito politico, dalle esigenze connesse al PNRR e dall’urgenza di dare un segnale dopo lo scandalo che ha coinvolto la magistratura, l’ultima riforma dell’ordinamento giudiziario è stata il risultato di significative mediazioni.

Il percorso di approvazione ha visto la proclamazione di uno sciopero dei magistrati, che si è svolto il 16 maggio 2022 con una percentuale di adesione del 48%, in cui ha fortemente pesato l’iniziativa veicolata da alcuni documenti non riconducibili a gruppi associativi[1], con una partecipazione significativa di magistrati giovani che li hanno redatti e sottoscritti. Una mobilitazione di cui l’Anm ha preso atto arrivando, attraverso un’assemblea generale straordinaria, all’indizione di una giornata di astensione[2].

La proclamazione di questo sciopero è stata a sua volta controversa, ritenuta da alcuni inopportuna o comunque non utile, pur a fronte delle criticità del progetto di riforma.

Non in grado, anche per i tempi e modi che ne hanno scandito la deliberazione e l’organizzazione, di coinvolgere e convincere delle motivazioni l’opinione pubblica e gli esponenti della cultura giuridica, ma anche una parte significativa degli stessi magistrati[3].

Il risultato è stato quello di una percentuale di adesione inferiore rispetto ad altre astensioni del passato, non priva di significato, ma rappresentativa di una magistratura divisa sulla lettura della riforma e, a monte, sul ruolo e le responsabilità dell’associazionismo giudiziario rispetto alla difficile congiuntura e sull’individuazione delle strade da percorrere per riconquistare la fiducia dei cittadini dopo gli scandali sulle nomine.

 

3. Le valutazioni di professionalità dei magistrati nella legge delega 17 giugno 2022, n. 71

Tra le previsioni dell’intervento di riforma che più hanno contribuito alla mobilitazione dei magistrati spiccano le modifiche al sistema delle valutazioni di professionalità.

Il riferimento è all’art. 3, capo I della legge 17 giugno 2022, n. 71, rubricato «Modifiche del sistema di funzionamento del consiglio giudiziario e delle valutazioni di professionalità», il quale si innesta sulla disciplina già esistente, prevista dall’art. 11 del decreto legislativo 5 aprile 2006, n. 160, che resta vigente.

È necessario sottolineare che, con la riforma, l’impianto della valutazione di professionalità del magistrato resta di base invariato.

Infatti, la verifica periodica della professionalità resta ancorata alla valutazione quadriennale. Altrettanto invariati restano i criteri della valutazione di professionalità (capacità, laboriosità, diligenza e impegno del magistrato). La disciplina di base, su cui incidono aggiunte e modifiche, resta quella del citato art. 11 anche per quanto riguarda le fonti di conoscenza, il procedimento e gli esiti della valutazione.

Ciò posto, si riportano di seguito le innovazioni più significative e controverse, indicate come principi e criteri direttivi da seguire nell’adozione dei decreti delegati (art. 3, comma 1).

L’art. 3, comma 1, lett. a fa riferimento alla facoltà per i componenti laici, avvocati e professori universitari, di partecipare alle discussioni e di assistere alle deliberazioni dei consigli giudiziari in materia di valutazione di professionalità.

Inoltre, la norma attribuisce alla componente degli avvocati la «facoltà di esprimere un voto unitario sulla base del contenuto delle segnalazioni di fatti specifici, positivi o negativi, incidenti sulla professionalità del magistrato in valutazione, nel caso in cui il consiglio dell’ordine degli avvocati abbia effettuato le predette segnalazioni sul magistrato in valutazione», con l’ulteriore indicazione di «prevedere che, nel caso in cui la componente degli avvocati intenda discostarsi dalla predetta segnalazione, debba richiedere una nuova determinazione del consiglio dell’ordine degli avvocati».

L’art. 3, comma 1, lett. c stabilisce poi che, nell’ambito della valutazione di professionalità, «il giudizio positivo sia articolato, secondo criteri predeterminati, utilizzando i parametri di “discreto”, “buono” o “ottimo”, con riferimento alle capacità del magistrato di organizzare il proprio lavoro».

Sono poi significative le modifiche introdotte dalla legge delega quanto alla portata dei due criteri della laboriosità e della capacità.

