Magistratura democratica

60 anni di vita: le nostre rughe

di Marco Patarnello

Da quando, sessanta anni addietro, è stata varata la legge istitutiva, il Csm è sempre stato al centro di tentativi di cambiarne le funzioni e di “controllarne” l’attività. Se sul piano delle funzioni non vi sono stati stravolgimenti che ne abbiano svuotato il ruolo, sul fronte della legge elettorale e dei comportamenti concreti le cose sono andate diversamente. Anche la via dell’autoriforma, pur toccando alcuni punti nevralgici, non sembra spostare significativamente il baricentro politico dell’organo, che fatica ad essere percepito solidamente come il presidio di indipendenza della magistratura.

1. Buon Compleanno!

Quello dei 60 anni è un compleanno importante: è un’età di bilanci. Complessivamente ho trascorso col Consiglio dieci di questi sessant’anni. Non una relazione breve o fugace, dunque. Né per me né per lui, visto che molte delle sue delibere, circolari e pareri portano anche il mio segno. Dieci anni di entusiasmi e di contrasti, di soddisfazioni e di frustrazioni, di vittorie e di sconfitte, anche molto brucianti. Comunque dieci anni importanti. In oramai ventotto anni da magistrato ho mutato spesso opinione sul Consiglio e sulla sua attività e l’ho sempre osservato con attenzione, come non ho mai smesso di osservarne i protagonisti: talvolta grandi magistrati e uomini delle istituzioni e della politica, con una bella e limpida visione della giustizia e dello Stato, talaltra piccoli uomini dagli orizzonti limitati e senza occhi che per sé. Idealisti, concreti, illusi, meschini, intelligenti, colti, ignoranti. Con o senza un prezzo. Abbiamo votato di tutto. Talvolta senza saperlo, perché è in Consiglio che viene fuori al naturale la sostanza di ciascuno. Durante quei quattro anni trascorsi ad amministrare discrezionalmente interessi importanti in una convivenza strettissima per ore e ore e giorni e mesi e anni, in un unico e piccolo ambiente composto da un manipolo di persone, sempre le stesse.

Ma se una lezione ho imparato è che gli individui contano fino ad un certo punto. Non perché ciascuno di noi non possa fare la differenza ed essere in una singola vicenda quel piccolo sassolino che fa saltare l’intero ingranaggio o quella leva che solleva il macigno. Ma perché in questa materia non si tratta di impartire assoluzioni o condanne individuali. Certo, anche quelle contano, ma non sono il punto. Ciascuno di quegli uomini qualche volta ha votato bene, qualche altra male e spesso senza seguire la logica che gli aggettivi che ho snocciolato indurrebbe a credere. Molti di loro, dal mio punto di vista, hanno votato per lo più bene o per lo più male, ma ancora una volta senza che ciò corrisponda necessariamente alla logica delle loro qualità individuali. Il punto è che in questo campo conta soprattutto il lavoro comune, il risultato finale complessivo. Il costume, l’etica, l’amministrazione, la politica, sono il frutto di un lavoro collettivo. Un lavoro che facciamo anche noi che lo eleggiamo, che ne dibattiamo, che lo stimoliamo con le nostre richieste o aspettative. Che crediamo o non crediamo alla carriera, alla distinzione solo per funzioni, al bene comune. Se il Csm ha le rughe, sono anche le nostre rughe, ovviamente ciascuno secondo le proprie responsabilità. È per questo che - oltre alla cultura e all’aggiornamento tecnico - aggregarsi per idee e confrontarsi intorno ad esse sarà sempre l’unico strumento di crescita disponibile per una società, un potere, un ordine professionale. Finché si crederà nella democrazia. La democrazia siamo noi. La politica siamo noi. L’associazionismo siamo noi. Il Consiglio siamo noi. Ovviamente non siamo tutti uguali e neppure tutti ugualmente responsabili. Ma è solo confrontandoci gli uni con gli altri in modo schietto e senza sconti che possiamo cercare la strada. Quindi Buon compleanno Csm! Che tu possa restare quel presidio di indipendenza per cui sei stato pensato!

2. Sei decenni di “attenzioni”

Da sempre sotto esame di detrattori e difensori, il Csm ha costantemente alimentato il dibattito politico, mediatico, accademico, giuridico. Il desiderio o “la brama” di riformarlo o di “cambiargli i connotati” è stato costante. Fra tutte le iniziative volte a “riformarlo” mi piace ricordare la più “autorevole”, quella del Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, il quale nel 1990 nominò la Commissione Paladin con l’incarico di realizzare uno studio sul Csm e le sue competenze: l’intento dichiarato era quello di mettere in evidenza i travalicamenti del Consiglio dalle sue funzioni ed “accusarlo” al Parlamento perché lo “riformasse”[1]. Tuttavia, siccome il diavolo fa le pentole, ma non i coperchi, la relazione della Commissione Paladin confermò l’aderenza del Csm al ruolo disegnatane nella Costituzione e nella legge e quella relazione rimane oggi una pietra miliare per chiunque voglia studiare questo organo e conoscerne le effettive competenze e prerogative.

