Magistratura democratica

Assetto, struttura e funzionamento del Consiglio superiore della magistratura nel tormentato percorso della riforma Cartabia

di Marco Patarnello

Il desiderio di riformare il Csm può dirsi nato insieme all’organo. Accantonate – solo per il momento – le ipotesi di riforma costituzionale accennate dalla Commissione Luciani, la legge n. 71/2022 si è concentrata – essenzialmente – sulla struttura amministrativa, Segreteria e Ufficio studi, con soluzioni non prive di risvolti problematici, che aprono a un superficiale meccanismo di reclutamento di avvocati e dirigenti amministrativi e ampliano la centralità del Comitato di presidenza.

* Premessa / 1. Riformare il Csm / 2. I lavori della Commissione Luciani: geometria unitaria o rinnovo parziale periodico? / 3. I lavori della Commissione Luciani: quale vicepresidente e per quale Consiglio? / 4. La riforma varata con la legge n. 71/2022: Costituzione e funzionamento del Csm / 5. La riforma varata con la legge n. 71/2022: la Segreteria e la struttura amministrativa / 6. La riforma varata con la legge n. 71/2022: l’Ufficio studi e documentazione / 7. Tout se tient

 

* Premessa

Come è stato già ricordato in altre parti di questo numero della nostra Rivista, il percorso che ha condotto al varo della legge 17 giugno 2022, n. 71 è stato particolarmente complesso e si è sviluppato attraverso ipotesi di riforma succedutesi nel corso del tempo. L’anticipazione del presente articolo, pubblicata sulla versione online di questa Rivista il 10 novembre 2021, si soffermava sull’esame del più concreto e approfondito punto di partenza riferibile alla Ministra della giustizia, vale a dire il lavoro prodotto dalla cd. Commissione Luciani. Oggi disponiamo, invece, di un testo di legge che ha abbandonato buona parte di quelle ipotesi di riforma sul tappeto, per concentrarsi essenzialmente (per quanto di interesse in questo articolo) sulla struttura della Segreteria generale e dell’Ufficio studi e documentazione del Consiglio e su taluni aspetti inerenti al personale, accantonando le più radicali ipotesi di riforma del Csm. Tuttavia, nell’aggiornare le riflessioni odierne, adattandole a quella che è stata la trama della riforma concretamente partorita dalla legge n. 71/2022, sembra utile non pretermettere le riflessioni di carattere generale più specificamente correlate con le ipotesi di riforma del Csm esaminate dalla Commissione Luciani. Si reputa, cioè, opportuno riproporre le considerazioni di carattere generale legate alle diverse ipotesi all’epoca ancora sul tappeto, sul presupposto che il tema della riforma del Csm – anche in chiave di rivisitazione dell’impianto costituzionale – resti pur sempre attuale, come del resto ci insegna la pluriennale esperienza maturata intorno a questo delicato organo di rilievo costituzionale. 

Per questa ragione, abbiamo ritenuto di riproporre immodificati – anche nella forma – i paragrafi da 1 a 3 dell’articolo anticipato su Questione giustizia online, rivisitando e aggiornando – sulla base della disciplina normativa concretamente consacrata nella legge n. 71 – solamente i paragrafi da 4 a 7. Buona lettura. 

 

1. Riformare il Csm

I propositi di riforma del Consiglio superiore della magistratura sono una costante della vita istituzionale e politica italiana e sottolineano, in qualche modo, le difficoltà e le immaturità nel rapporto fra magistratura e politica nel nostro Paese. 

Tuttavia, sarebbe mistificante ricondurre le recenti spinte riformatrici esclusivamente al consueto (e in qualche modo fisiologico, o comunque inevitabile) desiderio della politica di occupare lo spazio di autonomia e indipendenza del terzo potere dello Stato. È del tutto evidente che questo nuovo progetto riformatore è (o tenta di essere) una risposta al recente disvelamento della crisi dell’autogoverno, evidenziata dalla “vicenda Palamara” e dintorni. 

Proprio per il suo evidente legame con la vicenda personale e politica di Luca Palamara, è inevitabile e curioso ricordare che la più forte “spallata” riformatrice al Csm fu tentata proprio da quello che, successivamente, divenne il più famoso e irridente detrattore di Palamara e che sin da allora ne intuì – e sfruttò – lo “spessore” culturale e politico: Francesco Cossiga. È all’ex-Presidente della Repubblica che risale, infatti, il più autorevole tentativo di ridimensionare il Csm allorquando, nel 1990, nominò la Commissione Paladin al fine di mettere in evidenza i presunti travalicamenti del Consiglio dalle sue funzioni e di “accusarlo” al Parlamento affinché lo “riformasse”. La Commissione Paladin, però, non fu affatto compiacente: confermò il rispetto della normativa costituzionale da parte del Csm, e oggi quella Relazione resta un punto fermo per chiunque voglia studiare e approfondire le competenze e le prerogative di tale organo. Parliamo di oltre trent’anni addietro, quando il Csm era più o meno a metà della sua poco più che sessantennale esistenza e Palamara non si era ancora neppure laureato.

