Magistratura democratica

La riforma dell'ordinamento giudiziario e il concorso in magistratura: progressi, dubbi, questioni aperte

di Daniele Mercadante

Le modifiche apportate dalla delega alla disciplina del concorso per l’accesso alla magistratura ripristinano l’accesso con la sola laurea in giurisprudenza, una misura equa e razionale. Purtroppo il concorso necessita, se si vuole che contribuisca ad un miglioramento dello stato della magistratura, di diverse altre riforme, non tutte a costo zero, che il governo non ha nemmeno preso in considerazione, rivelando, sul tema, una conoscenza assai superficiale delle questioni rilevanti. Se la magistratura, come è ormai chiaro, è considerata un’azienda, ne è pessimo amministratore chi non si cura troppo del reclutamento del personale.

1. Introduzione / 2. Il ritorno a un concorso aperto ai semplici laureati in giurisprudenza / 3. La possibilità di iniziare il tirocinio presso procure, tribunali e corti dopo il superamento dell’ultimo esame del corso di laurea in giurisprudenza e prima della discussione della tesi di laurea / 4. L’organizzazione di corsi di preparazione al concorso da parte della Scuola superiore della magistratura / 5. Le modifiche alle prove scritte del concorso / 6. La riduzione delle materie oggetto della prova orale / 7. Le riforme di cui il concorso in magistratura avrebbe necessità, e che il disegno di delega legislativa non contempla / 7.1. La riduzione dei tempi di svolgimento del concorso e la loro sincronizzazione con quelli relativi alle prese di possesso e ai trasferimenti / 7.2. La riduzione dei candidati al concorso e l’introduzione di una quarta prova scritta / 7.3. Aumentare le tutele dell’imparzialità del concorso in magistratura, come di tutte le selezioni pubbliche / 7.4. Rivedere l’organizzazione degli studi in giurisprudenza quale contributo a una riqualificazione delle professioni legali

 

1. Introduzione

L’accesso alla magistratura è questione di rilevanza ad un tempo costituzionale e amministrativa. Da una parte, le modalità di ammissione alla magistratura sono oggetto diretto di un intero articolo della Costituzione repubblicana, il 106, a limitazione di possibili arbitri delle maggioranze volti a immettere in magistratura persone gradite, o ad ostacolare l’ingresso di classi di cittadini, o di singoli, poco disposti all’allineamento e all’ossequio. Dall’altra, organizzare modalità di accesso alla magistratura eque ed efficienti assume una certa rilevanza nell’ambito più complessivo della buona gestione della macchina giudiziaria, e può apportare benefici non trascurabili sia agli attori professionalmente coinvolti – funzionari, magistrati, avvocati –, sia al pubblico che entra in contatto, anche solo occasionalmente, con il mondo delle procure, dei tribunali e delle corti.

Il 17 giugno 2022, il Parlamento ha definitivamente approvato la legge n. 71/2022 («Deleghe al Governo per la riforma dell’ordinamento giudiziario e per l’adeguamento dell’ordinamento giudiziario militare, nonché disposizioni in materia ordinamentale, organizzativa e disciplinare, di eleggibilità e ricollocamento in ruolo dei magistrati e di costituzione e funzionamento del Consiglio superiore della magistratura»), che interviene, tra le altre materie relative all’ordinamento giudiziario, sulla disciplina del concorso in magistratura.

Questo articolo illustra l’intervento riformatore ed esprime una valutazione sui suoi singoli punti, per poi soffermarsi su taluni aspetti problematici dell’attuale sistema di reclutamento dei magistrati, che non sono stati oggetto di attenzione da parte del Governo e che si ritengono, tuttavia, di grande importanza ove si vogliano apportare dei miglioramenti allo stato di cose presente.

Le proposte di delega legislativa relative al reclutamento nella magistratura sono contenute nell’articolo 4 del ddl, e riguardano:

I. la possibilità di accedere al concorso in magistratura con la sola laurea in giurisprudenza, senza la necessità di conseguire titoli o di maturare esperienze supplementari (art. 4, comma 1, lett. a);

II. la possibilità di iniziare il tirocinio della durata di diciotto mesi presso procure, tribunali e corti, previsto dal dl n. 69/2013, art. 73, dopo il superamento dell’ultimo esame di profitto del corso di studi in giurisprudenza, anziché, come è disposto attualmente, dopo la laurea (art. 4, comma 1, lett. b);

III. L’organizzazione, da parte della Scuola superiore della magistratura, anche presso sedi decentrate, di corsi per la preparazione al concorso in magistratura, per iscriversi ai quali gli aspiranti dovrebbero: a) avere almeno iniziato il tirocinio di cui al punto II che precede, oppure b) avere fatto parte dell’ufficio del processo, di cui al dl n. 80/2021, art. 14, e avere soddisfatto i requisiti di rendimento negli studi universitari di giurisprudenza necessari per accedere al tirocinio (art. 4, comma 1, lett. c);

IV.  la possibilità che le prove scritte del concorso in magistratura, di diritto civile, penale e amministrativo, richiedano la trattazione delle questioni proposte ai candidati «anche alla luce dei principi costituzionali e dell’Unione europea», e la prescrizione che tali prove abbiano «la prevalente funzione di verificare la capacità di inquadramento teorico-sistematica dei candidati» (art. 4, comma 1, lett. d);

V. la diminuzione del numero delle materie la cui conoscenza verrebbe verificata nella prova orale del concorso, con il mantenimento “almeno” delle seguenti: diritto civile, diritto penale, diritto processuale civile, diritto processuale penale, diritto amministrativo, diritto costituzionale, diritto dell’Unione europea, diritto del lavoro, diritto della crisi e dell’insolvenza e ordinamento giudiziario, e con il mantenimento, altresì, del colloquio in lingua straniera previsto dal d.lgs n. 160/2006, art. 1, comma 4 (art. 4, comma 1, lett. e).