Si tratta dell’art. 3, comma 1, lett. d, il quale prevede che, nell’apprezzamento del parametro della laboriosità, sia espressamente valutato il rispetto da parte del magistrato di quanto indicato nei programmi annuali di gestione; mentre l’art. 3, comma 1, lett. g prevede che, nell’apprezzamento del parametro della capacità, «il consiglio giudiziario acquisisca le informazioni necessarie ad accertare la sussistenza di gravi anomalie in relazione all’esito degli affari nelle fasi o nei gradi successivi del procedimento, nonché, in ogni caso, che acquisisca, a campione, i provvedimenti relativi all’esito degli affari trattati dal magistrato in valutazione nelle fasi o nei gradi successivi del procedimento e del giudizio».

Proseguendo, l’art. 3, comma 1, lett. h istituisce, a n. 1, quello che è assurto agli onori delle cronache come il “fascicolo della performance”.

Un fascicolo per la valutazione del magistrato, rilevante sia in sede di valutazione di professionalità che e ai fini delle valutazioni delle attitudini per il conferimento degli incarichi direttivi e semi-direttivi, diverso da quello personale, con la cui disciplina dovrà essere previsto un raccordo.

Secondo quanto contemplato dalla delega, il fascicolo dovrà contenere, «per ogni anno di attività, i dati statistici e la documentazione necessari per valutare il complesso dell’attività svolta, compresa quella cautelare, sotto il profilo sia quantitativo che qualitativo, la tempestività nell’adozione dei provvedimenti, la sussistenza di caratteri di grave anomalia in relazione all’esito degli atti e dei provvedimenti nelle fasi o nei gradi successivi del procedimento e del giudizio, nonché ogni altro elemento richiesto ai fini della valutazione».

Il quadro non può prescindere dal richiamo all’art. 11, capo II della legge delega, che introduce alcune significative modifiche in materia di illeciti disciplinari.

In questa sede è necessario soffermarsi su due novità in particolare.

La prima riguarda la lett. n dell’art. 2, comma 1, d.lgs 23 febbraio 2006, n. 109, a cui è aggiunta l’ipotesi della reiterata o grave inosservanza delle direttive, con una dizione che, pur indeterminata, rimanda alle direttive dei capi degli uffici.

La seconda novità è data dall’introduzione, all’art. 2, comma 1 del d.lgs n. 109, della lettera q-bis, che prevede un’ulteriore fattispecie di illecito disciplinare nell’esercizio delle funzioni, consistente nella «omessa collaborazione del magistrato nell’attuazione delle misure di cui all’articolo 37, comma 5-bis, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, nonché la reiterazione, all’esito dell’adozione di tali misure, delle condotte che le hanno imposte, se attribuibili al magistrato». Si tratta di illecito disciplinare collegato alla mancata collaborazione alle iniziative predisposte dal capo dell’ufficio per l’eliminazione di gravi e reiterati ritardi, con specifico riferimento ai piani mirati di smaltimento a tal fine predisposti. Il comma 5-bis dell’art. 37 decreto legge 6 luglio 2011, n. 98 è stato a sua volta introdotto dall’art. 14 della legge in esame.

L’art 14 appena citato, tra le modifiche all’art. 37 dl 6 luglio 2011, n. 98, ha inciso anche sul comma 1, lett. b, stabilendo che, nella redazione del programma di gestione, il capo dell’ufficio dovrà determinare gli obiettivi di rendimento dell’ufficio «con l’indicazione, per ciascuna sezione o, in mancanza, per ciascun magistrato, dei risultati attesi sulla base dell’accertamento dei dati relativi al quadriennio precedente e di quanto indicato nel programma di cui all’articolo 4 del decreto legislativo 25 luglio 2006, n. 240, e, comunque, nei limiti dei carichi esigibili di lavoro individuati dai competenti organi di autogoverno». 

 

4. La professionalità del magistrato: una questione di metodo

La professionalità del magistrato, predicato dell’indipendenza, è una garanzia per le persone, la società e la democrazia. 

Un magistrato professionalmente attrezzato non solo deve possedere gli strumenti tecnici, ma deve essere in grado di applicarli in una società complessa e in continua evoluzione come quella contemporanea, democratica, pluralista, che richiede un costante contemperamento di interessi contrapposti, in un contesto di domande di tutela e di problematiche sempre nuove.

