Magistratura democratica

Essere genitori oggi: il punto di vista giuridico

di Giuseppe Salmè
La “rivoluzione copernicana” operata con la legge n. 431 del 1967, sull’adozione speciale, ha dato attuazione all’impostazione personalistica della Costituzione nel campo dei rapporti tra genitori e figli. Da una normativa “adultocentrica” si è passati a una disciplina “puerocentrica”, che vede cioè la persona del figlio al centro della relazione con i genitori. Vengono quindi prese in esame alcune problematiche che la giurisprudenza ha dovuto di recente affrontare e nelle quali la nuova impostazione legislativa ha trovato applicazione.

1. Qualche considerazione preliminare

Il tema dei rapporti tra diritto e famiglia è una di quelle terre di confine sulle quali è, al tempo stesso, estremamente interessante e pericoloso avventurarsi perché è richiesta, se non una conoscenza approfondita, quanto meno la consapevolezza dei principali risultati ai quali sono pervenute le altre scienze umane (la filosofia, la sociologia, la scienza della politica, la pedagogia, la psicologia etc.)[1]. Si può capire, quindi, la fortuna dell’osservazione di Carlo Arturo Jemolo[2], secondo il quale la famiglia è l’isola che il mare del diritto deve solo lambire, affermazione, peraltro, che non è, come a prima vista può apparire, tanto un invito a tenere in generale un atteggiamento di grande prudenza nell’elaborazione di nuove norme, ma deve essere letta nel particolare contesto in cui venne formulata, per rivendicare l’autonomia della famiglia, da posizioni cattolico-liberali, nei confronti delle ingerenze dello Stato fascista.

Pertanto, mi sembra per un verso contraddittoria, e anche, per altro verso, infondata l’accusa che da parte di alcuni viene rivolta al legislatore, di essere sostanzialmente inerte in materia di diritto di famiglia.

Anche a volersi limitare a una rapidissima elencazione, per il solo periodo successivo al 1975, si possono ricordare: la legge n. 194 del 1978 sull’interruzione volontaria della gravidanza; la legge n. 184 del 1983 di riforma dell’adozione (che seguiva la “rivoluzione copernicana” operata con la l. n. 431/1967); la legge n. 74 del 1987, di miniriforma della legge sul divorzio; la legge n. 149 del 2001, contenente ulteriori modifiche alla disciplina dell’adozione; la legge n. 154 del 2001 sulle violenze nelle relazioni familiari; la legge n. 40 del 2004 sulla procreazione medicalmente assistita; la legge n. 54 del 2006 sull’affidamento condiviso; la legge n. 219 del 2012 e il d.lgs n. 154 del 2013, sull’eguaglianza degli status dei figli nati fuori e dentro il matrimonio; la legge n. 162 del 2014  sulla degiurisdizionalizzazione e semplificazione dei riti, che disciplina separazioni e divorzi in negoziazione assistita e davanti al sindaco; la legge n. 55 del 2015 sul divorzio breve; la legge n. 173 del 2015 sul diritto alla continuità affettiva dei bambini e delle bambine in affido familiare; la legge n. 76 del 2016 sulle unioni civili e le convivenze registrate.

È innegabile, peraltro, che, come  avviene negli altri campi dell’ordinamento giuridico, da decenni la legge interviene solo dopo la giurisprudenza, che essendo chiamata alla soluzione di casi concreti è – e deve essere – più sensibile a cogliere le evoluzioni del costume e della cultura, perché, come in maniera icastica ha affermato la Corte costituzionale (sentenza n. 138 del 2010), i rapporti tra il diritto e i rapporti di natura familiare non sono cristallizzabili nel momento in cui le norme giuridiche entrano in vigore. In un determinato momento storico, anzi, coesiste una pluralità di modelli familiari: «i concetti di famiglia e di matrimonio (...) vanno interpretati tenendo conto non soltanto delle trasformazioni dell’ordinamento, ma anche dell’evoluzione della società e dei costumi».

È noto, peraltro, che le linee generali di tale evoluzione si muovono obbedendo alla regola, coniata da Henry Sumner Maine[3], del passaggio dallo “status” al “contratto” con la graduale dissoluzione della dipendenza dalla famiglia, alla quale si sostituisce progressivamente una serie di obblighi individuali. «L’individuo prende il posto della famiglia, come unità sociale di cui si occupa il diritto civile». Ma si è anche sottolineato che, all’interno di un diritto di famiglia sempre più contrattualizzato, rimane il nucleo duro del diritto della filiazione, nel quale si staglia il diritto fondamentale del minore ad avere uno status e una famiglia nell’ambito della quale possa formarsi in modo completo ed equilibrato. Diritto fondamentale suscettibile, certo, di bilanciamenti, ma solo con diritti degli adulti altrettanto fondamentali sui quali, in caso di inconciliabilità, è destinato a prevalere.

2. La “rivoluzione copernicana”

Tornando allo specifico tema che mi è stato proposto, non è certo questa né la sede né l’occasione per tracciare, neppure in estrema sintesi, la millenaria evoluzione della disciplina giuridica del rapporto tra genitori e figli.