Non essendo, finora, riuscito a cambiarne abbastanza profondamente le funzioni e le prerogative, il Legislatore ha trovato più utile cambiarne più volte la legge elettorale, alla ricerca di quella che meglio rispondesse ai suoi desiderata. L’odierno e consolidato punto di arrivo è sotto gli occhi di tutti: abolizione della competizione fra liste e collegi distinti per funzioni. Presa da questo versante la riforma del Csm sta in tutta evidenza dando i suoi frutti avvelenati. Il tema della legge elettorale si lega a quello delle cd. “correnti” e meriterebbe una trattazione autonoma in quanto costituisce lo snodo centrale dell’associazionismo giudiziario del terzo millennio. In questa occasione mi preme sottolineare che la attuale legge elettorale aveva il compito di eliminare dal Consiglio l’influenza delle correnti e - checché se ne pensi - lo sta centrando in pieno, pur con i tempi e i modi che i cambiamenti culturali richiedono. Vale la pena sottolineare che in assenza di un ruolo autorevole delle associazioni di magistrati, assumono chiaramente significato e peso altro genere di circuiti o di meccanismi di aggregazione del consenso intorno alle scelte del Csm. Il più forte e subdolo, in quanto poco osservabile ed identificabile, è senza dubbio quello dei legami e rapporti personali: la logica dell’amico/nemico tende a spostarsi dal terreno delle idee a quello della conoscenza, diretta o indiretta, senza ulteriori mediazioni. Ma molto comune ed evidente è senza dubbio anche quello legato alla provenienza territoriale, invero già riscontrabile nel passato ed oggi ancora più evidente. Infine acquista peso lo specifico professionale: i mestieri del giudice sono molteplici e talvolta molto specialistici e creano anch’essi aggregazioni. Ho sempre trovato molto “istruttivo” e spiacevole osservare come, ad esempio, intorno ad una nomina o ad una vicenda giudiziaria palermitana, piuttosto che barese o fiorentina (ma nessuna area territoriale ne è immune, neppure la capitale) si muovessero al Csm aggregazioni inaspettate e francamente incomprensibili, se slegate dalla chiave territoriale. Ma ciò che più conta, a mio giudizio, è che in assenza di un ruolo autorevole dei gruppi di magistrati acquistano peso e capacità di penetrazione tutti gli interessi diversi che si muovono intorno al Consiglio: la politica dei “laici”, le cordate di interessi o “potentati” di varia natura, locali, personali, accademici, partitici, economici. Il consigliere privo di un tessuto ideale e di un gruppo autorevole di riferimento è più solo, più vulnerabile, più raggiungibile. Meno soggetto alla necessità di un confronto, di un render conto, di un obbligo di rappresentanza ideale. Ovviamente non basta una legge elettorale a conferire o a sottrarre autorevolezza al dibattito ed allo spessore “politico” di qualsiasi aggregazione associativa. Purtroppo le correnti hanno già fatto da sé buona parte del lavoro, seguendo una crisi che investe la politica nel suo complesso e l’intera società. Però la legge elettorale – come ben sa chi queste leggi le scrive – conta e molto. Scollegare la competizione elettorale dal legame con liste e idee diverse, di magistratura e di giustizia, significa inaridire o, peggio, avvelenare la sorgente da cui si alimenta la democrazia e, in definitiva, mettere al centro la gerarchia e (quando va bene) il tecnicismo sterile e fine a sé stesso. Anche la natura del collegio elettorale, collegata alle funzioni svolte dal candidato, contribuisce ad imprimere un’idea di magistratura gerarchica e a compartimenti stagni e ad irrigidire il meccanismo della competizione di un corpo elettorale già molto piccolo. Complessivamente un danno non troppo diverso, quindi, da quello del sorteggio, invocato anche da qualche voce interna alla magistratura e apoteosi del “tafazzismo”. Chi non crede nella democrazia non crede in sé stesso. E chi non crede in sé stesso non ha più molto da dare, sebbene possa avere ancora da prendere.

In assenza di una specifica e complessiva riforma[2], il Consiglio ha costantemente tentato la via dell’autoriforma e si può dire che non ci sia stata consiliatura che non abbia varato qualche intervento riorganizzativo o di riscrittura, magari parziale, del Regolamento interno. Sulla versione on line di questa Rivista, il 26 maggio 2015[3], in attesa di conoscere i risultati di quest’ultima – allora in gestazione – approvata nel settembre 2016, indicavo alcuni punti che a mio giudizio era indispensabile rivedere, fra i quali spiccava senza dubbio il nodo del Comitato di presidenza. Oggi che è passato più di un anno dalla riscrittura del Regolamento interno del Csm, muovendo dai temi che indicai nell’articolo on line citato, possiamo fare qualche breve riflessione per cercare di capire se sono stati fatti dei passi avanti e quali. 

3. “Sedersi in plenum

Una prima constatazione scoraggia: all’inizio della precedente consiliatura furono mutate, d’autorità, le posizioni di seduta dei consiglieri in seno al plenum; l’imposizione verticistica fu un’umiliazione dell’Assemblea, che preferì rimuovere l’evento ed accettare il cambiamento imposto senza neppure discuterne. Con la stessa logica, a me sembra, il nuovo Regolamento interno ha accuratamente evitato di affrontare la questione.

