Magistratura democratica

Codice della crisi dell'impresa e specializzazione del giudice concorsuale: un'occasione mancata

di Claudio Viazzi
Parlare della specializzazione del giudice concorsuale e della necessaria revisione della competenza territoriale, oggi distribuita irrazionalmente tra tutti i 140 tribunali sparsi sul territorio, significa parlare della “riforma che non c’è stata”, il decreto delegato avendo sul punto disatteso completamente le direttive della legge delega. Ciò peraltro non rappresenta solo un clamoroso vizio di incostituzionalità del codice, ma anche una carenza che rischia di compromettere l’efficacia dell’intera riforma.

1. Premessa

Affrontare la questione della specializzazione del giudice concorsuale nel nuovo codice della crisi e insolvenza dell’impresa, rischia di risultare oggi una semplice testimonianza o una pura disquisizione accademica (se non rimanesse ancora la labile speranza di un intervento correttivo), trattandosi della parte della manovra riformatrice che non c’è, in quanto scomparsa nel testo finale del d.lgs 12 gennaio 2019 n. 14, varato dall’attuale Governo. Scomparsa che rappresenta una grossolana violazione della legge delega, che prevedeva, al contrario, una forte specializzazione del giudice concorsuale attraverso una significativa concentrazione delle competenze a livello di uffici giudiziari, di dimensioni tali da assicurarla, assegnandone l’individuazione, appunto, al decreto delegato. Nelle pagine che seguono si cercherà, allora, di dimostrare questo preciso assunto: mentre l’impianto originario della legge delega e le conseguenti proposte elaborate erano veramente funzionali a una riforma che si intendeva inserire entro un contesto organizzativo razionale, l’amputazione di tale profilo della manovra nel decreto finale rischia di indebolire pesantemente l’intera riforma, essendo venuto meno un suo importante e decisivo tassello, con gravi conseguenze sul piano della sua stessa piena realizzabilità.

2. La specializzazione e la dimensione degli uffici giudiziari

Che si tratti di un binomio inscindibile è apparso evidente fin dal decreto ministeriale istitutivo della “Commissione Rordorf” che, tra le direttive e gli obiettivi di fondo da perseguire, indicava proprio quello di realizzare uffici giudiziari caratterizzati dalla specializzazione dei giudici addetti alle procedure concorsuali, con conseguente necessità di concentrare le competenze presso uffici di dimensioni congrue, provvedendo altresì alle relative variazioni delle piante organiche (in aumento o in diminuzione).

Se si voleva, invero, dare un contenuto effettivo al valore/obiettivo della prima, occorreva provvedere a una drastica revisione della distribuzione delle seconde, che non poteva rimanere polverizzata nel reticolo costituito dai 140 tribunali esistenti: chiaro appariva a tutti gli addetti, del resto, che fosse un vero non-senso organizzativo il fatto che, per esemplificare, il Tribunale di Lanusei (dotato di una pianta organica di 6 giudici) avesse le stesse competenze del Tribunale di Roma, la cui pianta organica era di 370!

Altrettanto chiara era stata, così, la scelta della legge delega 19 ottobre 2017, n. 155, il cui art. 2, comma 1, lett. n, nello stabilire il criterio guida di «assicurare la specializzazione dei giudici addetti alla materia concorsuale, con adeguamento degli organici degli uffici giudiziari la cui competenza risulti ampliata»,individuava tre fasce distinte di uffici a competenza differenziata, attribuendo a quelli più grandi, in quanto sede  delle sezioni specializzate in materia di impresa, la competenza sulle procedure relative all’amministrazione straordinaria e ai gruppi di imprese di rilevante dimensione; mantenendo invariati i vigenti criteri di attribuzione della competenza per le procedure di crisi o di insolvenza del consumatore, del professionista e degli imprenditori sotto soglia di fallibilità, vale a dire tutti i tribunali esistenti; infine individuando, tra gli stessi,  quelli competenti alla trattazione delle procedure concorsuali diverse dalle due fasce precedenti, sulla base di una serie di parametri elencati dalla stessa legge delega (numero  giudici in organico, numero delle procedure concorsuali sopravvenute negli ultimi cinque anni, numero delle procedure definite nello stesso periodo, durata delle procedure, numero delle imprese iscritte al registro delle imprese, popolazione residente nel territorio del circondario di ogni tribunale). A proposito, poi, del primo indicatore costituito dall’organico dei giudici, la delega precisava, significativamente, che si trattava di un parametro «da valutare in relazione ai limiti dimensionali previsti ai fini della costituzione di una sezione che si occupi in via esclusiva della materia».