Lo impone la Costituzione e, oggi, anche la normativa sovranazionale, in un sistema articolato di fonti del diritto che innova il rapporto tra il giudice e la legge, nonché le dinamiche e la difficoltà dell’attività interpretativa.

I giudici sono soggetti soltanto alla legge, recita l’art. 101 della Costituzione, ma nella società contemporanea la “fedeltà alla legge” è una “fedeltà pluralistica[4], che vede il magistrato non come mero applicatore, ma come operatore in grado di collocare la legge in un contesto più ampio e di trarne le conseguenze applicative.

Tanto si è realizzato a partire dall’introduzione, per ciascun giudice, del potere-dovere di sollevare questioni di legittimità costituzionale e deriva dal dovere, in capo a ogni magistrato, di interpretazione costituzionalmente orientata e di interpretazione conforme al diritto UE.

Si tratta di un assetto di straordinaria complessità, in cui la giurisdizione, potestà diffusa, è chiamata a un delicato contemperamento tra gli interessi in gioco, la giustizia del caso concreto e la prevedibilità, la certezza del diritto, la coerenza dell’ordinamento, con un ruolo di ricomposizione sempre più difficile anche per le corti di legittimità, nella dialettica con le corti costituzionali e le corti sovranazionali.

Se la giurisdizione deve essere credibile, legittimata e indipendente da condizionamenti esterni e interni, ma anche da rischi di scorciatoie, casualità e soggettivismo, l’attrezzatura professionale di ogni magistrato, giudice e pubblico ministero, che compone l’assetto diffuso della giurisdizione, deve essere adeguata a fronteggiare la complessità della domanda di giustizia.

Allora, l’investimento sulla professionalità dei magistrati è un investimento sulla crescita tecnica e culturale dell’intera categoria e non un tema di selezione dei migliori, prospettiva in verità priva di rilievo dal punto di vista dei destinatari del servizio giustizia.

La credibilità e l’efficacia della giurisdizione e la professionalità del magistrato si misurano e sono riconosciuti dalla collettività in base alla capacità di rendere giustizia, che è fatta di modi, contenuti e tempi della risposta giurisdizionale.

Può sembrare impalpabile, ma in verità è chiaro quando manca, perché non c’è nulla di più tangibile di una risposta giurisdizionale ingiusta e scollegata dalla realtà, anche se magari resa nel perfetto rispetto delle tempistiche, in modo organizzato e in quantità conforme ai programmi di gestione.

Certamente, la capacità di rendere giustizia ha poco a che vedere con una performance individuale del magistrato, con parametri di rendimento e di risultato, che assumono significato soprattutto nell’ottica della selezione individuale e di progressioni di “carriera”.

 

5. Le criticità della riforma

Se la giustizia non è una performance, l’impianto di fondo dell’intervento riformatore va contestato.

Le modifiche, nel complesso, ancorano la professionalità del magistrato e la sua verifica agli aspetti quantitativi del lavoro giudiziario, con accentuazione della possibilità per i dirigenti di pretenderli e il disciplinare sullo sfondo.

Questo discende, in modo eloquente, dal riferimento al rispetto dei programmi di gestione nell’apprezzamento della laboriosità; dalla prevista determinazione, nell’ambito dei programmi, degli obiettivi di rendimento dell’ufficio con l’indicazione dei risultati attesi; dall’illecito disciplinare connesso al mancato rispetto delle direttive.

Pur valorizzando l’importanza del dovere di collaborazione del magistrato, appare pesante il rischio dell’adozione di strumenti di condizionamento. 

Il senso delle innovazioni è evidente, soprattutto se contestualizzato rispetto agli obiettivi del PNRR, condivisibili in linea di principio, con cui l’Italia si è impegnata ad una forte riduzione dell’arretrato e dei tempi di durata dei processi. 

Nel perseguimento di questi obiettivi, la riforma, attraverso la valutazione della professionalità, accentua la richiesta di produttività dei magistrati[5] e affida il buon esito dell’operazione ai capi degli uffici, le cui prerogative sono rese più ampie e penetranti anche attraverso le valutazioni relative alla capacità organizzativa, affidate in prima battuta proprio ai capi degli uffici che redigono il rapporto informativo.