Cerco di essere più chiaro. Da sempre i componenti del Consiglio, sul presupposto di poter scegliere liberamente la posizione in cui sedere, sedevano in Assemblea secondo i propri orientamenti ideali o, se preferite, ideologici: i consiglieri dei gruppi di Md, Unicost, Mi e Movimento per la giustizia-Art. 3 sedevano fra loro vicini e allo stesso modo sedevano vicini per consonanze ideali i rappresentanti eletti dal Parlamento. Inopinatamente, con l’inizio della consiliatura 2010-2014, fu posto il problema di come dovessero sedere in seno all’Assemblea plenaria i componenti del Consiglio.

Non so se in realtà l’espressione “fu posto” sia quella giusta, perché se si effettua una ricerca nei verbali consiliari il tema non fu mai esplicitamente e pubblicamente dibattuto. Fatto sta che dai “vertici” del Csm[4] si sostenne che l’articolo 8 del Regolamento interno impedisse di sedere liberamente in plenum e men che meno secondo l’innominabile criterio “correntizio”; quindi si cambiarono di modo e di fatto le posizioni dei “cavalieri” con i nomi dei consiglieri, secondo un più “maschio” criterio di anzianità, come si conviene ad un gerarchico ordine militare quale da molte parti si auspica per la magistratura. Inutile dire che l’art. 8 non esprimeva alcuna indicazione di questo genere[5].

Comunque nessuno obiettò nulla; neppure obiezioni banali tipo: «ma l’art. 8 non dice questo», oppure «è solo un Regolamento, il Csm siamo noi, possiamo comunque cambiarlo»; tutti sedettero secondo il nuovo ordine senza batter ciglio: quando si dice “l’irresistibile forza della legge”! Stupì vedere come magistrati attrezzati, abituati a prendere decisioni delicatissime e sotto pressioni enormi e a farsi rispettare in tutte le occasioni possano avere subito l’umiliazione – anche personale, ma soprattutto – istituzionale, di non decidere autonomamente come sedere in seno al plenum, lasciando che tale scelta fosse calata dall’alto senza discuterne.

Si potrebbe dire che quel modo di sedere era la consacrazione e formalizzazione del dominio delle tanto vituperate “correnti” e che i consiglieri accettarono il cambiamento semplicemente perché era giusto e lo condividevano. Si può dire anche (e non senza argomenti) che il modo di sedere in plenum fosse allora – e sia ancora oggi – una piccola cosa, irrilevante rispetto all’obiettivo di fare buona amministrazione giudiziaria.

Ma non sarebbe sincera (né vera!) alcuna delle due considerazioni. Il Csm andava avanti secondo quell’assetto da molti e molti lustri; era così già nella consiliatura 1986–1990 e non saprei dire esattamente quando fu introdotto, ma sono certo che fu il frutto di battaglie nella direzione opposta, cioè dalla gerarchia alla democrazia, perché di questo si tratta. Cambiarlo era in realtà una scelta delicata ed importante ed estremamente sensibile sul piano politico; era una scelta precisa; posso anche capire che fosse inevitabile o – per qualcuno addirittura – giusto metterla in discussione, ma non si poteva – e doveva – farlo senza esplicitare ed affrontare tutti i nodi ed i significati che erano dietro quella scelta, accettando che fosse semplicemente imposta dall’alto. Anche questo significa tenere la schiena dritta, o non tenerla. A mio avviso questo cambiamento è la cifra del cambiamento del Csm e ne segna, in qualche modo, lo spartiacque. È uno dei frutti della legge elettorale vigente.

Ebbene, la riforma del Regolamento interno varata da questo Consiglio con delibera del 26 settembre 2016 sotto questo profilo ha cambiato la successione numerica dell’art. 8, divenuto articolo 10; il dettato normativo si è arricchito di aspetti importanti; ma in relazione alla questione segnalata il testo è rimasto identico al precedente. Come, del resto, la seduta dei consiglieri in seno al plenum. Sedersi secondo l’ordine di anzianità pare che piaccia. E, se mi è consentito, si vede.

4. Comitato di presidenza

La vicenda segnalata ci aiuta ad introdurre un altro tema importante, in fondo collegato, meno simbolico, ma assai più concreto: quello del ruolo e dei confini del Comitato di presidenza, divenuto centro nevralgico dell’equilibrio dei poteri e delle competenze in seno al Csm.

Il Comitato di presidenza è composto, com'è noto, dal Vice presidente che lo presiede e dai due componenti togati di diritto: Primo presidente e Procuratore generale della Corte di cassazione. Non è un organo previsto dalla Costituzione. È privo di rappresentatività, ma soprattutto contribuisce in modo determinante ad imprimere un’altra curvatura gerarchica al Csm, facendosi interprete di un ruolo di rappresentanza che non gli compete e che sottrae inevitabilmente all’Assemblea, sede della rappresentanza.