Ora, questo inequivoco impianto della delega conteneva dunque un’implicita denuncia dell’insoddisfacente assetto delle competenze esistenti, perchè allocate presso uffici non in grado di allestire una sezione minima di giudici competente a trattare la materia. I dati concreti acquisiti nel corso dei lavori della Commissione ministeriale risultavano, infatti, davvero impietosi: dall’esame delle tabelle di tutti gli uffici esistenti, di cui ben 45 avevano una pianta organica inferiore a 20 giudici (che da tempo, un po’ convenzionalmente, gli studiosi di organizzazione avevano indicato come organico minimo perché un tribunale potesse funzionare) emergeva che addirittura 90 tribunali su 140 contemplavano, nella propria tabella, 1 o al massimo 2 giudici delegati alle procedure concorsuali, il che impediva automaticamente di poter contare, in tali uffici, su altri giudici specializzati che componessero un collegio in grado di controllare con terzietà, autonomia e professionalità l’operato dei primi.

Tale quadro desolante, ma inconfutabile stava quindi alla base della proposta delle tre fasce di competenza degli uffici che ha portato alle scelte della legge delega. E questo – non è inutile ricordarlo – dopo che si scartò in commissione una soluzione alternativa che venne messa sul tappeto all’inizio della discussione. Soluzione che, nella sostanza, affermava: se non si vogliono spostare le cause da un ufficio all’altro, vale a dire da quello che perde la competenza a quello che l’aumenta, allargando la propria competenza territoriale, necessariamente allora bisogna procedere allo spostamento dei giudici. Ciò significava un piano di applicazioni di giudici specializzati dagli uffici più grandi verso quelli più piccoli, per poter integrare, di volta in volta, i collegi che là non si riescono a costituire per mancanza di specializzazione e superare, così, la triste realtà di tante composizioni “raccogliticce” che finiscono per risultare, di fatto, subalterne alle scelte adottate dal giudice reclamato od opposto che, il più delle volte, è l’unico in ufficio a capire qualcosa della materia.

Ora, tale proposta alternativa fu scartata rapidamente per ragioni di costi e per i disagi – come molti ebbero a dire – che si creavano negli uffici che avrebbero dovuto fornire la manodopera specializzata itinerante per l’adozione degli strumenti di mobilità. Dunque, l’unica soluzione non poteva che essere quella dell’accorpamento della competenza a scapito degli uffici più piccoli, vale a dire esattamente quanto disposto nel testo della legge delega: ecco, quindi, la inevitabile conclusione in base alla quale, se non si spostano i giudici, si spostano le competenze. Tertium non datur.

3. I lavori della II Commissione Rordorf di redazione della proposta di decreto delegato

Il lavoro di traduzione concreta delle linee guida della delega si è, a questo punto, indirizzato in primo luogo verso la soluzione di due questioni ordinamentali da essa poste, che riguardavano il concetto di “sezione” e di “esclusività” della competenza tabellare. Ora, dato che l’art. 46 dell’ordinamento giudiziario vigente stabilisce che, per la costituzione di una sezione, occorre che essa sia composta da «almeno cinque giudici», si è subito optato, nell’alternativa interpretativa “5 giudici + 1 presidente” oppure “4 giudici + 1 presidente” (dato che anche il presidente è un giudice), per la seconda soluzione, che consentiva certamente di aumentare il numero degli uffici in grado di organizzarsi con una sezione specializzata. Egualmente, anche la seconda questione interpretativa di cosa si intendesse nella legge delega per sezione che «si occupi in via esclusiva della materia», si è nuovamente optato per la tesi più funzionale a salvare un numero più ampio di uffici. Se si fosse, infatti, intesa l’esclusività nel senso di sezione che si occupi soltanto di competenze concorsuali, sarebbero rimasti competenti pochissimi tribunali, atteso che, dati tabellari alla mano, neppure gli uffici più grandi – eccetto poche unità – sono competenti soltanto in materia concorsuale, poiché quelle che sono denominate “sezioni fallimentari” si occupano normalmente anche di altri affari, più o meno connessi con la materia concorsuale.

