Magistratura democratica

La discrezionalità del Consiglio:
una prerogativa irrinunciabile dell’autogoverno o un peso insostenibile per la magistratura?

di Mariarosaria Guglielmi

La discrezionalità è una prerogativa irrinunciabile per l’autogoverno e lo strumento per conformare le scelte di amministrazione ai valori costituzionali e alle esigenze della giurisdizione.

La rinuncia alle prerogative di discrezionalità delinea una nuova fisionomia del Csm, funzionale ad una ristrutturazione in senso verticistico e burocratico dell’ordine giudiziario, e riduce il suo ruolo politico nella difesa e nella promozione dei valori che sono a fondamento della giurisdizione.

In questa consapevolezza la magistratura deve ritrovare il senso dell’appartenenza all’istituzione consiliare e l’aspirazione ad un autogoverno all’altezza delle aspettative di giustizia della collettività

1. L’istituzione “inquieta” e l’onere della discrezionalità

«Un esperimento molto avanzato di istituzionalità democratica, una soluzione istituzionale molto raffinata che può dare corpo ad istanze profonde di democrazia» e che, «pur tra incertezze e contraddizioni, ha mostrato non solo di poter vivere ma anche di poter incidere»[1].

Con queste parole Salvatore Senese descriveva il Consiglio superiore e la sua vitalità democratica: alimentata dalla “politicità” e dal “pluralismo”, questa vitalità ha fatto del Csm un luogo di crescita della magistratura e della sua capacità di partecipazione attiva al dibattito culturale e politico nel Paese.

Nelle varie fasi della sua evoluzione, il  Consiglio superiore è sempre stato un’«istituzione inquieta, animata da una volontà di presenza e di assunzione di responsabilità»[2]. E come istituzione inquieta si è fatta interprete delle contraddittorie istanze riversate al suo interno dalla magistratura, in perenne alternanza fra spinte al cambiamento e resistenze in favore dell’assetto esistente, apertura al confronto critico e all’interlocuzione esterna e chiusura verso la difesa di categoria.

Attraverso i percorsi travagliati che queste istanze hanno prodotto e la costante dialettica fra le componenti di diversa estrazione ed orientamento culturale, obbligata ad assumere sempre anche “il diverso punto di vista”, nell’autogoverno la magistratura ha acquisito maggiore consapevolezza di sé, della ricchezza del suo pluralismo e, al tempo stesso,  dell’importanza della sua identità unitaria di soggetto collettivo, costruita sulla base di valori comuni e di una diversa visione dell’indipendenza: non prerogativa del «giudice-individuo» ma della «magistratura-comunità», posta a presidio dell’«autonomia complessiva dell’istituzione»[3] .

Le potenzialità democratiche espresse dal sistema di autogoverno hanno impedito la trasformazione dell’ordine giudiziario, perennemente tentato dai rischi di ripiegamento corporativo, in mera categoria professionale e hanno vivificato l’istituzione consiliare, rendendola partecipe della vita sociale e politica del Paese, rappresentativa della magistratura di fronte alla collettività e, come ogni istituzione, bisognosa del suo riconoscimento e della sua fiducia.

Ma il Consiglio non è stato solo il luogo dove si è sviluppata l’identità in senso democratico della magistratura come soggetto plurale ed aperto.

Il governo autonomo è assunzione di responsabilità e il suo valore risiede nella capacità di mettere le prerogative di indipendenza e di autonomia dell’ordine giudiziario al servizio della giurisdizione e di tutte le esigenze che una giurisdizione in evoluzione esprime: la salvaguardia delle condizioni per un esercizio indipendente delle funzioni, che richiede non solo la “difesa” dei singoli da interferenze e attacchi, ma, sempre più, la credibilità dell’intera magistratura quale condizione della fiducia che questa deve ricevere dalla collettività[4]; le scelte di organizzazione e di amministrazione conformi ai fondamenti costituzionali della giurisdizione e funzionali alla trasparenza e al buon andamento degli uffici; la promozione di una professionalità adeguata dei singoli e della consapevolezza di ciascuno del proprio ruolo e della propria responsabilità culturale per i provvedimenti adottati; lo sviluppo di una diffusa cultura dei diritti e delle garanzie.