Esso era stato introdotto e disciplinato in modo a dir poco essenziale dalla legge istitutiva del Csm e dal dPR n. 916/58. La norma di legge primaria che ne costituisce l’architrave è l’art. 2 della legge 24 marzo 1958 n. 195, il quale ne definisce lapidariamente i compiti precisando che «Il Comitato promuove l’attività e l’attuazione delle deliberazioni del Consiglio e provvede alla gestione dei fondi stanziati in bilancio ai sensi dell’art. 9». Su questo architrave di legge primaria si regge oggi un intero palazzo. A cominciare dal ruolo nevralgico di proposta al Presidente del Csm – e Capo dello Stato – in ordine al numero, alla composizione, alla presidenza ed alle attribuzioni di ciascuna delle Commissioni consiliari, come disposto dall’art. 31 del dPR n. 916 del 1958. A fronte di questa scarna, ma significativa, disciplina normativa, il Regolamento interno del Csm precedente a quello attuale varato con la citata delibera consiliare del 2016, ampliava l’ambito delle competenze assegnate a questo organo interno attribuendogli le delicate e importanti deliberazioni sulle funzioni della Segreteria, demandando al Vice presidente la concreta regolazione delle stesse[6].

Il ruolo del Comitato ha risentito molto della personalità e del peso del Vice presidente che di volta in volta lo presiedeva e poiché in questa materia la prassi ha un peso rilevante col tempo è divenuto impropriamente un organo di “governo” del Consiglio, con potestà valutativa anche della opportunità o meno di apertura delle pratiche – e, dunque, di trattazione o meno di un determinato argomento o questione – oltre che con una capacità di indirizzo sempre maggiore anche in ordine alla struttura amministrativa e della Segreteria, alla gestione del contenzioso, alla utilizzazione dell'Ufficio studi, alla rappresentatività esterna. L'autorevolezza e pervasività di questo organo è andata crescendo soprattutto nella consiliatura a presidenza Vietti (la stessa che ha mutato la seduta dei consiglieri nell’aula del plenum), assumendo un peso politico che gli consente oramai di gestire il delicato capitolo della composizione e presidenza delle Commissioni con scelte di larga autonomia dai desiderata della componente elettiva, tanto togata quanto laica. Cosa, nel passato, del tutto impensabile.

Non v'è dubbio che in questo campo pesa chi conta e chi ha filo da tessere. Ma è altrettanto indubbio che quello del “potere” del Comitato costituisce uno dei nodi nevralgici e dei nervi scoperti che disciplinano gli assetti di funzionamento e di linea politica del Csm, tanto in senso positivo (la prossimità al Presidente della Repubblica, suprema magistratura, ne costituisce certamente un punto di forza e di vitalità), quanto in senso negativo (la mancanza di rappresentatività lo isola ed imprime una pericolosa curvatura “gerarchica” al suo ruolo).

Il nuovo Regolamento interno, essendo una riscrittura integrale, affronta anche questo tema e mostra una certa consapevolezza del problema. Nel riproporre, sostanzialmente, l’impostazione e la disciplina precedente, effettua alcuni interessanti interventi, certamente diretti nella direzione di una maggiore attenzione al riequilibrio, in senso costituzionale, delle conoscenze e dei poteri fra Comitato e consiglieri. Meno, rispetto al Consiglio nel suo complesso.

In particolare stabilisce che il verbale delle sedute del Comitato venga comunicato a tutti i componenti, laddove in precedenza era previsto che ciascun componente potesse semplicemente chiedere di prenderne visione (e si badi che per “prendere visione” si era anche inteso “leggere ma non estrarne copia”). Prevede, altresì, che ciascun componente possa chiedere ed ottenere che il Comitato espliciti la motivazione di una o più deliberazioni. Prevede, inoltre, che su richiesta di almeno un quarto dei componenti elettivi si possa indurre il Comitato di presidenza a riesaminare una deliberazione già varata. Ma soprattutto il nuovo Regolamento prevede anche che alle riunioni del Comitato, per l’esame di specifiche pratiche, possano chiedere di partecipare, senza prendere parte alle deliberazioni, uno o più presidenti di Commissione o, in casi particolari (non precisati e dunque rimessi alla valutazione del Comitato), uno o più componenti, salvo che non sia necessario deliberare d’urgenza. Qualche ulteriore timida correzione nella mappa della distribuzione dei poteri in seno al Csm il nuovo Regolamento ha dettato anche con riferimento alla procedura per la nomina del Segretario generale e del Vicesegretario generale: il potere di proposta al plenum resta in capo al Comitato di presidenza, ma la nuova disciplina prevede che il Comitato acquisisca l’intesa della Terza commissione e che sia quest’ultima ad effettuare l’audizione dei candidati, laddove nel testo previgente non era prevista alcuna intesa, ma semplicemente alla Terza commissione potevano essere delegate competenze istruttorie.

È qualcosa. Sotto certi profili è molto ed è facile immaginare che non sarà stato facile intervenire su questa parte del Regolamento.

In particolare è abbastanza rispetto alla circolazione delle conoscenze e delle informazioni e dunque rispetto alla trasparenza delle scelte del Comitato, ma va detto che sarebbe stato utile estendere il diritto di partecipazione, a richiesta, a ciascuno dei componenti e non limitarlo ai soli presidenti di Commissione, peraltro nominati, com’è noto, dallo stesso Comitato. Non è una differenza da poco, anche solo sul piano dei principi.