Ma l’accostamento fra gli interventi riformatori di ieri e di oggi attraverso il fil rouge di Palamara non assurge a dignità di chiave di lettura: se l’approccio contro-riformatore di Cossiga non nascondeva i legami ideologici e politici con il Piano Solo, gli insulti del 2008 a un giovane e spaesato Palamara servivano solo a cannoneggiare la fortezza dell’indipendenza e autonomia della magistratura attraverso il suo varco più clamoroso e fragile. 

Ancora oggi è, infatti, incomprensibile (e inaccettabile) come un ordine con una storia e una tradizione culturale e istituzionale più che dignitose – per non dire onorevoli – abbia potuto mettersi in mani così modeste, prima ancora che spregiudicate. Ad ogni buon conto, sappiamo come è andata, con buona pace di quanti giuravano che l’evidente inconsistenza di Palamara avrebbe semplicemente consentito all’altrettanto evidente spessore di chi lo circondava di emergere ed essere egemone.

Fatto sta che una riforma è oggi ineludibile, sebbene nella cultura giuridica costituzionale e ordinamentale sia assai meno chiaro su cosa una tale riforma debba orientarsi, con quali obiettivi precisi, per ottenere quali risultati e con quali strumenti.

Se, infatti, nessuno (da molti anni) dubita della assoluta necessità di un ennesimo intervento (il settimo?) sulla legge elettorale del Csm – ganglio centrale per fissare la “cifra” dell’organo –, regna massima confusione sotto il cielo quanto a tutti gli altri aspetti su cui un intervento potrebbe rendersi utile, oltre che sulle stesse modalità contenutistiche di una nuova legge elettorale. 

In questo scenario, il difficile e circoscritto lavoro svolto della Commissione Luciani non può che risultare problematico e denso di insidie, oltre che incerto sulla portata costituzionale od ordinaria di una “buona” riforma del Consiglio superiore della magistratura.

 

2. I lavori della Commissione Luciani: geometria unitaria o rinnovo parziale periodico?

La Commissione opportunamente si interroga, innanzitutto, sulla funzionalità e sui limiti dell’attuale assetto, che vede l’intero Csm rinnovarsi e insediarsi unitariamente ogni quattro anni. 

L’interrogativo non è nuovo. La durata quadriennale del mandato fissata dalla Costituzione per i componenti del Csm ha sin dall’inizio determinato un assetto quadriennale dell’intero organo, analogo a quello dei tradizionali organismi della rappresentanza politica: elezione e rinnovo contemporaneo dell’intero Consiglio, come avviene per Camera e Senato (sulla stessa scia, la legislazione ordinaria ha fissato l’assetto delle articolazioni decentrate del governo autonomo della magistratura: i consigli giudiziari; sia pure con segmenti cronologici mutati nel corso del tempo). 

Per altri organismi anche più importanti, la Costituzione ha dettato regole diverse, imponendone il rinnovo parziale a scadenze differenziate (fra tutti, basti pensare alla Corte costituzionale). 

I pro e i contro delle due soluzioni sono piuttosto evidenti. 

L’insediamento e il rinnovo unitario a seguito di un’unica tornata elettorale valorizza la natura rappresentativa dell’organo e segna una soluzione di continuità nel funzionamento e nell’indirizzo del medesimo, in conformità alle indicazioni, rispettivamente, del corpo elettorale o delle maggioranze parlamentari del determinato momento storico in cui ricade il rinnovo. 

Il rinnovo parziale a scadenze differenziate valorizza la natura tecnica e istituzionale dell’organo ed evita soluzioni di continuità legate non soltanto ai mutamenti di orientamento culturale e politico, ma ancor più alla inevitabile esigenza di apprendimento di competenze nuove da parte di chi, neoeletto, si accosta in ogni caso a un “mestiere” nuovo, mai sperimentato in precedenza, e alla conseguente ricerca di nuovi equilibri. 

La Commissione manifesta una certa preferenza per il sistema del rinnovo parziale e, dunque, per la continuità nel funzionamento del Csm, soprattutto al fine di favorire una dialettica più fluida in seno all’organo e ostacolare il consolidarsi di aggregazioni di interesse interne. A queste ragioni esplicitate dalla Commissione possono facilmente essere aggiunte riscontrate esigenze di continuità e di funzionalità del Csm, certamente ostacolate da un vero e proprio riavvio quadriennale dell’organo, che nell’attuale assetto riparte interamente da zero ad ogni tornata elettorale, con possibili controindicazioni anche nell’ambito della ricerca del miglior equilibrio fra componente elettiva e struttura amministrativa[1]

La Commissione, tuttavia, ritiene che tale tipo di scelta non possa essere effettuata con semplice legge ordinaria, sull’attuale impianto costituzionale. 