 La scelta è stata, allora, quella di interpretare l’esclusività della legge delega nel senso che si dovesse, in tutti gli uffici in cui la competenza veniva mantenuta, evitare che le competenze concorsuali potessero essere disseminate in diverse sezioni: una sola doveva essere quella competente a occuparsene, anche se unitamente ad altri affari.

In altri termini, le scelte fatte avevano come filo conduttore quello di conservare la competenza in capo al maggior numero possibile di uffici, purchè fosse assicurata la specializzazione minima necessaria, attraverso un prudente bilanciamento tra l’esigenza di concentrazione che trovava emersione indubbia nell’art. 2, lett. n, punto 3, della delega e quella opposta di localizzazione e decentramento, fissato dall’altra norma della stessa delega sul criterio di radicazione della competenza territoriale. Il nuovo giudice concorsuale precostituito per legge finiva, così, per essere un giudice non vicinissimo dovunque al «centro degli interessi principali» dell’impresa, ma neppure troppo lontano. Dei 136 tribunali presi in esame (non tenendosi cioè conto di Vasto, Lanciano, Avezzano e Sulmona, uffici abruzzesi già soppressi, e solo prorogati temporaneamente a seguito degli eventi sismici che hanno colpito tale regione) la tabella di “sopravvivenza” elaborata ha visto l’accentramento della competenza presso 77 uffici e la perdita della competenza in altri 59. Tendenzialmente, la linea seguita è stata quella di conservare la competenza degli uffici con più di 20 giudici in pianta organica, eccetto alcune situazioni prive di altri indicatori significativi che ne giustificassero la conservazione, così come, per converso, alcune realtà di uffici con piante organiche inferiori hanno mantenuto la competenza (con proposte di indispensabile aumento di organico) a seguito di un motivato esame degli altri parametri presenti (si pensi al caso-limite emblematico di Pordenone, con un numero di 20 giudici in organico, ma con un numero di imprese pari a più del doppio rispetto a Trieste, o a Campobasso, ufficio con soli 11 giudici in pianta, che veniva salvato per rispetto degli ordini del giorno adottati in Parlamento tesi a garantire almeno un tribunale competente per distretto). La Commissione ha quindi consegnato, nel dicembre 2017, al Ministro il testo di un’articolata proposta delle nuove competenze territoriali, accompagnata da un corredo di norme organizzative e ordinamentali che miravano a rafforzare ulteriormente l’obiettivo della specializzazione: l’istituzione di un’apposita sezione specializzata in Cassazione, regole di accesso alle sezioni specializzate, programmi di formazione professionale permanente, trasparenza e rotazione degli incarichi, e così via.

4. Il “tradimento” del decreto delegato

Tutto il lavoro svolto, lo si ripete in precisa attuazione delle chiare direttive della legge delega, è stato inopinatamente buttato a mare dal legislatore delegato. Il nuovo Governo, autodenominatosi “del cambiamento”, in realtà qui ha cambiato ben poco, mantenendo intatta la geografia giudiziaria delle competenze preesistenti. L’art. 27 del decreto delegato, al comma 1, si è limitato a introdurre un’unica modestissima modificazione alle attuali competenze, attribuendo ai tribunali sede delle sezioni specializzate per le imprese la competenza per amministrazioni straordinarie e gruppi d’imprese di rilevanti dimensioni, come prescritto dalla legge delega, mentre il comma 2, stravolgendo quest’ultima, ha stabilito laconicamente che per tutti gli altri procedimenti la competenza è del tribunale del luogo «nel cui circondario il debitore ha il centro degli interessi principali», cioè tutto come prima. L’art. 20 del decreto, infine, in relazione alle procedure d’allerta di nuova istituzione, ha stabilito che le misure protettive che possono essere disposte durante tali procedure siano di competenza delle «sezioni specializzate d’impresa» e non dei tribunali sede di tali sezioni: novità, forse frutto di un vero e proprio refuso, che appare comunque irrazionale e priva di giustificazione, dato che pressoché dovunque, nei grandi uffici, le due sezioni sono distinte, a conferma di una certa approssimazione tecnica del testo.