Colgo l’occasione solo per cercare di confutare due luoghi comuni nei quali, spesso, ci si imbatte. Quello secondo cui, nel diritto romano, il padre aveva sovranità assoluta sulla vita dei membri della famiglia, in particolare sui figli (il mitico jus vitae ac necis), che ignora la progressiva erosione della assolutezza del potere paterno. Già risalenti consuetudini giuridiche subordinavano l’esercizio dei poteri repressivi più gravi alla consultazione di un consiglio di parenti o amici. Secondo Dionigi di Alicarnasso, sin dalla prima età monarchia, sarebbe stata inoltre vietata l’uccisione dei figli maschi inferiori ai tre anni e della figlia primogenita. Ulteriori limitazioni sono introdotte in età imperiale, fino alla totale abrogazione con editto di Valentiniano e Valente, nel 365 d.C.

Infondata appare, inoltre, la tesi secondo la quale il potere paterno sarebbe rimasto intatto anche dopo la contaminazione del diritto romano con le norme delle popolazioni germaniche. Anzi, la posizione del padre (“mundio”) nel diritto germanico doveva essere ispirata non solo alla tutela delle esigenze paterne, ma anche e principalmente alla tutela dei figli. Perciò, il padre doveva difenderli, rappresentarli in giudizio e sostenere per loro la prova del giuramento o del duello. Doveva educarli, certo anche esercitando poteri punitivi, secondo la loro condizione sociale, alla virtù e all’amor della patria.

È importante invece sottolineare che, come è opinione ormai pacifica, con la legge n. 431 del 1967 (cd. “legge Dal Canton”, sull’adozione speciale), approvata all’esito di un vivace dibattito, all’interno e fuori dalla aule parlamentari, tra i sostenitori della prevalenza del diritto del sangue e i sostenitori dell’opposto principio della prevalenza del diritto degli affetti, e seguita da una periodo non breve di contrasti dottrinali e giurisprudenziali sui criteri applicativi, si è attuata una vera e propria “rivoluzione copernicana”: il centro di gravità della disciplina dei rapporti tra genitori e figli si è spostato dalla figura dell’adulto (il padre) a quella del figlio.

Per avere soltanto un’idea di quanto netta (e coraggiosa) sia stata l’innovazione legislativa, è sufficiente ricordare che il modello delle relazioni genitori/figli recepito dal codice civile del 1865, se pure temperava gli eccessi del “Codice Napoleone” – che prevedeva il potere del padre di collocare direttamente in carcere il figlio disobbediente –, restava di netta ispirazione maschilista, autoritaria e “adultocentrica”[4]. Il padre è il titolare esclusivo della patria potestà e quando tale potestà passa alla madre, in caso di morte e allontanamento del padre, la stessa deve essere affiancata da un consiglio di famiglia, composto dagli ascendenti, dai fratelli e dagli zii di sesso maschile dell’orfano, con funzioni consultive e autorizzatorie. Per quanto riguarda i figli naturali, oltre a una condizione deteriore rispetto ai figli legittimi, la legge prevede il divieto di riconoscerli se uno dei genitori era legato da vincolo matrimoniale all’epoca del concepimento. La famiglia-istituzione è così forte da non tollerare interferenze esterne; lo Stato si limita a offrire il braccio secolare, per mettere in prigione la moglie adultera o in casa di correzione il figlio disobbediente.

I caratteri autoritari, maschilisti e adultocentrici rimangono fermi nel codice del 1942, ma con un significativo cambiamento, perché lo Stato autoritario non accetta più di fermarsi alle soglie della famiglia, ma interviene al suo interno. In questa ottica, vedono la luce due interventi normativi molto significativi, ispirati all’esigenza di proteggere i soggetti più deboli: la creazione del tribunale per i minorenni (rd n. 1404/1934, convertito in l. n. 835/1935) e l’introduzione nel codice civile di una nuova figura di giudice: il giudice tutelare.

È la Costituzione, in maniera diretta con gli artt. 29, 30 e 31, ma anche indirettamente, con la forza espansiva dei principi dettati dagli artt. 2 e 3, che scardina il tradizionale rapporto tra famiglia e diritto e, quindi, quello tra genitori e figli, e prepara il terreno culturale e giuridico per la “rivoluzione copernicana”. La famiglia non è più vista come istituzione, ma come formazione sociale ove si forma e si svolge la personalità, autonoma dallo Stato che si impegna ad agevolarne la nascita e l’adempimento dei compiti. Autonomia, peraltro, come «garanzia costituzionale del concreto interesse dei singoli ad ordinare in modo originale e libero i loro rapporti»[5]. «La tendenza antiautoritaria della famiglia e il suo declino quale modello imposto dalla regola giuridica o da una rigida realtà socio-economica favoriscono (…) il suo realizzarsi in forma di convivenza solidale nella quale si svolge liberamente la personalità umana. La famiglia, in definitiva, tende a porsi in funzione della persona»[6].

Sulla scia dei nuovi principi costituzionali si pongono, ulteriormente, la riforma del diritto di famiglia del 1975, che, novellando l’art. 147 cc, conferisce rilevanza giuridica all’interno del rapporto con i genitori alla capacità, all’inclinazione naturale e all’aspirazione del figlio, previsione confermata dalla riforma della filiazione operata con la legge n. 219 del 2012, che ha completato il percorso “rivoluzionario” iniziato nel 1967 con la sostituzione della potestà con la responsabilità.

3. Il diritto ad avere un genitore e il diritto a essere genitore. L’adozione

La contrapposizione tra diritto ad avere un genitore e diritto ad essere genitore rappresenta una schematizzazione teorica poco persuasiva perché, nella realtà, i due diritti rappresentano le facce della stessa medaglia.