Ciò non tanto perché essa sia incompatibile con esplicite disposizioni costituzionali, che invero nulla statuiscono su questo specifico aspetto, limitandosi a fissare la durata quadriennale del mandato. Rileva, infatti, la Commissione che – pur a Costituzione invariata – sarebbe possibile ipotizzare un meccanismo modulare il quale, aumentando il numero dei componenti, consenta un rinnovo cronologicamente “sfalsato” di un terzo di essi rispettando la durata quadriennale del mandato di ciascuno dei due segmenti[2]. Dunque, l’intervento sarebbe possibile. Ma, ad avviso della Commissione, l’ostacolo a tale soluzione è costituito dalla posizione del vicepresidente, il quale non potrebbe che essere eletto nell’ambito di una delle due componenti, venutesi in tal modo a creare, con la conseguenza che l’incarico dovrebbe, inopportunamente, avere durata biennale o – in alternativa – escludere una delle due componenti dalla possibilità di eleggere il vicepresidente nel proprio seno, con conseguente lesione della posizione di eguaglianza fra tutti i componenti dell’organo. Preoccupazioni eccessive? È possibile. 

 

3. I lavori della Commissione Luciani: quale vicepresidente e per quale Consiglio? 

In ragione di ciò, la Commissione avanza l’ipotesi di una modifica costituzionale che legittimi, innanzitutto, un intervento sull’assetto del rinnovo “modulare” del Csm[3], ma soprattutto che risolva il tema della posizione del vicepresidente con una consistente modifica di assetto istituzionale: la nomina del vicepresidente a cura del Presidente della Repubblica. Addirittura, la relazione suggerisce che la nomina del vicepresidente venga assegnata al Capo dello Stato, anche a prescindere dal rinnovo modulare del Consiglio e dunque anche nell’attuale assetto. 

Ad avviso di chi scrive, non vi sono ragioni per una chiusura pregiudiziale rispetto a un intervento costituzionale limitato ad entrambi i profili suggeriti dalla Commissione. Sia il rinnovo “modulare” che la nomina del vicepresidente a cura del Presidente della Repubblica appaiono compatibili con la visione ordinamentale del Csm immaginata dal Legislatore costituente e dalla migliore dottrina, e con una rigorosa interpretazione dei canoni di autonomia e indipendenza della magistratura. Il giudizio muterebbe, tuttavia, laddove al Presidente fosse assegnato anche un potere insindacabile di scioglimento dell’organo, come pure vi è un accenno nella relazione illustrativa. Un potere di scioglimento non codificato in una precisa e rigorosa indicazione dei presupposti potrebbe cancellare con un tratto il senso della collegialità di qualsiasi consesso, trasformando il suo presidente in un dominus

Indubbiamente si tratta di scelte con profili positivi e con profili di più incerta opportunità.

Il rinnovo “modulare”, pur sfumando l’accentuazione sulla natura rappresentativa del Csm, presenta il significativo vantaggio di assicurare una continuità istituzionale e funzionale dell’organo e una maggiore fluidità nella dialettica e nelle dinamiche interne. 

Tuttavia, non deve essere trascurato che tale meccanismo riduce sensibilmente il numero dei seggi “togati” da sottoporre a ciascuna delle due tornate elettorali. Non si tratta di un dettaglio trascurabile. Oggetto di separata disamina, il tema del meccanismo elettorale per il rinnovo del Consiglio superiore della magistratura costituisce, unanimemente, un punto nevralgico delle esigenze di riforma di quest’organo e non v’è dubbio che la sclerotizzazione e opacizzazione dei meccanismi della rappresentanza è largamente favorita dall’esiguità numerica e dimensionale dei seggi da sottoporre alla competizione – particolarmente in caso di competizione elettorale priva di liste concorrenti.

La nomina del vicepresidente a cura del Presidente della Repubblica costituirebbe una interessante novità, che avrebbe il merito di rafforzare il legame fra l’organo e il Capo dello Stato, e potrebbe slegare la nomina del vicepresidente dalla “contrattazione” politica attualmente connessa alla sua natura elettiva ed accentuare la funzione tecnico-istituzionale del Csm, senza smentirne il disegno ordinamentale attualmente sotteso. 

Anche questa inedita soluzione, però, non è priva di importanti punti interrogativi. 

L’organo avrebbe un vertice privo di rappresentatività, sebbene con una forte legittimazione che promana direttamente dal Presidente della Repubblica: non è facile pronosticare la pervietà e maturità della relazione con un’assemblea rappresentativa. Probabilmente, una tale innovazione funzionerebbe meglio nello scenario di un rinnovo parziale e modulare del Csm, che ne accentuerebbe la natura tecnico-istituzionale, sminuendone quella “politica” e semplificando le dinamiche dei rapporti fra l’assemblea e il suo vertice. 

È bene evidenziare che il punto di equilibrio fra natura rappresentativa e natura tecnico-istituzionale del Csm è estremamente delicato. Eliminare – o stemperare oltre un certo limite – il principio di rappresentatività significa inevitabilmente attrarre il Csm in una sfera di influenza istituzionale tanto preziosa, quanto potenzialmente capace di soffocarlo e di soffocare la freschezza e democraticità del pensiero interno alla magistratura e, in definitiva, l’autonomia e indipendenza della stessa. 