In questo modo è in sostanza reintrodotto apertamente un principio di selezione, con il connesso problema di chiarire cosa debba intendersi per “capacità organizzative” e se il concetto non sia destinato fatalmente a tradursi, nella prassi, soltanto nella valutazione della maggiore o minore capacità di definizione dei procedimenti, senza alcuna considerazione qualitativa del lavoro giudiziario.

In ogni caso, se la norma sarà realmente applicata, rappresenterà un forte elemento di condizionamento interno per il magistrato e questo è un aspetto che merita di essere chiarito anche all’opinione pubblica.

La collettività deve essere consapevole dell’introduzione di meccanismi di controllo interni alla giurisdizione che rendono chi l’amministra sensibile ai condizionamenti di chi formula le valutazioni, perché di fatto ne è incisa la condizione professionale.

Proprio il rifiuto di questo tipo di condizionamenti, incompatibili con il disegno costituzionale di un giudice soggetto soltanto alla legge, ha portato alla battaglia per l’abbattimento della carriera e all’adozione di meccanismi di valutazione della professionalità non selettivi a cavallo tra gli anni sessanta e settanta (con le leggi cd. “Breganze e Breganzone”). Si era infatti ritenuto che i meccanismi selettivi non fossero idonei a misurare la professionalità “concreta” dei magistrati, mentre erano certamente uno strumento per conformare il comportamento del magistrato, che diventa soggetto alla valutazione prima che alla legge.

A fianco alla potenzialità condizionante dei meccanismi selettivi, la legge delega inserisce un ulteriore elemento di criticità costituito, nell’apprezzamento del parametro della capacità, dall’acquisizione a campione, da parte dei consigli giudiziari, dei provvedimenti relativi all’esito degli affari trattati dal magistrato nelle fasi o nei gradi successivi.

La previsione, infatti, apre la strada a un vaglio sulla conformità del lavoro del magistrato, nel suo sviluppo tra le diverse fasi e i diversi gradi, che è fuori dal nostro sistema poiché questo garantisce, attraverso i rimedi processuali, fisiologici margini di variabilità, di evoluzione e anche di verifica del contenuto dei provvedimenti. Questo è il modo in cui funziona e si forma la giurisprudenza.

Proprio in base a questa stessa motivazione è, invece, condivisibile il rilievo delle gravi anomalie in relazione all’esito degli affari nelle fasi o nei gradi successivi del procedimento.

È infatti nell’interesse di tutti che ciò che è anomalo e grave emerga ed assuma un rilievo anche su un piano ordinamentale come quello della valutazione di professionalità, anche se in un’ottica non punitiva, ma di recupero. Inoltre, per quanto si tratti di un concetto suscettibile di specificazione, il senso della previsione è chiaro nell’identificare situazioni patologiche.

Peraltro, la disciplina del parametro della capacità già prevedeva un riferimento all’esito degli affari nelle successive fasi e nei gradi del procedimento e del giudizio, inserito nell’ambito di una valutazione complessiva. La circolare del Consiglio superiore n. 20691 del 2007 aveva poi incluso, tra i parametri per valutare la capacità, l’esito – nelle successive fasi e nei gradi del procedimento – dei provvedimenti giudiziari emessi o richiesti, da valutarsi ove presentino caratteri di «significativa anomalia». Quindi la dizione, impiegata dalla delega, di «gravi anomalie» è in realtà più restrittiva rispetto al quadro già in vigore[6].

Molto è stato detto e scritto sui pericoli di conformismo giudiziario posti dalla riforma, ma la tenuta di un provvedimento nei gradi successivi è oggettivamente un elemento che ha un valore, perché il magistrato non è una monade e fa parte di un sistema complesso, in cui si misura con le interpretazioni esistenti, anche eventualmente per discostarsene, se è giusto, con coraggio e con competenza.

Esiste, però, una differenza tra un dissenso consapevole e ben argomentato e un provvedimento scadente, frettoloso o irresponsabile, così come esiste una differenza tra l’indiscutibile necessità di portare avanti indagini e processi penali difficili, controversi e dagli esiti non scontati e plurime, plateali smentite dibattimentali o in appello di quelli che si rivelano, alla fine, soltanto processi che hanno un esito soprattutto mediatico, con irrimediabili danni alla reputazione e alla vita delle persone coinvolte.