D’altra parte, basta scorrere la Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia, approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 20 novembre 1989. Accanto all’enunciazione del principio fondamentale del «best interests of the child» (art. 3, primo cpv.: «In tutte le decisioni relative ai fanciulli, di competenza delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi legislativi, l’interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente») – al quale fanno seguito, solo esemplificativamente, le affermazioni del diritto alla vita (art. 6), all’integrità fisio-psichica (art. 19) e, più in generale, alla salute (art. 24), a uno status (art. 7), all’identità (art. 8), all’ascolto (art. 12), alla libertà di espressione (art. 13), alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione (art. 14), alla libertà di associazione (art. 15), alla tutela della vita privata (art. 16), a emigrare dal Paese d’origine (art. 10) e ottenere lo status di rifugiato (art. 22), alla sicurezza sociale (art. 27) e all’istruzione (art. 28)[7] –, sono previsti il diritto dei genitori e della famiglia d’origine a educare il minore (art. 5), il diritto a non essere separati dal minore, se non previo provvedimento dell’autorità giudiziaria (art. 9), il diritto alla bigenitorialità (art. 18).

Un terreno significativo e importante per verificare gli effetti della “rivoluzione copernicana” è quello dell’adozione, rispetto al quale la Convenzione universale sui diritti dell’infanzia conferma l’impostazione della “legge Dal Canton”, affermando (art. 21) che «Gli Stati parti che ammettono e/o autorizzano l’adozione si accertano che l’interesse superiore del fanciullo sia la considerazione fondamentale in materia».

È indubbio che, accanto all’interesse del minore a essere adottato, vengono in considerazione anche una serie di situazioni giuridiche degli adulti (dei genitori biologici e/o legali a essere riconosciuti come tali, degli aspiranti genitori adottivi, degli affidatari). E infatti, nell’ambito della stessa giurisprudenza minorile, si è da tempo posto il tema dell’adozione mite[8], che si riferisce alla prassi iniziata nel 2003 dal tribunale per i minorenni di Bari, nei casi di minori che si trovino da lungo tempo fuori dalla famiglia d’origine, in comunità o in affidamento senza termine, e che prevede l’articolazione di un procedimento in due momenti: nel primo viene verificata la sussistenza delle condizioni per il rientro del minore nella famiglia di origine; nel secondo, constatata l’impossibilità del rientro, si dà luogo all’adozione legittimante in caso di abbandono e all’applicazione dell’art. 44 l. n. 184/1983 (adozione non legittimante o mite) nei casi di semi-abbandono permanente, senza previa dichiarazione della situazione di abbandono.

I principi, per così dire, della “mitezza giuridica” (garanzia della continuità degli affetti; mediazione dei servizi territoriali e dei giudici con le persone, adulti e minori, per ottenere consenso e collaborazione alle decisioni che si assumono nei loro confronti; ruolo dei servizi territoriali nell’ambito dell’adozione, diretto più a realizzare assistenza e accompagnamento rispetto a quello valutativo) sono in linea con la giurisprudenza della Corte Edu, a cominciare dalla fondamentale sentenza del 21 gennaio 2014, Zhou c. Italia[9], con la quale il giudice di Strasburgo ha affermato il principio in base al quale, posto che l’adozione di un minore, recidendo ogni legame con la famiglia d’origine, costituisce misura eccezionale, gli Stati membri della Convenzione (Cedu) hanno l’obbligo di assicurare che le proprie autorità giudiziarie e amministrative adottino preventivamente tutte le misure, positive e negative, anche di carattere assistenziale, volte a favorire il ricongiungimento tra genitori biologici e figli, e a tutelare il superiore interesse di questi ultimi, evitando per quanto possibile l’adozione e prevedendo la possibilità di disporre, sempre se corrisponda all’interesse dei minori, una forma di adozione che garantisca la conservazione dei legami tra questi ultimi e i genitori. Conseguentemente, si è ritenuto che costituisce violazione dell’art. 8 Cedu l’adozione di un minore, disposta dall’autorità giudiziaria italiana, la cui madre biologica, in stato di indigenza e in difficili condizioni di salute, non era in grado di prendersene cura, senza però che la sua condotta fosse stata di per sé pregiudizievole per il figlio, perché non era stata adeguatamente ricercata la possibilità, a mezzo di idonei interventi, di superare le pur gravi e obiettive difficoltà della donna.

Nello stesso senso è anche la giurisprudenza nazionale (vds., da ultimo, Cass., 14 aprile 2016, n. 7391), la quale, con orientamento ormai costante, ha ribadito che l’adozione del minore, recidendo ogni legame con la famiglia di origine, costituisce una misura eccezionale (extrema ratio) cui è possibile ricorrere non già per consentirgli di essere accolto in un contesto più favorevole, così sottraendolo alle cure dei suoi genitori biologici, ma solo quando si siano dimostrate impraticabili le altre misure, positive e negative, anche di  carattere assistenziale, volte a favorire il ricongiungimento con i genitori biologici, ivi compreso l’affidamento familiare di carattere temporaneo, ai fini della tutela del superiore interesse del figlio.

Connesso con i problemi generali relativi all’applicazione della disciplina dell’adozione è quello, che si inquadra nella problematica del riconoscimento di nuove genitorialità all’interno di nuovi modelli familiari, dell’adozione da parte di coppie omosessuali, in particolare dell’adozione del figlio del partner. Tema che ha dato luogo a diversità di opinioni in dottrina[10] e in giurisprudenza.