 

2. Il ritorno a un concorso aperto ai semplici laureati in giurisprudenza

L’attuale concorso in magistratura, articolato in alcune prove scritte e in un grand oral sulle materie sulle quali vengono sostenuti gli scritti e diverse altre, deve ricondursi a un impianto risalente almeno all’opera riformatrice del Ministro Zanardelli, alla fine del XIX secolo. Questo concorso è sempre stato aperto ai semplici laureati in giurisprudenza, senza requisiti ulteriori.

Con l’istituzione delle scuole di specializzazione per le professioni legali, ormai ben più di vent’anni fa, ha iniziato a fare il proprio ingresso nell’ordinamento una lunga serie di requisiti supplementari, alternativi tra loro, per poter accedere al concorso. Attualmente, come disposto dall’art. 2 d.lgs n. 160/2006, per poter presentare domanda è necessario, oltre che avere ottenuto la laurea in giurisprudenza, il possesso di uno dei seguenti requisiti: essere magistrati amministrativi o contabili; procuratori dello Stato; dipendenti pubblici con  qualifica  dirigenziale e con cinque  anni  di  anzianità; docenti universitari di ruolo di materie giuridiche; abilitati all’esercizio della professione forense; magistrati onorari con sei anni di anzianità; diplomati presso una scuola di  specializzazione per le professioni legali istituita ai sensi del d.lgs n. 198/1997; dottori di ricerca in materie giuridiche; diplomati presso una scuola di specializzazione almeno biennale istituita ai sensi del dPR n. 162/1982.

Questo cd. “concorso di secondo grado” (in quanto non accessibile ai semplici laureati) è stato a suo tempo introdotto per ridurre il numero dei partecipanti, che aveva subito un notevole incremento, e aveva così messo in crisi una macchina concorsuale già in notevole difficoltà, e al fine d’inaugurare, a imitazione di quanto era stato fatto in Germania, una formazione comune e di auspicata alta qualità per i laureati in giurisprudenza intenzionati a divenire avvocati, notai o magistrati, attraverso l’istituzione delle scuole di specializzazione per le professioni legali presso le facoltà di giurisprudenza.

Più di vent’anni dopo, il meno che si possa dire è che nessuno degli obiettivi è stato conseguito. Il progetto iniziale prevedeva una severa restrizione dell’accesso al concorso, da riservarsi tendenzialmente ai soli diplomati delle scuole di specializzazione, ma la successiva, graduale apertura alle numerose categorie che si sono elencate in precedenza ha abbattuto qualsiasi argine opponibile a una partecipazione di massa. Quanto alle scuole di specializzazione per le professioni legali, il loro fallimento in quanto centri di formazione comuni alle professioni legali “in senso stretto” (avvocatura, notariato e magistratura), e anche solo quali concorrenti credibili delle scuole notarili e dei centri privati per la preparazione al concorso in magistratura, è talmente eclatante che insistervi sarebbe inutile, se non si fosse costretti a osservare che la riforma che qui si commenta, lungi dal prevederne la chiusura, appare potenzialmente idonea a prolungarne l’esistenza, per motivi che francamente sfuggono.

L’unico risultato di rilievo della sperimentazione del “concorso di secondo grado” è consistito in un ingiustificato prolungamento, anche di anni, dei tempi necessari ai neolaureati per poter partecipare al concorso, senza alcuna garanzia di retribuzione, o anche solo di rimborso delle spese affrontate, e con ben scarse prospettive che tale periodo supplementare di disoccupazione o di precariato venga quanto meno parzialmente compensato da un’offerta formativa di riconosciuto valore.

Vent’anni di mal concepiti e male attuati propositi riformatori, dunque, hanno preservato un concorso oltremodo affollato e lento oltre ogni ragionevolezza, precludendolo, in sostanza, ai soli neolaureati in situazione di difficoltà economica, senza riguardo per la loro effettiva preparazione.

A fronte di un tale assetto normativo, la cui vigenza si è protratta per un tempo francamente intollerabile, attesa la prova desolante che da subito ha offerto, la riapertura del concorso ai neolaureati, se non risolverà il più che serio problema dell’affollamento delle prove, potrebbe quanto meno sanare l’ingiustizia che è stata perpetrata gratuitamente per diversi lustri a danno dei laureati più meritevoli, e in particolare di quelli meno agiati tra loro, che dovrebbero poter accedere immediatamente al concorso, senza incorrere in spese e attese che altro non possono ritenersi se non sostanzialmente inutili, in quanto insuscettibili di garantire loro una significativa formazione o maturazione supplementare.

