Magistratura democratica

La par condicio creditorum al tempo del codice della crisi

di Massimo Fabiani
Il saggio si propone di esaminare quale sia stata l’evoluzione della par condicio creditorum dopo le riforme del 2005/2007 e quali potranno essere le prospettive dopo il codice della crisi, al cospetto di tanti segnali che sembrano indebolire tale principio. Un altro valore deve comunque fare da “collante” quando si distribuiscono le risorse ai creditori: esso può cogliersi nel miglior soddisfacimento di questi ultimi, quanto meno nelle procedure concordate di regolazione della crisi.

1. Preambolo

Discutere di par condicio creditorum, ovvero del principio per il quale ai creditori dovrebbe essere assicurato un eguale diritto di soddisfarsi sul patrimonio del debitore, è esercizio complesso[1]. Se ne può dibattere in chiave storica (antica e contemporanea), ma anche in chiave prospettica e, in particolare, con riferimento alle evoluzioni normative in atto innescate dalla legge delega n. 155/2017 di riforma organica delle procedure concorsuali[2] e dal successivo decreto legislativo n. 14/2019[3].

Affrontare un argomento in apparenza astratto appare quasi un esercizio eretico al cospetto delle tante questioni che vengono dibattute sul piano puramente tecnico. Le tecnicalità, però, se vengono esaminate senza un chiaro inquadramento di sistema, rischiano di non trovare soluzioni coerenti perché la risoluzione dei problemi deve, sempre, derivare dall’armonia delle regole, e l’armonia delle regole reclama un approccio meno astretto nella pura tecnica[4].

Quando si discute di par condicio, infatti, si ha a che fare con la dimensione di un principio che ha enormi ricadute pratiche; tuttavia, le soluzioni di tali questioni pratiche presuppongono talune scelte ideologiche e, a loro volta, le scelte ideologiche si fondano su giudizi di valore.

Ecco, allora, che il quesito cui dobbiamo rispondere nelle considerazioni che seguono, è al fondo un quesito “valoriale”: è necessaria, o è (solo) utile, o è (solo) opportuna l’applicazione della par condicio creditorum? Oppure la possiamo mettere in disparte e dobbiamo andare alla ricerca di qualche altro principio che esprima un valore?

La risposta è, ovviamente, assai articolata per le ragioni che si esporranno.

2. La par condicio e il diritto civile

La semplice lettura degli artt. 2740 e 2741 cc disegna in modo sistematico qual è la questione di fondo che si vuole esaminare.

In primo luogo, l’art. 2740 cc esprime il principio, generalissimo, secondo il quale il creditore ha uno specifico diritto sul patrimonio del debitore[5] perché, in caso di difetto di cooperazione, può farlo espropriare contro la volontà del debitore e ciò in quanto l’ordinamento processuale non si limita ad attribuire alla parte che ritiene di avere subito un torto (nel caso che qui interessa, il torto è il mancato pagamento di un debito) il diritto a ottenere un accertamento giudiziale; infatti, il vero presidio di tutela del diritto di credito è rappresentato dal principio per il quale il diritto alla garanzia patrimoniale si può attuare contro la volontà del debitore. In questo senso, si è soliti parlare di diritto alla attuazione della garanzia patrimoniale (art. 2910 cc).

Chiunque sia riconosciuto come creditore di una somma di denaro può far espropriare i beni del debitore perché i beni e, più in generale, il suo patrimonio costituiscono la garanzia del soddisfacimento della ragione di credito.

Non a caso, le disposizioni ancillari della tutela della garanzia patrimoniale sono rappresentate: 1) dal sequestro conservativo (art. 2905 cc), che mira a evitare la dispersione del patrimonio del debitore; 2) dall’azione surrogatoria (art. 2900 cc), che mira a evitare che il debitore, rimanendo inerte, pregiudichi il diritto del creditore anche sul patrimonio futuro; 3) dall’azione revocatoria ordinaria (art. 2901 cc), che è funzionale a reprimere le condotte del debitore che abbiano portato alla diminuzione della garanzia patrimoniale[6].

Se questo è il sistema orientato a offrire tutela al creditore, questo sistema è diretto a proteggere tutti i creditori, nel senso che ciascuno può esercitare i mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale e, laddove persista l’inadempimento, può far espropriare i beni del debitore[7]. Un ordinamento che crede alla tutela dei diritti (e il nostro lo eleva a principio costituzionale fondamentale nell’art. 24 Cost.) deve fare in modo che chi ha subito un torto possa ricevere tutto e proprio tutto ciò che gli spetta[8].

L’ordinamento, quindi, pone a disposizione di tutti i creditori la possibilità di reagire all’inadempimento del comune debitore, sì che occorre stabilire come organizzare l’esercizio plurimo di queste reazioni.

La disposizione di cui all’art. 2741 cc dice chiaramente cosa deve accadere quando più creditori vantano più pretese nei confronti del medesimo debitore; sennonché le regole valgono quando si è in presenza di una patologia della gestione del patrimonio del debitore.

Si può, infatti, fondatamente sostenere che, in presenza di più obbligazioni passive, il debitore possa pagare chiunque, senza alcun obbligo di rispettare la par condicio creditorum sino a quando vi sia la prospettiva di un regolare soddisfacimento di tutti. Il debitore, imprenditore o no che sia, non deve distribuire le risorse in modo paritario fra i creditori, ma deve soddisfare i creditori secondo la fisiologia del rapporto, guardando innanzi tutto alla scadenza dell’obbligazione.

Quando non esiste una situazione di patologia, i criteri di esecuzione dei pagamenti sono tutt’affatto diversi da quelli ispirati al principio di parità. A tale conclusione si perviene quando si esamina la norma in tema di imputazione dei pagamenti. Nell’ambito del rapporto bilaterale creditore-debitore, se vi sono più obbligazioni[9], il criterio di soddisfacimento non è quello della distribuzione paritaria percentuale (fra più ragioni di credito), ma quello della scadenza del debito e, poi, quello della protezione del debito meno garantito; la descrizione scalare contenuta nell’art. 1193 cc né è un esempio. L’imputazione del pagamento va fatta in modo proporzionale solo quando non soccorrono gli altri (e precedenti) criteri.

Il criterio di imputazione dei pagamenti può essere trasferito alla fattispecie nella quale non vi sono più debiti bilaterali, ma vi sono più debiti/crediti fra un debitore e più creditori. Anche in questo caso, le risorse disponibili nel patrimonio del debitore non vanno distribuite paritariamente, ma vanno attribuite ai singoli creditori in ragione, ad esempio, della scadenza del debito[10].

Da queste prime e semplici riflessioni, sortisce già una prima, provvisoria, conclusione. Il principio della par condicio creditorum non è assoluto perché non va invocato quando il patrimonio del debitore è sufficiente a garantire il soddisfacimento di tutti i creditori.

Ciò significa che la par condicio è disciplina che si applica solo quando più creditori concorrono sul patrimonio del debitore e quel patrimonio non è capiente per garantire il soddisfacimento di tutti.

Di par condicio, allora, si deve discutere solo in presenza di un concorso; cioè il concorso di più creditori su un patrimonio insufficiente.

3. Par condicio e insufficienza patrimoniale. Il debitore “civile”

La postulazione espressa in chiusura del paragrafo precedente deve, ora, essere più compiutamente dettagliata.

Dobbiamo chiederci, infatti, se il concorso sussista già per effetto di un patrimonio insufficiente, ovvero se di concorso si possa parlare solo quando è avviato un procedimento, singolare o collettivo, di attuazione della garanzia patrimoniale. L’interrogativo è il seguente: nel caso in cui il debitore avverta che il suo patrimonio non è in grado di far fronte a tutti i debiti contratti, deve osservare il principio di parità di trattamento, compreso il principio che differenzia creditori chirografari e creditori privilegiati? E, in questo caso, deve pagare dapprima i creditori privilegiati perché sarebbero costoro a essere preferiti in caso di fallimento (o di esecuzione singolare), o deve pagare i creditori chirografari in quanto meno garantiti (vds. art. 1193 cc), facendo affidamento sul fatto che poi, a fallimento dichiarato, i creditori privilegiati saranno trattati meglio?

Abbiamo visto che, in una situazione di fisiologia dei rapporti, i debiti chirografari debbono essere saldati prima di quelli privilegiati (a parità di scadenza), in quanto meno garantiti. Ma nel caso di uno scenario di patologia, il criterio si deve invertire e i creditori privilegiati vanno soddisfatti per primi. Come è agevole notare, l’insufficienza patrimoniale, da sola, può generare condotte avverse rispetto a quelle legittimamente poste in essere immediatamente prima. Il debitore deve assumere una condotta prudente e già allineata a una possibile distribuzione coattiva delle risorse. Vanno soddisfatti i creditori privilegiati sino a quando c’è liquidità per soddisfarli tutti e per intero; poi vanno remunerati gli altri in misura proporzionale.

Se questa è la soluzione, dal punto di vista pratico potrà spesso porsi il tema che pertiene alla difficoltà di verificare, costantemente e in modo aggiornato, se vi sia questa sufficienza del patrimonio; poiché non è sicuro che questo sia un comportamento esigibile, si potrebbe ben dire che la parità di trattamento vada invocata soltanto in presenza non solo di un concorso fra creditori, ma di un concorso che abbia il crisma della giurisdizionalità.

Per sciogliere questo enigma, il codice civile non è più sufficiente perché detta una regola, quella della irrevocabilità del pagamento dei debiti scaduti (art. 2901 cc), che rileva solo quando il debitore non è assoggettabile alla liquidazione giudiziale (e altre procedure coattive imposte, come la liquidazione coatta amministrativa e l’amministrazione straordinaria).

Pertanto, poiché di fronte a un pagamento di un debito scaduto, il creditore rimasto insoddisfatto non ha strumenti di reazione nei confronti di chi si è avvantaggiato, quando il patrimonio del debitore non è in grado di generare risorse sufficienti dobbiamo concludere che, rispetto al debitore non assoggettabile alla liquidazione giudiziale, la sola insufficienza del patrimonio esclude l’applicazione della par condicio. Né la possibile concorsualizzazione dell’insolvenza del debitore civile può modificare l’assetto, dal momento che nella procedura di liquidazione del debitore sovraindebitato (art. 274 d.lgs n. 14/2019) non esistono azioni simili alle revocatorie concorsuali. Anzi, è proprio da tale disposizione, che evoca l’esercitabilità dell’azione revocatoria ordinaria da parte del liquidatore, che si desume l’impraticabilità delle azioni revocatorie concorsuali.