La Corte europea diritti dell’uomo, con la sentenza del 19 febbraio 2013, X c. Austria[11], decidendo su un caso di richiesta di adozione da parte di coppia omosessuale, ha affermato il principio secondo cui, se uno Stato contraente contempli l’istituto dell’adozione del figlio del partner a favore delle coppie conviventi di sesso opposto, il principio di non discriminazione fondata sull’orientamento sessuale impone la sua estensione alle coppie formate da persone dello stesso sesso. La Corte ha anche ricordato che una raccomandazione del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa (31 marzo 2010) invita gli Stati membri che riconoscono la possibilità di adozione da parte di single, nel superiore interesse del minore, a evitare che nell’adozione dei minori sia possibile una discriminazione fondata sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere e che, da uno studio del Commissario per i diritti umani dello stesso Consiglio, del giugno 2011, sulla «Discriminazione fondata sull’orientamento sessuale e l’identità di genere», risulta che dieci Stati del Consiglio d’Europa autorizzano l’adozione da parte del partner di genitore omosessuale. Inoltre, salvo che per la Germania e la Finlandia, gli stessi Stati autorizzano l’adozione da parte di coppie omosessuali.

Il contrasto in materia tra i giudici di merito nazionali dovrebbe comunque essere superato con l’intervento di Cass., 22 giugno 2016, n. 12962[12] (confermata da Cass., n. 9373/2018[13]), che ha accolto la tesi interpretativa dell’art. 44, lett. d, l. n. 184/1983, secondo la quale l’impossibilità di procedere all’affidamento preadottivo, che consente di pronunciare l’adozione prevista da tale norma, deve intendersi sia come impossibilità di fatto che come impossibilità di diritto.

È utile ricordare che uno degli argomenti fondamentali sui quali si basa la tesi favorevole all’adozione del figlio del partner di coppia omosessuale è quello della tutela del diritto del minore alla continuità dei rapporti affettivi, che ormai costituisce un principio pacifico della giurisprudenza Edu ed è stato recepito nel diritto nazionale interno con la legge 19 ottobre 2015, n. 184, sul diritto, appunto, alla continuità affettiva dei minori in affidamento familiare. La nuova legge dispone che: 1) gli affidatari che abbiano avuto un minore in affidamento prolungato devono essere convocati nei procedimenti relativi all’adottabilità e alla responsabilità genitoriale e possono presentare memorie nell’interesse del minore; 2) avendo i requisiti per l’adozione, se il minore è dichiarato adottabile, gli affidatari hanno diritto a essere valutati ai fini dell’adozione tenendo conto del loro rapporto; 3) comunque, essi hanno diritto a mantenere rapporti in caso di ritorno nella famiglia d’origine, di altro affidamento o di adozione ad altra coppia; 4) hanno diritto a chiedere l’adozione ex art. 44, lett. a, del minore orfano avuto in prolungato affidamento.

Il principio della tutela del diritto alla continuità del rapporto affettivo è anche alla base dell’orientamento della Corte Edu in tema di maternità surrogata[14].

In materia, si era verificato un contrasto tra giurisprudenza nazionale (Cass., 26 settembre 2014, n. 24001)[15] e Corte Edu (27 gennaio 2015, P. c. Italia)[16]. La Corte di cassazione, ritenuto che il divieto di maternità surrogata fosse di ordine pubblico, aveva rigettato il ricorso proposto avverso la dichiarazione di adottabilità proposta da coniugi cittadini che erano stati dichiarati genitori in un certificato di nascita formato in Ucraina, ma che, avendo la moglie subito un intervento di isterectomia ed essendo il marito affetto da oligospermia, avevano prontamente dichiarato che il bambino era nato a seguito del perfezionamento di un contratto di maternità surrogata, in applicazione della legge ucraina.

A opposte conclusioni era pervenuta la Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale, affermando che le misure – adottate dai giudici italiani – di allontanamento di un minore dalla coppia coniugale con la quale vive, con esclusione di ogni contatto, e di affidamento dello stesso ai servizi sociali in previsione della successiva adozione di terzi, violano il diritto di tale coppia al rispetto della vita familiare, di fatto costituitasi tra i due e il minore medesimo, in contrasto con l’art. 8 Cedu, pur se si tratta di misure adottate in quanto il bambino era nato da pratiche di maternità surrogata in Russia, senza alcun legame genetico con l’uno e l’altro componente della coppia, sicché l’atto di nascita straniero, che indicava gli stessi quali genitori, non era stato trascritto in Italia. Secondo la Corte Edu, il riferimento all’ordine pubblico fatto dai giudici nazionali, non può giustificare indiscriminatamente ogni misura, in quanto l’obbligo di considerare il superiore interesse del minore incombe sullo Stato indipendentemente dal legame genitoriale, genetico o di altro tipo.

Il contrasto sembra essere stato superato, dapprima con la pronuncia della sentenza della Cass. pen., 10 marzo 2016, n. 13525 – intervenuta nella fattispecie oggetto di Cass. civ., n. 24001/2014 –, la quale ha affermato che non integra il reato di alterazione di stato la circostanza che all’estero (nella specie, in Ucraina) una coppia italiana abbia reso all’autorità consolare dichiarazione di nascita di un bambino ivi nato, e di cui risultano essere i genitori alla stregua dell’atto di nascita, redatto conformemente alla legge locale, e quindi trascritto in Italia, pur se solo l’uomo era il padre anche biologico, in quanto la nascita era avvenuta a mezzo di maternità surrogata, con l’utilizzo di gameti femminili estranei alla coppia (la Corte ha anche escluso, pure confermando la sentenza di merito, il reato di cui all’art. 495 cp, presupponente una falsa dichiarazione, nella specie non intervenuta).