Ho scritto “dovrebbero”, perché la delega prevede che i laureati «possano essere immediatamente ammessi» al concorso. Si fa notare che una formula analoga era prevista, in una precedente versione del disegno di delega, in materia di corsi di preparazione al concorso, che la Scuola superiore della magistratura “avrebbe potuto” organizzare; tale disposizione è stata corretta, nel testo che qui si commenta, sostituendo la facoltà con un obbligo posto a carico della Scuola (che, secondo l’ultima versione disponibile, “organizza” senz’altro i corsi). Rimane pertanto il dubbio che il legislatore delegato possa limitare la facoltà di accesso immediato al concorso ad alcune categorie soltanto di neolaureati (introducendo uno sbarramento parametrato al voto di laurea, o alla media dei risultati ottenuti negli esami di profitto).

Ora, come si argomenterà in seguito, questo potrebbe rivelarsi opportuno, ma solo ed esclusivamente se tali limitazioni venissero imposte, identiche e senza alcuna eccezione, a tutti i partecipanti, a prescindere dai titoli posseduti, dai precedenti concorsi superati, dalle abilitazioni ottenute. Sembra, però, che la facoltà di limitare la partecipazione al concorso di categorie diverse dai neolaureati non rientri tra i criteri direttivi del disegno di delega. Limitare in qualche modo l’accesso al concorso dei (soli) neolaureati apparirebbe del tutto irrazionale, laddove permanesse la possibilità di assicurarsi l’ammissione frequentando le scuole di specializzazione per le professioni legali, che vedrebbero così prolungata un’esistenza che si ritiene ormai priva di giustificazione, o laddove venisse salvaguardata l’attuale ammissibilità indiscriminata al concorso, senza riguardo ai risultati conseguiti negli studi universitari, di centinaia di migliaia di funzionari pubblici e di avvocati.

 

3. La possibilità di iniziare il tirocinio presso procure, tribunali e corti dopo il superamento dell’ultimo esame del corso di laurea in giurisprudenza e prima della discussione della tesi di laurea

La misura va salutata con favore. Attualmente, il tirocinio di diciotto mesi presso procure, tribunali e corti è riservato a quei laureati «che abbiano riportato una media di almeno 27/30 negli esami di diritto costituzionale, diritto privato, diritto processuale civile, diritto commerciale, diritto penale, diritto processuale penale, diritto del lavoro e diritto amministrativo, ovvero un punteggio di laurea non inferiore a 105/110» (dl n. 69/2013, art. 73, comma 1).

Considerata l’elevata selettività degli esami di profitto menzionati dalla norma, l’apertura del tirocinio a chi debba ancora sostenere il solo esame di laurea, ma abbia conseguito una media di almeno 27/30 in tali esami, non diminuirebbe verosimilmente in alcun modo la qualità dei partecipanti. L’apertura deve in questo senso considerarsi un opportuno incentivo offerto ai migliori studenti affinché, se lo desiderano, inizino quanto prima il tirocinio. 

 

4. L’organizzazione di corsi di preparazione al concorso da parte della Scuola superiore della magistratura

L’incarico alla Scuola deve fare oggetto di un apprezzamento e di qualche cautela. L’apprezzamento discende dalla previsione della limitazione della platea dei possibili iscritti a tali corsi alle sole persone che abbiano ottenuto, all’esito degli studi di giurisprudenza, i risultati previsti ai fini dell’ammissibilità ai tirocini presso procure, tribunali e corti, ovverosia, come già riportato al par. 3, a chi abbia ottenuto una media di almeno 27/30  negli esami di diritto costituzionale, diritto privato, diritto processuale civile, diritto commerciale, diritto penale, diritto processuale penale, diritto del lavoro e diritto amministrativo, o un punteggio di laurea non inferiore a 105/110. In tale modo i corsi saranno frequentati solo da persone la cui solida preparazione di base permetterà di sviluppare un percorso didattico assai approfondito, ambizioso, di ampio respiro, e gli allievi potranno imparare, oltre che dai propri insegnanti, anche – se non soprattutto – dal mutuo confronto d’idee, così come saranno chiamati a fare una volta divenuti magistrati.

Quanto alle cautele, occorre avvertire che dei corsi che possano efficacemente concorrere con quelli impartiti dai centri di preparazione privati presuppongono necessariamente la disponibilità di ampie risorse economiche, e una selezione qualificata, imparziale e severa dei docenti. Se il legislatore non intendesse assumersi con serietà e con una fondata prospettiva di successo questi impegni, meglio sarebbe rinunciare a un’ambizione che verrebbe altrimenti percepita fin da subito come velleitaria, al pari di quella, improvvida, che ha portato alla creazione delle scuole di specializzazione per le professioni legali.

Ancora, preme ricordare che la Costituzione italiana prevede che «[l]’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento», e che «[e]nti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato» (art. 33).

Chi scrive non riesce a sfuggire al dubbio che la previsione relativa all’istituzione di corsi di preparazione al concorso da parte della Scuola superiore della magistratura sia il frutto di un irrazionale pregiudizio ostile, diffusosi in taluni settori della magistratura, e non solo, nei riguardi del fenomeno delle scuole private di preparazione ai pubblici concorsi, in seguito a una grave vicenda di cronaca che ha coinvolto alcune persone impegnate nell’organizzazione di uno specifico corso, e che sembra avere attratto l’attenzione di un pubblico in gran parte piuttosto provinciale, soprattutto per un riflesso condizionato di morboso voyerismo sessista relativo ad aspetti bassamente pruriginosi, più che per un anelito alla riflessione sui problemi della formazione e sui rapporti tra docenti e discenti maggiorenni (problema oltremodo serio, e che dovrebbe fare oggetto di un’approfondita indagine in molti ambiti, privati e pubblici).