Orbene, di fronte a queste scelte, sorgono immediatamente alcune precise domande: che razza di calcolo costi/benefici è stato fatto? Perchè si è sacrificato del tutto il valore della specializzazione? Cosa si è voluto, al suo posto, privilegiare o – meglio – conservare? Quali interessi prevalenti si sono voluti tutelare? Rispondere a questi interrogativi potrebbe peraltro apparire più un tirare a indovinare che un confrontarsi con una linea politica dall’attuale esecutivo, perchè di tale linea non esiste traccia. Al di là delle scarne disposizioni normative esaminate, non esiste infatti una relazione motivata che le abbia accompagnate e illustrate, spiegando perchè non si sia voluto dar corso alla delega, violandola scientemente.

La gravità di questo modo di operare non può essere sottaciuta, ma per apprezzare in pieno quale vulnus si sia arrecato in tal modo all’intero impianto della riforma, facendone mancare un tassello essenziale, sarà opportuno, a questo punto, un approfondimento sul concetto di “specializzazione”, sui suoi innegabili vantaggi e su come esso si sia affermato nella giurisdizione e nella cultura professionale della corporazione giudiziaria.

5. La specializzazione del giudice: un valore discusso e divisivo

Sicuramente, nel testo finale approvato dal Governo, i valori della specializzazione e del buon andamento degli uffici (che saranno tutti alle prese con un impegnativo nuovo codice di circa 400 articoli in materie estremamente complesse dal punto di vista tecnico, testo da comprendere, interpretare, metabolizzare e applicare con elevata professionalità), sono stati immolati come vittime sacrificali sull’altare di una volontà politica apparsa tutta subalterna ai localismi e particolarismi coinvolti, e alle pressioni delle lobby legate agli interessi incisi dalla riforma. Questa subalternità si lega, inoltre, a una profondamente errata concezione della giustizia come servizio da assicurare in presidi il più possibile prossimi ai cittadini: ecco l’idea nostalgica del giudice di prossimità, che si trascina dietro altre idee obsolete a essa collegate, quale il piccolo ufficio decentrato, avamposto di legalità, o il modello antico del giudice tuttofare che opera svolgendo indifferentemente funzioni promiscue. Idee e modelli organizzativi i quali, oltre che anacronistici, sono antitetici rispetto a qualsiasi discorso o programma basato sulla specializzazione.

A questo proposito, appare calzante ricordare un vecchio, ma illuminante e attualissimo scritto di un grande magistrato e studioso, Pino Borrè, comparso nel 1968 sulla rivista Il Ponte, e dedicato proprio alla specializzazione del giudice. Scriveva Borrè, con la sua solita tacitiana chiarezza, che di fronte al progressivo intensificarsi e complicarsi dei fenomeni sociali occorreva potenziare la selezione attitudinale e l’esigenza della specializzazione dei giudici. Ma con quali vantaggi? Così l’Autore li elencava: a) maggiore rapidità di esercizio delle funzioni; b) riduzione dei pericoli dell’errore tecnico; c) scoraggiamento delle parti a sostenere tesi inaccettabili; d) acquisto di maggior prestigio del giudice di fronte alle parti in quanto effettivo dominus materiae.

A questo, oggi, aggiungeremmo: aumento delle garanzie di terzietà e imparzialità del giudizio insite nel giusto processo, nonché aumento della prevedibilità delle decisioni.

Concludeva quindi la sua riflessione Borrè, rilevando che la specializzazione, per un giudice, rappresentava un traguardo cui si giungeva attraverso la sperimentazione delle varie branche del sapere giuridico. Il che non significava frammentazione di essa, ma un plus che si aggiungeva alla preparazione di base del magistrato e che la nobilitava nel suo complesso, specie in materie particolarmente complesse come quella fallimentare. Infine, Borrè considerava che l’attuazione pratica di qualsiasi programma organizzativo di specializzazione era condizionata alle dimensioni dell’ufficio giudiziario: «Va infatti rilevato che quando la cura del pubblico bene avrà finalmente la meglio su discutibili interessi campanilistici e si attuerà un radicale ridimensionamento delle circoscrizioni giudiziarie, non vi saranno più uffici minimi». Cosìsi esprimeva la chiara connessione con la necessità di una ristrutturazione della competenza territoriale.