La riforma sbaglia nel rendere quello del riscontro “interno” del provvedimento del magistrato, anche quando in ipotesi gravemente anomalo, un problema di performance, di rendimento, da valutare insieme alle statistiche e alla tempestività nell’adozione dei provvedimenti, con l’acquisizione di provvedimenti a campione.

Il problema è quello della coerenza e tenuta dell’attività giudiziaria nel suo complesso, della capacità di offrire una risposta di giustizia credibile da parte del sistema. Infatti, la giustizia non può dare risposte schizofreniche e incomprensibili, che nulla hanno a che vedere con le vicende dello sviluppo dello ius in fieri, della giurisprudenza, con le sue evoluzioni che vanno di pari passo a quelle della società e ne seguono le frontiere, con la mutevolezza fisiologica degli orientamenti e la riforma dei provvedimenti nei gradi successivi.

I rischio che il “fascicolo della performance” possa concretamente condizionare l’attività dei magistrati non è eliminato dalla considerazione che il fascicolo e il procedimento di valutazione restano nell’ambito dell’autogoverno della magistratura, poiché anche nell’ambito dei meccanismi del governo autonomo, anche sul piano interno, un condizionamento resta tale ed è incompatibile con l’assetto costituzionale della giurisdizione, che la vede soggetta soltanto alla legge.

Certo, in sede di predisposizione dei decreti legislativi e della normazione secondaria del Consiglio, molto si dovrà fare per evitare di adottare un sistema che possa portare a condizionamenti dell’attività giudiziaria, ma ciò non incide sul giudizio negativo su questo aspetto della riforma: il dato normativo dovrebbe garantire pienamente l’indipendenza della magistratura e non indirizzare l’assetto ordinamentale verso una caratterizzazione in senso “amministrativo”, con una tipologia di controlli interni che configura un pericoloso ritorno al passato.

Questo, in ultima istanza, non è un problema dei magistrati, ma della collettività, in una straordinaria eterogenesi dei fini in cui i giusti e legittimi meccanismi di programmazione, verifica e trasparenza dell’attività giudiziaria, lungi dal contribuire realmente a una giustizia efficace, diventano fattori autoreferenziali di distacco dalla realtà.

 

6. Oltre le critiche

È necessario però spingersi oltre le critiche, valorizzando le opportunità della riforma e della sua attuazione.

In tema di professionalità dei magistrati, il problema resta invariato ed è quello dell’efficacia della valutazione, di un vaglio poco pregnante, non in grado di rilevare effettive e gravi cadute di professionalità.

Le proposte della riforma in tema di valutazioni di professionalità implementano i controlli ordinamentali sull’attività del magistrato, senza che da ciò derivi necessariamente un reale apprezzamento della professionalità.

Non vi è riforma in grado, di per sé, di impedire che il vaglio della professionalità del magistrato si traduca in un’operazione burocratica, sostanzialmente inutilizzabile per verificare l’affidabilità del lavoro giudiziario, nonché l’effettiva idoneità del singolo a rivestire determinati incarichi e funzioni.

Si tratta di materia nella quale la normazione secondaria del Consiglio e le prassi assumono un’importanza essenziale, per cui è necessario che siano in primo luogo le concrete valutazioni a fare un salto di qualità in termini di rapporto con la realtà.

 

6.1. La storia professionale del magistrato: una valutazione concreta, calata in un contesto concreto

Il rilevamento periodico della professionalità assume un reale significato solo se idoneo a descrivere la personalità professionale del magistrato. 

In un’ottica di autentica trasparenza, la storia professionale del magistrato deve essere leggibile e riconoscibile. Se le si vuole attribuire una funzione effettiva di verifica, la valutazione periodica di professionalità deve essere in grado di dare atto in concreto, e in modo fedele, della realtà del lavoro svolto dal magistrato nelle condizioni di lavoro e nel contesto territoriale in cui opera.

Una valutazione concreta, dunque, calata in un contesto concreto.