E il rapporto di costante simmetria che attraverso l’autogoverno si realizza fra esercizio delle attribuzioni del Consiglio e le esigenze della giurisdizione, impone oggi alla magistratura di farsi carico del ruolo “forte” assunto dalla giurisdizione, investita da aspettative crescenti di tutela dei diritti e della legalità, e di operare, con gli strumenti a disposizione dell’autogoverno per le condizioni di una sua piena legittimazione sociale: la capacità di far fronte a tali aspettative e l’attitudine a rendere conto del proprio operato.

L’autogoverno può assumere su di sé questa “complessità” che caratterizza i compiti di amministrazione della giurisdizione e sostenerne il peso solo rivendicando funzioni, prerogative e responsabilità altrettanto complesse: la funzione “politica” del Consiglio, insita nella sua identità di istituzione dinamica , proiettata nella più ampia dimensione della vita democratica del Paese dalla sua composizione, dalle sue competenze di interlocuzione e indirizzo sulle scelte di politica giudiziaria, dal suo ruolo di orientamento dei compiti di amministrazione della giurisdizione in funzione dei valori e dei principi costituzionali; le prerogative di discrezionalità, essenziali per conformare le scelte di amministrazione ed organizzazione a tale attività di orientamento, e attuare un bilanciamento “non neutro” di tutti gli interessi che vengono in rilievo in funzione di quelli generali della giurisdizione; la responsabilità rispetto alla coerenza fra le scelte, le opzioni culturali e politiche di fondo e i criteri che devono indirizzare l’esercizio della discrezionalità; il dovere di rendere conto, garanzia contro l’interferenza nei processi decisionali di logiche corporative e di appartenenza, interne alla magistratura, e tentativi di etero-direzione dell’attività consiliare.

La sfida per il futuro dell’autogoverno è nella sua capacità di continuare a farsi carico di questa “complessità” nell’interesse della giurisdizione e, in questa prospettiva, di rivendicare la discrezionalità come strumento irrinunciabile di conformazione della sua attività ai valori politici sottostanti al ruolo che la Costituzione assegna alla giurisdizione.

Una sfida che pone oggi l’autogoverno di fronte alla necessità di ripristinare e mantenere attivo quel circuito nel quale deve inserirsi l’esercizio della discrezionalità: recuperando il ruolo e il senso politico della rappresentanza, come indispensabile veicolo di idealità ed opzioni politico-culturali diverse all’interno del Consiglio; operando per una piena assunzione di responsabilità rispetto alla trasparenza delle scelte di amministrazione e alla loro rispondenza ai bisogni della giurisdizione.

Una sfida dagli esiti incerti per il Consiglio che verrà, erede di una nuova, difficile stagione di inquietudini per la magistratura e per il Paese.

2. Una nuova stagione di inquietudini: crisi della discrezionalità, crisi dell’autogoverno, crisi della magistratura

Il quadriennio che volge al termine ci consegna un Consiglio profondamente mutato nella percezione che ha di sé e in quella che ne hanno la magistratura e il Paese, nelle sue aspirazioni e nelle sue prospettive, negli assetti interni e nel ruolo assunto rispetto all’evoluzione del rapporto con la sfera politica, sempre più avvertito come funzionale agli equilibri imposti dalle esigenze di governo del Paese.

In altri contributi di questo numero ritroviamo un’analisi più approfondita dei cambiamenti strutturali prodotti nella fisionomia consiliare dal progressivo spostamento dell’asse di “direzione politica” dalla dimensione collegiale dell’assemblea plenaria a favore del Comitato di presidenza, e dal ruolo determinante assunto dalla componente laica[5]. Il peso politico e la rilevanza esterna (e mediatica) acquisiti dalla vicepresidenza e da tutto il Comitato di presidenza hanno delineato di fatto un nuovo sistema di governo improprio del Consiglio, che rischia di assegnare all’organo “di vertice” anche un ruolo di orientamento “culturale” della magistratura[6]. Alla perdita della centralità della dimensione collegiale e alla verticalizzazione interna delle funzioni di indirizzo e di rappresentanza esterna, fortemente avvertita e sofferta dalla magistratura, hanno contribuito le dinamiche interne alla componente togata, la scarsa coesione dei gruppi, la loro difficoltà a ritrovare una posizione di egemonia culturale facendosi interpreti di un’organica e condivisa linea politico istituzionale e di un comune progetto di governo della magistratura.