Ebbene, sono passati cinquant’anni da quello scritto e gli uffici minimi non sono affatto scomparsi, e in molti – se non in tutti – la specializzazione continua a essere una chimera, una pia illusione ostacolata in mille modi dalle condizioni operative e organizzative anguste in cui essi si trovano. Eppure, appena si è materializzata la probabilità, dopo la legge delega, che con il decreto delegato molti uffici privi di specializzazione potessero perdere alcune competenze, è iniziata la controffensiva di molti giudici e ordini professionali.

 Qui si svela, probabilmente, dove si colloca la vera fragilità di un valore mai interamente metabolizzato dall’organizzazione e dalla corporazione giudiziarie, proclamato spesso a parole, ma contrastato nei fatti, esaltato quando costituiva espressione di libere scelte del singolo magistrato, ma combattuto appena comportava limitazioni o vincoli organizzativi di sorta. Ci ricordiamo o no di come è stata vissuta, all’interno della magistratura, l’introduzione della temporaneità decennale delle funzioni tabellari? Qui, la specializzazione è stata esaltata come valore che non doveva essere calpestato dalla rotazione, perchè questa misura avrebbe comportato la perdita irrimediabile di patrimoni conoscitivi e professionali. Battaglia infracorporativa che, tuttavia, trascurava del tutto i rischi dell’eccessiva permanenza nello stesso posto o funzione e i vantaggi che la professionalità acquisita poteva portare, arricchendola, in una nuova funzione contigua alla precedente: se un giudice, dopo dieci anni di funzioni concorsuali, passa ad altra attività nel settore commerciale o societario, cosa perde in realtà del precedente patrimonio professionale?

In effetti tutto questo chiacchiericcio – che dura da anni – sul tasto dolente della rotazione decennale, altro non fa emergere che l’antica e mai abbandonata opposizione a qualsiasi misura, regola, imposizione che, dall’esterno, possa limitare i percorsi professionali di ciascun magistrato, che dovrebbero rimanere sempre liberi e mai essere limitati da costrizioni organizzative esterne, in una malintesa concezione dei valori di autonomia e indipendenza che mira a coprire aspetti che, con questi, nulla hanno a che fare.

Da questo punto di vista si spiega, allora, facilmente il perchè della battaglia (risultata alla fine vittoriosa) e delle pressioni condotte da tutti gli uffici che rischiavano di perdere la competenza in materia concorsuale, in quanto non in grado di assicurare specializzazione in materia, uniti agli interessi contrari dei professionisti colpiti dalla stessa misura. L’obiettivo è stato così osteggiato in tutti i modi perchè comportava la perdita di una competenza strategica per l’ufficio (mettendo anche a repentaglio gli introiti di tanti studi professionali), a nulla importando a quanti protestavano se la si esercitasse bene o in modo approssimativo. Ed ecco la riscoperta – come “foglia di fico” – del modello di giudice di prossimità, da difendere a tutti i costi, in cui si sono canalizzati interessi molteplici di segno – però – molto differente tra loro.

All’ingenuità di quanti continuano a credere che tale modello sia ancora attuale, allo stesso modo di come si crede ancora in Babbo Natale e alla sciocchezza che un giudice vicino a casa sia sempre garanzia e presidio di legalità, indipendentemente dalla sua funzionalità, si sono sempre sommati interessi ben meno nobili e più potenti – che hanno così manovrato i primi –, che da sempre hanno investito sull’inefficienza dei piccoli uffici, ad esempio correndo a iscrivere imprese nei relativi registri contando sul fatto che la  procura non imbastisse mai, per incapacità congenite, indagini per reati fallimentari o economici, o sul fatto che il tribunale non dichiarasse quasi mai il fallimento, ma optasse sempre o quasi per procedure concordatarie più morbide. Sto raccontando favole, oppure sto fedelmente raccontando quanto accaduto in questi ultimi decenni in tanti piccoli uffici, da nord a sud, nell’intera Penisola? Cosa ha significato realmente, per la tenuta dello Stato di diritto e l’effettività del controllo di legalità in tante zone del Paese, la presenza di uffici giudiziari sguarniti e con armi spuntate proprio in terreni cruciali dell’economia, a cominciare dalla gestione delle crisi delle imprese?