In questo modo la professionalità del magistrato, insieme alla sua valutazione, diventa strettamente connessa alle sfide, alle difficoltà che ha dovuto affrontare, alla capacità e all’impegno con cui si è adoperato per fronteggiarle.

Che abbia avuto un’elevata produttività (e in che rapporto con la qualità del lavoro); incentivato la conciliazione degli affari; messo in campo soluzioni organizzative prima non sperimentate, in assoluto o in quell’ufficio, e con quali esiti; valorizzato l’uso degli strumenti informatici per la migliore trattazione degli affari; contribuito a portare avanti buone prassi e al loro radicamento nell’ufficio; impiegato utilmente le risorse rappresentate dagli addetti all’ufficio per il processo, se solo per aumentare la produttività o anche per articolare in modo più efficace lo svolgimento del lavoro giudiziario, il catalogo delle iniziative in cui si traduce la professionalità del magistrato è variegato e articolato – soprattutto, sempre aperto.

Quando si parla di professionalità dei magistrati, soltanto l’obiettivo è tassativo: essere all’altezza dei tempi e delle esigenze di tutela che promanano dalla società, offrire una giustizia che arrivi alle persone, comprensibile, capace di dare fiducia e di suscitare e preservare la fiducia nelle istituzioni.

In questo senso, occorre essere responsabili della propria professionalità e avere la disponibilità e l’apertura ad essere valutati in modo effettivo e nel merito, senza paura.

D’altronde, cosa c’è da nascondere?

Accettare una valutazione concreta, calata in un contesto concreto, significa contribuire finalmente a far uscire dallo sfondo la realtà in cui la giustizia viene amministrata, i problemi dei territori, la situazione degli uffici giudiziari e le condizioni di lavoro dei magistrati, le carenze materiali e organizzative, i nodi strutturali che incidono in modo determinante sulle problematiche di funzionamento della giustizia.

Cosa significa “professionalità” quando ci si confronta con situazioni di grave illegalità diffusa sul territorio o con importanti interessi economici, oppure quando si lavora in condizioni di gravissima e strutturale carenza di organico, in uffici con un elevato turn-over?

Come si valuta la professionalità di un magistrato in prima nomina a cui sono affidati migliaia di processi o quella di un giudice chiamato, nei primissimi anni del suo percorso professionale, a trattare i più delicati processi di criminalità organizzata? Come si valutano, in contesti simili, i ritardi?

Invece di consentire una risposta a queste domande, la scelta della riforma è quella di valutare la performance del magistrato, con una implicita pressante richiesta di risultati.

Questa è una differenza di contesto non di poco conto, soprattutto per chi è più giovane e all’inizio del suo percorso professionale, laddove non sono messe in campo misure ordinamentali, di risorse e di assetto normativo, spesso anche organizzative, davvero in grado di incidere.

Impegnarsi per offrire un servizio adeguato anche in condizioni disagiate, con tutti gli sforzi e gli strumenti a disposizione, o comunque attuabili con intraprendenza, fa parte del lavoro dei magistrati. Di certo le difficoltà del lavoro e dei contesti non rappresentano un salvacondotto in bianco.

È necessario, però, che date le condizioni venga reso chiaro quanto vale la professionalità. Prima ancora, cosa vale. 

Sul piatto della bilancia, quanto valgono i numeri rispetto alle prassi? Nell’epoca del PNRR, chi valuta le scorciatoie e come? Se e quando un’elevata produttività è indice di un’inadeguata e insufficiente trattazione degli affari? Quanto vale investire sull’organizzazione del ruolo per migliorare le condizioni del servizio e abbattere le pendenze in una prospettiva di lungo periodo, in situazioni di grave carico, invece di coltivare soltanto obiettivi di mera produttività? Quanto vale, in un processo civile o del lavoro, la redazione del verbale di udienza da parte del giudice e la conduzione dell’istruttoria, il non ricorrere alle prassi della redazione dei verbali da parte degli avvocati e dell’escussione dei testi direttamente da parte delle difese “nel contraddittorio”, anche in contesti disagiati con grandi carichi di lavoro, e quali misure organizzative possono renderlo sostenibile? Oppure, esistono uffici in cui le condizioni materiali semplicemente non lo rendono possibile?