La trasformazione della capacità di protagonismo politico e culturale del Consiglio in quella di direzione e di governo del suo “vertice” organizzatorio e della componente laica si è realizzata nel contesto di una generale crisi del sistema delle rappresentanze e di una profonda mutazione della funzione rappresentativa del pluralismo giudiziario prodotta, come sottolineato in altri contributi di questo numero[7], dai frutti avvelenati portati in dono dalla riforma elettorale. Un processo che è giunto a compimento attraverso il progressivo svuotamento del contenuto di “politicità” e di “idealità” nel legame dei singoli eletti con le articolazioni della magistratura associata e la trasformazione della rappresentanza politica in una rappresentanza di interessi, di categorie e di territori, che privilegia «il singolo rispetto al gruppo»[8].

Con l’indebolimento della rappresentanza e della sua funzione di veicolare nell’autogoverno le idealità, i valori e i risultati dell’elaborazione collettiva affidata all’associazionismo giudiziario si è insterilito il ruolo di orientamento culturale che questa elaborazione deve svolgere nell’autogoverno rispetto all’esercizio delle sue prerogative di discrezionalità.

Si sono così create le premesse per il venir meno di quelle potenzialità democratiche del Consiglio insite nella politicità del suo ruolo e delle sue funzioni, a vantaggio di forme di subalternità alla sfera politica.

In parallelo a questo cambiamento strutturale si è avviato da tempo un insidioso processo di erosione della credibilità e della legittimazione del sistema di autogoverno dal suo interno, che sembra pericolosamente avvicinarsi ad un punto di non ritorno.

Un nuovo senso comune attraversa oggi il “corpo inquieto” della magistratura che sempre più si sente estraneo al suo sistema di autogoverno e avverte l’istituzione consiliare come un vertice decisorio, permeabile e funzionale agli obiettivi più generali di etero- direzione della politica e di una marcata gerarchizzazione interna dell’ordine giudiziario.

L’istituzione consiliare è stata sempre rappresentativa della magistratura, delle sue contraddizioni e delle sue inquietudini. E sempre controverso è stato il suo rapporto di organo governante con la magistratura governata: un rapporto fatto di consapevolezza dell’insostituibile ruolo del Consiglio nel presidiare l’indipendenza della giurisdizione, di senso di  appartenenza all’istituzione che ha contribuito alla tenuta democratica del Paese nei momenti più drammatici della sua storia, di critica consapevole delle sue cadute e dei suoi cedimenti alle logiche corporative e a quelle di potere interno ed esterno all’ordine giudiziario, ma anche di generica diffidenza e atteggiamenti di pura rivendicazione.

Contraddizioni che non hanno fatto venire meno quella immedesimazione fra Consiglio e magistratura che, pur attraversando fasi di crisi e momenti di caduta, ha garantito la tenuta del sistema di “rappresentanza”, attraverso quel percorso circolare di fiducia che lega l’istituzione consiliare alla magistratura e che deve sorreggere il difficile esercizio delle sue prerogative consiliari.

Nello spazio vuoto che oggi separa la magistratura dal Consiglio si diffondono atteggiamenti di diffidenza e di critica generalizzata verso l’esercizio della discrezionalità: da strumento essenziale del governo complesso della giurisdizione, la discrezionalità è diventata nella percezione comune assenza di regole e di responsabilità per le scelte. E in questa percezione comune rischia di diventare un peso insostenibile per la magistratura e il suo sistema di autogoverno.