Tuttavia, prima di dare per acquisita questa postulazione, occorre rilevare che quella condotta inesigibile rispetto al debitore civile non vale per l’imprenditore minore che, pur non soggetto a liquidazione giudiziale, deve dotarsi di misure o strumenti (vds. artt. 3 CCII e art. 2086 cc) idonei a rilevare tempestivamente lo stato di crisi e deve adottare senza indugio le reazioni adeguate. In tale contesto, mutato il quadro di riferimento normativo, ben si può predicare che l’imprenditore (senza alcuna ulteriore frammentazione), fin dall’apparire di uno scenario di crisi, avendo il dovere di intercettarlo con anticipo[11], sarà tenuto a rispettare l’ordine di graduazione verticale, preferendo i creditori privilegiati a quelli chirografari senza più tener conto del criterio della scadenza.

4. Par condicio e insufficienza patrimoniale. Il debitore “commerciale”

Le nuove regole sopra precisate consentono agevolmente di superare le conclusioni cui si poteva giungere in precedenza, le quali, pur identiche negli effetti, muovevano da considerazioni munite di alcune asperità.

Infatti, occorreva confrontarsi con la norma-paradigma in tema di concorsualità, che è quella allocata nell’art. 166, comma 2, CCII, nella parte in cui si ammette che sono revocabili (anche) i pagamenti dei debiti scaduti, al contrario di quanto predica l’art. 2902 cc[12].

La volontà della legge di rendere instabili i pagamenti di debiti scaduti, pur nella cornice temporale di un semestre, induce a ritenere che il debitore che abbia consapevolezza dello stato di insolvenza in cui versa l’impresa deve assumere una condotta idonea a conservare la garanzia patrimoniale declinata, anche, come garanzia da conservare a protezione di tutti i creditori.

Questa postulazione, che di fatto coincide con quella ora predicabile, prima poteva essere revocata in dubbio ove si osservi che la revocabilità del pagamento del debito scaduto presuppone, anche, la consapevolezza nell’accipiens dello stato di decozione del debitore che esegue il pagamento[13].

Ora, però, il codice della crisi consente di reperire un ulteriore appiglio che giustifica l’enunciata affermazione. Infatti, all’art. 4 CCII, là dove vengono stabiliti i doveri delle parti, si precisa che, nelle situazioni di crisi, il comportamento deve essere improntato a correttezza e buona fede; all’evidenza, il precetto va applicato all’interno delle procedure di regolazione della crisi e nella fase delle trattative, ma ragionevolmente esprime un nuovo modo di approcciarsi alle crisi e, quindi, consente di affermare che ancor prima le condotte del debitore debbono proiettarsi sui possibili immanenti scenari di crisi e, pertanto, conformarsi (anticipatamente) alle condotte attese.

I pagamenti di debiti scaduti effettuati in un contesto di insolvenza sono inefficaci perché alterano il principio della parità di trattamento; il debitore-imprenditore non deve eseguirli automaticamente per il solo fatto che siano scaduti (e ciò, quindi, a prescindere dall’atteggiamento dell’accipiens) già prima, non appena avverte i segnali della crisi, perché a partire da quel momento la gestione dell’impresa deve essere funzionalizzata alla tutela dei creditori prima, dell’impresa e dei soci poi; questo non significa che la gestione debba essere (già) rigidamente conservativa, come imposto dall’art. 2486 cc, ma deve essere orientata alla tutela dei creditori. Tutto ciò vuol dire non ingessare l’impresa, ma proiettarla in uno scenario nel quale le ragioni dei creditori sono dominanti; in tale cornice sarà ben possibile effettuare dei pagamenti ad alcuni soltanto dei creditori, ma ciò potrà accadere al fine di implementare il valore dell’impresa. Infatti, anche se è vero che non esiste un’ipotesi di esenzione specifica, se si coniuga il miglior interesse dei creditori con l’esenzione di cui all’art. 166, comma 3, lett. a, CCII e con la valorizzazione delle esenzioni di cui alle lett. d ed e, deve ormai ritenersi immanente nel sistema che la tutela della par condicio è assicurata con la maggior protezione dei creditori.

Il fatto che la par condicio sia un presidio del concorso è ricavabile anche dalla disciplina penalistica e, segnatamente, dall’art. 322, comma 3 CCII, dove viene disegnata la fattispecie criminosa della cd. “bancarotta preferenziale”.

Sin qui si sono poste le basi per assumere che già l’insufficienza patrimoniale giustifica l’applicazione del principio della parità di trattamento – orientato ormai verso il miglior interesse dei creditori – perché una sua violazione è sanzionata dal sistema. In verità, occorre anche stabilire se la sanzione dell’inefficacia del pagamento sia, da sola, sufficiente a far predicare che il debitore, al cospetto dell’insolvenza, deve modificare il proprio comportamento rispetto ai creditori. Il dubbio è alimentato dal fatto che il pagamento eseguito in violazione del principio della par condicio non è mai nullo, anche se rappresentativo di una fattispecie delittuosa.

A questo approdo è giunta da poco la Corte di cassazione, escludendo che l’atto in frode ai creditori sia affetto da nullità[14], visto che la legge dipinge il caso come inefficacia. Le conclusioni assunte dalla Suprema corte appaiono, quanto meno, opinabili se la fattispecie può essere ascritta a quella criminosa di cui all’art. 322. Fatichiamo a comprendere come un atto che è costitutivo di un reato possa non essere considerato nullo. Non è, infatti, condivisibile postulare che non c’è nullità per gli atti in frode ai creditori; infatti, il pagamento di un debito nella cornice dell’insolvenza non è solo un pagamento in frode dei creditori (art. 166 CCII), ma è anche un atto in frode alla legge perché la legge eleva a precetto penalmente sanzionato quello del rispetto della par condicio.

Pur nella non condivisione dell’affermazione del giudice di legittimità e dando, quindi, per scontato che l’unica sanzione invocabile sia l’inefficacia, resta il fatto che il pagamento del debito scaduto altera la par condicio e viola una regola di doveroso comportamento.

Queste riflessioni conclusive sono, altresì, avvalorate da due norme prelevate dal cd. “diritto societario della crisi”. L’una è costituita dall’art. 2394 cc (ora riestesa alle srl con il nuovo art. 2476 cc), che espone gli organi sociali alla responsabilità per danni quando, in una situazione di crisi, non conservano il patrimonio[15]; l’altra è la stessa disposizione, ma in combinato disposto con l’art. 166 CCII, nella parte in cui si assume che gli organi sociali rispondano, anche e proprio, della lesione della par condicio quale violazione di una regola di condotta[16].

Se rimettiamo un poco in ordine tutti i tasselli del mosaico, la scena che osserviamo vede al centro un patrimonio insufficiente (ma non ancora dichiarato tale giudizialmente) e, attorno, le pretese dei creditori che debbono essere soddisfatte secondo un criterio di parità di trattamento.

5. Par condicio e concorso giudiziale

Nei paragrafi precedenti abbiamo visto che il debitore non deve rispettare la par condicio quando è in grado di soddisfare regolarmente le obbligazioni assunte; di poi abbiamo visto che, analogamente, non esiste un obbligo rispetto al debitore civile.

Al contrario, questo obbligo matura per il debitore/imprenditore assoggettabile alla liquidazione giudiziale o anche alla liquidazione da sovraindebitamento. Si tratta, ora, di fare il passo successivo e vedere cosa accade quando il concorso fra creditori si esprime all’interno di un procedimento espropriativo, singolare o collettivo che sia.

Quando crisi e insolvenza colpiscono un’impresa e, cioè, un soggetto giuridico ed economico che idealmente si colloca sul mercato e che, presuntivamente, intreccia una pluralità di relazioni commerciali, appare opportuno che all’incapacità del debitore di adempiere con ordinarietà alle proprie obbligazioni, l’ordinamento reagisca con un insieme di regole che, da una parte, siano dirette a perseguire il medesimo obiettivo delle procedure espropriative – cioè il soddisfacimento dei creditori –, ma che vadano anche oltre.

In primo luogo, queste regole debbono essere intese a disciplinare il fenomeno della patologia col potenziale coinvolgimento anche di coloro che non sono più creditori, ma che possono avere acquisito vantaggi asimmetrici rispetto ad altri e che si ritiene non debbano consolidarsi.

Questo fenomeno è notoriamente descritto come “concorso”[17]; il concorso dei più creditori sul medesimo patrimonio impegnato con la garanzia patrimoniale. Un concorso che si può realizzare anche nella procedura espropriativa – ne sono esplicazione sia l’istituto dell’intervento dei creditori (per vero declinato con limitazioni soggettive stringenti e assai opinabili, vds. art. 499 cpc), sia quello della successione di pignoramenti sugli stessi beni (vds., art. 493 cpc) –, ma con modalità statiche perché il patrimonio è solo quello che si seleziona al momento del pignoramento. È pur vero che questo patrimonio può comprendere anche beni che non appartengono al debitore (art. 2929-bis cc, art. 602 cpc), ma ciò deriva da una attività di tipo recuperatorio che il creditore promuove prima del concorso e non dopo che questo si è aperto.

Viceversa, dentro le procedure di crisi e di insolvenza, si assiste al fenomeno della concorsualità dinamica perché dopo che il patrimonio del debitore è acquisito, si possono sviluppare varie iniziative volte ad ampliarlo (come pure a restringere il passivo) e a coinvolgere un’ulteriore pluralità di soggetti, quali creditori già soddisfatti, così come parti in bonis di contratti pendenti al momento di apertura della procedura.

È difficile sostenere che la liquidazione giudiziale non sia un modello di esecuzione forzata[18]; anzi, se si vuole, è il modello per antonomasia dell’esecuzione forzata. Ciò nondimeno, possiamo anche precisare che la liquidazione giudiziale non si esaurisce nella funzione dell’espropriazione singolare perché nelle procedure di crisi e di insolvenza intercettiamo il valore dell’impresa come organizzazione[19]. L’espropriazione colpisce singoli beni, eventualmente una pluralità anche articolata di beni, ma pur sempre disaggregati.