Nella risposta a questi interrogativi e a molti altri di questo tenore c’è non solo la volontà o meno di rendere credibili ed efficaci le valutazioni di professionalità dei magistrati, ma anche l’immagine della giustizia che vogliamo costruire, i modelli che sono più virtuosi e che scegliamo di far progredire.

Una valutazione della professionalità non burocratica, in grado di descrivere la storia professionale del magistrato e le sue esperienze, non finalizzata a creare pagelle e graduatorie tra i magistrati con l’uso di aggettivi[7], ma con lo scopo di attestare, sulla base di elementi valutativi calati nella realtà, nella intrinseca diversità dei percorsi professionali, che i magistrati mantengono un livello di professionalità adeguato alla prosecuzione delle funzioni, tenendo conto di quello che hanno dovuto affrontare e di come lo hanno affrontato e dando atto delle condizioni in cui è maturato un eventuale giudizio non positivo o negativo e di quello che si è fatto per impedirlo e per supportare il magistrato in difficoltà. 

Nella prospettiva descritta, va sdrammatizzato il giudizio differenziato sulle capacità organizzative previsto dalla riforma, che peraltro rappresentano solo un aspetto, sebbene fondamentale, dell’attività del magistrato, che va visto in un quadro di insieme delle varie componenti della professionalità.

È condivisibile che la portata delle capacità organizzative emerga dalla valutazione della professionalità, evidenziando ciò che viene fatto, perché fa parte della storia professionale del magistrato e non per creare graduatorie.

I temi dell’organizzazione del lavoro giudiziario sono una parte significativa della professionalità ed è importante che i magistrati coltivino questo aspetto, non collegandolo al mero smaltimento degli affari, e che investano in questo senso, perché ne può derivare un giovamento per il servizio e anche per le condizioni di lavoro.

Va considerato che, ad oggi, i magistrati ricevono una formazione episodica sulle questioni organizzative. Solo di recente la Scuola della magistratura sta valorizzando la formazione in materia organizzativa, che va incrementata, con un’attenzione particolare per i magistrati in tirocinio, nonché resa concreta, sia nel trasmettere le buone prassi, che per contribuire a comprendere come possono essere attuate nei singoli contesti, in particolare se si tratta di uffici disagiati.

In positivo, la riforma è comunque l’occasione per coltivare una cultura condivisa dell’organizzazione, intesa come complesso delle scelte di “assetto” nella trattazione degli affari che sono maggiormente in grado di garantire non solo una pronta definizione, ma prima ancora il migliore e più adeguato approfondimento.

La presenza di dirigenti attrezzati sul piano della cultura dell’organizzazione è in grado di fare la differenza, anche se l’organizzazione del lavoro è in ogni caso anche patrimonio del singolo magistrato, in quanto connessa inscindibilmente al merito del lavoro giudiziario.

Sotto questo punto di vista, anche per ridimensionare il tema delle mere pretese di risultato quantitativo, è importante che il Consiglio superiore e i consigli giudiziari responsabilizzino i dirigenti verso una gestione condivisa, che accolga e promuova buone prassi e contribuisca a costruire e consolidare una struttura negli uffici.

 

6.2. Ampliare le fonti di conoscenza: potenzialità e limiti di una scelta controversa 

Nella prospettiva delineata, non si può rifiutare il punto di vista del foro, interlocutore quotidiano del magistrato nella sua attività.

Il tema del coinvolgimento del foro nelle valutazioni di professionalità è terreno di una contrapposizione all’interno della magistratura, tra chi vi vede tout court una compromissione dell’indipendenza e chi, con altrettanta nettezza, vi vede un’importante risposta al rischio di autoreferenzialità della valutazione, in quanto è un modo di ampliare le fonti di conoscenza.

La riforma prevede l’attribuzione di un voto in materia di valutazioni di professionalità alla componente degli avvocati, in modo estremamente circoscritto.

Infatti, presuppone che il consiglio dell’ordine abbia effettuato segnalazioni di fatti specifici, positivi o negativi, incidenti sulla professionalità del magistrato in valutazione (facoltà di segnalazione già esistente) e vincola la componente degli avvocati al tenore della segnalazione, prevedendo che, ove intenda discostarsi, debba richiedere una nuova determinazione al consiglio dell’ordine.