In ogni caso, questa modifica reciderebbe anche l’ultimo legame fra il Comitato di presidenza e il principio di rappresentanza. Il Comitato di presidenza – composto dal vicepresidente e dai due componenti di diritto: il presidente della Corte di cassazione e il procuratore generale presso di essa – svolge oggi un discusso ruolo di direzione e indirizzo del Csm, privo di solidi agganci normativi ordinari e del tutto privo di sostegno costituzionale. Oggi è proprio la figura del vicepresidente – eletto dall’assemblea – che assicura un legame di sufficiente rappresentatività fra il Comitato e l’assemblea. Svincolare del tutto il Comitato di presidenza da un legame politico e rappresentativo con l’organo costituzionale può riservare sorprese non adeguatamente valutate, separando e isolando ulteriormente un organismo (il Comitato) che già oggi sconta una certa diffidenza e autoreferenzalità. 

Un secondo profilo di dubbio, rispetto alla soluzione suggerita dalla Commissione, è costituito dalla potenziale caratura politica che a cura del Presidente assumerebbe la nomina del vicepresidente, se effettuata all’interno della platea dei componenti eletti dal Parlamento: scegliere il vicepresidente nell’ambito di un parterre di nomina parlamentare potrebbe coinvolgere il Presidente della Repubblica nella contesa politica ed esporlo a critiche, dovendo scegliere nell’ambito degli orientamenti che si sono confrontati fra maggioranza e opposizione. Ma il problema potrebbe trovare agevolmente soluzioni diverse, del resto accennate dalla stessa Commissione nella relazione espositiva[4]

Ma, come si è detto, i temi del rinnovo “modulare” e della nomina del vicepresidente – per come impostato dalla Commissione – importerebbero modifiche costituzionali, quindi esulano dalla concreta proposta di revisione e correzione del disegno di legge in materia e sono affidati solo ad alcune riflessioni contenute nella relazione di accompagnamento. Perciò essi restano fuori dal testo degli emendamenti e, dunque, non sembra utile approfondirli ulteriormente in questa sede.

 

4. La riforma varata con la legge n. 71/2022: Costituzione e funzionamento del Csm

Gli interventi incidenti direttamente sull’assetto complessivo del Consiglio, e in particolare sulla struttura e il funzionamento del medesimo, varati con la riforma sono, tutto sommato, contenuti. Dovendosi escludere dalla presente ricognizione i profili più specificamente attinenti all’ordinamento giudiziario, alla tematica del disciplinare, dei direttivi, della partecipazione dei magistrati alle elezioni politiche e della riforma elettorale del Csm, in quanto oggetto di specifica trattazione nell’ambito di altri articoli del presente numero, deve ritenersi che la riforma non stravolga l’assetto strutturale del Consiglio superiore della magistratura.

L’unico intervento significativo, da questo punto di vista, è costituito senza dubbio dall’aumento del numero dei componenti del Csm, che ritorna alla cifra complessiva di 30 membri, già ampiamente conosciuta in precedenza. La scelta – teoricamente in controtendenza rispetto alle più comuni spinte efficientiste, orientate a ridurre le dimensioni dei centri decisionali – va salutata con favore. Il Csm non è, tanto, un organo di governo, quanto soprattutto un organo di garanzia, e l’incremento – contenuto – del numero dei suoi componenti elettivi (da 24 a 30) non può che favorire la rappresentatività dell’organo e la sua capacità di esprimere valutazioni meditate e complete, come del resto si era già sperimentato per i lunghi decenni precedenti alla modifica del 2002. D’altra parte, il numero di decisioni e di deliberazioni che il Csm assume comunemente è oramai così elevato (nell’ordine delle decine di migliaia l’anno) da giustificare ampiamente l’esigenza che il numero dei componenti subisca tale aumento, ritornando al numero di 30 componenti elettivi, originariamente previsto.

Non può, invece, ritenersi significativa (e probabilmente neppure utile) la disciplina riferibile alla formazione delle commissioni consiliari contenuta nell’art. 22 della legge n. 71, laddove fissa in sedici mesi (in luogo degli attuali dodici) la scadenza del rinnovo dei componenti di ciascuna commissione, secondo i criteri fissati dal regolamento interno, precisando che i componenti “effettivi” della sezione disciplinare possono essere assegnati a una sola commissione e non possono far parte della commissione per il conferimento degli incarichi direttivi o semidirettivi, per le valutazioni di professionalità e per le incompatibilità di sede o di funzioni. Si tratta di un tentativo di affrontare lo spinoso tema dell’ipotizzata incompatibilità fra il ruolo di componente della sezione disciplinare e componente del Csm. Ad avviso di chi scrive, la dilatazione delle ipotesi di incompatibilità – che ha già stravolto l’assetto organizzativo del processo penale – rischia di estendere taluni eccessi anche alla materia consiliare. La soluzione adottata ha il pregio di non essere dirompente sul piano organizzativo – soprattutto alla luce dell’ampliamento del numero dei componenti varato con la nuova legge –, ma ha il difetto di recepire lo spirito dei sostenitori della ipotizzata incompatibilità, aprendo il varco a possibili futuri interventi radicali. Sono fortunatamente scomparsi i riferimenti a ipotesi di composizione delle commissioni mediante sorteggio. 