Diversamente, quando la crisi e l’insolvenza riguardano un debitore che esercita una attività d’impresa, appare necessario valutare se l’impresa abbia, ancora, un valore residuo, ma tale da consentirne un’utile collocazione sul mercato, se sia possibile – in un periodo di transizione – recuperare economicità a quell’attività d’impresa, se la gestione unitaria del patrimonio sia più proficua di una gestione liquidatoria atomistica.

Pertanto, è l’essere impresa come soggetto operante su un mercato complesso che regge l’ideologia diffusa di disciplinarne i fenomeni patologici con un insieme di principi e di regole a essi dedicati.

Così, i valori fondanti una procedura di crisi e di insolvenza si ritrovano nella necessità di provvedere al miglior soddisfacimento dei creditori nel contesto dell’apertura di un concorso dinamico sul patrimonio del debitore che, a sua volta, sia gestito secondo canoni di organizzazione imprenditoriale funzionalizzata, quindi, al conseguimento del risultato di remunerare il credito[20].

Questa conclusione improntata alla prudenza non può essere, però, un punto di arrivo perché è poi utile spiegare quando ci si trova al cospetto di una procedura concorsuale.

Prima di svolgere questo passaggio, è importante precisare che il soddisfacimento dei creditori è, sì, una componente essenziale di una procedura di insolvenza, ma per scelte di politica economica può essere fortemente compressa quando l’ordinamento reputi prevalenti interessi diversi (da quelli dei creditori): uno fra tutti, l’interesse alla continuità dell’attività di impresa, a sua volta giustificato, ad esempio, dall’interesse al mantenimento dei livelli occupazionali[21]. Questa deviazione è enfatizzata nell’amministrazione straordinaria della grandi imprese, ma un fattore di contaminazione fra interesse dei creditori e interesse al mantenimento dei livelli occupazionali è ora penetrato nel sistema ordinario con l’art. 84 CCII, sia nella parte in cui la forza lavoro è fattore di selezione della proposta concordataria con piano di continuità, sia nella parte in cui la tutela dell’impresa è un valore-fine posposto a quello dei creditori, ma non per questo necessariamente subvalente[22].

Orbene, nel selezionare i fattori identificativi della ragione dell’esistenza di procedure di crisi e di insolvenza, al netto di altri istituti che pure vanno inclusi nel perimetro del diritto della crisi e dell’insolvenza, ci si avvede che, tutti, presuppongono la relazione patologica di un patrimonio rispetto a coloro che sul quel patrimonio vantino una pretesa.

La relazione patologica si forma quando si crea una crisi di cooperazione fra chi ha la disponibilità di un patrimonio e non fa fronte alle obbligazioni contratte, rispetto alle quali quel patrimonio funge da garanzia, e chi, invece, ha erogato credito nell’aspettativa di poter trovare soddisfazione proprio su quel patrimonio.

Non c’è crisi o insolvenza in assenza di una rottura dell’equilibrio fra creditore e debitore. Si può discutere quanto si vuole, come presto si vedrà, sulla funzionalizzazione delle procedure concorsuali, ma è la crisi del rapporto dialogico “creditore - debitore” a innescare il bisogno di affrontare un percorso di regolazione della crisi o dell’insolvenza.

Di crisi (e insolvenza) in senso tecnico si potrà discutere quando chi amministra l’impresa avverta che la situazione di difficoltà si potrà (forse) superare solo coinvolgendo i terzi. Con ciò, vogliamo riferirci a una nozione giuridica di crisi che si allontana un po’ da quella declinata nell’art. 2 CCII[23].

È ben probabile che la crisi del rapporto sia solo l’occasione e non la causa, ma tutti i protagonisti della scena dell’insolvenza vengono chiamati in causa dopo la rottura dell’equilibrio fra creditore e debitore.

E allora, se di una relazione di credito-debito non si può fare a meno (anche quando l’iniziativa sia affidata al pubblico ministero, ciò accade perché le relazioni commerciali non scorrono più sul binario della fisiologia), si percepisce che il diritto di cui ci occupiamo è diretto a disciplinare fenomeni che pertengono all’attuazione della garanzia patrimoniale.

Certo, il diritto della crisi e dell’insolvenza è cementato dall’idea che serva ad attuare la responsabilità patrimoniale, senza in esso esaurirsi.

Con diverse sfumature, gradatamente ascendenti, l’attuazione della responsabilità patrimoniale dovrà essere coniugata con altri valori – che, in talune situazioni, potrebbero finanche divenire dominanti –, ma la cornice costituzionale impedisce di negare che le procedure di crisi e di insolvenza non siano strumenti per consentire al creditore di ottenere tutto – e proprio tutto – ciò che un debitore inadempiente non ha voluto corrispondergli. È evidente che l’esito della procedura non potrà sempre essere pienamente, o anche solo parzialmente, satisfattivo per il creditore, perché ciò dipenderà in larga misura dalla capacità patrimoniale dell’obbligato; ma gli strumenti di cui il creditore è dotato altri non sono: può realizzare coattivamente la responsabilità patrimoniale facendo espropriare i beni del debitore che costituiscono la garanzia generica del suo credito o tramite l’esecuzione individuale o tramite l’esecuzione collettiva-concorsuale. La liquidazione giudiziale è il mezzo (coattivo) di attuazione della responsabilità patrimoniale. In sostanza, quando il debitore non adempie alle proprie obbligazioni e riveste la soggettività dell’imprenditore, all’esecuzione individuale si sostituisce un’esecuzione collettiva universale, molto più invasiva, che assolve alla funzione primaria di soddisfare le ragioni dei creditori. È innegabile che i passaggi fondamentali dell’esecuzione espropriativa si ripetano nell’esecuzione concorsuale; i tratti comuni sono rappresentati dal fatto che, in ambedue i casi, di fronte a un debitore che non adempie, l’ordinamento stabilisce l’intervento sostitutivo dell’autorità giudiziaria (e dei suoi ausiliari), intervento che si realizza con: 1) lo spossessamento (integrale o parziale, con vigilanza di organi designati dall’autorità giudiziaria); 2) la vendita dei beni; 3) la distribuzione delle risorse fra i creditori che hanno partecipato all’esecuzione.

Pertanto, neppure il più avanzato sostenitore della liquidazione giudiziale quale luogo di mera disciplina organizzativa della crisi d’impresa potrà negare che il fallimento è anche una procedura esecutiva perché: attua la responsabilità patrimoniale (art. 2740 cc) → in funzione della soddisfazione dei creditori, → contro la volontà del debitore, → privato del potere di disporre del suo patrimonio → e nel contesto di un processo che l’ordinamento statuale appresta allo scopo, con l’impiego di mezzi e strutture dell’apparato giurisdizionale. Con la differenza che tutto il patrimonio è coinvolto e che tutti i creditori ne sono partecipi, se lo vogliono.

La liquidazione giudiziale rappresenta il mezzo per realizzare contro la volontà del debitore la responsabilità patrimoniale (declamata nell’art. 2740 cc), da attuarsi secondo le regole della concorsualità invocabile le quante volte, sul medesimo patrimonio, concorrano almeno due pretese creditorie (art. 2741 cc).

6. Concorso e concorsualità nelle procedure

Di concorsualità si può discutere quando più creditori aspirano a soddisfarsi su un unico patrimonio; ciò spiega perché, in questa lata accezione, l’esecuzione individuale si possa orientare con le regole della concorsualità e, per converso, come l’esecuzione concorsuale possa essere al servizio di un solo creditore, nel qual caso si potrà parlare di concorsualità solo potenziale.

La disposizione che lega la responsabilità patrimoniale all’esecuzione è quella dell’art. 2910 cc, là dove si stabilisce che il creditore, per conseguire quanto gli è dovuto, può far espropriare i beni del debitore.

La lettura segnatamente processualistica del fallimento – e del fallimento come processo esecutivo – emergeva emblematicamente nell’art. 105 CCII (ora replicato negli artt. 214 e 216), là dove si dichiaravano applicabili le disposizioni del codice di procedura civile in tema di vendita forzata[24].

Molte cose sono però cambiate dal 1942 ad oggi, e la legge fallimentare – prima – e il codice della crisi – poi – non potevano non prenderne atto, dapprima attraverso una prudente e spesso saggia e illuminata lettura adeguatrice della giurisprudenza (costituzionale e ordinaria) e, di poi, mediante la riscrittura delle regole.

Tuttavia, sarebbe incoerente, per valorizzare il profilo regolativo della crisi, dimenticare alcune caratteristiche strutturali che ci portano, oggi come ieri, a riconoscere nella liquidazione giudiziale una procedura esecutiva. Una procedura esecutiva di tenore più efficace le quante volte tutti gli strumenti che ne derivano siano in concreto attivati.

La concentrazione esecutiva (quella che, spesso, viene definita in termini di universalità) è forse il valore più interessante. Parliamo di concentrazione per dire che: 1) il fallimento apre un’espropriazione generale sui beni del debitore assorbendo le iniziative dei singoli (art. 150 CCII)[25]; 2) gli effetti sostanziali del pignoramento si realizzano con la sentenza dichiarativa (e col vantaggio per il creditore di non doversi, per forza, munire di un titolo esecutivo), sì che un unico atto pone tutti i vincoli di indisponibilità; 3) il patrimonio aggredibile è potenzialmente più esteso di quello sottoponibile a esecuzione singolare per effetto dell’applicazione delle regole della concorsualità dinamica; 4) la concorsualità si estende ai rapporti giuridici, ai diritti, alle aspettative e cioè a tutte le posizioni giuridiche soggettive (attive e passive) riconducibili al debitore.

È sufficiente che questa concorsualità sia affermata come normalmente ricorrente, perché non è essenziale alla permanenza della procedura. Il creditore può volere l’applicazione delle regole concorsuali anche se sa bene di essere l’unico creditore rimasto e lo strumento della liquidazione giudiziale non può essergli negato[26].

7. Concorsualità e par condicio

Nei paragrafi che precedono, si è posto in evidenza che la radice della par condicio è il concorso, mentre sarebbe inesatto postulare che la par condicio sia la radice del concorso; le due espressioni sono spesso associate, ma non corrispondono al medesimo concetto.