 Con la sentenza 30 settembre 2016, n. 19599[17], inoltre, la Cassazione ha ritenuto trascrivibile in Italia l’atto di nascita, formato in Spagna, di bambino partorito da cittadina spagnola, ma concepito con utilizzazione di ovulo di cittadina italiana, coniugata (e poi divorziata) con la prima, fecondato con seme di terzo, perché il principio secondo cui la madre è colei che ha partorito il figlio non è di ordine pubblico (internazionale) e la mancata trascrizione è contraria all’interesse del minore, affidato a entrambe le comadri, ma convivente in Italia con la comadre italiana.

In tema di maternità surrogata, la Corte Edu ha espresso di recente (9 aprile 2019) un articolato parere preventivo su richiesta della Corte di cassazione francese, nel quale, tra l’altro, è ribadita la centralità della garanzia del superiore interesse del minore, in particolare di quella alla continuità dei rapporti affettivi[18].

Una fattispecie di un certo interesse anche se, si spera, del tutto eccezionale, è quella relativa allo scambio di embrioni, sulla quale è intervenuto il Tribunale di Roma, con le pronunce 8 agosto 2014[19], 22 aprile 2015[20], 2 ottobre 2015[21], 10 maggio 2016[22].

Il principio sul quale, sostanzialmente, tutti i provvedimenti si fondano è che l’ordinamento dà prevalenza al legame biologico creato dalla gestazione e, soprattutto, all’inserimento di fatto dei minori in un dato contesto familiare. Pertanto, madre del nato è esclusivamente la donna che lo ha partorito, mentre il marito ne è il padre, operando la presunzione di paternità di cui all’art. 231 cc.

Si è osservato che l’evoluzione scientifica e tecnologica consente ormai di distinguere tra una genitorialità genetica — riferibile a chi fornisce i gameti per la formazione dell’embrione — e una biologica, questa in capo alla donna che partorisce. Più in generale, si richiama il principio, affermato sia a livello legislativo che giurisprudenziale, della tutela di una genitorialità sociale, che prescinde dai legami genetici e biologici, e si fonda piuttosto sui legami di vita, assistenza, consuetudine di vita tra un bambino e chi se ne prende stabilmente cura.

4. Il cognome del figlio

Il problema dell’ammissibilità dell’attribuzione, su concorde volontà dei genitori, al figlio del cognome materno è stato posto con encomiabile perseveranza da una coppia di avvocati milanesi.

La Cassazione, con sentenza n. 16093 del 2006, ha confermato la soluzione negativa data dai giudici di merito sulla base del rilievo che, nell’attuale quadro normativo, sussisterebbe una norma di sistema attributiva del cognome paterno al figlio legittimo, aggiungendo che tale norme era pur certamente retaggio di una concezione patriarcale della famiglia non in sintonia con le fonti sopranazionali, che impongono agli Stati membri l’adozione di misure adeguate a eliminare le discriminazioni di trattamento nei confronti della donna, ma che spetta comunque al legislatore ridisegnare in senso costituzionalmente adeguato la disciplina.

Con ordinanza n. 23934 del 2008, la prima sezione civile, su ricorso delle stesse parti, rimise al primo presidente della Corte di cassazione, ai fini della valutazione dell’opportunità dell’assegnazione alle sezioni unite, gli atti del ricorso vertente sulla questione se possa disporsi la rettificazione dell’atto di nascita nella parte in cui abbia attribuito al figlio minore legittimo il cognome del padre, invece che quello materno, come invece congiuntamente richiesto dai coniugi, adottando, se del caso, al riguardo una interpretazione costituzionalmente orientata delle norme internazionali di riferimento ovvero rimettendo la questione medesima alla Corte costituzionale. La questione, tuttavia, non venne esaminata, in conseguenza della rinuncia dei ricorrenti al ricorso.

La Corte europea diritti dell’uomo, rompendo gli indugi, in controversia sollevata dalle stesse parti, con sentenza 7 gennaio 2014[23], ha quindi affermato nettamente che l’automatica attribuzione al figlio legittimo del solo cognome del padre, senza che rilevi una diversa volontà al riguardo concordemente espressa dai coniugi, prevista dall’ordinamento italiano, costituisce una violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare, determinando altresì una discriminazione ingiustificata tra il marito e la moglie, in contrasto con gli artt. 8 e 14 Cedu.

A distanza di poco tempo, la nostra Corte costituzionale si è allineata all’orientamento espresso dalla Corte di Strasburgo (sentenza 21 dicembre 2016, n. 286)[24], dichiarando, ai sensi dell’art. 27 l. n. 87/1953, l’illegittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 237, 262 e 299 cc, dell’art. 72, comma 1, rd 9 luglio 1939, n. 1238 e degli artt. 33 e 34 dPR 3 novembre 2000, n. 396, nella parte in cui non consente ai coniugi, di comune accordo, di trasmettere ai figli, al momento della nascita, anche il cognome materno.

Continua, invece, l’inerzia del legislatore, denunciata anche dalla sentenza della Corte costituzionale ora indicata[25].