Per il resto, la riforma varata si mostra preoccupata e interessata a intervenire soprattutto su aspetti legati alla struttura e alla macchina amministrativa e organizzativa, come di seguito si segnala. 

 

5. La riforma varata con la legge n. 71/2022: la Segreteria e la struttura amministrativa

Uno dei punti di intervento piuttosto innovativi varati dalla legge n. 71 riguarda la struttura amministrativa e, in particolare, la struttura di segreteria[5].

Viene riconfermata l’estrazione necessariamente interna all’ordine giudiziario per quanto attiene alle figure del segretario generale e del vicesegretario, per i quali possono dirsi risolti alcuni problemi lessicali attinenti alla legittimazione necessaria a ricoprire tali incarichi[6]

L’art. 25 della legge interviene a modificare l’art. 7 della legge n. 195/1958, sostituendolo. 

Il nuovo testo stabilisce che il segretario generale è «designato» dal Comitato di presidenza, a seguito di un preventivo interpello fra tutti i magistrati (che abbiano conseguito almeno la quinta valutazione di professionalità), ma l’incarico è conferito con deliberazione del Csm. 

Con riferimento al vicesegretario generale, la nuova normativa prevede che esso sia «nominato» dal Comitato di presidenza, previo concorso per titoli aperto a tutti i magistrati (che abbiano conseguito almeno la terza valutazione di professionalità).

Per entrambe le cariche viene, ovviamente, stabilito che la nomina comporti il collocamento fuori ruolo dei magistrati nominati, fissando in sei anni il termine di durata dell’incarico, fermo restando il limite decennale complessivo fissato dalla disciplina per gli incarichi fuori ruolo.

La formulazione del testo contiene senza dubbio alcune imprecisioni, che nel caso del vicesegretario generale attingono il limite della superficialità. L’organo deliberante – e suscettibile di assumere decisioni con rilevanza giuridica esterna intorno allo status dei magistrati – è senza alcun dubbio il Consiglio superiore della magistratura e, dunque, l’assemblea. Se con riferimento alla posizione del segretario generale l’espressione “designazione” in luogo di “proposta” in capo al Comitato di presidenza può ritenersi irrilevante, attesa la esplicita precisazione che l’incarico è conferito con deliberazione del Csm, con riferimento alla posizione del vicesegretario generale l’indicazione che esso è nominato dal Comitato di presidenza – senza ulteriori precisazioni – deve ritenersi del tutto impropria e potenzialmente problematica. D’altro canto, entrambi devono essere collocati fuori del ruolo organico, decisione che può validamente essere assunta solo dal Csm nel suo complesso. Ed è del tutto evidente che in tal senso – ed in tal modo – dovrà trovare applicazione, a dispetto delle espressioni o della terminologia utilizzata nel testo normativo: il Comitato di presidenza, in entrambi i casi, dovrà formulare una proposta di nomina al plenum, e quest’ultimo assumerà le decisioni corrispondenti.

Sotto diverso profilo, va osservato che la nuova disciplina pone alcune ulteriori differenze, non secondarie, fra la nomina del segretario generale e quella del vicesegretario generale. Nel primo caso si osserva la valorizzazione della natura fiduciaria e interamente discrezionale dell’incarico, laddove essa avviene al di fuori di un meccanismo concorsuale. Nel secondo caso la norma utilizza, invece, l’espressione «previo concorso per titoli», che allude a una scelta che sembra rivestire un carattere più curriculare che fiduciario, pur se per entrambe le posizioni la scelta sembrerebbe riferibile alla volontà del medesimo organo non assembleare: il Comitato di presidenza. 

La disciplina varata offre, comunque, il fianco a perplessità e critiche, sia per le osservazioni già espresse, sia per la peculiare natura e ruolo del Comitato di presidenza, i cui compiti si ampliano considerevolmente con il nuovo testo normativo, come emergerà con maggiore chiarezza anche all’esito della disamina delle modifiche in punto di struttura di segreteria e Ufficio studi, che saranno esaminate di seguito. Sul punto, senza appesantire la presente riflessione, per quanti vogliano approfondire il tema della natura e del ruolo del Comitato di presidenza, può risultare sufficiente rinviare a quanto già pubblicato su questa Rivista: il riferimento è al n. 4/2017 della nostra Trimestrale, titolato a «L’orgoglio dell’autogoverno: una sfida possibile per i 60 anni del CSM», e in particolare al paragrafo 4 dell’articolo «60 anni di vita: le nostre rughe», dedicato specificamente al Comitato di presidenza, ma anche all’articolo pubblicato su Questione giustizia online il 26 maggio 2015, dal titolo «Autoriformare il CSM?»[7].

L’estrazione interamente interna all’ordine giudiziario viene messa, invece, in discussione per quanto attiene alla struttura della Segreteria (e dell’Ufficio studi, come vedremo), tuttavia lasciando al Consiglio importanti margini organizzativi: in particolare, il Consiglio dovrà fissare il numero complessivo di componenti esterni da assegnare alla Segreteria generale in misura non superiore a diciotto unità[8], tenendo conto delle proprie risorse finanziarie (il Csm ha, infatti, autonomia contabile e gestionale); la concreta scelta dei componenti la segreteria verrà effettuata mediante selezione per titoli e colloquio, effettuata da una commissione a composizione mista: due magistrati di legittimità e tre professori universitari di discipline giuridiche, individuati dal Comitato di presidenza. 