 Ecco perchè chi scrive è totalmente scettico circa l’utilità di certi discorsi demagogici sulla necessità del giudice vicino a casa e sulla bellezza di un potere giudiziario diffuso. Ciò serve, infatti, solo a favorire il proliferare dell’illegalità e ad avere un ufficio prossimo, ma vuoto o povero di risorse, di livello professionale scadente e non specializzato in materie cruciali. La diffusione della stessa competenza sul territorio rischia, se non accompagnata da risorse adeguate e da professionlità all’altezza dei compiti, di produrre l’effetto contrario della sua ineffettività che rende, alla fine, il presidio di asserita legalità mera apparenza e luogo ove si realizza esattamente il suo opposto.

6. Una conclusione un po’ sconsolata

I guasti prodotti da questa irresponsabile non attuazione della delega si collocano sicuramente a vari livelli. In primo luogo, sul piano costituzionale degli equilibri tra potere legislativo delegante (Parlamento) e delegato (Governo), che rischiano di compromettersi oggettivamente quando, nell’iter della delega, sopravviene – come avvenuto in questa vicenda – un Governo di orientamento diverso da quello che aveva richiesto la delega e che decide, magari, di attuare la medesima in modo difforme. Che succede, qui, sul piano costituzionale? Potrà e in che modo intervenire la Corte costituzionale che, tra l’altro, proprio in questa delicata materia ha sempre avuto atteggiamenti oscillanti, a volte rigorosi, a volte lassisti? A parte la difficoltà a costruire un giudizio incidentale di incostituzionalità, sotto il profilo della rilevanza della questione, si potrebbe obiettare alla fine che l’uso frazionato o parziale della delega rientri nelle legittime scelte politiche del Governo (anche se qui si è fatto ben altro, cioè lo stravolgimento della direttiva), che alla fine una modesta specializzazione si è realizzata con il potenziamento della competenza dei tribunali sede della sezione specializzata per le imprese, mentre per il resto hanno prevalso altre esigenze rilevanti sottese ad assicurare la diffusione sul territorio delle competenze. E così via.

In realtà, percorrere la strada dell’incostituzionalità e della confutazione delle possibili tesi giustificative non porta da nessuna parte, essendo sterile esercitazione dilungarsi sui guasti di ordine costituzionale prodotti, specie in una fase storica in cui ragionare di gerarchia delle fonti e di rigidità della Costituzione sembra alquanto fuori moda. Viceversa, può apparire più utile soffermarsi, quale profilo più preoccupante della questione, sulle conseguenze devastanti della scelta fatta in punto di attuazione della riforma e buon andamento degli uffici.

E, allora, insistiamo nel ricordare che l’introduzione della specializzazione affiancata dal riordino delle competenze era una tipica riforma a costo zero, i cui benefici superavano di gran lunga gli svantaggi (che non riguardavano, in ogni caso, l’amministrazione della giustizia); che, come insegnano i sociologi dell’organizzazione, una delle più gravi diseconomie di scala di un ufficio (non solo giudiziario) è quella data dalla mancanza di specializzazione degli addetti, per cui solo l’attuazione del programma della legge delega avrebbe assicurato reali economie di scala per gli uffici nella gestione della crisi delle imprese, tanto è vero che rappresentava uno degli obiettivi principali dell’intera riforma.

Al contrario, il mantenimento dello status quo perpetuerà il divario, oggi già enorme, tra le performance degli uffici – quelli più grandi maggiormente professionalizzati e quelli piccoli –, consolidando un perverso doppio circuito giurisdizionale che significa diversi servizi erogati, di serie A e di serie B, a due velocità e con due differenti livelli di professionalità, giurisprudenza più ondivaga e imprevedibile, il tutto con pesanti ricadute anche in termini di giusto processo ex art. 111 Cost., che nel secondo circuito più debole di giurisdizione rischia di essere quotidianamente disapplicato.

La domanda conclusiva è, a questo punto, una sola: davvero i cittadini e le imprese, che siano sane o in crisi, ma meritevoli di ottenere rapidamente una nuova chance dal mercato, saranno così contenti di avere ancora un giudice che sieda presso la porta accanto, come ci dice la narrazione che va per la maggiore, ma poco efficiente ed efficace, perchè prima di tutto non specializzato e non in grado quindi di capire e, poi, di tutelare con tempestività, autorevolezza e capacità le loro questioni e i loro diritti in un giusto processo?

Questa, alla fine, resta l’unica vera questione, e si spera che chi ci governa apra presto gli occhi sulla reale portata di quello che, forse un po’ superficialmente e frettolosamente, ha fatto.