Magistratura democratica

Introduzione

di Carlo De Chiara

Che fare in presenza di crisi o insolvenza dell’impresa? La risposta, di cui si occupa il diritto delle procedure concorsuali, non è mai neutra.

La liquidazione con smembramento dell’azienda è solo una delle possibili risposte, quella che prevalentemente diede la legge fallimentare del 1942, la quale riservava alla conservazione dell’organizzazione aziendale e dell’impresa gli angusti spazi del concordato con garanzia – sempre, per di più, che l’imprenditore ne fosse “meritevole”. La giurisprudenza si incaricò, col tempo, di superare una visione così rigida e meccanicistica e affermò la legittimità della liquidazione anche in blocco dell’azienda con purgazione dei debiti: affiorava infatti la consapevolezza che è un bene anche l’organizzazione aziendale, da non disperdere, dunque, sinché contiene ancora un valore.

Il processo riformatore della disciplina delle procedure concorsuali sviluppatosi a partire dal 2005 ha ampliato gli spazi aperti dalla giurisprudenza, facendo della conservazione dell’azienda una priorità, sia nei casi di semplice crisi, sia in quelli di vera e propria insolvenza, e separando i destini dell’imprenditore, che “fallisce”, da quelli dell’azienda, che può proseguire la sua vita sia pure in mani diverse.

La priorità attribuita alla conservazione dell’azienda e dell’impresa non è, a sua volta, neutra. Se in astratto non può non condividersi l’opportunità della conservazione del valore aziendale, nell’interesse complessivo dell’economia nazionale e degli stessi creditori (che da quel maggior valore ricavano una maggiore soddisfazione dei propri crediti), in concreto l’esperienza insegna che i tentativi di conservazione della redditività dell’azienda spesso non sono coronati da successo e non di rado comportano, anzi, la dispersione di valore già acquisito, per effetto dell’aggravarsi del passivo dovuto ai nuovi debiti contratti durante il protrarsi di una gestione aziendale non economicamente efficiente.

Il favore per le soluzioni concordate della crisi – e, in particolare, per il concordato in continuità aziendale – sotteso al processo di riforma iniziato nel 2005, si basa appunto largamente sulle esigenze di conservazione del valore aziendale. Ma dietro alle apparentemente asettiche opzioni normative si muovono interessi diversi, e spesso contrastanti, di soggetti e di ceti volta a volta favoriti o pregiudicati dalle differenti opzioni. La continuità aziendale favorisce sicuramente l’interesse occupazionale dei lavoratori e delle imprese dell’indotto legate indissolubilmente alle sorti dell’impresa committente, ma può pregiudicare l’interesse dei restanti creditori alla maggior soddisfazione dei loro crediti per il rischio, già richiamato, di incremento del passivo nel corso della verifica dell’effettiva possibilità di risanamento dell’impresa, che non di rado ha esito negativo.

Fino a che punto è lecito e opportuno correre tale rischio? Pur dovendosi senza incertezze anteporre a qualunque altro interesse quello del lavoro, su cui la Repubblica si fonda per dettato costituzionale, non sarebbe tuttavia giustificabile la dilapidazione di risorse in tentativi di risanamento privi di ragionevoli prospettive di successo, perché la stessa Costituzione non è indifferente alla tutela dei creditori e, del resto, l’ingiustificato e irragionevole pregiudizio dei loro interessi incide negativamente sulla funzionalità del mercato.

Chi decide, inoltre, se correre o meno il rischio della continuità aziendale? Il quesito rimanda al tema dei rapporti tra autonomia negoziale delle parti, per quanto declinata nella forma del tutto peculiare dei concordati di massa, e contenuto del sindacato del giudice – di pregnante incidenza sostanziale ovvero limitato alla pura legittimità formale – in sede di omologazione del patto concordatario tra debitore e creditori.

Il compito del legislatore consiste, come sempre, nel bilanciare opportunamente i valori e gli interessi in gioco. Il decreto legislativo 12 gennaio 2019, n. 14, attuativo della delega conferita al Governo dalla legge 19 ottobre 2017, n. 155 per la riforma delle discipline della crisi d’impresa e dell’insolvenza, determina un nuovo punto di equilibrio – illustrato da vari contributi del presente obiettivo – realizzando anche, a differenza delle novelle parziali succedutesi nella frenetica stagione riformatrice che l’ha preceduto, un più ampio disegno sistematico.