Il principio della par condicio esprime il metodo con cui, nella concorsualità, si può attuare una regola di trattamento fra vari creditori concorrenti che ambiscono a godere della medesima garanzia patrimoniale; il criterio della parità di trattamento è alternativo al criterio della preferenza temporale, ma di per sé è un criterio, non il criterio per regolare i rapporti fra creditori[27]. La concorsualità è una logica implicazione del principio (allocato nella norma sovrastante dell’art. 2740 cc) dell’universalità della responsabilità patrimoniale.

Nelleprocedure liquidatorie, “pure” il principio della parità di trattamento, al netto delle cause di prelazione e, se si vuole, del dominio della prededuzione, è regola ancora attuale, pur se non più centrale, vista la coeva recessività delle azioni revocatorie concorsuali.

Nelle procedure concordate,ove pure si attuala responsabilità patrimoniale, l’inserimento nel sistema del nuovo fenomeno delle classi di creditori, quale strumento di flessibilità delle proposte di concordato, esalta le regole della negozialità al punto da divellere il principio della parità di trattamento, la quale, pur spesso praticata, non è più indispensabile. Non diversamente, la facoltà per il debitore di pagare soltanto alcuni dei creditori concorsuali (cfr. art. 100 CCII)[28] fa strame della parità di trattamento in nome (o, forse, nel miraggio) della continuità imprenditoriale.

Prima di valutare se e in quale misura si sia assistito, nel corso del tempo, alla effettiva recessività del principio di parità di trattamento, occorre fissare una anticipata conclusione: il concorso altro non è che un effetto naturale della pluralità – attuale o potenziale – dei creditori che aspirano a soddisfarsi sul medesimo patrimonio. Pertanto, la concorsualità è fenomeno endemico e non eludibile ogni volta che le risorse del debitore debbano essere distribuite secondo un preciso ordine di graduazione legale; al contrario, la par condicio ci può essere o non essere e, quando c’è, può risultare variamente modulabile.

A questa conclusione è lecito giungere una volta smarcato il quesito se, invece, la par condicio non sia espressione di un principio di diritto naturale, dotato di copertura costituzionale con l’art. 3 Cost. e, per l’effetto, non alterabile dal legislatore ordinario.

8. Par condicio e Costituzione

La par condicio creditorum sembra derivare dall’art. 2741 cc, là dove si stabilisce che i creditori hanno un eguale diritto sui beni del debitore, salve le cause di prelazione. Così intesa, la par condicio sarebbe una regola tendenziale, posto che l’esistenza di cause di prelazione la emargina. Da tempo si assume che questo principio sia ormai un miraggio per effetto del depotenziamento pubblicistico dell’istituto; infatti, se la par condicio creditorum era comunemente considerata trasversale a tutte le procedure concorsuali liquidatorie e anche ai concordati, oggi dobbiamo chiederci quante razioni di quel principio si ritrovino nei concordati, per i quali è ormai possibile la frantumazione delle posizioni giuridiche nei molti rivoli delle diverse posizioni economiche, attraverso l’istituto della classi. Né va trascurato che già nelle procedure liquidatorie il principio è da tempo recessivo, se non altro, per due fattori: il più antico è costituito da un aumento smodato delle cause di prelazione e della prededuzione; il più recente è rappresentato dal notevole ridimensionamento dell’azione revocatoria concorsuale.

Come anticipato, un ulteriore (e decisivo) colpo alla par condicio è stato assestato dal legislatore quando ha ritenuto di impiantare anche nel nostro ordinamento l’istituto delle classi dei creditori, prima nel concordato dell’amministrazione straordinaria, ora trapiantato nei concordati (giudiziale e preventivo).

La previsione della suddivisone dei creditori in classi e, cioè, la formazione di gruppi di creditori omogenei (al fine di distribuire le risorse in modo asimmetrico) sembra confliggere con l’art. 2741 cc, disposizione che affonda la sua legittimazione – per non trascurabili settori della letteratura – in un principio di parità di trattamento che trova un possibile ascendente normativo nella Carta costituzionale (e cioè nel principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost.) o, se si vuole, in un ancor più risalente principio di «diritto naturale»[29], talché tutto ciò che altera la par condicio potrebbe prestarsi a un sospetto di illegittimità costituzionale, ancorché gli artt. 85 e 240 CCII siano norme pari-ordinate[30].

In verità, da tempo il legislatore ha avviato un percorso di segregazione e compartimentazione del patrimonio responsabile (dai patrimoni separati del diritto societario ai vincoli impressi a tutela di solo alcuni creditori) e un parallelo percorso di funzionalizzazione di crediti e patrimoni in vista della regolazione della crisi.

In tale prospettiva, la concezione “naturalistica” della par condicio appare largamente superata dagli eventi. Anziché difenderla ad oltranza, appare decisamente più proficuo delimitarne l’esatto perimetro applicativo da una parte e, soprattutto, individuare un altro obiettivo parimenti meritevole che costituisca una riconoscibile “stella polare” per tutti i creditori.

9. Par condicio e selezione delle procedure concorsuali

Se si prendono a campione i soli articoli della parte generale del codice (da 1 a 11) si trova utilizzata, per ben quindici volte, l’espressione «regolazione della crisi e dell’insolvenza». La locuzione è nuova nel lessico normativo, ma è prelevata da un’espressione coniata in dottrina ormai diversi anni fa[31]. È una locuzione che nel codice risulta essere preceduta, quasi sempre, dal termine «procedura/e», sì che viene subito a galla il dubbio se debba intendersi sostitutiva di “procedura concorsuale”. La questione è di particolare delicatezza, visto che la legge adopera frequentemente (al plurale o al singolare) questa coppia di parole, la quale, come è ben noto, non è racchiusa in alcuna norma definitoria né in alcun catalogo, ciò che ha reso oltre modo difficoltoso il cammino dell’interprete[32].

Il codice della crisi è fonte di una addizione di criticità: da un lato, di “procedure concorsuali” si continua a parlare, sebbene in misura sporadica, nel codice, mentre moltissime sono le leggi, dei più svariati settori, in cui l’espressione compare e non è destinata a essere soppressa; dall’altro lato anche la locuzione “procedure di regolazione della crisi e dell’insolvenza”, ripetutamente invocata, è priva della cornice definitoria.

Convivono queste due espressioni e non si può fare a meno di pensare che il loro significato sia diverso e che i concetti giuridici ad esse correlati non coincidano affatto. Quando si discute di procedure concorsuali, si evoca la concorsualità che, a sua volta, reclama regole disciplinari specifiche; si ruota attorno alla questione, oggetto di un recente trittico di decisioni del Supremo collegio[33], se fra le procedure concorsuali vadano inclusi gli accordi di ristrutturazione dei debiti.

Ora, però, lo scenario si è complicato perché, oltre alle procedure concorsuali, di per sé non definite, si sommano le procedure di regolazione della crisi, parimenti non definite. Per provare a sciogliere il nodo interpretativo, è importante passare in rassegna, da cima a fondo, tutte e proprio tutte le disposizioni nelle quali appaiono le due locuzioni. Ad esempio, l’art. 6 CCII, che si occupa dei crediti prededucibili continua a utilizzare le parole «procedure concorsuali» (allineandosi all’art. 111 l.fall.), ciò che impone all’interprete di interrogarsi sulla spettanza della prededuzione nell’ambito degli accordi di ristrutturazione, al pari dell’interrogativo secondo il regime attuale.

Quando si trascorre a esaminare le disposizioni che contengono il riferimento alle «procedure di regolazione della crisi e dell’insolvenza», ci si avvede subito che, per il luogo in cui l’espressione è utilizzata, la stessa, di sicuro, abbraccia anche la liquidazione giudiziale. La lettura dell’art. 40 CCII, dedicato al procedimento unitario, fa svanire ogni dubbio al riguardo. Ecco, dunque, che la circostanza che una procedura sia imposta o chiesta dal debitore perde di totale rilievo; sono procedure di regolazione della crisi e dell’insolvenza tutte quelle cui si può accedere mediante la presentazione della domanda di cui all’art. 40: quindi, liquidazione giudiziale, concordato preventivo e accordi di ristrutturazione dei debiti.

Pertanto, sia le procedure concorsuali che quelle regolatorie della crisi e dell’insolvenza includono tanto le procedure coattive che quelle volontarie, con il risultato che il perimetro delle procedure concorsuali sarà, di nuovo e a dispetto di altre letture, affidato all’opera dell’interprete[34].

E l’interprete, al cospetto delle affermazioni contenute nelle recenti decisioni della Suprema corte[35], dovrà stare ben piantato con i piedi per terra e rammentare che un’idea di procedura di concorso non può allontanarsi dai seguenti paradigmi: 1)la necessità diun provvedimento giudiziale di apertura che preveda la nomina di un giudice delegato e di un organo (curatore o commissario) a cui sia rimessa la gestione della procedura o che ne vigili la conduzione; 2) l’universalità degli effetti che essa produce sul patrimonio del debitore (coinvolto per l’intero) e verso i creditori (tutti indistintamente); 3) l’apertura del concorso tra i creditori e il blocco del decorso degli interessi sui crediti chirografari; 4) il principio della par condicio creditorum o, più precisamente, l’applicazione di un criterio rigido di distribuzione verticale fra i creditori delle risorse che provengono dalla liquidazione del patrimonio del debitore. In particolare, se nella procedura manca un ordine di distribuzione, parlare di procedura di concorso è, quanto meno, velleitario e gli accordi di ristrutturazione dei debiti (artt. 57-61 CCII, collocati sotto il titolo «Sezione II - Strumenti negoziali stragiudiziali soggetti ad omologazione») non contengono, neppure nella rinnovata disciplina, alcuna regola di distribuzione delle risorse.

Non è revocabile in dubbio che la Suprema corte, come sta già accadendo, reiteri la propria lettura concorsualizzante[36] e, tuttavia, il nuovo codice della crisi non offre sicuri approdi e le intitolazioni delle sezioni in cui è suddivisa la legge lascia aperta la soluzione: diversamente da quello che taluno potrebbe definire un vuoto dialogo ideologico, le conseguenze pratiche sono rilevantissime, come si ricava dalla discussione sulla possibilità di applicare gli accordi di ristrutturazione alle imprese vigilate secondo il Tub[37].

10. Le differenti forme di tutela nel diritto sostanziale e nel diritto processuale

L’argomento della par condicio creditorum non è appannaggio di una sola disciplina giuridica. Non a caso, di tale argomento si sono occupate la letteratura civilistica, quella commercialistica e quella processualcivilistica[38].