Il testo unificato, approvato dalla Camera a seguito della presentazione del ddl n. 1628, che prevedeva la possibilità di attribuire ai figli il cognome materno, si è arenato al Senato. In particolare, il provvedimento prevedeva che al figlio nato nel matrimonio, su accordo dei genitori, potesse essere attribuito il cognome del padre ovvero quello della madre, o anche il cognome di entrambi, nell’ordine concordato. In mancanza di accordo, era prevista l’attribuzione, in ordine alfabetico, di entrambi i cognomi dei genitori.

La stessa regola avrebbe dovuto valere per il figlio nato fuori dal matrimonio che venga riconosciuto contemporaneamente da entrambi i genitori. Se il figlio è riconosciuto da un solo genitore, ne assume il cognome e, laddove l’altro genitore effettui il riconoscimento in un secondo momento (tanto volontariamente quanto a seguito di accertamento giudiziale), il cognome di questi si aggiungerà al primo solo con il consenso del genitore che ha riconosciuto il figlio per primo nonché, se ha già compiuto 14 anni, del figlio stesso. Il testo unificato, inoltre, stabiliva che i figli degli stessi genitori registrati all’anagrafe dopo il primo figlio portano lo stesso cognome di quest’ultimo; disciplinava l’attribuzione del cognome all’adottato maggiorenne; prevedeva che chiunque abbia due cognomi possa trasmetterne al figlio solo uno, scegliendo liberamente quale dei due; garantiva al figlio maggiorenne, cui sia stato attribuito in base alla legge vigente al momento della nascita il solo cognome paterno o materno, la possibilità di aggiungere al proprio il cognome della madre o del padre.

5. Il diritto a conoscere le proprie origini

Con sentenza del 25 settembre 2012, Godelli c. Italia[26], è stato deciso dalla Corte di Strasburgo il caso di una cittadina italiana, nata nel 1943 da una donna che aveva dichiarato di non voler essere nominata, e che, data in affiliazione (istituto soppresso solo con la riforma del diritto di famiglia del 1975), fin da piccola aveva cercato di conoscere la verità sui suoi genitori biologici. Ormai ultrasessantenne, aveva adito le vie giudiziarie, ma invano, essendole stato opposto il “muro” dell’art. 28, comma 7, l. n. 184/1983, nel testo modificato dall’art. 177, comma 2, d.lgs 30 giugno 2003, n. 196. La Corte Edu ha dichiarato che, non essendo stato effettuato il dovuto bilanciamento tra il diritto del figlio a conoscere le proprie origini e l’interesse della madre biologica a conservare l’anonimato per tutelare la propria salute partorendo in condizioni sanitarie adeguate, viola l’art. 8 Cedu lo Stato membro che, nel caso di donna che abbia scelto di partorire nell’anonimato, non dà alcuna possibilità al figlio adulto adottato da terzi di chiedere né l’accesso a informazioni non identificative sulle sue origini familiari né la verifica della persistenza della volontà della madre di non rivelare la propria identità.

La Corte costituzionale, rivedendo, anche alla luce della giurisprudenza Edu, il suo precedente orientamento, con sentenza 22 novembre 2013, n. 278[27] ha quindi dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 28, comma 7, l. n. 184/1983, nel testo modificato dall’art. 177, comma 2, d.lgs n. 196/2003, nella parte in cui non prevede (attraverso un procedimento stabilito dalla legge, che assicuri la massima riservatezza) la possibilità per il giudice di interpellare la madre, che abbia dichiarato di non voler essere nominata ai sensi dell’art. 30, comma 1, dPR 3 novembre 2000, n. 396, su richiesta del figlio, ai fini di un’eventuale revoca di tale dichiarazione. Con la disposizione in esame, osserva la Corte, si prefigura una sorta di «cristallizzazione» o di «immobilizzazione» della scelta per l’anonimato, trasformando quel diritto in una sorta di vincolo obbligatorio, che finisce per avere un’efficacia espansiva esterna al suo stesso titolare e, dunque, per proiettare l’impedimento all’eventuale relativa rimozione proprio sul figlio, alla posizione del quale si è inteso, ab origine, collegare il vincolo del segreto su chi lo abbia generato.

Il giudice del merito della controversia nella quale era sorto il dubbio di legittimità costituzionale (Corte appello Catania, 5 dicembre 2014)[28], dando immediata applicazione alla sentenza della Corte costituzionale, ha affermato che il giudice minorile, su istanza del figlio maggiorenne, può procedere all’interpello della madre biologica – con l’opportuna riservatezza – per verificare se intenda tenere ferma o meno l’originaria dichiarazione, ancorché il legislatore non abbia ancora introdotto la disciplina di dettaglio, che sarebbe stata imposta dalla Corte costituzionale.

La soluzione, certamente innovativa dal punto di vista sostanziale e processuale, ha trovato conferma nella sentenza delle sezioni unite n. 1946 del 2017[29], la quale ha affermato che, per effetto di Corte cost. n. 278/2013, ancorché il legislatore non abbia ancora introdotto la disciplina procedimentale attuativa, il giudice, su richiesta del figlio che intenda conoscere le proprie origini e accedere alla propria storia parentale, può interpellare la madre che abbia dichiarato alla nascita di non voler essere nominata, ai fini di una eventuale revoca di tale dichiarazione, con modalità procedimentali desunte dal quadro normativo – in particolare dall’art. 28, l. n. 184/1983 e dall’art. 93 d.lgs n. 196/2003 – e tali da assicurare la massima riservatezza e il massimo rispetto della dignità della donna, fermo restando che il diritto del figlio trova un limite insuperabile allorché l’iniziale dichiarazione per l’anonimato non sia rimossa in seguito all’interpello, persistendo il rifiuto della madre di svelare la propria identità.