Si ritiene dunque utile rimarcare che l’organizzazione di corsi per la preparazione ai pubblici concorsi è attività protetta dalla Costituzione repubblicana in quanto diretta alla diffusione del sapere, e per questo è attratta al novero delle libertà fondamentali, anche laddove venga esercitata in forma non gratuita, e che l’iniziativa relativa all’organizzazione di corsi pubblici di preparazione al concorso partirebbe su di un piede sbagliato laddove venisse intesa come attività “a dispetto” di quella esercitata dai privati.

 

5. Le modifiche alle prove scritte del concorso

A partire dall’instaurazione della Repubblica, le prove scritte del concorso in magistratura sono state tre, centrate sul diritto civile, sul diritto penale e sul diritto amministrativo (in epoca immediatamente anteriore la prova di diritto civile comprendeva anche il diritto commerciale). Fino al concorso indetto col dm 9 dicembre 1998, la prova di diritto civile includeva riferimenti al diritto romano.

L’intervento governativo prevede che le prove scritte consistano «nello svolgimento di tre elaborati scritti, rispettivamente vertenti sul diritto civile, sul diritto penale [e] sul diritto amministrativo, anche alla luce dei principi costituzionali e dell’Unione europea».

Che il magistrato italiano sia, prima ancora che garante della legalità nel suo complesso, garante di quella legalità suprema che è quella costituzionale, non può porsi in dubbio, e non può non salutarsi con favore il ritorno del diritto costituzionale tra le materie delle tracce scritte.

Quanto al diritto dell’Unione europea, anch’esso è parte integrante dell’attuale sistema normativo, con la posizione di primazia sul diritto nazionale che, negli ambiti di sua competenza, gli è propria.

Sulla disposizione, che, nella formulazione che si è riportata, appare reintrodurre elementi di contaminazione transdisciplinare in tracce centrate su singole materie, si osserva che essa non appare isolata nel panorama normativo. Attualmente, tra le prove scritte del concorso per avvocato dello Stato, vi è un tema «di carattere teorico in diritto civile con riferimento al diritto romano»; tra le prove scritte del concorso per consigliere di Stato vi è un tema in «diritto civile e commerciale, con riferimenti al diritto romano»; tra le prove scritte del concorso per referendario della Corte dei conti vi è un tema in «diritto civile e diritto commerciale, con riferimenti al diritto processuale civile».

La denominazione di queste prove, al pari di quella di diritto civile del concorso per magistrato ordinario, prima della sciagurata eliminazione dei riferimenti al diritto romano, consente al candidato di comprendere e prevedere con sufficiente esattezza che cosa verrà richiesto in sede concorsuale, e in quale modo possa prepararsi al meglio. Non altrettanto si può dire della formulazione «diritto civile, diritto penale e diritto amministrativo, anche alla luce dei principi costituzionali e dell’Unione europea».

Per quanto riguarda il diritto costituzionale, esso è quasi per definizione un “diritto di (e dei, e sui) principi”, e di conseguenza è ovvio ritenere che il candidato dovrà prepararsi senz’altro anche attraverso lo studio delle opere manualistiche più affermate di diritto costituzionale – ciò che si ritiene auspicabile e di sicuro giovamento, per i magistrati e per tutti gli attori del processo.

Quanto al diritto dell’Unione europea, la sua vastità, la sua fluidità e il suo consistere di una più che vasta congerie di principi relativi a settori estremamente disomogenei, consiglierebbero di specificare che ai candidati all’ingresso in magistratura verrà richiesta, in sede di prove scritte, una trattazione dei soli principi fondamentali (ovverosia costituzionali in senso lato) del diritto dell’Unione europea. Non farlo significherebbe disorientare ingiustamente i candidati e accordare una discrezionalità pericolosa ed eccessiva alla commissione esaminatrice.

L’art. 4, comma 1, lett. c-bis del disegno di delega prevede inoltre, quanto alle prove scritte del concorso, che queste abbiano quale funzione prevalente quella «di verificare la capacità di inquadramento teorico-sistematica dei candidati».

La disposizione si presta a un’osservazione.

Attualmente – e da molti anni, purtroppo – le prove scritte del concorso in magistratura, considerata l’apertura pressoché indiscriminata a qualunque tipo di laureato, anche il meno meritevole, purché non giovanissimo, sono investite della prevalente funzione di permettere una verifica della capacità del candidato di esprimersi in una lingua italiana passabilmente intelligibile, incombenza che verrebbe ristretta a casi del tutto marginali laddove si prendesse atto della necessità di ammettere al concorso i candidati non già, come accade attualmente, sulla base della disponibilità di ampi mezzi di sussistenza e dell’ostinazione, bensì premiando la laboriosità e il talento (come previsto esplicitamente dall’art. 34, comma 3, Cost. e, implicitamente ma sempre piuttosto chiaramente, dai successivi art. 97, comma 3, e 106, comma 1).