Manca, invece, anche il solo tentativo di affrontare il delicato tema dell’apertura delle pratiche. Non si tratta di un aspetto secondario o banale. Il sindacato sull’opportunità o meno di aprire una pratica su un certo argomento e dunque la possibilità di stoppare in radice la trattazione di un determinato tema non appartiene al Comitato e costituisce una deviazione dall’assetto costituzionale, maturata solo per la assenza di consapevolezza “politica” del Csm da alcune consiliature a questa parte. Intendiamoci, da sempre l’organizzazione del lavoro interno ha previsto che la posta o l’arrivo di documentazione controversa nella destinazione fosse sottoposta all’esame preventivo del Comitato, che ne determinava il destino, ma l’uso di tale potere è stato sempre prudente, al più orientato a valutare tecnicamente se l’atto dovesse essere trasmesso alla competenza di una piuttosto che di un’altra Commissione o di entrambe, ma quasi mai ad archiviare un atto dotato di un certo rilievo politico o addirittura una specifica richiesta di apertura di una pratica su un certo argomento avanzata da uno o più componenti. Sul punto nulla è stato chiarito neppure nel nuovo Regolamento.

Allo stesso modo è rimasta pressoché invariata la disciplina relativa ai rapporti fra Comitato e Ufficio studi, sulla carta circoscritti ad eventuali richieste di relazioni e pareri. Anche in questo caso tocca intendersi: la disciplina attualmente vigente non è mutata nel corso del tempo e nei tempi meno recenti ha anche dato buona prova di sé. Il punto è che la normativa non è mai solo quella scritta, ma è soprattutto quella che vive nelle prassi concrete. Sotto questo profilo sono alcuni anni che la tradizionale autonomia dell’Ufficio studi e soprattutto la sua collocazione tutta all’interno del perimetro elettivo del Consiglio (direttore dell’Ufficio studi, Commissioni, consiglieri, Vice presidente) è stata messa in discussione, avendo il Comitato di presidenza instaurato di fatto un crescente rapporto diretto con tale articolazione, che ad esempio prescinde dallo stesso direttore dell’Ufficio studi, con mandati specifici e diretti, anche nel segmento del contenzioso, che pure non gli appartiene.

Ma soprattutto sarebbe stato utile – e forse capace di riequilibrare il peso “politico” delle diverse articolazioni interne al Consiglio – inserire anche l’attività del Comitato fra quelle oggetto della Sessione annuale sullo stato delle attività del Csm previste e disciplinate dall’art. 41 dell’attuale Regolamento interno: una riflessione annuale su questi temi (invero spesso trascurata, quando non del tutto rimossa), che tocca tutte le principali articolazioni consiliari, non dovrebbe prescindere da una riflessione sull’attività annuale del Comitato. Tale accorgimento sarebbe stato il corollario ineludibile del ruolo centrale e del potere concreto che tale organo ha assunto nella prassi consiliare.

5. La struttura amministrativa: segreteria e ufficio

Nel già citato articolo di Questione giustizia on line pubblicato il 26 maggio 2015 segnalai il tema della struttura amministrativa del Consiglio ed in particolare della Segreteria e dell’Ufficio studi, quale tema potenzialmente “caldo” di una autoriforma all’epoca in gestazione. Non vogliamo dimenticare che molteplici erano le preoccupazioni che segnalai motivatamente, rispetto ai rischi di un intervento peggiorativo su questo terreno. È giusto riconoscere che quelle preoccupazioni sembrano essersi dimostrate destituite di fondamento, se si eccettuano dal bilancio le potenziali ricadute, di difficile valutazione, dell’introduzione della figura dell’assistente di studio non magistrato, su cui ci soffermeremo a breve. Sul tema specifico della Segreteria e dell’Ufficio studi il nuovo Regolamento ha conservato tutto il positivo impianto precedente, che lascia interamente alla magistratura la copertura di questi gangli vitali del Csm, talvolta precisandone ed arricchendone i contenuti.

Tuttavia, non può dirsi che l’intervento abbia sciolto i delicati e difficili nodi che attengono alle modalità di selezione e scelta dei magistrati che compongono questi due importanti uffici, rispetto ai quali si è limitato ad un modesto – ma positivo – intervento, assegnando alla Terza commissione il potere di proporre al Consiglio la nomina per questi incarichi, d’intesa con il Comitato, diversamente da quanto stabilito - e sopra ricordato - rispetto alla nomina del Segretario e del Vicesegretario generale, per il quale la geometria dei ruoli è opposta (propone il Comitato, d’intesa con la Terza commissione). Non si comprende gran che il senso di dettare una disciplina differente per la nomina del Segretario e Vicesegretario generale, da una parte, e per la nomina – quanto meno – dei magistrati segretari, dall’altra: la struttura è unica e forse sarebbe bene che tale unicità fosse sottolineata, non sfumata o confusa, quasi che tali figure rispondano a interlocutori diversi.

Ma sul punto il tema vero è capire se per la nomina a questi incarichi si debba andare verso un’accentuazione della prospettiva tecnico-concorsuale o se sia significativa anche la componente “fiduciaria” (e quindi “politica”) della scelta, avendo presente che le funzioni del Csm sono essenzialmente di natura amministrativa, non giurisdizionale (con la sola eccezione della Sezione disciplinare, rispetto alla quale, però, il ruolo del magistrato segretario è del tutto differente e meriterebbe un discorso a parte).