Questo coefficiente numerico di componenti esterni della Segreteria (che prenderebbe il posto degli attuali magistrati segretari) può essere composto per due terzi da magistrati ordinari con almeno la seconda valutazione di professionalità – collocati fuori ruolo per la durata dell’incarico –, ma almeno il restante terzo dev’essere riservato a dirigenti amministrativi provenienti da amministrazioni pubbliche centrali (od organi costituzionali) con almeno otto anni di esperienza. 

La durata massima dell’incarico – fatti salvi, per i magistrati, i limiti massimi generali sulla durata decennale dei collocamenti fuori ruolo – verrebbe fissata per tutti in sei anni, utilizzando, per i dirigenti amministrativi, lo strumento di contratti di collaborazione continuativa (assolutamente non rinnovabili né stabilizzabili) all’uopo introdotti nella normativa di settore. A migliore garanzia di trasparenza, verrebbe fissata in tre anni la durata della graduatoria degli idonei all’esito di ciascuna procedura concorsuale, così da ostacolare il rinnovarsi di procedure concorsuali al solo fine di aggirare graduatorie non gradite.

La soluzione adottata ha l’obiettivo di aprire all’esterno l’attuale prospettiva tutta interna alla corporazione, che vede la dirigenza della segreteria generale del Csm interamente affidata ai magistrati. Tuttavia, sussiste qualche perplessità circa l’idoneo raccordo fra la soluzione proposta e la vigente disciplina inerente al personale amministrativo del Csm, introdotta a seguito della creazione del ruolo autonomo di tale personale[9].

Ma, a prescindere dalle incertezze circa la pervietà del raccordo normativo, pur apprezzandosi l’equilibrio della proposta e lo spirito che la caratterizza, sembra permanere più di qualche dubbio sul piano della concreta utilità ed efficacia della disciplina, che introduce figure dirigenziali amministrative finora estranee all’organizzazione del Consiglio. 

Mentre per i magistrati il passaggio dal Consiglio per l’incarico di magistrato addetto alla Segreteria generale costituisce un’attrattiva coerente con il proprio percorso professionale e, in quanto tale, capace di arricchirlo e di costituire un’effettiva ambizione in vista di un futuro rientro in organico, è dubitabile che possa risultare altrettanto attraente un incarico provvisorio per un dirigente – con ben otto anni di servizio – di diversa amministrazione, tanto più se di provenienza da un organo costituzionale. 

Innanzitutto, non sarà indolore creare le condizioni affinché tale passaggio provvisorio possa costituire un’attrattiva economica: si parla, infatti, di personale che è già dirigente di altre amministrazioni centrali od organi costituzionali da almeno otto anni ed è impegnativo immaginare che un incarico di collaborazione continuativa di questo genere con il Csm possa essere più remunerativo in misura così consistente da costituire un’attrattiva. Ma – in disparte l’aspetto economico che potrebbe trovare soluzione grazie all’autonomia contabile del Csm – è soprattutto la natura temporanea dell’incarico che rischia di porre il dirigente di provenienza da altra amministrazione al di fuori delle dinamiche di carriera dell’ amministrazione di provenienza, senza incardinarlo in nuove dinamiche dell’amministrazione di destinazione, stante la necessaria temporaneità dell’incarico. Del resto, il Csm è una piccola amministrazione, con limitate prospettive di carriera per un dirigente amministrativo (non a caso, finora è mancata tale figura) e soprattutto con un orizzonte culturale e professionale molto circoscritto e specifico: la gestione della carriera e della vita professionale dei magistrati e della magistratura. È improbabile che possa risultare appetibile, specialmente per una permanenza limitata che interrompe un percorso maturato altrove e difficile da riprendere al termine dell’incarico. La norma varata nella legge n. 71 afferma espressamente che «almeno un terzo (pari a non più di 6 unità) dei posti complessivi della segreteria (pari a non più di 18 unità) è riservato a dirigenti amministrativi provenienti da organi costituzionali e amministrazioni pubbliche»; essa sembra, quindi, imporre una soluzione che sarebbe stato meglio limitarsi a consentire o a favorire. Resta, certo, la possibilità che il terzo dell’organico in questione non venga coperto, ma questo ridurrebbe considerevolmente la possibilità di funzionamento della macchina amministrativa, laddove oggi il numero dei magistrati segretari assegnati al Consiglio è pari a 14 unità, e già così risulta in affanno.