3. La riforma ordinamentale del 2007 e la sua attuazione: storia di un percorso interrotto

La “crisi” della discrezionalità rappresenta il punto di approdo del percorso a ritroso che ha caratterizzato in questi ultimi anni il processo di autoriforma cominciato nel 2007.

Un processo che, nell’avvio della nuova stagione aperta dall’approvazione della grande riforma ordinamentale, è stato caratterizzato dal forte protagonismo del Csm e dalla spinta verso il nuovo corso che ha “imposto” ad una magistratura non pienamente consapevole del cambiamento culturale richiesto dalla rinuncia alle “certezze” di carriera.

Raccogliendo con determinazione la sfida lanciata dal legislatore, il Consiglio ha operato un forte investimento sulle due principali “leve” del cambiamento rappresentate dall’attuazione del principio di temporaneità degli incarichi direttivi e dal nuovo sistema di valutazione della professionalità.

All’origine di questa scelta vi è stata, per usare ancora le parole di Salvatore Senese, una piena assunzione di responsabilità politica e culturale del Consiglio rispetto alla sua capacità di gestire gli spazi di ampia discrezionalità aperti dal superamento del sistema di selezione dei dirigenti per anzianità e di operare per un innalzamento del livello di tutto il sistema di governo autonomo, necessario per un corretto e trasparente esercizio di tali prerogative.

Chi ha vissuto la prima fase di attuazione della riforma dall’interno del Consiglio è stato testimone dello slancio con il quale è stato intrapreso questo nuovo percorso e del ruolo trainante che il Consiglio ha svolto rispetto a tutto il circuito del governo autonomo: vincendo le resistenze culturali al cambiamento provenienti da una parte della magistratura e, al suo interno, dalle componenti associative che più hanno sostenuto questa azione di resistenza, il Consiglio ha garantito il rapido adeguamento della normativa secondaria necessaria per operare il rinnovamento della dirigenza e consentire a Consigli giudiziari e dirigenti di fornire elementi di valutazione effettivi e attendibili.

Una stagione di protagonismo culturale e di assunzione di responsabilità, dunque, che ha prodotto risultati tangibili in termini di rinnovamento della dirigenza e, nell’immediato, un impegno di tutto il circuito di autogoverno finalizzato a raccogliere la “sfida di professionalità”.

Iniziato il periodo di “gestione” del cambiamento con la consiliatura 2010/2014, proprio rispetto al nuovo sistema di selezione della dirigenza si è registrata una “forte reattività” di una parte della magistratura, «primo segnale di uno scollamento forte, mai registrato prima, tra la magistratura e l’istituzione consiliare»[9].

Una reattività cresciuta negli anni successivi, fino a diventare critica esplicita alle scelte del Consiglio, che oggi attraversa trasversalmente una vasta parte della magistratura e che mette a rischio il valore e la credibilità dell’autogoverno.

E la discrezionalità rischia di diventare il vero punto di rottura del “sistema”. Il tema ha assunto un ruolo centrale nel confronto associativo e non appare più confinato al dibattito sulle mailing list: con le prese di posizioni dei singoli gruppi[10]e di tutta la magistratura associata, il tema della discrezionalità ha acquisito una rilevanza politica e le sue “criticità” sono a fondamento dell’esplicita rivendicazione di interventi di normativa primaria e secondaria idonei a restituire peso all’anzianità e a “rafforzare il carattere oggettivo” dei parametri di valutazione previsti nel Testo unico sulla dirigenza (e per il conferimento delle funzioni di legittimità), ponendo limiti stringenti anche all’apprezzamento nel giudizio di comparazione del valore di esperienza fuori ruolo e in incarichi politici[11].

Quello che oggi la magistratura invoca è, di fatto, una riduzione di quell’ampiezza di prerogative discrezionali attribuite al Consiglio dalla riforma del 2007.

Una scelta “rinunciataria” imputabile ad una pluralità di fattori che si presentano oggi come un groviglio inestricabile nel quale è difficile distinguere gli effetti della crisi dalle cause che l’hanno prodotta.