Merita spiegare la ragione del perché ciò sia accaduto; la ragione, se si vuole, è di facile intuizione. La parità di trattamento pertiene sia al fenomeno della distribuzione delle risorse sia al fenomeno dell’accesso alla distribuzione delle risorse. E allora, forse, prima si dovrebbe indagare il fenomeno processuale, perché va risolto preliminarmente, e poi quello sostanziale, sennonché, quando si è soliti discutere di declino della par condicio, si concentra l’attenzione sulla recessività sostanziale: classi, revocatorie affievolite, proliferazione delle cause di prelazione, esplosione della prededuzione sono tutti fattori che impattano sulla distribuzione delle risorse.

Assai diverse debbono essere, invece, le riflessioni da svolgere quando si ha di mira il tema dell’accesso alla distribuzione delle risorse.

Al momento, in un periodo di limbo che trova la sua fonte nei processi riformatori domestici ed europei, si può notare che la par condicio in chiave processuale non si è (davvero) indebolita e che, anzi, si è cercato di proteggerla con varie modalità, talune anche “aggressive”.

In questa cornice, partiremo proprio dalla disamina dello stato dell’arte della par condicio nel processo.

10.1. La par condicio creditorum vista dal prisma del processo

Quando si attua la garanzia patrimoniale all’interno di un procedimento esecutivo (volontario o coattivo) occorre, prima di tutto, pensare a come si forma una massa attiva sulla quale poi i creditori potranno soddisfarsi.

Questa massa attiva si forma in virtù di un principio segregativo in forza del quale, una volta che è decollata un’iniziativa esecutiva, il patrimonio colpito non può essere distratto dall’assolvimento della garanzia patrimoniale, salvo che non vengano accertati diritti dei terzi sui beni[39].

Da questo punto di vista, possiamo allora osservare che, nei procedimenti concorsuali, la par condicio ha preso vigore perché sono stati marginalizzati i casi in cui qualcuno dei creditori può far da sé e sono state, invece, potenziate le circostanze che giustificano l’imposizione di un vincolo sui beni del debitore in tempi anticipati rispetto al passato.

Quanto al primo aspetto, va segnalato che nella liquidazione giudiziale non sono più previste esecuzioni speciali, lasciandosi soltanto agli istituti di credito che hanno erogato credito fondiario la possibilità di iniziare o proseguire un processo esecutivo individuale, visto che il legislatore delegato non ha attuato il criterio di legge delega orientato a far assorbire progressivamente nel tempo questi privilegi[40]. Tuttavia, come ha ben colto, e in più occasioni, la giurisprudenza, alla banca fondiaria viene riconosciuto, soltanto, il diritto di agire esecutivamente senza potersi sottrarre al concorso sostanziale[41]. In tal senso, qui, vi è effettivamente una breccia nella regola della par condicio processuale, ma poi la parità si ristabilisce rapidamente nel momento in cui la distribuzione delle risorse deve avvenire. La previsione dell’autonomia dell’esecuzione fondiaria rappresenta, sì, un granello di sabbia nell’ingranaggio paritario, ma guardando al passato la situazione non è certo peggiorata.

Un maggiore rispetto della parità di trattamento processuale si ritrova nella previsione (artt. 150 e 54 CCII) secondo la quale il divieto delle azioni esecutive si estende anche ai creditori prededucibili e, cioè, a quei creditori che sorgono solo col concorso e che non dovrebbero competere con i creditori anteriori[42]. Il loro diritto di antergazione viene, però, limitato alla posizione sostanziale di preferenza, mentre la tutela processuale non è più esaltata.

In passato si discuteva se il creditore prededucibile potesse aggredire il patrimonio del debitore insolvente in conflitto con il vincolo segregativo, ma l’attuale tessuto normativo esclude in radice quella possibilità.

Pertanto, anche da questo punto di vista, certo non si può parlare di regressione della parità di trattamento.

Vi sono, ancora, segnali di altro tipo che inducono a postulare che la tutela della par condicio non si sia affievolita in chiave processuale.

Gli artt. 150 e 54 CCII hanno infatti ampliato la platea dei soggetti che restano assoggettati al vincolo segregativo; infatti, in passato, il divieto riguardava le azioni esecutive e non anche quelle cautelari. È ben vero che, in via interpretativa, si tendeva a estendere il divieto anche alle iniziative cautelari[43], ma non si può che prendere atto che il legislatore ha ritenuto importante trasformare in diritto positivo ciò che prima era solo una interpretazione[44].

La protezione da aggressioni individuali è stata, poi, ulteriormente estesa per effetto della anticipazione del divieto di cui all’art. 54 CCII al momento della pubblicazione della domanda di concordato (pur se l’effetto è solo semi-automatico, dipendendo dalla richiesta del debitore e pur se la stabilità dell’effetto può venire meno per decisione del giudice)[45], talché i creditori si avvantaggiano della segregazione patrimoniale sin da un tempo che può essere lontano rispetto a quando il debitore scoprirà le sue carte da giocare sul tavolo della crisi.

In parte diversa mi pare sia la funzione del divieto di azioni esecutive e cautelari correlato al ricorso per omologazione di un accordo di ristrutturazione, o al ricorso per il pre-accordo di ristrutturazione. Se, infatti, possiamo condividere la tesi per la quale negli accordi di ristrutturazione il debitore può scegliere con chi trovare un’intesa senza doverli coinvolgere tutti e se rileviamo che a ogni creditore il debitore può proporre un soddisfacimento diverso[46], ecco allora che la funzione protettiva del divieto non è più quella di assicurare la par condicio, ma quella (1) di agevolare il debitore nelle trattative per giungere a un accordo (art. 54, CCII) e quella (2) di assicurare ai creditori aderenti il trattamento pattizio e ai creditori non aderenti il pagamento integrale, il che, al fondo, significa che il divieto mira a garantire un miglior soddisfacimento dei creditori[47].

In questo caso, assumere che gli accordi di ristrutturazione possano entrare nella nomenclatura delle procedure concorsuali è esercizio indifferente perché, anche accedendo a questa soluzione, deve escludersi un pari diritto dei creditori alla distribuzione delle risorse. Se mai, la questione si ripropone con riferimento agli accordi con efficacia estesa (art. 61 CCII), là dove si ripropone un embrione, ma solo per categoria, del principio di parità di trattamento[48].

L’esame delle disposizioni sopra enunciate consente, allora, di predicare che negli ultimi anni vi è stato un rafforzamento della par condicio che attiene alla segregazione del patrimonio del debitore[49].

11. La par condicio sostanziale nella legge del 1942 e la categoria dei privilegi

Vediamo, ora, quali erano i presidi a tutela della par condicio creditorum nell’impianto normativo espresso nel rd 16 marzo 1942, n. 267.

Nella legge fallimentare, testo originario, il tema della parità di trattamento fra i creditori era indirettamente incentrato sull’art. 111 l.fall., la norma che disciplina la distribuzione delle risorse acquisite dal patrimonio del debitore. Questa disposizione prevedeva (e ancora prevede, ma con importanti deviazioni) che le risorse da destinare ai creditori fossero da ripartire in modo degradante (e, dunque, non paritario) fra spese, debiti contratti per l’amministrazione della procedura (ed esercizio provvisorio), debiti prelatizi e debiti chirografari.

Pertanto, l’applicazione del principio della par condicio derivava dall’implicita importazione della regola di cui all’art. 2741 cc, con l’incursione della antergazione dei debiti afferenti, a vario titolo, alla procedura.

Parlare di par condicio significava, quindi, testare la normativa fallimentare con quella discendente dal codice civile e dalle leggi complementari. In quel periodo storico, però, la gran parte delle cause di prelazione, ipoteca, pegno e privilegio erano collocate proprio nel codice civile. Di poi, nel corso del tempo, abbiamo assistito a una continua, incessante e debordante proliferazione di nuove cause di prelazione: nuovi privilegi speciali e generali, mentre i diritti reali di garanzia non hanno subito scossoni per lungo tempo e, cioè, sino a quando non si è diffuso nella prassi il cd. “pegno irregolare”[50] e, più di recente, sino all’introduzione del cd. “pegno non possessorio”[51]. I privilegi che il legislatore ha voluto introdurre nel corso del tempo si sono sempre sovrapposti a quelli già vigenti, con il risultato di elidere progressivamente il comparto dei creditori chirografari.

Sappiamo che l’attribuzione a un diritto di credito del privilegio è il frutto di una scelta discrezionale del legislatore che, in ragione della qualità del credito, ritiene che quella posizione sia particolarmente meritevole e tale da giustificare il superamento della par condicio.

È sin troppo ovvio che il passare del tempo rende giustificabili nuovi privilegi ma, al contempo, dovrebbe anche renderne non più giustificabili altri. Ciò nondimeno, il legislatore si è sempre preoccupato di aggiungere e mai di togliere anche se, in via di fatto, più si collocano in grado preminente certi privilegi, più gli altri scivolano verso il basso e vengono marginalizzati. Poiché frequentemente i patrimoni dei debitori non sono sufficienti a soddisfare il “monte dei crediti privilegiati”, ecco che i creditori che detengono un privilegio, ma sono collocati in basso nella graduatoria, vengono spesso a posizionarsi in posizione più prossima a quella dei creditori chirografari.

Proprio la circostanza che l’attribuzione di un privilegio trovi la sua fonte nella discrezionalità del legislatore ha quasi sempre impedito un intervento correttivo del giudice delle leggi. Su questo terreno, la Corte costituzionale si è sempre espressa con grande prudenza.

Uno scenario così articolato e complesso è, finalmente, giunto all’attenzione del legislatore, che con la legge delega n. 155/2017 ha preso posizione, stabilendo di ridurre e rivedere i privilegi; sennonché, la materia è così complessa che il legislatore delegato ha preferito abdicare e, sul punto, la delega è ormai scaduta, sì che non v’è da attendersi a breve una potatura delle cause di prelazione. Da questo punto di vista, quindi, il rispetto della parità di trattamento sconterà ancora molti limiti.

12. Par condicio e azioni revocatorie

L’istituto concorsuale che emblematicamente esprime il principio della par condicio alligna nelle norme in tema di revocatoria fallimentare e, soprattutto, in quello che è ora l’art. 171 CCII.