Laddove, come si auspica, il concorso in magistratura venisse organizzato in modo tale da non dover più assolvere in primo luogo il compito – umiliante per il Paese, per i commissari e per i candidati – di verificare la conoscenza della grammatica e della sintassi italiane di base, la prescrizione di cui al disegno di delega legislativa, relativa al privilegio da riservarsi alla valutazione delle capacità d’inquadramento teorico-sistematico delle questioni giuridiche, diverrebbe attuabile, e il suo intento sarebbe da condividersi. Sembrerebbe difatti che la disposizione sia volta a scongiurare due ipotetiche, pericolose inclinazioni delle commissioni esaminatrici: quella a proporre tracce prevalentemente tecnico-pratiche, e quella a promuovere un nozionismo che finisca per premiare la conoscenza di particolari decisioni giurisprudenziali, in luogo della capacità ricostruttiva del quadro ordinamentale.

 

6. La riduzione delle materie oggetto della prova orale

La previsione non toglierebbe alla prova il suo carattere di grand oral, di passaggio emozionante, angoscioso e severamente formativo, una sorta di “rito d’iniziazione” che i magistrati ricordano spesso con timore e tremore, e che deve purtroppo ritenersi il prezzo finale dell’accesso a una funzione pubblica di elevata responsabilità. Si segnala come la prova di diritto fallimentare (nella sua nuova denominazione di «diritto della crisi e dell’insolvenza») dovrebbe essere ancora affiancata da una verifica sul diritto commerciale, che non pare davvero possibile escludere dalle prove scritte e dall’orale.

 

7. Le riforme di cui il concorso in magistratura avrebbe necessità, e che il disegno di delega legislativa non contempla

 

7.1. La riduzione dei tempi di svolgimento del concorso e la loro sincronizzazione con quelli relativi alle prese di possesso e ai 
trasferimenti

Il principale e più atteso intervento riformatore, tra quelli che si sono illustrati, riguarda la riapertura del concorso in magistratura ai neolaureati in giurisprudenza. Il motivo per il quale tale riapertura è stata da più parti domandata risiede nell’evidente ingiustizia di un assetto normativo, quello vigente, che ritarda l’entrata nel mondo del lavoro di candidati senz’altro meritevoli senza che tale procrastinazione apporti alcun apprezzabile beneficio, né all’amministrazione della giustizia, né ai candidati. Stando così le cose, non si può fare a meno di segnalare come lo stesso criterio di giudizio imponga di provvedere a una severa limitazione della durata, da sempre abnorme, della procedura concorsuale, che può superare i due anni e mezzo. Anche in questo periodo, come in quello della preparazione vera e propria, al concorrente è quasi preclusa ogni altra attività e, dunque, anche tale lungo intervallo di tempo scoraggerà chi voglia seriamente impegnarsi nel concorso, e in particolare i candidati meno benestanti, benché meritevoli.

Che possano trascorrere due anni e mezzo dal momento in cui ci si iscrive al concorso al giorno in cui si apprende la graduatoria degli ammessi, oltre a essere – e si usano i termini che seguono con piena consapevolezza – una vergogna e uno scandalo, testimonia della deplorevole carenza di mezzi e capacità organizzative ed amministrative che affligge l’apparato della giustizia.

È imperativo – e la realizzazione di questi auspici non è tecnicamente troppo difficoltosa – che il concorso in magistratura:

a) abbia una durata complessiva, dalla pubblicazione del bando alla pubblicazione della graduatoria degli ammessi, uguale o inferiore all’anno;

b) venga bandito ogni anno nello stesso giorno (con un’approssimazione di una settimana al massimo); 

c) veda le prove scritte svolgersi ogni anno negli stessi tre giorni (con un’approssimazione di una settimana al massimo); 

d) veda la correzione delle prove scritte terminare nello stesso giorno (con un’approssimazione di due settimane al massimo);

e) veda le prove orali iniziare e concludersi ogni anno negli stessi giorni (con un’approssimazione di una settimana al massimo);

f) termini ogni anno nello stesso giorno (con un’approssimazione di tre settimane al massimo).

La riduzione dei tempi e il rispetto dei termini di fase possono ottenersi: attraverso una scansione esatta e inderogabile delle varie fasi strettamente burocratiche del procedimento, individuando un contingente di personale amministrativo da adibire obbligatoriamente ai relativi incombenti, che sia stabile e numericamente più che adeguato al compito; attraverso l’eventuale nomina, una volta conosciuto il numero dei candidati i cui temi dovranno essere corretti, di commissari supplementari, in un numero tale che a ogni sottocommissione venga assegnata la correzione di un numero di elaborati che possa essere agevolmente gestito in tre mesi di sedute; attraverso l’eventuale nomina, una volta conosciuto il numero dei candidati ammessi agli orali, di commissari supplementari, in un numero tale che a ogni sottocommissione venga assegnato un numero di candidati che sia possibile esaminare in un mese.