E non è un caso che l’ambito rispetto al quale la rivendicazione di questo passo indietro viene portata avanti è quello del conferimento di incarichi direttivi e semidirettivi.

Non vi è dubbio che l’ampliamento della discrezionalità attuato con l’abolizione del criterio oggettivo dell’anzianità e l’assunzione a requisiti di selezione del merito e delle attitudini avrebbe richiesto un deciso consolidamento del nuovo sistema di valutazione della professionalità e delle verifiche quadriennali: anche in questo ambito, dopo i  primi segnali di cambiamento, si è registrata una battuta d’arresto, testimoniata dal numero  esiguo di valutazioni negative e dal ritorno ad un approccio burocratico dei Consigli giudiziari e dei dirigenti nella redazione di rapporti e pareri, di cui lo stesso Consiglio si è fatto interprete, assecondando le reazioni di chiusura della magistratura verso possibili apporti conoscitivi esterni[12]. La perdurante assenza di fonti di conoscenza adeguate e affidabili ha posto l’esercizio della discrezionalità su un piano conoscitivo e di valutazione sempre più inclinato, rendendo arduo il compito di un giusto bilanciamento fra il contenuto della scelta “migliore” e la trasparente esternazione dei criteri che devono sorreggerla, affidata alla motivazione e al dibattito di plenum. Nel vuoto di elementi di conoscenza e di valutazione spendibili si è rafforzata la percezione di scelte legate a logiche personalistiche e di appartenenza correntizia o territoriale. E, dunque, di una discrezionalità sinonimo di “arbitrio” e di “imprevedibilità”.

Nell’ambito della selezione dei dirigenti, il “difficile esercizio” della discrezionalità ha incrociato le più forti resistenze culturali di una magistratura che, di fronte al venir meno delle “certezze” rappresentate dal criterio dell’anzianità, ha riscoperto il valore della carriera e la dimensione della “corporazione”. Messa di fronte ai cambiamenti prodotti dalla riforma del 2007, la magistratura non ha saputo ritrovare un suo “baricentro” e accettare fino in fondo la sfida culturale imposta dal superamento dal rassicurante criterio “oggettivo” di selezione rappresentato dall’anzianità, che garantiva a tutti maggiori prospettive di carriera.

Nel comune sentire di un uso arbitrario del potere discrezionale hanno guadagnato forza gli atteggiamenti “antisistema”, diffusi in quella parte della magistratura che ha impugnato la bandiera dell’anticorrentismo per una “battaglia moralizzatrice” condotta contro l’autogoverno e la sua istituzione centrale, accusata di celare dietro l’insindacabilità delle sue scelte un metodo di governo improntato a logiche di spartizione e di lottizzazione.

Ma dietro l’avversione e l’insofferenza della magistratura verso la discrezionalità del Consiglio si agita molto altro: le pulsioni contraddittorie di una più generale regressione culturale che, accanto al ritorno di una visione funzionariale ed impiegatizia della funzione, fondata sull’intangibilità delle certezze di status e di carriera garantite dal criterio dell’anzianità, vede avanzare una nuova forma di carrierismo che si è riprodotta nel sistema riformato, e insegue “il sogno verticale[13] attraverso la costruzione di percorsi “mirati” alla dirigenza e la cura del fascicolo personale; l’attitudine difensiva e di chiusura verso l’esercizio delle prerogative che affidano al Consiglio il difficile compito di bilanciare la tutela dei singoli con quella di interessi generali della giurisdizione.

Assistiamo al ritorno di un “soggettivismo in nome dell’indipendenza del singolo magistrato”, quale valore da presidiare non più attraverso l’autogoverno ma anche nei confronti dell’autogoverno[14].