Cass., 21 luglio 2016, n. 15024[30] ha, per parte sua, limitato la portata del divieto di accesso alle proprie origini nel caso di morte della madre che aveva dichiarato di non voler essere nominata.

Nella precedente legislatura, la Camera aveva approvato il ddl S. n. 1978[31], all’esame della Commissione giustizia del Senato al momento dello scioglimento del Parlamento. Il progetto di legge estendeva anche al figlio non riconosciuto alla nascita da donna che abbia manifestato la volontà di rimanere anonima la possibilità, raggiunta la maggiore età, di chiedere al tribunale per i minorenni l’accesso alle informazioni che riguardano la sua origine e l’identità dei propri genitori biologici. L’accesso alle proprie informazioni biologiche nei confronti della madre che abbia dichiarato alla nascita di non voler essere nominata era previsto in caso revoca della volontà di anonimato o di morte della madre. Il procedimento di interpello della madre poteva essere iniziato, su istanza dei legittimati ad accedere alle informazioni biologiche, dall’adottato che avesse raggiunto la maggiore età, dai genitori adottivi, per gravi e comprovati motivi, dai responsabili di una struttura sanitaria, in caso di necessità e urgenza e qualora vi sia grave pericolo per la salute del minore. L’istanza di interpello poteva essere presentata una sola volta, al tribunale per i minorenni del luogo di residenza del figlio. Ove la madre avesse confermato di volere mantenere l’anonimato, il tribunale per i minorenni poteva autorizzare l’accesso alle sole informazioni di carattere sanitario, riguardanti le anamnesi familiari, fisiologiche e patologiche, con particolare riferimento all’eventuale presenza di patologie ereditarie trasmissibili.

[1] Il titolo di questo intervento riprende quello di un noto e apprezzato studio del medico e psichiatra, esperto delle problematiche adolescenziali, A. Braconier, Essere genitori oggi, Franco Angeli, Milano, 2012. Sullo stesso tema, ancora più di recente, ha scritto, dal punto di vista sociologico, C. Saraceno, Mamme e papà. Gli esami non finiscono mai,Il Mulino, Bologna, 2016.

[2] La famiglia e il diritto, in Annali del seminario giuridico dell’Università di Catania, vol. III, 1948, p. 38.

[3] Id., Ancient Law: Its Connection With The Early History Of Society And Its Relation To Modern Ideas, Murray, Londra, 1861.

[4] Conserva ancora grande interesse l’ampia ricerca storica svolta da Ph. Ariès, Padri e figli nell’Europa medievale e contemporanea, Laterza, Bari, 1968 (ultima edizione: 2006).

[5] M. Bessone, Rapporti etico sociali, in G. Branca (a cura di), Commentario della costituzione, Zanichelli-Il Foro italiano, Bologna-Roma, 1976, p. 18.

[6] C.M. Bianca, Diritto civile, vol. II, Giuffrè, Milano, 1981, p. 6.

[7] Sul superamento dell’automatismo tra raggiungimento della maggiore età e momento di acquisto della titolarità e della capacità di esercitare alcuni diritti, a cominciare dai diritti fondamentali, con anticipazione di tale momento al conseguimento progressivo delle capacità di discernimento ed espressiva, dopo il fondamentale studio di A. Belvedere e M. De Cristofaro, L’autonomia dei minori tra famiglia e società, Giuffrè, Milano, 1980, sono stati pubblicati numerosi saggi e monografie. Più recentemente, si può vedere M. Dogliotti, La potestà dei genitori e l’autonomia del minore, Giuffrè, Milano, 2007.

[8] Espressione che richiama le impostazioni teoriche di G. Zagrebelsky, Il diritto mite. Legge, diritti, giustizia, Einaudi, Torino, 1992. In argomento, vds. F. Occhiogrosso, Manifesto per una giustizia minorile mite, Franco Angeli, Milano, 2009 e, da ultimo, V. Montaruli, L’affidamento del minore e la continuità affettiva: rivisitazione dell’adozione mite e nuove prospettive in tema di adozione, in questa Rivista online, 6 ottobre 2017, www.questionegiustizia.it/articolo/l-affidamento-del-minore-e-la-continuita-affettiva_06-10-2017.php.

[9] In Foro it., 2014, IV, 173, con nota di G. Casaburi.

[10] Vds. G. Zaccaro, Adozione da parte di coppie omosessuali, stepchild adoption e interesse del minore, in questa Rivista online, 4 settembre 2014, www.questionegiustizia.it/articolo/adozione-da-parte-di-coppie-omosessuali_stepchild-adoption-e-interesse-del-minore_04-09-2014.php; C. Lendaro, Omogenitorialità e minori, ivi, 12 dicembre 2014, www.questionegiustizia.it/articolo/omogenitorialita-e-minori_12-12-2014.php; V. Montaruli, La creazione della ‘stepchild adoption’ tra evoluzione normativa e interpretazioni giurisprudenziali, ivi, 11 luglio 2016, www.questionegiustizia.it/articolo/la-creazione-della-stepchild-adoption-tra-evoluzione-normativa-e-interpretazioni-giurisprudenziali_11-07-2016.php; S. Celentano, Stepchild adoption. Prove di resistenza, ivi, 9 ottobre 2017, www.questionegiustizia.it/articolo/stepchild-adoption_prove-di-resistenza_09-10-2017.php.