Nel valutare questo aspetto non è secondario ricordare che il fronte tecnico-giuridico coinvolto nell’attività della segreteria e dell’Ufficio studi del Csm è soprattutto quello dell’ordinamento giudiziario, nonché del diritto amministrativo e del diritto pubblico in generale. Si tratta di branche del diritto che si caratterizzano per una rilevante pregnanza culturale e politica. Ciò non solo per la loro natura direttamente connessa a valori costituzionali e politici (in una certa misura tutto il diritto risente di ciò), ma perché – soprattutto per l’ordinamento giudiziario – è raro osservare un interesse ed una competenza in tale disciplina che non si accompagni ad un impegno o ad un interesse politico o associativo, non essendo tale disciplina il proprium dell’attività giurisdizionale.

Sullo sfondo di tali considerazioni, per trovare il miglior criterio di selezione a mio giudizio potrebbe risultare utile tenere distinte le due funzioni: segreteria e ufficio studi.

Il ruolo della segreteria del Csm (intendendo per tale l’intera struttura, dal magistrato segretario al Segretario generale) è strettamente connesso con quello delle scelte amministrative, con l’esercizio dell’amministrazione, e si interfaccia in modo molto stretto con il lavoro dei componenti del Consiglio. In questi incarichi la componente fiduciaria della scelta, sebbene non sia e non debba essere l’unica, è certamente significativa.

Il lavoro dell’Ufficio studi è considerevolmente diverso. Il magistrato addetto all’Ufficio studi è chiamato a rendere un parere o a predisporre una relazione su una questione giuridica che, anche quando nasce da un caso concreto (e spesso non è neppure così), prescinde da esso e se ne tiene distante: illustra la linea di indirizzo giuridico seguita dal Consiglio sulla questione di diritto posta e pone soluzioni interpretative possibili o opportune. Si tratta di un ruolo più distante dal caso concreto, che anzi deve tenersi ben distante dall’amministrazione. Ed infatti il parere non è vincolante e neppure di rilievo o conoscibilità esterna. Per questo la struttura dell’Ufficio studi ha bisogno di maggiore autonomia e indipendenza e quindi di maggiore distanza dall’agone e dai relativi protagonisti.

Pur non essendo questa l’occasione per approfondire soluzioni, ritengo che la migliore disciplina dei criteri di selezione per tali incarichi debba muoversi sulla base di queste differenze. Una certa analogia sussistente fra incarichi all’Ufficio studi e incarichi presso uffici di legittimità potrebbe far ritenere opportuno imprimere una curvatura di tipo più concorsuale a questa specifica scelta, andando non tanto verso un impraticabile ed inopportuno concorso scritto, quanto magari verso l’inserimento, nella procedura di nomina, del giudizio della commissione tecnica sui titoli scientifici prevista per gli incarichi presso la Corte di cassazione. So che anche le nomine presso gli uffici giudiziari di legittimità sono al centro di polemiche e dubbi, ma non direi che sia stato il giudizio della Commissione tecnica ad aver fatto parlare male di sé.

6. Assistenti di studio e segreteria del consigliere

Qualche parola merita l’introduzione della figura degli assistenti di studio del componente del Consiglio, figura - per come strutturata - attualmente non centrale e di dubbia utilità, ma potenzialmente problematica. Bisogna dire che da molto tempo la legge ha introdotto figure di supporto ed ausilio al componente, consentendone la scelta fiduciaria con incarico contrattuale quadriennale non prorogabile, o con distacco da altre amministrazioni, o individuando il collaboratore all’interno del personale in ruolo presso il Consiglio. Ma mentre sinora si era trattato di collaboratori di segreteria, di rango non elevato e con un taglio amministrativo e operativo, il nuovo articolo 10 del Regolamento interno ha introdotto la possibilità per il componente di ottenere, in alternativa al “segretario”, un “assistente di studio non magistrato”, scelto fra gli abilitati alla professione forense o fra laureati in giurisprudenza con il titolo di dottore di ricerca o con il diploma di specializzazione per le professioni legali. Come si vede si tratta di una figura con un profilo professionale “elevato” e “giuridico”.

A prescindere dalle perplessità di ordine generale su tutte le “assunzioni” (ancorché precarie o a tempo determinato) senza concorso e da quelle connesse con le esigenze di contenimento della spesa e della sua moralizzazione, che pure sono imprescindibili, va detto che l’introduzione di queste ulteriori figure non convince ed anzi sembra inopportuna, anche sotto il profilo della effettiva utilità.

Il Csm è già dotato di una sua autorevole e qualificata burocrazia, composta innanzitutto dai magistrati segretari, quindi dai funzionari e collaboratori amministrativi in pianta organica. Vi è poi l’Ufficio studi. I componenti del Csm - tanto laici quanto togati - sono ben supportati nello svolgimento della loro attività istituzionale con una struttura che è pienamente in grado di fornirgli tutto il supporto necessario, tanto amministrativo quanto giuridico. Del resto per decenni l’attività dei consiglieri non ha avuto alcun supporto individuale, ma al più unità centralizzate a supporto di “gruppi” consiliari o di singoli consiglieri, per esigenze operative: prenotazioni e acquisti di biglietti, fissazione di appuntamenti, tenuta dell’agenda, ecc..