Il decreto si compone di quattro parti. Il vero e proprio «codice della crisi di impresa e dell’insolvenza» è contenuto nella prima; la seconda parte contiene, invece, «modifiche al codice civile», in funzione di raccordo con le disposizioni del predetto codice; la terza, disposizioni particolari attinenti a «garanzie in favore degli acquirenti di immobili da costruire»; la quarta le «disposizioni finali e transitorie».

Viene così finalmente raccolta in un unico corpo normativo la disciplina di tutti gli aspetti della crisi e dell’insolvenza dell’impresa o gruppi di imprese (ma con l’eccezione, tanto vistosa quanto ingiustificata, dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese), nonché del sovraindebitamento dei soggetti esclusi dalle tradizionali procedure concorsuali, conferendo organicità al sistema, con intuibili ricadute positive in termini di chiarezza e non lacunosità della disciplina, e migliorando il raccordo con il diritto societario e il diritto del lavoro.

Non si è proceduto, peraltro, al riordino della materia dei privilegi, pure previsto dalla legge delega; né si è curata l’armonizzazione delle disposizioni penali; né si è dato seguito al criterio direttivo della specializzazione dei giudici della crisi e dell’insolvenza, fondamentale presupposto di un’efficace applicazione della nuova normativa, tanto più che il nuovo codice riconosce al giudice poteri di verifica della fattibilità economica della proposta concordataria, che la precedente disciplina gli negava.

Il presente obiettivo non ha, ovviamente, lo scopo di illustrare compiutamente il contenuto del nuovo testo normativo, ma si propone di metterne a fuoco potenzialità e criticità attraverso riflessioni sui principali aspetti qualificanti, grazie a contributi su temi sia più generali e di sistema, sia più specifici e di immediato impatto anche operativo. Senza peraltro trascurare, come nella tradizione di questa Rivista, il contributo di cultori di altre scienze sociali – in particolare, l’economia – che aiuti a mettere a fuoco i dati della realtà su cui le norme incidono.

Merita di essere evidenziata sin da ora la scelta legislativa, di carattere strategico, di abbandonare la precedente concezione sanzionatoria del fallimento: una scelta espressa icasticamente sostituendo la stessa parola «fallimento» con l’espressione neutra «liquidazione giudiziale», a sottolineare la mancanza di qualsiasi pre-giudizio morale nei confronti dell’imprenditore insolvente, la cui riprovazione è solo eventuale e trova spazio sul terreno della sanzione penale, conseguente a condotte particolari.      

Senza tale mutamento culturale di fondo, non avrebbe senso e probabilità di successo il più innovativo degli istituti introdotti dalla riforma (anticipando, sia pure in maniera incompleta, le sollecitazioni del legislatore europeo contenute nella direttiva 2019/1023 del 20 giugno 2019, in corso di approvazione all’epoca del varo del decreto legislativo), quello delle procedure di allerta e composizione assistita della crisi: istituto che si iscrive a pieno titolo nella cultura del salvataggio dell’impresa e presuppone la collaborazione e l’affidamento dell’imprenditore, in uno con la massima precocità della scoperta e denuncia già dei primi segnali della crisi, allorché questa sarebbe più agevolmente superabile.

Il d.lgs n. 14/2019 entrerà in vigore (salvo alcune disposizioni di più immediata applicazione) decorsi diciotto mesi dalla sua pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale, avvenuta il 14 febbraio 2019, ma c’è da aspettarsi che quella che leggiamo oggi non sarà la sua versione definitiva. Con una inedita modalità di intervento, la legge 8 marzo 2019, n. 20 ha infatti delegato il Governo a emanare, con le procedure e nel rispetto dei criteri direttivi previsti dalla precedente legge delega n. 155/2017, entro due anni dall’entrata in vigore del decreto legislativo di attuazione, disposizioni integrative e correttive di quest’ultimo.