Ne abbiamo avuto una chiara dimostrazione in occasione del dibattito associativo originato dall’annuncio di un intervento del Consiglio per sollecitare una riforma della procedura per il trasferimento d’ufficio ex articolo 2 della legge sulle guarentigie: la posizione di netta chiusura prevalsa nelle liste e sollecitata con una petizione contro la modifica della norma è stata raccolta dall’Anm che si è espressa contro la proposta avanzata dalla commissione Vietti per restituire a questo strumento l’ambito di operatività che aveva prima della riforma del 2006[15]. L’atteggiamento difensivo della magistratura che ha dominato il dibattito sul tema dell’art. 2 non ha lasciato spazio alcuno alla riflessione sulla importanza di più ampie prerogative affidate all’autogoverno per intervenire a tutela della credibilità della giurisdizione e rimuovere le situazioni che compromettono la fiducia dei cittadini[16]: è emersa la rivendicazione di una tutela dell’indipendenza «affermata non tanto come un valore di cui il governo autonomo è naturale garanzia, quanto piuttosto come un patrimonio da difendere anche contro il Consiglio»[17].

Il dato di preoccupante novità rispetto ad altre difficili stagioni vissute dall’autogoverno è rappresentato dalla combinazione di tali  fattori che ha prodotto una caduta verticale della fiducia della magistratura verso l’operato del Consiglio, e ha assunto i caratteri di una crisi “sistemica” nella quale, insieme al senso di appartenenza all’istituzione consiliare, la magistratura rischia di perdere consapevolezza del valore stesso dell’autogoverno e delle potenzialità che discendono dalle prerogative discrezionali di cui è depositario.

Un processo in fase avanzata, che si può tentare di arrestare solo associando alla riaffermazione del valore irrinunciabile della discrezionalità una presa d’atto delle criticità che ne hanno caratterizzato l’esercizio, un nuovo “patto” che impegni tutta la magistratura a ritrovare una visione alta e “l’orgoglio[18]“ del suo sistema di autogoverno, e l’ambizione ad una assunzione di responsabilità per un esercizio corretto  e trasparente delle sue forti prerogative.

4. Le criticità emerse nell’esercizio della discrezionalità

È innegabile il deficit di trasparenza che ha caratterizzato molte decisioni consiliari, censurato anche da recenti decisioni di annullamento di nomine per incarichi direttivi: casi di inadeguatezza delle motivazioni relative al giudizio di comparazione fra i candidati, ma anche di palese incoerenza delle scelte rispetto a criteri più stringenti di selezione previsti dalla normativa secondaria. Così è accaduto per alcune nomine di dirigenti di uffici specializzati che hanno visto recedere magistrati in possesso dell’esperienza specifica nel settore minorile, senza una adeguata motivazione sulle ragioni della preferenza accordata a candidati privi del requisito previsto dalla normativa secondaria[19].

La difficoltà di esplicitare in maniera adeguata le ragioni delle scelte, unita alla sostanziale svalutazione del rilievo politico della motivazione come momento di assunzione di responsabilità rispetto alle scelte, testimoniata anche dall’affidamento delle motivazioni a numerosi magistrati collaboratori esterni (anche senza pregressa esperienza in Consiglio), ha contribuito non poco ad avallare la percezione di scelte arbitrarie e, di conseguenza, alla caduta di credibilità della istituzione consiliare.

Un effetto amplificato dalla scarsa attenzione al dibattito di plenum, e alla comunicazione politica affidata ai gruppi, momenti centrali non solo per assicurare trasparenza alle scelte ma anche per il confronto fra le diverse opzioni politico-culturali e ideali che possono orientare le scelte discrezionali, di esaltazione del pluralismo e di crescita di questo valore anche nella percezione della magistratura.

Il mancato investimento su tutti i passaggi nei quali si deve esprimere e dar conto della “complessità” delle scelte discrezionali, rappresentati dalle motivazioni, dal dibattito di plenum e dalla comunicazione, ha fortemente indebolito tutto il circuito di responsabilità che deve sostenere l’esercizio della discrezionalità, e che consente “l’accettazione” delle scelte anche quando non condivise.

L’assenza nel momento conclusivo dei percorsi decisionali discrezionali di una trasparente ed adeguata esternazione dei criteri e di confronto sulle opzioni di fondo che li hanno guidati è stata l’effetto, ma in parte anche la causa, della svalutazione del rilievo intrinsecamente “politico” del contenuto della discrezionalità e della sua attitudine a dare rappresentanza a prospettive, visioni, e idealità diverse, al confronto fra la pluralità di interessi sottostanti e alla rilevanza che ciascuno di questi riveste nel caso concreto.