Il testo normativo tocca, poi, anche aspetti più specificamente legati al reperimento e all’utilizzazione di professionalità amministrative esterne al personale del Csm, mediante la possibilità di distaccare personale di altre amministrazioni a supporto delle esigenze del vicepresidente e dei componenti del Consiglio. Si tratta semplicemente dell’ampliamento numerico di strumenti già in parte a disposizione del Consiglio nell’attuale assetto normativo, che se hanno il pregio di migliorare e aumentare gli strumenti operativi a disposizione del Csm hanno anche il difetto di aumentare le occasioni di spesa mediante circuiti concorsuali semplificati o meccanismi francamente fiduciari per esigenze di servizio transitorie e legate alla singola consiliatura, peraltro non sempre oggettivamente riscontrate: duttilità significa incisività e adattabilità, ma anche discrezionalità e ampliamento delle possibilità di spesa, anche perché – per quanto attiene ai contratti di collaborazione continuativa – appare oggetto di contrattazione la stessa entità del compenso[10]

 

6. La riforma varata con la legge n. 71/2022: l’Ufficio studi e documentazione

La legge n. 71/2022 dispone, poi, anche per l’Ufficio studi e documentazione un’operazione non dissimile a quella poc’anzi descritta per la Segreteria, con le peculiarità di cui si dirà a breve. 

Viene, cioè, demandata al Consiglio superiore della magistratura la possibilità di individuare, nei limiti delle proprie risorse finanziarie, il numero (non superiore a dodici unità) di componenti dell’Ufficio studi e documentazione. Anche nel caso di quest’ultimo, la concreta scelta dei componenti avverrà mediante selezione per titoli e colloquio, effettuata da una commissione a composizione mista: due magistrati di legittimità e tre professori universitari di discipline giuridiche, individuati dal Comitato di presidenza. Si tratta di una soluzione pressocché identica a quella prevista per la Segreteria (fatta salva la possibilità di “tarare” i titoli anche sulla base della diversa tipologia dei rispettivi ruoli[11]). 

In questo caso, almeno un terzo dell’organico fissato dal Consiglio è riservato, però – anziché a dirigenti amministrativi – a professori o ricercatori universitari in materie giuridiche o ad avvocati con almeno dieci anni di esercizio effettivo, laddove i restanti due terzi sarebbero riservati – come per la Segreteria – a magistrati ordinari che abbiano conseguito almeno la seconda valutazione di professionalità, da collocarsi fuori del ruolo organico.

La soluzione appare ancora più opinabile di quella adottata per la Segreteria. Ciò sotto più profili.

Innanzitutto, l’attività propria dell’Ufficio studi e documentazione è di natura squisitamente giuridica, nella peculiare materia dell’ordinamento giudiziario e del diritto costituzionale ed amministrativo, con specifico riferimento alle problematiche attinenti allo status del magistrato e all’assetto ordinamentale della magistratura. Si tratta di un segmento giuridico piuttosto preciso e circoscritto, strettamente connesso e funzionale all’autonomia e indipendenza dell’ordine giudiziario: è il vero e proprio core business del Consiglio superiore della magistratura. Considerato che si tratta propriamente di riflettere sulla normativa che governa la carriera dei magistrati, suscita perplessità constatare che si ritenga utile limitarne, sia pure in parte, la presenza all’interno dell’organo che ha la specifica funzione costituzionale di tutelarne autonomia e indipendenza.

Ma il punto dolente non è tanto l’apertura, limitata a un terzo, verso esperienze professionali altamente qualificate, che ben strutturata potrebbe in linea teorica aumentare la resa speculativa dell’Ufficio arricchendola di qualificati apporti esterni, quanto la concreta modalità utilizzata, considerato che attrarre energie professionali e scientifiche qualificate non è scontato né facile. Si tratta, infatti, di assicurarsi la selezione di personale con elevata competenza giuridica ed esperienza di approfondimento scientifico e culturale. 

Sotto questo profilo, l’apertura ai professori universitari di discipline giuridiche appare indiscutibilmente una scelta felice e potenzialmente fertile. Considerazione analoga può essere fatta verosimilmente anche per i ricercatori universitari delle medesime discipline. Si tratta di un ceto professionale particolarmente qualificato e molto ben selezionato, già incardinato in una carriera ricca di prospettive e di esperienze qualificanti, il cui apporto non può che arricchire il Csm. In merito a questa apertura si possono nutrire solo perplessità sulla concreta attrattività di un tale incarico, rispetto a un mondo che dispone già di prospettive professionali attraenti e orientate verso una carriera interna all’accademia. Potrà esservi concreto interesse verso un incarico di durata limitata, che certamente assorbirà energie professionali e speculative intense, trattandosi di un ruolo decisamente impegnativo? 

Verrebbe da dire che l’unico modo di saperlo è sperimentarlo. 

Il punto dolente, però, è dato dal fatto che la norma non si arresta all’apertura verso il segmento professionale accademico, ma offre l’alternativa della possibilità d’inserimento in questo ruolo anche di avvocati con almeno dieci anni di esercizio effettivo della professione. Non è chi non veda come si tratti di un taglio professionale decisamente differente. Non perché – evidentemente – nell’ambito della professione forense difettino carature professionali anche di elevatissimo livello, quanto per il fatto che un incarico del genere di quello in discussione, comportando inevitabilmente la sospensione dall’albo professionale, per di più per una durata massima circoscritta nel tempo a non più di sei anni, non può che perdere attrattiva per qualsiasi avvocato affermato nella propria dimensione professionale, finendo con l’essere attraente solo per quella parte del ceto professionale forense che non è riuscita a trovare uno spazio in un corpo numericamente molto esteso e privo di una sua efficace selettività.   