Non vi era alcun dubbio, sin dagli albori della legge fallimentare, che l’azione revocatoria fosse uno strumento destinato ad ampliare la platea dei creditori sui quali il dissesto del comune debitore dovesse incidere.

Infatti, con l’azione revocatoria fallimentare non veniva solamente esteso il periodo sospetto rispetto a quello dell’azione revocatoria ordinaria, ma si voleva anche riportare il creditore soccombente nell’azione revocatoria nella identica posizione che avrebbe rivestito se l’atto pregiudizievole non fosse stato compiuto, così da generare una postuma par condicio anche a favore del creditore “revocato”; tutto ciò rappresentava un superamento del disposto dell’art. 2902 cc, che pospone nel processo esecutivo tale creditore rispetto a quello che agisce in revocatoria[52].

Ma che l’azione revocatoria fallimentare fosse divenuta, ancor di più, l’estremo baluardo del rispetto della par condicio, si deve a quella intuizione dottrinaria che estromise il fattore-danno dai presupposti per l’accoglimento dell’azione[53]. L’ingresso e poi la condivisione della teoria anti-indennitaria diedero fuoco alle polveri e, da quel momento in poi (ci posizioniamo all’inizio degli anni settanta), si assistette a una vera e propria esplosione delle azioni revocatorie fallimentari, che si rivelarono il polmone finanziario più consistente per le procedure fallimentari.

Tutto ruotava attorno all’idea che, nella revocatoria fallimentare, non assumesse rilievo decisivo la prova dell’esistenza di un pregiudizio al patrimonio del fallito, in quanto ciò che rilevava davvero era l’alterazione della parità di trattamento. Il danno era costituito, proprio, dalla violazione del principio civilistico della pari distribuzione delle risorse fra creditori.

Il fenomeno della revocatoria fallimentare si alimentò, poi, anche in virtù del concorrente fenomeno della successione di procedure concorsuali. A partire dalla crisi economica degli anni settanta, divenne sempre più diffuso un preciso schema: l’impresa in crisi provava a percorrere la via dell’amministrazione controllata; poi, al termine del periodo, verificato che la difficoltà temporanea era vera insolvenza, si virava verso il concordato preventivo e da qui, in non pochi casi, si tracimava nel fallimento. Tutto ciò è passato alla storia del diritto fallimentare come “teoria della consecuzione”, sì che gli effetti dell’ultima procedura (il fallimento) venivano fatti decorrere a far data dalla prima (l’amministrazione controllata). Il risultato che ne sortiva era devastante perché il periodo sospetto copriva il biennio anteriore alla prima procedura, e quindi potevano essere oggetto di azione revocatoria fallimentare atti compiuti anche una decina d’anni prima del fallimento, cumulando il periodo sospetto al termine quinquennale di prescrizione dell’azione.

Non a caso, l’attuale art. 170 CCII, per impedire questo effetto, stabilisce in cinque anni dal compimento dell’atto il limite ultimo per l’esercizio dell’azione.

La degenerazione dell’azione revocatoria indotta dalla teoria della consecuzione si cumulò con il ripudio dell’azione da parte degli istituti di credito nei cui confronti veniva promossa la gran parte di tali azioni.

Per circa un decennio, fra il 1995 e il 2005, non v’era convegno nel quale non si parlasse delle azioni revocatorie sulle rimesse bancarie; numerosissime erano le sentenze che si occupavano di tale questione e, ovviamente, molteplici erano le voci di dissenso e le richieste di cambiamento della legge[54].

Dopo una serie di sfiancanti tentativi e dopo la creazione di molteplici esenzioni correlate a particolari rapporti creditori (si pensi alle esenzioni per le operazioni di cartolarizzazione, a quelle per la cessione dei crediti d’impresa, a quelle per le garanzie finanziarie, a quelle a favore di erario ed enti previdenziali[55]), il dl n. 35/2005 riscrive la storia del diritto fallimentare con pochi, ma decisivi ritocchi. La nuova strutturazione dell’art. 67 l.fall. si fondava sul dimezzamento del periodo sospetto e, soprattutto, sull’inserimento di un novello terzo comma, che contiene una variegata serie di esenzioni[56], fra le quali, ovviamente, quella riferita alle operazioni bancarie.

Il diritto fallimentare cambia radicalmente in quella occasione, posto che le ulteriori, ritmiche, riforme non sono più intervenute – se non in misura davvero marginale – sulla struttura, sulla natura e sulla funzione dell’azione revocatoria fallimentare.

Si è parlato di depotenziamento dell’azione revocatoria[57] o persino di smantellamento, ma ciò che è sicuro – perché i dati statistici lo confermano – è il fatto che l’azione non è più al centro del sistema del concorso, non è più il paradigma della “concorsualità sistematizzata”. È ben vero che la legge non l’ha formalmente soppressa, ma l’esperienza ci dice che le azioni che vengono intraprese rappresentano quantitativamente una ridottissima percentuale rispetto al passato.

Accade, così, che le aspettative dei creditori di fare affidamento anche su risorse che affluiscano da coloro che si sono avvantaggiati si siano ampiamente prosciugate. Ne consegue che i creditori più forti, e cioè capaci di farsi pagare, scontano solo un minimo rischio revocatorio; il presidio della par condicio è, piuttosto, assegnato alla tutela penale, sotto il vessillo della bancarotta preferenziale. Vi sono molti comportamenti che i creditori decidono di non assumere al fine di non imbattersi nel rischio dell’imputazione penale per concorso in bancarotta. Tutto ciò ha provocato un disallineamento non facile da far comprendere perché vi sono condotte sicuramente lesive della par condicio, ma poste al riparo del tempo trascorso, che tuttavia restano parallelamente illecite perché in conflitto con la norma penale.

Poi, in concreto, il rischio dell’incriminazione pervade, soprattutto, quelle situazioni nelle quali le operazioni da compiere hanno un impatto economico più rilevante. Per le operazioni minori, il timore della revocatoria è quasi disinnescato.

Il codice della crisi lascia intatto il perimetro applicativo delle azioni revocatorie senza tener in debito conto le riforme sulle cd. “procedure preventive di allerta e composizione assistita della crisi”; l’unica concessione è affidata al contenuto ampliamento del periodo sospetto, che non decorre più dall’apertura del concorso, ma dal formale deposito della domanda dalla quale è germinata la sentenza che apre la liquidazione giudiziale. Di fatto si è, così, neutralizzato il tempo del procedimento istruttorio nel quale è contenuta la domanda di apertura della liquidazione giudiziale (cfr. artt. 163 ss. CCII).

L’indifferenza verso le azioni revocatorie concorsuali deriva, forse, dall’assenza di volontà di effettuare una decisa scelta di campo fra tutela del credito e tutela della continuità d’impresa. È, infatti, noto quanto si discuta se sia preferibile istituire attorno all’impresa il “cordone sanitario” indotto dal rischio revocatorio, con l’effetto di spingere l’acceleratore della crisi verso l’insolvenza[58], oppure se sia più utile attenuare quel rischio, lasciare che gli operatori continuino a dialogare con l’impresa in crisi, affrontare un percorso di regolazione della crisi e salvare il valore residuo dell’impresa[59].

L’opzione fra due soluzioni così radicalmente diverse non può essere una soluzione di compromesso. In verità, una risposta non può che essere modulare, perché dipenderà dalla tipologia del creditore che agisce per il recupero del credito, dal posizionamento dell’impresa sul mercato – e qui sarà decisiva la capacità del mercato di assorbire il valore dell’impresa.

Le dispute ideologiche sono stimolanti, ma poi sono la vita dell’impresa e la vita dei suoi creditori a costituire il valore cui deve tendere la legge.

Il tessuto normativo attuale è ambiguo. Da un lato, riscontriamo la debolezza del sistema revocatorio e, quindi, potremmo essere indotti a pensare che la legge preferisce il valore della continuità dell’impresa; la previsione di un favor per il concordato in continuità e, addirittura, la netta preferenza della continuità nelle procedure di amministrazione straordinaria[60] sembrerebbero dirci che si è intrapresa la strada del valore del risanamento. Ma poi, se leggiamo le regole del concordato, immediatamente cogliamo che il favor verso la continuità è (ancora) solo un mezzo per assicurare ai creditori il loro miglior soddisfacimento, nonostante le recenti contaminazioni con l’amministrazione straordinaria.

Tanto nella attualità, quanto nelle proiezioni del codice della crisi cogliamo, dunque, profili di ambiguità sistemica, in quanto non c’è piena condivisione sulle finalità degli strumenti di regolazione di crisi e insolvenza.

Il problema non è tanto l’alternativa “conservazione vs. liquidazione”, quanto verificare dove si posiziona il valore. È patrimonio condiviso la circostanza che, se la conservazione dell’impresa genera un valore che si risolve in un migliore soddisfacimento dei creditori, la conservazione dell’attività sarà la scelta da fare[61].

Quando, invece, la conservazione dell’impresa non genera valore (o un valore sufficiente) per remunerare i creditori anteriori, ma consente pur sempre il superamento della crisi, ci troviamo di fronte a un conflitto perché dobbiamo stabilire se abbandonare i vecchi creditori al loro destino (quello del mancato soddisfacimento) sia premiante per favorire il mercato, o se, invece, il mancato soddisfacimento si risolva, sempre, in una distruzione di valore – quello di chi ha concesso il credito. In questo caso, l’alternativa non si gioca più a livello del caso specifico, ma coinvolge l’economia del Paese e impone una scelta di politica economica; dobbiamo chiederci se la prosecuzione dell’impresa, pur non offrendo ai creditori quanto loro spetta, generi dei vantaggi compensativi per il sistema tali da ricadere anche proprio su quel singolo creditore danneggiato.

Se il vantaggio compensativo è in grado di espandersi anche rispetto a quei creditori, ben si potrebbe predicare che il valore della continuità deve prevalere; altrimenti, non vi sono altre ragioni (ad esempio, il solo mantenimento dei livelli occupazionali) per non preferire la soluzione che assicuri ai creditori il loro migliore soddisfacimento.  

La prima conclusione che possiamo trarre è nel senso che una modificazione della par condicio si è consumata e che questa modificazione ne ha comportato un serio affievolimento.