Un vuoto che si è spesso avvertito come rinuncia alla rivendicazione di posizioni diverse o persino di netto dissenso rispetto a scelte concrete, e che ha lasciato di fatto “senza rappresentanza” nell’ambito consiliare e nel dibattito associativo le posizioni di “minoranza” e l’esigenza di una chiara presa di distanza dalle cadute dell’autogoverno.

Anche nei casi che lo avrebbero imposto, è mancato un bilancio politico generale sulle dinamiche e sugli equilibri consiliari: ciò ha contribuito ad accrescere la percezione di una gestione “consociativa” che si fonda sul quieto vivere, e sulla sostanziale accettazione di una politica di breve respiro, fatta di scelte contingenti e di accordi variabili, basata sul governo della maggioranza numerica.

5. Quale futuro per l’autogoverno. Una nuova consapevolezza

Occorre risalire rapidamente la china. Ed è per questo necessaria una nuova consapevolezza.

In tutti i luoghi di elaborazione collettiva, la magistratura deve ritrovare l’aspirazione comune ad un autogoverno all’altezza delle sfide che lo attendono e la spinta ideale alla difesa di una visione alta delle funzioni del Consiglio e della pienezza delle sue prerogative.

Occorre prendere atto delle criticità e delle cadute con l’ambizione di ritrovare il senso di un impegno collettivo per la giurisdizione e per una magistratura “responsabile”, fortemente legittimata nei confronti della collettività, capace di un esercizio consapevole e trasparente delle difficili prerogative di autogoverno.

Scelte rinunciatarie e difensive in nome di maggiori certezze e prevedibilità delle decisioni dell’autogoverno rischiano di riportarci alla dimensione della corporazione che mette in primo piano la tutela degli interessi dei singoli e che dal Csm si attende solo una risposta alle aspettative individuali.

Un arretramento culturale per la magistratura e per l’autogoverno, che può diventare terreno fertile per progetti di cambiamento strutturale della fisionomia e del ruolo del Consiglio, finalizzati a sterilizzare quelle specificità che ne hanno fatto una esperienza unica nel panorama europeo e la garanzia dell’assetto forte del nostro sistema di autogoverno.

Come dimostra la storia di questa istituzione, «le tensioni che si riversano sul Csm, sono, in linea generale, il puntuale riflesso sull’organo di autogoverno delle tensioni che investono nella nostra società ... il ruolo del giudice» e quando nel dibattito pubblico  e politico si ripropone il tema della “crisi” del Csm, «è il ruolo del giudice ad essere messo in tensione e in discussione»[20].

Una nuova fisionomia del Consiglio come organo di amministrazione e di governo del personale è funzionale ad una ristrutturazione in senso verticistico e burocratico dell’ordine giudiziario; la neutralizzazione della “politicità” del suo ruolo e delle sue funzioni, con l’espropriazione delle prerogative di discrezionalità essenziali per l’esercizio dell’autogoverno, è la premessa per renderlo subalterno alle logiche e al controllo della sfera politica esterna.

Occorre dunque ritrovare consapevolezza del valore insostituibile dell’autogoverno e della posta in gioco.

Nel difficile scenario che si va delineando per la nostra democrazia non ci resta molto tempo per invertire la rotta. E anche di questo dobbiamo essere consapevoli.

[1] S. Senese, Il Consiglio superiore della magistratura: difficoltà dell’autogoverno o difficoltà della democrazia?, in questa Rivista, Franco Angeli, Milano, 1983, pp. 526-527.

[2] Senese, cit.

[3] G. Borrè, Csm e Presidente della Repubblica. Il messaggio alle Camere del 26 luglio 1990, in L. Pepino (a cura di), L’eresia di Magistratura democratica, Quaderni di Questione Giustizia, Franco Angeli, Milano, 2001, pp. 173 ss.