È ben vero che l’attività in seno al Csm è cresciuta, che oggi è molto intensa ed assorbente, che talvolta diventa totalmente assorbente e che quindi vi sono esigenze di tipo organizzativo, amministrativo e personale, connesse con l’incarico, che hanno favorito la creazione di un supporto individuale fiduciario, introdotto con la riforma legislativa del 2000. Ma mentre un supporto di segreteria può avere una sua giustificazione (tenere in ordine le pratiche assegnate al componente, verificarne la completezza del materiale per la decisione, seguire gli spostamenti del consigliere con prenotazioni ed acquisti di biglietti, tenere l’agenda e i contatti telefonici, ecc.), nessuna concreta utilità deriva dall’ausilio di assistenti di studio, se non quella di ampliare il parterre di soggetti gravitanti intorno al Consiglio e che pesano sulle sue casse.

L’istituto è chiaramente mutuato dalla Corte costituzionale. Ma in quella sede costituisce un elemento di assoluta utilità, trattandosi di attività giurisdizionale di elevatissimo livello tecnico-giuridico, rispetto alla quale gli assistenti di studio costituiscono l’unico presidio di supporto giuridicamente qualificato e del resto si tratta di un organo centrale nella vita dello Stato, con esigenze e attività del tutto differente e che giustifica anche uno status individuale particolarmente elevato. Nel caso del Csm questa figura non risponde a nessuna delle esigenze segnalate e la sua introduzione può solo appagare soddisfazioni o aspirazioni personali ed economiche. Creare confusione. E magari costituire un precedente.

7. Proposte a pacchetto

La riforma del Regolamento interno varata con la delibera del 26 settembre 2016 ha inteso affrontare anche quello che, soprattutto nel dibattito della mailing list, è considerato un punto nevralgico del potere delle correnti: le cc.dd proposte a pacchetto, vale a dire quelle delibere per trasferimenti (solitamente ad incarichi di legittimità o presso la Dna) che, governando con un’unica pubblicazione concorsuale – e dunque un’unica delibera finale – un insieme omogeneo di posti, consentono o favoriscono “accordi” complessivi fra le correnti, che escludono dall’accesso a questi incarichi i magistrati più bravi e non “schierati”, determinati a non chiedere “favori”.

Oggi si potrebbe dire che il problema è risolto: è stata introdotta la possibilità regolamentare di “spacchettare” le delibere e votare nominativo per nominativo.

Ma va detto che in questo primo anno di applicazione i pochi e isolati[7] tentativi di “spacchettare” sono naufragati innanzi al voto del plenum.

Indubbiamente il problema è essenzialmente politico, mentre quello tecnico regolamentare, apparentemente risolto, è in realtà molto più complesso e di difficile soluzione e la soluzione adottata dall’attuale regolamento non convince, anche se la sua tenuta non si è ancora potuta sperimentare in concreto perché, appunto, nessuna delibera “spacchettata” è stata sinora approvata.

Il problema politico è serio, ma la sua serietà non è data dallo strumento (una sola delibera per più posti, cui si poteva solo votare complessivamente a favore o contro o astenersi). Anche per le delibere su incarichi direttivi è possibile osservare accordi o “pacchetti” confezionati in modo complessivo.

Ma restiamo ancora un momento sul problema tecnico. La necessità di una delibera complessiva nasce innanzitutto dalla pubblicazione contestuale di più posti omogenei a concorso. In linea teorica ben sarebbe possibile pubblicare ed effettuare singoli concorsi per ciascun posto, ad esempio, presso la Corte di cassazione. Il punto è che sarebbe inaccettabilmente disfunzionale ed allungherebbe a dismisura i già lunghissimi tempi di copertura. Trattandosi per lo più di decine di posti cui aspirano gli stessi candidati per ciascun posto, spesso nell’ordine di centinaia di domande, le posizioni e le delicate comparazioni si intersecano irrimediabilmente ed essendo limitato fortemente il valore dell’anzianità le motivazioni sono – oltre che estremamente opinabili – estremamente complesse. “Spacchettare” è quindi praticamente impossibile. Il nuovo Regolamento, in realtà, cercando di dare riscontro alle promesse elettorali fatte da gruppi e da singoli consiglieri sul punto, ha stabilito che è consentito lo “spacchettamento” e dunque la votazione nominativo per nominativo, risolvendo i connessi problemi di motivazione nell’unico modo possibile, vale a dire con un obbligo di motivazione successiva, assegnato alla Commissione. L’idoneità di questo sistema, come ho detto, non è stata sperimentata, dal momento che nessuna proposta individuale è stata approvata. Ma se ciò fosse accaduto sarebbe stato interessante osservare la tenuta innanzi al giudice amministrativo di una delibera motivata da un organo (la Commissione) che dovrebbe motivare una delibera che non condivideva e che lo smentisce. Insomma, il tentativo di consentire lo “spacchettamento”, varato con il nuovo Regolamento è apprezzabile nell’intento, ma non credo che possa dare frutti concreti.