Si sottolinea che una riforma di questo genere permetterà di attuare una sincronizzazione pressoché esatta dei tempi del concorso con quelli relativi alle prese di possesso e ai trasferimenti dei magistrati – che dovranno avere luogo ogni anno negli stessi giorni, con un’approssimazione di una settimana. Questo permetterà al Consiglio superiore di provvedere alle necessità delle procure, dei tribunali e delle corti maggiormente bisognosi di nuovi magistrati senza che rimangano – eccettuate ipotesi marginali, e comunque in misura più che grandemente ridotta rispetto all’attuale – in situazioni di grave e prolungata carenza d’organico, o in balia del successo di bandi speciali, applicazioni, supplenze etc., che non possono che tamponare una carenza organizzativa e di risorse creandone un’altra, sperabilmente, ma non immancabilmente, meno seria.

 

7.2. La riduzione dei candidati al concorso e l’introduzione di una quarta prova scritta

Non è raro che al concorso in magistratura si iscrivano più di 15mila candidati, a fronte di bandi che generalmente non prevedono più di 350 posti disponibili. Ancora negli anni sessanta del secolo scorso, i partecipanti erano meno di mille, per un numero di posti disponibili non di molto inferiore a quello attuale.

Contribuiva a tale scarsa affluenza una serie di fattori sui quali attualmente non è possibile fare assegnamento: la limitazione della possibilità d’iscriversi alla facoltà di giurisprudenza ai soli diplomati del liceo classico (fino al 1969); l’effetto dissuasivo verso i candidati meno seri esercitato dai riferimenti al diritto romano nella prova scritta di diritto civile (fino al 1998); la credibile prospettiva – non una certezza, ma una concreta possibilità – di ottenere redditi più che decorosi intraprendendo la professione forense (fino allo scriteriato strangolamento per affollamento del mercato dell’assistenza legale).

Negli ultimi quindici anni circa, la partecipazione al concorso in magistratura è poi ulteriormente aumentata perché il sostanziale e “selvaggio” blocco delle assunzioni nel settore pubblico, comprensivo dell’insegnamento universitario, ha indirizzato verso la magistratura molti brillanti laureati che, in altre epoche, si sarebbero diretti verso tale sbocco professionale.

Le attuali prove scritte del concorso non sono tali da scoraggiare immediatamente troppi candidati, come testimoniano il numero degli iscritti e quello dei candidati che consegnano gli elaborati per la correzione.

Il peggior servizio che questo stato di cose rende è quello ai candidati che non superano il concorso: dopo anni di un ingrato sforzo, dopo migliaia di ore di studio, che avrebbero potuto dedicare a traguardi raggiungibili, illusi da un’apparente semplicità (e dall’apparente nozionismo) dei temi scritti, e magari dopo avere speso molto denaro in corsi di preparazione per una carriera che un’onesta analisi del loro potenziale gli avrebbe rivelato come quasi certamente preclusa, si ritrovano, senza alcun risarcimento, più poveri di energie, di tempo, di prospettive di carriera.

Parafrasando un adagio vecchio quanto l’idea di selezionare gli aspiranti ad una carica sulla base dei risultati di prove di conoscenza, si può dire che il concorso in magistratura non serve a valutare quali candidati saranno dei buoni magistrati (occorrerebbero, per questo, delle capacità divinatorie), ma quali candidati siano maggiormente in grado di superare dei concorsi in magistratura. Il che non è così deprimente come potrebbe sembrare a prima vista: se le prove sono ben congegnate, la capacità di superare concorsi in magistratura può tenere il luogo, con un’accettabile approssimazione, dell’inconoscibile indice di capacità ad essere un buon magistrato.

Non vi è dubbio sul fatto che le prove scritte, sulle tre materie di diritto sostanziale (civile, penale, amministrativo) che con più frequenza il magistrato medio si trova a dover trattare, costituiscano un buon banco di prova sul quale misurare l’attitudine del candidato. Ma si tratta di materie tecniche, professionalizzanti, seppure di ampio respiro. Deve essere salutata con favore, come si è detto, l’apertura che il disegno di delega effettua su due meta-materie di più ampio raggio: il diritto costituzionale interno e dell’Unione europea. Ma forse non basta.

Quello che la somministrazione di una prova di diritto civile comprensiva di elementi di diritto romano permetteva di “comunicare” al concorrente, era l’esigenza, da parte dell’ordinamento, di reclutare magistrati che si dimostrassero degni di una tradizione non solo strettamente giuridica, ma umanistica, in quel peculiare senso che ha reso degna di lode nel mondo la nostra cultura.

L’attuale prova scritta diviene, ogni anno che passa, un paradosso sempre meno sopportabile: proprio nell’epoca nella quale “ricordare” le norme diviene meno importante (ci sono la digitalizzazione di dottrina e giurisprudenza e i motori di ricerca), la prova sembra chiudersi in un nozionismo sempre più ridondante, laddove quello che il magistrato di domani dovrà dimostrare (e in questo nessun computer potrà sostituirlo), ossia l’attitudine ad essere umanista e scienziato sociale, viene lasciato ai margini della valutazione.

Il magistrato dell’epoca dell’intelligenza artificiale si libererà di molti compiti ripetitivi, di molte incombenze sillogisticamente meccaniche, e sarà chiamato sempre più spesso a ricostruire principi, a riportare a sistema il non-ovvio, ciò che la “macchina” non può “trovare”, semplicemente perché dev’essere creato (ma creato con un tale rispetto dell’armonia del “campo” da sembrare una scoperta obbligata, almeno col senno del poi).

Questo magistrato non deve essere selezionato solo sulla base della conoscenza dei codici. Deve essere selezionato anche tramite la verifica della sua cultura, in senso non solo giuridico.