13. Par condicio e prededuzione

Il codice civile conosce i crediti privilegiati e quelli chirografari; poi ha imparato a conoscere i crediti postergati (artt. 2467 e 2497-quinquies cc). Tutt’ora, nel codice civile, non troviamo regolata la categoria dei crediti prededucibili.

Quest’ultima categoria è, invece, dirompente nel concorso fallimentare e, più in generale, nelle procedure regolative della crisi e persino nelle procedure esecutive singolari (vds., art. 6, comma 2, CCII).

La fonte normativa era, sin dalla legge del 1942, l’ancora attuale – eppure manipolato – art. 221 CCII. In esso si stabilisce, infatti, che le risorse debbono essere distribuite in modo degradante, principiando proprio dai crediti prededucibili.

Un tempo, tale categoria era ben delimitata perché comprendeva (1) le spese della procedura, (2) i debiti contratti durante la procedura e (3) i debiti contratti nell’esercizio provvisorio[62]. Sennonché, i crediti prededucibili sono esplosi con il fenomeno della consecuzione fra procedure perché i crediti sorti nell’amministrazione controllata, oltre a essere prededucibili all’interno di quella procedura, si trascinavano nel fallimento[63]; per lungo tempo, un argine era frapposto dal concordato preventivo sul presupposto della natura strettamente liquidatoria di quella procedura, ma l’argine venne divelto da alcune pronunce a metà degli anni novanta. Con esse, si ammise che il concordato preventivo poteva (anche) avere una funzione conservativa dell’attività[64]; di certo, l’attuale conformazione dell’assetto del concordato e alcune specifiche disposizioni (vds., artt. 6 e 46, CCII) consentono di concludere che nel concordato vi è ampio spazio per la prededuzione.

In parallelo, l’esplosione della prededuzione si è riscontrata nell’amministrazione straordinaria, là dove la continuità dell’impresa è assunta come valore-fine della procedura.

Tutti questi indici dimostravano come, nella distribuzione delle risorse, una fetta sempre più consistente fosse riservata a creditori non concorsuali; peraltro, non ci si è arrestati a questo punto perché – come è ben noto – la prededuzione ha avuto un vero e proprio sussulto con la riformulazione dell’art. 111 l.fall. In tale disposizione, i crediti prededucibili sono anche quelli sorti in funzione o in occasione di una procedura concorsuale[65].

Le cose sono cambiate con il codice della crisi, il quale, in contrapposizione con gli approdi interpretativi cui era giunto il giudice di legittimità, riscrive la prededuzione sopprimendo i criteri identificativi della occasionalità e della funzionalità e, in ossequio ai principi del delegante, rimodula la prededuzione allo scopo di contenerla.

Alcuni crediti ormai qualificati prededucibili[66] vengono confermati nel rango, ma ridotti percentualmente (solo il 75 per cento dei crediti professionali resiste alla prededuzione, con il residuo 25 per cento riqualificato come credito privilegiato) nell’impatto rispetto ai creditori anteriori.

Vengono rivalutati i profili che in passato caratterizzavano la prededucibilità, e cioè l’essersi il credito formato sotto il controllo di un giudice (cioè all’interno di una procedura), e vengono emarginati i casi di valorizzazione dei crediti anteriori al concorso, benché funzionali.

Senza addentrarci nel dettaglio dei crismi della prededuzione (art. 6 CCII), ben si può concludere che una restrizione delle prededuzioni ri-espande la tutela dei crediti anteriori e, di fatto, si risolve in una ripresa della par condicio. La compressione della prededuzione avrebbe dovuto costituire un plesso delle varie fonti di economicità delle procedure, ma alla fine la riduzione dei costi si è risolta solo nel paradigma della falcidia della prededuzione.

È, allora, abbastanza evidente che il legislatore abbia preferito imboccare la strada ideologica dell’equazione prededuzione=costo, così espungendo la prededuzione dalla categoria dei valori della ristrutturazione. Se le nuove obbligazioni generano debiti, ma anche un vantaggio per l’impresa e, di riflesso, per i creditori, la prededuzione non andrebbe mortificata.

Il sospetto verso la prededuzione muove anche dalla stessa incapacità del legislatore di riordinare la magmatica normazione sui privilegi e, forse, anche dal retaggio dell’idea che la prededuzione debba essere incasellata in disposizioni precise, sulla scorta del parallelo principio della tassatività delle cause di prelazione[67].

Se è ben vero che la prededuzione nasce come strumento di tutela di crediti che si formano nel corso di una procedura espropriativa[68] e sembra attenere al processo[69], ormai da tempo la prededuzione può essere accostata alla causa di prelazione.

La tassonomia delle cause di prelazione include una specificazione riferita alla materia dei privilegi in senso stretto: i privilegi (speciali e generali, mobiliari e immobiliari) sono una qualità del credito frutto di una valutazione generale e astratta svolta dal legislatore sulla particolare meritevolezza del credito, nel senso che si reputa che certe ragioni di credito debbano essere tutelate più di altre e ciò avviene ponendole all’apice della graduazione dei crediti.

Ora che il diritto positivo ci consegna una nozione di prededuzione, è opportuno operare una distinzione: vi sono crediti prededucibili che restano ancorati alla lettura tradizionale, e cioè quella di crediti strettamente inerenti a una procedura esecutiva (si pensi alle spese relative al funzionamento della liquidazione giudiziale, come le spese per la redazione dell’inventario, sol per svolgere l’esempio più semplice); ma, accanto a questi crediti, ve ne sono altri che non ineriscono direttamente al funzionamento della procedura, bensì alla funzionalizzazione della procedura al soddisfacimento dei creditori[70]. In questa prospettiva, sono prededucibili tutti quei crediti che sorgono per assicurare la continuità dell’attività d’impresa (e ciò sul presupposto, in verità assunto ma indimostrato, per quanto sopra esposto, dell’utilità della prosecuzione), nonché tutti quelli che consentono di conservare i valori attivi, e ancora tutti quelli che maturano durante la procedura e che, tuttavia, non possono essere reputati come strettamente connessi al funzionamento della stessa. Questi crediti sorgono direttamente nei confronti dell’impresa e nulla hanno a che vedere col procedimento di attuazione della garanzia patrimoniale.

Orbene, con riferimento ai crediti relativi alla gestione dell’attività nonché a quelli che ineriscono alla conservazione del valore, la prededuzione sembra decisamente accostarsi al privilegio. Se il privilegio è generato dalla causa del credito riferita alla natura del rapporto (art. 2745 cc)[71], la prededuzione è generata dalla causa del credito riferita alla funzione del rapporto. La distanza fra i privilegi e questi casi di prededuzione si è considerevolmente assottigliata e potremmo, a buon titolo, parlare di un “superprivilegio”[72] che si può esercitare sull’intero patrimonio del debitore, ma con esclusione (art. 222 CCII) dei beni gravati da pegno e ipoteca, cioè in base alla disposizione che regola il concorso fra crediti in prededuzione e garanzie reali[73]; un argomento ulteriore è costituito dalla graduazione fra crediti prededucibili, posto che, nel caso di incapienza del patrimonio, tali crediti vanno soddisfatti in ragione delle eventuali prelazioni che li assistano[74].

Pertanto, con specifico riferimento alla formazione di crediti verso l’impresa, e non verso la procedura, come si era abituati a pensare, il valore della prededuzione è largamente assimilabile a quello di un privilegio – generale, mobiliare e immobiliare – del più alto grado.

L’antergazione nel processo (ma per motivi anche non processuali) di un credito rispetto a un altro deve dipendere, sempre, da un giudizio di valore e di meritevolezza del credito, perché se è vero che le prededuzioni non equivalgono in tutto a dei privilegi, è altrettanto vero che va rispettato un criterio di razionalità, unica guida per giustificare le differenze (art. 3 Cost.). Questa meritevolezza andrebbe riconosciuta quando l’assunzione del debito crea valore; in tal senso, il concetto di funzionalità di cui all’art. 111 l.fall. è stato almeno in parte superato dall’art. 6 CCII, là dove si è previsto che taluni crediti anteriori possano assumere il rango di crediti prededucibili non già per la loro (sola) funzionalità, ma anche per la loro (concreta) utilità, visto che l’antergazione è condizionata dall’omologazione degli accordi di ristrutturazione o dalla ammissione al concordato preventivo.

Questa ponderazione di valore si potrebbe risolvere, quindi, con una riduzione dei creditori prededucibili, con il risultato di re-ampliare la par condicio.

È un risultato che, in astratto, ben può apparire coerente con l’intenzione di recuperare risorse a favore dei creditori anteriori, ma al contempo potrebbe rivelarsi distonico con l’obiettivo di una uscita dell’impresa dalla crisi.

Adottare un criterio di valutazione ex post, insito nell’introduzione del requisito dell’utilità[75], rende instabile la tutela del credito poiché il creditore, nel momento in cui esegue la prestazione, è ignaro della sorte della procedura – sorte spesso governata da fattori esogeni e non controllabili. Sulla stessa lunghezza d’onda si muovono gli artt. 99 e 101 CCII, dedicati ai finanziamenti erogati per la ristrutturazione: in tali disposizioni, infatti, nonostante (e a valle del) l’autorizzazione del tribunale, il rango prededucibile del credito da finanziamento può recedere in caso di frode del debitore e di consapevolezza della frode da parte del creditore. Poiché, peraltro, la nozione di frode include una fattispecie nella quale la prededuzione decade anche in presenza di omessa rappresentazione di informazioni rilevanti, ecco che il rischio della perdita della prededuzione non può essere consegnato alla pura patologia.

In questa cornice, qualche rischio di minor appeal del codice della crisi non può essere sottovalutato.

14. Par condicio e segregazioni patrimoniali

Quando si pensa alla par condicio e alla sua declinazione topografica (art. 2741 cc), viene subito alla mente il principio della superiore garanzia patrimoniale (art. 2740 cc). La legge vuole che la garanzia patrimoniale si formi sull’intero patrimonio del debitore, compresi i beni che sopraggiungono. Ebbene, al cospetto di questa disposizione è in corso da tempo un processo di compartimentazione del patrimonio del debitore attraverso le forme, sempre più late, di segregazione patrimoniale. Quanto più si ammette che il patrimonio di un soggetto sia suddiviso in tanti compartimenti stagni, tanto più il principio della par condicio recede, perché ogni creditore viene indirizzato verso un solo segmento del patrimonio astrattamente aggredibile.