Resta, comunque, il problema politico, che, in definitiva, è un problema di etica politica e soprattutto di responsabilità politica. È invitabile che in un organo collegiale la decisione debba trovare i voti e quindi il consenso di una maggioranza. E mi rendo conto che individuare i migliori in un contesto di centinaia di colleghi aspiranti è molto difficile e inevitabilmente opinabile. Vi sono, tuttavia, dei limiti anche all’opinabilità delle scelte e questi limiti troppo spesso vengono travalicati. È a questo che serve la responsabilità politica. Come è stato già pertinentemente osservato[8], se da un organismo strutturato in chiave elettorale e quindi democratica si elimina il legame coi gruppi o le liste elettorali e si affida la selezione elettorale interamente alla competizione fra individui (per di più non immediatamente rieleggibili) si elimina il principio di responsabilità politica. Sappiamo – per averlo osservato anche da cittadini nel circuito politico collettivo – che il principio di responsabilità politica non è la panacea che risolve i problemi di gestione della società: anche la democrazia ha dei limiti e dei difetti. Ma al momento non si conoscono sistemi migliori. Ed è velleitario e, in definitiva, molto ingenuo credere che sarà la tecnologia con le sue consultazioni capillari e perenni a toglierci le castagne dal fuoco. Tocca vigilare. Discutere, confrontarsi e vigilare. Insomma tocca faticare e non ci sono scorciatoie, perché il bianco ed il nero non esistono, ci si può avvicinare a distinguerli solo con la fatica e il confronto. Quindi buona sudata a tutti.

[1] «…Ho il dovere di informare il Consiglio superiore di avere costituito nell’ambito della Presidenza della Repubblica, avvalendomi dei miei poteri autonomi di organizzazione, una Commissione di studio presieduta dal prof. Livio Paladin, della quale fanno parte eminenti giuristi, con il compito di accertare, attraverso l’analisi dell’attività compiuta, quali attribuzioni e attività il Consiglio superiore abbia esercitato sul piano effettivo e sulla base di quale fondamento normativo positivo o consuetudini o prassi interpretative o modificative. Questa Commissione presidenziale agirà in modo totalmente indipendente. Sulla base della relazione che sarà redatta da detta Commissione ed in cui verrà dato conto integrale anche delle eventuali opinioni dissenzienti, investirò il Parlamento, nelle forme e nei modi che saranno ritenuti più idonei…» . Indirizzo di saluto del Presidente della Repubblica Francesco Cossiga per l’insediamento del Consiglio superiore della magistratura – Quadriennio 1990-1994 – Roma, 26 luglio 1990.

[2] Il Csm è stato marginalmente lambito dai molteplici interventi normativi sull’ordinamento giudiziario e meno marginalmente da alcuni interventi legislativi sulla legge istitutiva maturati nel corso degli anni, fra cui va ricordato quello operato con la legge n. 44/2002, che ne ha ridotto il numero dei componenti elettivi da 30 a 24

[3] M. Patarnello, “Autoriformare” il Csm?, in Questione Giustizia on line, 26 maggio 2015, www.questionegiustizia.it/articolo/autoriformare-il-csm__26-05-2015.php.

[4] Presidente della Repubblica era Giorgio Napolitano, il Vice presidente del Csm era Michele Vietti, il Primo presidente era Ernesto Lupo e il Procuratore generale era Gianfranco Ciani.

[5] «1. I componenti del Consiglio partecipano ai lavori e alle deliberazioni del Consiglio stesso e delle sue Commissioni in condizioni di parità. 2. Al Presidente seguono, nelle manifestazioni ufficiali, il Vicepresidente e, quindi, il Primo presidente della Corte di cassazione, il Procuratore generale presso la stessa Corte e tutti gli altri componenti in ordine di età. 3. Le stesse norme valgono anche per la elencazione dei componenti del Consiglio nei suoi atti, nelle sue sedute ed in ogni altro caso nel quale venga osservato un ordine di precedenza».

[6] Così recitava, all’art. 6, il precedente Regolamento: «1. Il Comitato di presidenza delibera validamente con la presenza del Vice presidente e di almeno un componente. In caso di impossibilità di sua convocazione, provvede, per gli affari di ordinaria amministrazione, il Vice presidente, sentiti i due presidenti magistrati, più anziani in ruolo, delle Commissioni permanenti. 2. Delle riunioni del Comitato di presidenza viene redatto processo verbale, del quale ogni componente del Consiglio può prendere visione. Delle più rilevanti determinazioni il Vice presidente informa tempestivamente il Consiglio nella sua successiva riunione. 3. Il Vice presidente regola, in conformità delle deliberazioni del Comitato di presidenza, le funzioni della Segreteria». Come si vede, a fianco del già rilevante potere di proposta al Presidente della Repubblica in ordine ad un segmento così importante come quello del numero, composizione, attribuzioni e presidenza delle Commissioni consiliari, assegnato al Comitato espressamente dal citato articolo 31 del dPR n. 916, il precedente Regolamento inseriva il riferimento alla regolazione delle funzioni della Segreteria.

[7] A quanto mi consta sono state formulate solo due proposte del cons. Ercole Aprile, per incarichi di legittimità, bocciate dall’Assemblea.

[8] Al proposito, si vedano le considerazioni di Giuseppe Cascini e Rita Sanlorenzo, Il ruolo politico del Csm, in Questione Giustizia on line, Rubrica Cronache fuori dal Consiglio, 28 dicembre 2017, www.questionegiustizia.it/articolo/il-ruolo-politico-del-csm_29-12-2017.php.