Così strutturata la normativa, è facile – e allarma – pronosticare che l’Ufficio studi e documentazione del Csm resterà, in questo terzo, privo di copertura o, in alternativa, verrà coperto con personale preso dalla parte meno selezionata del mondo dell’avvocatura.

 

7. Tout se tient

Al termine di questo breve e limitato ragionamento sulla circoscritta riforma della struttura amministrativa del Csm e su alcuni aspetti della sua vita, una riflessione sembra inevitabile: intervenire sui delicati equilibri dell’impianto sotteso all’organizzazione del terzo potere dello Stato è materia complessa, da maneggiare con cautela. Si tratta di un sistema in cui tutto si tiene in un delicato equilibrio. La riforma di questo organismo richiede una filosofia di fondo, una visione complessiva dell’organo e della magistratura. Il testo di legge varato non si discosta dall’assetto costituzionale attuale – sul quale, infatti, non interviene –, ma non è possibile per questo concludere che la qualità dell’intervento sia irrilevante sulla tenuta dell’organo. Pur nel rispetto del disegno costituzionale, più di un aspetto delle modifiche varate suscita ragionate perplessità.

Ci pare pertinente, tuttavia, ricordare che le riforme – anche quelle migliori – camminano e si inverano solo attraverso la vitalità del corpo su cui si innestano. L’etica, la visione, la cultura, il nerbo e l’energia della magistratura sono la trama che sostiene qualsiasi intervento riformatore. Se si tratta di una trama fragile o – peggio – priva di sufficiente uniformità e coesione, non risulterà in grado di reggere le inevitabili ed enormi sollecitazioni che un ordine giudiziario dovrà sempre sostenere. Se, al contrario, si tratta di una trama solida e coesa, neppure cattive riforme potranno facilmente piegarla. Finora la magistratura questo lo ha capito. Ritrovi fiducia in se stessa e rispetto per il proprio ruolo e vedrà che la riforma, qualsiasi riforma, avrà un miglior sapore e comunque troverà ben diverso petto. 

 

 

1. Nel rinnovo quadriennale dell’intero organo, tutte le competenze e “i saperi” legati alla conoscenza delle complesse normative secondarie, delle prassi applicative e degli indirizzi amministrativi seguiti sono assicurate solo dalla struttura amministrativa, e in particolare dai magistrati segretari e dall’Ufficio studi, così potendosi sbilanciare o rendere meno limpido l’equilibrio fra componente elettiva e struttura amministrativa, inconveniente che sarebbe largamente disinnescato dalla continuità connessa a un rinnovo parziale biennale. 

2. Sarebbe all’uopo sufficiente aumentare di un terzo l’attuale coefficiente numerico di 24 membri elettivi, portandolo a 36 e procedere al rinnovo “sfalsato” di tale “nuovo” terzo. 

3. Meglio se per metà dell’organo, piuttosto che secondo la geometria: 2/3 - 1/3.

4. Si potrebbe, ad esempio, ipotizzare che il Presidente della Repubblica scelga il vicepresidente autonomamente, al di fuori dei componenti eletti dal Parlamento, salvo l’eventuale riequilibrio numerico dei componenti o l’individuazione di altre soluzioni finalizzate a non incidere sull’attuale composizione “binaria” del Consiglio. Ma, a maggior ragione, una tale scelta può essere fatta solo avendo chiaro quanto essa allontani il Csm dall’attuale prossimità alla logica della rappresentanza, attraendola alla sfera d’influenza dell’alta magistratura.

5. Il tema della struttura amministrativa nel suo complesso è affrontato approfonditamente in questa Rivista trimestrale, nel fascicolo n. 4/2017, con riflessioni in parte ancora oggi utili. 

6. Il riferimento alle funzioni di legittimità viene adeguato alla normativa vigente in punto di valutazione di professionalità, così eliminando taluni contrasti interpretativi – non sempre disinteressati – che nel passato anche recente avevano inciso sulle valutazioni in punto di legittimazione a ottenere la nomina.

7. Vds., rispettivamente: www.questionegiustizia.it/rivista/articolo/60-anni-di-vita-le-nostre-rughe_491.php; www.questionegiustizia.it/articolo/autoriformare-il-csm__26-05-2015.php

8. Attualmente, l’art. 7, comma 1 della l. n. 195/1958 ne fissa il numero a 14. Ma in realtà una ricognizione puntuale del complesso assetto della normativa applicabile è contenuta nella delibera Csm del 5 dicembre 2012, avente ad oggetto: «Disciplina sulla presenza dei magistrati presso la Segreteria e l’Ufficio Studi del Consiglio superiore della magistratura». 

9. Sul punto, può risultare utile la ricostruzione operata nella citata delibera Csm del 5 dicembre 2012.

10. Anche sul punto, giova rimandare a questa Rivista trimestrale, n. 4/2017.

11. Più organizzativa, amministrativa e operativa la natura degli incarichi presso la Segreteria, più di studio e approfondimento normativo e scientifico la natura degli incarichi presso l’Ufficio studi e documentazione.