È per questo che si propone di risolvere il problema dell’eccessiva partecipazione al concorso con l’introduzione di una quarta prova scritta, che manifesti immediatamente allo studente di giurisprudenza che la magistratura esige una sensibilità culturale elevata, non confinata al mondo del diritto.

Nel concorso per l’accesso alla carriera diplomatica i candidati si misurano con una prova scritta di «lingua inglese, senza l’uso di alcun dizionario, su tematiche di attualità internazionale», e con una prova di «storia delle relazioni internazionali a partire dal congresso di Vienna»; i concorrenti per l’accesso alla carriera prefettizia affrontano una prova consistente «nella traduzione, con l’uso del vocabolario, di un testo o nella risposta a un quesito nella lingua inglese o francese scelta dal candidato», e una di «storia contemporanea e della pubblica amministrazione italiana».

L’introduzione di una prova di carattere storico, o di una prova di cultura generale in lingua straniera, consentirebbe di allontanare immediatamente un gran numero di candidati chiaramente inidonei, e di ridurre, si ritiene non di poco, lo scarto tra quell’insieme visibile costituito dai candidati capaci di superare le prove e quell’insieme invisibile costituito dai candidati potenzialmente capaci di diventare buoni magistrati, cioè, irrinunciabilmente, persone curiose di tutto, rispettose di tutti, aperte e umili di fronte alla vastità dell’umano.

L’alternativa sarebbe la limitazione dei candidati sulla base del voto di laurea, o, in maniera più raffinata, della loro collocazione nei migliori decili dei laureati della propria facoltà di giurisprudenza, ma la si ritiene una soluzione meno preferibile rispetto all’introduzione del tema supplementare.

 

7.3. Aumentare le tutele dell’imparzialità del concorso in magistratura, come di tutte le selezioni pubbliche

L’Italia è, da vent’anni almeno – e non è dato sapere per quanto tempo ancora lo sarà –, anche in considerazione del fatto che la tendenza si estende ormai al resto dell’Europa occidentale e agli Stati Uniti, un Paese regolato dallo stesso principio dell’Adagio finale della Sinfonia Les Adieux di Haydn: il presente (economico e sociale) è sempre più oscuro del passato; i posti di lavoro “scompaiono”, uno dopo l’altro, come gli esecutori della composizione scompaiono dal teatro dopo aver spento il proprio lume.

In un contesto del genere, che finisce per sottrarre valore a titoli di studio anche elevati, e conseguiti con serietà e profitto, il meno che si possa fare, soprattutto per le giovani generazioni, ma non solo, è garantire nella maniera più rigorosa possibile che quei pochi, residui posti di lavoro che vengono attribuiti per concorso, o comunque all’esito di una selezione di carattere pubblico, siano riservati, e siano percepiti da tutti come riservati, solo ed esclusivamente ai canditati più capaci, selezionati in maniera rigorosamente e manifestamente imparziale.

Questo, visibilmente (quanto meno a livello di percezione) non accade, ed è lungi dall’accadere: quale si pensa possa essere il risultato di un’inchiesta che domandi al pubblico (anche a un pubblico addetto ai lavori) una valutazione sull’imparzialità delle pubbliche selezioni?

In questo senso, peraltro, il concorso in magistratura non è certamente la prova maggiormente sospettabile di parzialità; basti pensare al fatto che, circostanza quasi inaudita in relazione ad altre pubbliche selezioni, quasi ad ogni tornata concorsuale numerosi posti non vengono attribuiti ad alcun vincitore, cosa che con tutta evidenza non accadrebbe, laddove quei posti fossero stati “prenotati” da centri di potere in grado di influire sulle commissioni esaminatrici.

Il problema comunque resta, e se attualmente interessa con più urgenza altre pubbliche selezioni, deve esigersi che le maggiori tutele che in questa sede si invocano a protezione e promozione dell’imparzialità dei concorsi riguardino soprattutto la magistratura (che, anche in tema di imparzialità dei pubblici concorsi, è chiamata, attraverso l’azione inquirente e giudicante, a “custodire i custodi”, e quindi deve essere, apparire ed essere percepita come sommamente trasparente).

Si auspica l’elaborazione di un testo unico delle procedure concorsuali che regoli in maniera prevedibile, razionale e immodificabile dalle singole amministrazioni il maggior numero di dettagli, anche minuti, delle selezioni, in modo da lasciare la minore discrezionalità possibile nel concepire e dare esecuzione ai bandi, considerato il pessimo uso che dell’ampia discrezionalità attualmente accordata è stato fatto, anche a elevatissimi livelli, dando luogo negli anni a un affollato e disturbante bestiario di regolamentazioni concorsuali bislacche e offensive dell’intelligenza, ciò che indubbiamente agevola la corruzione e – a torto o a ragione, poco importa – ne incrementa la percezione diffusa.

La tutela dell’imparzialità delle pubbliche selezioni dev’essere presidiata da severissime sanzioni penali: chi sia riconosciuto colpevole di azioni volte ad alterare il risultato di un pubblico concorso in senso divergente da quello dettato dal merito dei canditati deve essere soggetto alle stesse pene previste per la concussione e privato di ogni carica o impiego presso le pubbliche amministrazioni, nonché della possibilità di esservi ammesso o riammesso, vita natural durante. Deve poi, allo stesso modo, essere automaticamente escluso o espulso, senza possibilità di ammissione o riammissione, sempre vita natural durante, dagli albi professionali.