[4] V. E. Bruti Liberati, Articolo 2. Perché SI nell’interesse della giustizia e quindi di tutti i cittadini, in Questione giustizia online, Rubrica Cronache fuori dal Consiglio, 18 maggio 2017, www.questionegiustizia.it/articolo/articolo-2_perche-si-nell-interesse-della-giustizia-e-quindi-di-tutti-i-magistrati_18-05-2017.php.

[5] Il riferimento è a M. Patarnello, 60 anni di vita: le nostre rughe, in questo numero.

[6] Particolarmente significativo in questo senso è l’intervento pubblico di “censura” del Comitato di Presidenza sul corso di formazione sulla giustizia ripartiva, organizzato dalla Scuola della Magistratura nel febbraio 2016.

[7] M. Patarnello, cit.; G. Cascini, Il dovere di rendere conto, in questo numero

[8] G. Cascini, cit.

[9] F. Cassano, Il procedimento di nomina dei direttivi e dei semidirettivi e il Consiglio superiore, in questa Rivista, Franco Angeli, Milano, nn. 3-4, 2015, p. 238.

[10] Si fa in particolare riferimento alla nota del coordinamento di AreaDG per la richiesta di revisione del Testo unico della dirigenza con l’introduzione di “criteri vincolanti” (come la fasce di anzianità per valorizzare la durata dell’esperienza giudiziaria) e per la previsione di “criteri selettivi trasparenti e verificabili” nei tramutamenti ordinari verso gli uffici di legittimità e al Massimario, e alla nota del coordinamento di Autonomia & Indipendenza del 10.7.2017 che ha avviato una consultazione on line sulle proposte di modifica delle circolari del Csm in materia di nomine dei dirigenti, per la Cassazione e per i magistrati addetti all’ufficio studi e alla segreteria del Csm. Dedica una analisi approfondita alle proposte messe a confronto M. Michelozzi, Il fascino discreto della carriera. Dirigenza giudiziaria: proposte a confronto in Questione giustizia online, 22 gennaio 2018, www.questionegiustizia.it/articolo/il-fascino-discreto-della-carriera_dirigenza-giudiziaria_proposte-a-confronto_22-01-2018.php.

[11] La richiesta di interventi di modifica della normativa primaria e secondaria in questa direzione si legge nel deliberato approvato a maggioranza il 7 luglio 2017 dal Comitato direttivo centrale del’Anm.

[12] Si fa riferimento in particolare alle proposte, sostenute anche da alcune iniziative dei Consigli giudiziari, per inserire fra le fonti di conoscenza per le valutazioni quadriennali l’apporto degli avvocati e le cd. valutazioni incrociate e, per le procedure di conferma di semidirettivi, le informazioni raccolte dai magistrati degli uffici.

[13] Così R. De Vito, che analizza il tema in maniera approfondita e critica in Soggetti soltanto alla legge. I magistrati e le carrierein questo numero.

[14] G. Borrè, cit.

[15] Si fa riferimento al deliberato del Comitato direttivo centrale sull'art. 2 della legge sulle guarentigie del 7 luglio 2017.

[16] V. E. Bruti Liberati, cit.

[17] G.Borrè, cit.

[18] Così R. Sanlorenzo, Le nomine dei dirigenti: banco di prova per la difesa dell’autogovernoin questo numero.  

[19] Il tema della rilevanza della specializzazione nella valutazione comparativa per la selezione dei dirigenti di uffici minorili è stato affrontato, prendendo spunto da recenti delibere, da E. Maccora, Il Consiglio superiore della magistratura, la magistratura, la discrezionalità ed il criterio attitudinale della specializzazione nelle funzioni per la selezione dei dirigenti degli uffici minorili, in Questione giustizia on line, Rubrica Cronache fuori dal Consiglio, 11.9.2017, www.questionegiustizia.it/articolo/il-consiglio-superiore-della-magistratura_la-discr_11-09-2017.php

[20] E. Bruti Liberati, Crisi del Csm, indipendenza della magistratura, modifica del sistema elettorale, in questa Rivista, Franco Angeli, Milano, n. 1, 1990, pp. 18 ss.