Non si tratta, quindi, di un voto espresso in maniera aperta e svincolata dai singoli avvocati membri laici e, inoltre, è un voto espresso su fatti specifici segnalati dal consiglio dell’ordine, che si colloca nell’ampio contesto della valutazione di professionalità, che resta saldamente in capo agli organi dell’autogoverno.

Un voto espresso sulla segnalazione di fatti specifici rende più effettiva la valutazione, senza essere realisticamente in grado di compromettere l’indipendenza del magistrato, anche in contesti di rapporti tesi con il foro.

Peraltro, c’è da considerare che, se i consigli dell’ordine decidessero di utilizzare la loro facoltà di segnalazione di fatti specifici, dovrebbero farlo in maniera motivata ed emergerebbe l’eventuale rilievo scorretto o strumentale nei confronti del magistrato destinatario di una segnalazione negativa, ad esempio, per le sue prassi rigorose e volte a scardinare situazioni di opacità.

Inoltre, un’apertura all’interlocuzione con le rappresentanze del foro (anche con la possibilità prevista per i membri laici di partecipare alle discussioni e di assistere alle deliberazioni in materia di valutazioni di professionalità), offre la possibilità di far comprendere agli avvocati le difficoltà dell’esercizio del lavoro giudiziario, spesso non realmente conosciute, nonché di responsabilizzarli rispetto al funzionamento della giustizia.

Questa previsione non rappresenta quindi un’irrimediabile compromissione dell’indipendenza, ma difficilmente può essere di per sé la soluzione di tutti i problemi che si pongono in materia di valutazioni di professionalità.

Il punto di vista esterno è fondamentale, ma non ci esime dai nostri compiti. Spetta ai magistrati e al circuito dell’autogoverno dare corpo ed effettività alle valutazioni, con la relativa assunzione di responsabilità, che è anche quella di indicare ai magistrati più giovani in quale direzione costruire la propria professionalità, valorizzando il contributo di idee e proposte di cui essi stessi sono portatori.

 

 

1. Il riferimento è al documento della Sottosezione Anm di Busto Arsizio dell’11 marzo 2022 e all’appello “FACCIAMO PRESTO!”.

2. «Non scioperiamo per protestare ma per essere ascoltati», mozione approvata dall’Assemblea generale straordinaria dell’Anm, 30 aprile 2022 (https://lamagistratura.it/primo-piano/non-scioperiamo-per-protestare-ma-per-essere-ascoltati). 

3. Per una disamina delle ragioni critiche dello sciopero del 16 maggio 2022, vds. E. Maccora, Le domande di Questione Giustizia a Ezia Maccora, presidente aggiunta sezione GIP-GUP del Tribunale di Milano, in Questione giustizia online, 1° giugno 2022, www.questionegiustizia.it/articolo/le-domande-di-questione-giustizia-a-ezia-maccora.

4. G. Borrè, La professionalità dei magistrati [1986], in L. Pepino (a cura di), L’eresia di Magistratura democratica. Viaggio negli scritti di Giuseppe Borrè, Quaderni di Questione giustizia, Franco Angeli, Milano, 2001.

5. Nonostante la laboriosità e la capacità di definizione dei procedimenti da parte dei magistrati italiani siano attestate anche da fonti internazionali, considerando che in Italia il numero dei magistrati in relazione agli abitanti è inferiore alla media dei Paesi del Consiglio d’Europa (in Italia ci sono 11 giudici ogni 100.000 abitanti, a fronte di una media di 22 giudici ogni 100.000 abitanti). I dati del Consiglio d’Europa sono accessibili al sito della CEPEJ: www.coe.int/en/web/cepej.

6. Vds. E. Maccora, Le domande, op. cit.

7. Vds. Le domande di Questione Giustizia a Claudio Castelli, presidente della Corte d’appello di Brescia, e Ilio Mannucci Pacini, presidente di sezione del Tribunale di Milano, in Questione giustizia online, 26 maggio 2022, www.questionegiustizia.it/articolo/le-domande-di-questione-giustizia; I. Mannucci Pacini, Basta aggettivi!, ivi, 20 marzo 2019, www.questionegiustizia.it/articolo/basta-aggettivi-_20-03-2019.php