Un concorrente che abbia studiato con serietà e abnegazione può dubitare di tutto, ma non deve essere messo nella condizione di dubitare, neppure per un istante, del fatto che sarà immancabilmente valutato sulla sola base del valore delle prove che avrà svolto, in maniera assolutamente imparziale.

Il perseguimento dei reati legati all’alterazione degli esiti delle pubbliche selezioni (tra le quali devono intendersi incluse quelle per l’accesso a tutti gli albi professionali, di qualsiasi genere) dev’essere automaticamente considerato priorità di massimo grado da qualsiasi progetto organizzativo relativo all’azione inquirente e alla trattazione degli affari penali, e da qualsiasi misura avente effetti equivalenti.

 

7.4. Rivedere l’organizzazione degli studi in giurisprudenza quale contributo a una riqualificazione delle professioni legali

Dopo circa un ventennio dall’apertura della facoltà di giurisprudenza ai diplomati di scuole superiori diverse dal liceo classico, si è ritenuto di eliminare i riferimenti al diritto romano dalle prove scritte di diritto civile del concorso in magistratura. Insomma, è il concorso in magistratura che si è adeguato alla caduta del livello medio della preparazione dei candidati. Quanto accaduto è scoraggiante, ma è altresì rappresentativo di una tendenza generalizzata.

In Italia è oggi possibile laurearsi in giurisprudenza senza essere tenuti, o quasi, a misurarsi con una prova scritta (eccettuata la tesi), senza essere tenuti, o quasi, a leggere per esteso delle decisioni giurisdizionali, senza essere tenuti a conoscere il latino (in Italia, presso la facoltà di giurisprudenza), senza essere tenuti a conoscere una qualsiasi lingua straniera.

La facoltà di giurisprudenza è divenuta – senza forse che questo rappresentasse il risultato di un disegno preordinato, ma l’insipienza non è un’attenuante – la destinazione di chi non vuole saperne del greco, del latino, di una qualsiasi lingua straniera moderna, della matematica (anche la più elementare), dei rudimenti della statistica. È insomma divenuta la facoltà di chi non ha intenzione di profondere altro sforzo, nei propri studi universitari, se non quello relativo alla lettura di testi scritti in un italiano immediatamente comprensibile. Gli studi di giurisprudenza – per chi si accontenti di una laurea, non importa in quale modo conseguita – sembrano non richiedere più l’onerosa assimilazione dei principi di quel linguaggio “tecnico” e “scientifico” (nel senso di cui all’espressione “scienze umane”) che, nel solco di una tradizione millenaria ancora viva e in continua e feconda evoluzione, adempie l’indispensabile compito di dar ragione di quel segmento della realtà sociale che è costituito dai rapporti giuridici, alimentando una pratica culturale che li filtra attraverso categorie altre rispetto a quelle, intuitive, semplicistiche, grossolane e pressoché inutili dell’uomo della strada e del profano, anche se esperto di altre scienze.

Vero è che l’accesso alle professioni “strettamente” legali è regolato, ovverosia sorvegliato o limitato (dai concorsi per l’accesso alla magistratura, al notariato e ai vari posti di funzionario pubblico, e dall’esame di abilitazione alla professione forense), ma tale regolazione, soprattutto per l’abnorme immissione di laureati nell’avvocatura (che ha avuto il principale effetto - forse neppure questo voluto, ma esattamente conseguito - di vanificare le prospettive di autonomia economica, e quindi di indipendenza professionale e culturale, degli avvocati, soprattutto dei più giovani), non appare in grado di porre rimedio alla dequalificazione indotta dalla sconcertante banalizzazione degli studi in giurisprudenza inflitti ai nuovi iscritti alle università, molti dei quali vengono condannati a laurearsi senza neppure varcare la soglia di una conoscenza del fenomeno giuridico appena degna della nostra tradizione.

Finché la facoltà di giurisprudenza continuerà ad attrarre quegli studenti che si sentono spaventati (non dirò dagli studi di ingegneria, medicina o chimica, ma) dagli studi di lettere, lingue, economia o scienze politiche, neppure gli ambiti della professione legale apparentemente protetti da selezioni concorsuali o abilitanti successive alla laurea potranno sfuggire alla gravitazione attorno al “buco nero” creatosi in forza del collasso su se stessa di questa enorme massa di laureati in giurisprudenza dequalificati, smarriti e delusi da studi che hanno tradito, in primo luogo, proprio le loro speranze, e che avrebbero meritato quel rigore e quella selezione che soli sono in grado di conferire un “valore reale” al (e di impedire l’abbassamento del valore legale del) titolo conseguito.

La prima selezione dei magistrati (e degli avvocati, dei notai, dei funzionari pubblici) deve avvenire durante il corso di studi in giurisprudenza. La prima prova del concorso deve essere rappresentata dagli esami di profitto e dall’esame di laurea.

Finché il legislatore non consentirà alle facoltà di giurisprudenza di recuperare una piena serietà degli studi, l’apparato del concorso in magistratura (e non solo questo) dovrà stringere le maglie, e supplire alle manchevolezze di altri.