[11] La sentenza è annotata da C. Fatta e M.M. Winkler, in Nuova giur. civ., 2013, I, p. 519 e da L. Poli, in Giur. it., 2013, p. 1764.

[12] In Foro it. 2016, I, pp. 2360-2362, con nota di G. Casaburi.

[13] In Foro it. 2018, I, 1536.

[14] S. Albano, La surrogazione di maternità tra responsabilità genitoriale ed interesse del minore, in questa Rivista online, 12 maggio 2016, www.questionegiustizia.it/articolo/la-surrogazione-di-maternita-tra-responsabilita-genitoriale-ed-interesse-del-minore_12-05-2016.php.

[15] In Foro it., 2014, I, p. 3408, con nota di G. Casaburi.

[16] In Foro it., 2015, IV, p. 117, con nota di G. Casaburi.

[17] In Nuova giur. civ., 2017, p. 372, con nota di  A. Palmieri; in Corriere giur., 2017, p. 181, con nota di G. Ferrando; in Dir. famiglia, 2017, p. 297 con nota di F. Di Marzio. In senso conforme, anche Trib. Pistoia, decreto 5 luglio 2018, sul quale vds. L. Giacomelli, Il giudice nel silenzio della legge: riconosciuta la doppia maternità in applicazione diretta della legge sulla procreazione assistita, in questa Rivista online, 11 luglio 2018, www.questionegiustizia.it/articolo/il-giudice-nel-silenzio-della-legge-riconosciuta-l_11-07-2018.php.

[18] R.G. Conti, Il parere preventivo della Corte Edu (post-Prot. 16) in tema di maternità surrogata, in questa Rivista online, 28 maggio 2019, www.questionegiustizia.it/articolo/il-parere-preventivo-della-corte-edu-post-prot-16-in-tema-di-maternita-surrogata_28-05-2019.php.

[19] In questa Rivista online, 9 agosto 2014, www.questionegiustizia.it/articolo/scambio-di-embrioni-l-ordinanza-del-tribunale-di-roma_09-08-2014.php.

[20] Vds. M. Velletti, Scambio di embrioni, nuova decisione del Tribunale di Roma, in questa Rivista online, 19 maggio 2015, www.questionegiustizia.it/articolo/scambio-di-embrioni-tribunale-di-roma_atto-secondo_19-05-2015.php.

[21] In Foro it., 2016, I, 2926.

[22] In Foro it., 2016, I, 2925.

[23] In Foro it., 2014, IV, p. 57, con nota di G.Casaburi.

[24] In Foro it., 2017, I, p. 1, con nota di G. Casaburi; in Corriere giur., 2017, p. 165, con nota di  V. Carbone; in Nuova giur. civ., 2017, p. 818., con nota di C. Favilli.

[25] «Neppure il d.leg. 28 dicembre 2013 n. 154 (revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione, a norma dell’art. 2 l. 10 dicembre 2012 n. 219), con cui il legislatore ha posto le basi per la completa equiparazione della disciplina dello status di figlio legittimo, figlio naturale e figlio adottato, riconoscendo l’unicità dello status di figlio, ha scalfito la norma oggi censurata.

 Pur essendo stata modificata la disciplina del cambiamento di cognome — con l’abrogazione degli art. 84, 85, 86, 87 e 88 d.p.r. n. 396 del 2000 e l’introduzione del nuovo testo dell’art. 89, ad opera del d.p.r. 13 marzo 2012 n. 54 (regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’art. 2, 12° comma, l. 15 maggio 1997 n. 127) —, le modifiche non hanno attinto la disciplina dell’attribuzione “originaria” del cognome, effettuata al momento della nascita.

 Va, d’altro canto, rilevata un’intensa attività preparatoria di interventi legislativi volti a disciplinare secondo nuovi criteri la materia dell’attribuzione del cognome ai figli. Allo stato, tuttavia, essi risultano ancora in itinere».

[26] In Nuova giur. civ., 2013, I, p. 103 con nota di J. Long; in Famiglia e dir., 2013, p. 537, con nota di G. Currò ; in Giust. civ., 2013, I, p. 1597, con nota di C. Ingenito.

[27] In Foro it., 2014, I, p. 4, con nota di G. Casaburi; in Nuova giur. civ., 2014, I, p. 279, con note di J. Long e F.G.F. Marcennò; in Corriere giur., 2014, p. 471, con nota di T. Auletta; in Famiglia e dir., 2014, p. 11, con nota di V. Carbone.

[28] In Foro it., 2015, I, 697.

[29] In Foro it., 2017, I, p. 477, con note di G. Amoroso, G. Casaburi e N. Lipari; in Famiglia e dir., 2017, p. 740, con nota di P. Di Marzio. Si veda, ancora, la nota di A. Giurlanda, Accesso alle origini, intervengono le sezioni unite, in questa Rivista online, 17 febbraio 2017, www.questionegiustizia.it/articolo/accesso-alle-origini_intervengono-le-sezioni-unite_17-02-2017.php.

[30] In Foro it., 2016, I, 3114; in questa Rivista online, 28 luglio 2016, con nota di A. Giurlanda, www.questionegiustizia.it/articolo/diritto-all-accesso-alle-proprie-origini_28-07-2016.php.

[31] A. Giurlanda, Il diritto alla conoscenza delle proprie origini, in questa Rivista online, 15 maggio 2015, www.questionegiustizia.it/articolo/il-diritto-alla-conoscenza-delle-proprie-origini_15-05-2015.php.