La segregazione patrimoniale non nasce nel mondo delle obbligazioni commerciali, ma in quello delle obbligazioni civilistiche. Possiamo pensare al diritto delle successioni e all’accettazione con beneficio di inventario, strumento volto, proprio, a segmentare il patrimonio responsabile. Oppure possiamo richiamarci al diritto della famiglia e al fondo patrimoniale, o ancora ai patrimoni destinati a proteggere interessi meritevoli di tutela (art. 2645-ter cc).

Sono, questi, soltanto alcuni degli esempi che ci restituisce il diritto civile; ma oltre al diritto positivo, non si può non evocare tutta la storia della penetrazione nel nostro ordinamento dell’istituto del trust[76]. Una prima ipotesi di segregazione patrimoniale nel diritto dell’impresa si ritrova nella ormai lontana previsione della costituzione di società di capitali con socio unico. Il patrimonio del socio viene conferito in una società unipersonale, ed ecco che le obbligazioni contratte dalla società non interferiscono con quelle contratte dal socio[77].

La segregazione patrimoniale è stata anche prevista nel comparto delle società fiduciarie e ciò in funzione di separare i beni sociali dai diritti dei fiducianti.

Nel mondo del diritto delle società, la riforma del 2003 ha generato i patrimoni destinati a uno specifico affare[78].

Il principio della universalità della responsabilità patrimoniale si è, nel corso del tempo, grandemente affievolito ed è stato sostituito da altri valori, nel senso che si è ritenuto meritevole di tutela proteggere specifici interessi (i soggetti deboli, i fiducianti, gli investitori, etc.). Con il degrado di tale principio, per l’effetto scema anche la par condicio, in quanto i creditori dei patrimoni segmentati finiscono per godere di una tutela più intensa perché non concorrono con i creditori del patrimonio “generale”.

Il codice della crisi non introduce nuove forme di segregazione patrimoniale e, al contrario, con riferimento alle società di capitali sembra favorire aggregazioni patrimoniali, ammettendo – se non proprio incentivando – le operazioni straordinarie sul capitale e, soprattutto, introducendo una disciplina della crisi e dell’insolvenza di gruppo, là dove ammette (sebbene con grande cautela) un travaso di risorse da società a società, purché si tenga conto dei “vantaggi compensativi” e ferma restando l’assenza della cd. “substantive consolidation[79].

Le segregazioni patrimoniali hanno parcellizzato la tutela del credito; le nuove disposizioni del codice della crisi andranno ponderate con cautela prima di poter assumere che vi sia stata una inversione di rotta per imboccare una nuova aggregazione di impronta più marcatamente sostanzialistica. Qualche avvisaglia che il codice della crisi voglia giustapporre regole speciali al diritto delle società è fenomeno che si coglie nell’attribuzione al curatore di poteri sulla conformazione della struttura finanziaria della società insolvente e sulla stessa organizzazione (art. 264 CCII), proprio per assecondare una visione che badi, più di tutto, al risultato anche al costo di calpestare più di qualche regola antica[80].

15. Par condicio e classi

Un classico profilo d’indagine che si interfaccia con il tema della par condicio è quello delle classi dei creditori.

Del fenomeno delle classi dei creditori si è avuto modo di dibattere ampiamente a partire dal 2003, quando venne rimodulata l’amministrazione straordinaria.

Il codice della crisi conferma che i creditori possono essere suddivisi in classi (nei concordati, ma con dubbia esclusione del concordato minore) o in categorie (negli accordi di ristrutturazione a efficacia estesa) e, anzi, alza l’asticella perché in conformità a un principio di legge delega enuclea quattro ipotesi nelle quali, nel concordato preventivo, la formazione delle classi è obbligatoria.

Che la frammentazione dei creditori in classi sia fattore di frattura della par condicio è intuitivo perché le risorse che provengono da un (unico) patrimonio responsabile vengono distribuite secondo criteri asimmetrici, criteri che ora trovano una regola caratterizzante nell’art. 85 CCII, a mente della quale il debitore può formare più classi fra creditori, ma deve farlo in presenza di particolari situazioni: a) per i creditori titolari di crediti previdenziali o fiscali dei quali non sia previsto l’integrale pagamento; b) per i creditori titolari di garanzie prestate da terzi; c) per i creditori che vengono soddisfatti anche in parte con utilità diverse dal denaro; d) per i creditori proponenti il concordato e per le parti a essi correlate.

Tale disposizione trova la sua fonte nell’art. 6 l. n. 155/2017, in base al quale si invitava il legislatore delegato a «[d)] individuare i casi in cui la suddivisione dei creditori in classi, secondo posizione giuridica e interessi economici omogenei, è obbligatoria, prevedendo, in ogni caso, che tale obbligo sussiste in presenza di creditori assistiti da garanzie esterne».

Il legislatore delegato ha esercitato la delega e ha stabilito i casi in cui la formazione delle classi è vincolata. È ben noto quanto sia stato dibattuto nei primi anni successivi al 2006 il tema della possibile obbligatorietà delle classi in presenza di posizioni disomogenee. La giurisprudenza[81] si è pronunciata per la necessaria facoltatività, confortata da ampia dottrina[82], anche se in letteratura[83] e fra taluni giudici di merito[84] era stata condivisa l’opposta soluzione.

Una opposta soluzione che il legislatore oggi positivizza e che, però, pone da subito un primo interrogativo, vale a dire se in presenza di situazioni non omogenee sia ora sicuro che la formazione della classe non sia obbligatoria in quanto è la legge che ne ha stabilito il rigido palinsesto; detto in altro modo, il dubbio è relativo alla tassatività delle fattispecie di cui all’art. 85 CCII. Il tono perentorio con cui è declinato l’art. 85 sembra lasciar intendere che solo in questi casi il debitore sia costretto a formare le classi, il che potrebbe ben presto indurre taluno – in presenza di situazioni simili, ma non incluse nella norma – a sollevare un incidente di costituzionalità. È ben vero che, se la regola generale è la libertà di formare le classi, la norma che pone un vincolo può essere intesa come regola eccezionale e, dunque, non suscettibile di interpretazione analogica. In tale cornice, la soluzione da prospettare appare densa di criticità: da un lato, la tassatività delle ipotesi di classi obbligatorie offrirebbe certezza[85], ma al contempo potrebbe rivelarsi irrazionale. Nonostante la formulazione perentoria, sembra allora preferibile una lettura più elastica, che veda nell’art. 85 un elenco di casi esemplificativi, ma non tassativi. Ciò si traduce nel fatto che il tribunale, al cospetto di situazioni disomogenee fra creditori, possa sindacare la mancata formazione delle classi[86].

La previsione delle classi testimonia, sì, la recessività della par condicio (che, si è visto, per altri versanti viene parzialmente recuperata), ma soprattutto è l’occasione per dimostrare che il valore della parità di trattamento, pur non sconfessato, è scavalcato da un valore nuovo, diffusamente richiamato nel codice della crisi e rappresentato dal fine principe di assicurare il miglior soddisfacimento dei creditori; obiettivo cui tendono le regole stabilite negli artt. 87, 94, 99, 100, 123, 274, 284, 285, 287, regole che, si badi, non sono più confinate nelle procedure concordate, ma si affacciano anche nella liquidazione giudiziale.

In un certo qual modo, l’ordinamento vira verso un approdo giuscommercialistico più che civilistico, ponendo in apice il valore dell’impresa e dello jus mercatorum. Il principio di parità di trattamento viene marginalizzato, pur se, come detto, non destituito, per essere affiancato e per certi versi sostituito dal principio in forza del quale può essere tollerabile trattare meglio di altri alcuni creditori, ma al fine che tutti siano, comunque, trattati meglio che in altri scenari.

16. Par condicio e continuità dell’impresa

L’accentuata recessività del principio di par condicio e un approccio al fenomeno delle crisi che muova da una rinnovata attenzione verso l’impresa e che vada, dunque, alla ricerca di nuovi valori è tema che si innesta nel rapporto dialogico “liquidazione vs. conservazione”. Tale rapporto trova il suo campo di elezione nella specialità dell’amministrazione straordinaria, talché il quesito che attiene alla giustificazione di una procedura destinata all’impresa di grandi dimensioni si intreccia, indissolubilmente, con quello inerente alla necessità che vi siano procedure nelle quali la tutela del credito sia ampiamente recessiva rispetto al valore della tutela della continuità dell’attività d’impresa.

Come tutte le attività, è fisiologico che anche l’impresa sia destinata a incrociare una fase di crisi, qui intesa come alterazione dei fattori di equilibrio dell’intrapresa commerciale. Quando l’impresa, anziché produrre valore, distrugge ricchezza, il sistema economico nel suo complesso deve reagire, unitamente a quelle che possono essere le reazioni dell’imprenditore. Ma queste reazioni debbono essere razionali e la razionalità impone coerenza.

A sua volta, la coerenza vuole che si valuti preventivamente quale direzione vada presa quando si manifesta una crisi e, al fondo, si resta ancorati al dilemma se dover privilegiare l’interesse dei creditori o del mercato. Certo, si potrebbe predicare che vanno equamente tutelati ambedue i valori, ma il rischio di compromessi indigesti, che si riflettono sull’applicazione pratica, induce a preferire una scelta di campo.

È sin troppo noto che, nelle procedure di crisi e insolvenza devolute al controllo del giudice ordinario, il prisma di riferimento è la tutela del diritto di credito; ma, per converso, nell’amministrazione straordinaria, la tutela del credito evapora e la conservazione dell’impresa per il suo risanamento diviene il valore dominante.

Come nel fallimento e nei concordati si persegue l’obiettivo di massimizzare il risultato dei creditori, se del caso tramite una prosecuzione dell’attività quando questa genera valore, e un valore che prevale sulla liquidazione, nell’amministrazione straordinaria si punta tutto sulla prosecuzione dell’attività, se del caso guardando anche all’interesse dei creditori.

Nel fallimento e nel concordato, la continuità è un “valore-mezzo” per tutelare i creditori. Nell’amministrazione straordinaria, la continuità è un “valore-fine”, anche quando si esauriscono le risorse per i creditori. I creditori, poi, possono fra loro trovarsi in posizione di conflitto, perché vi sono coloro che sono interessati alla prosecuzione dell’attività e coloro che, invece, sono interessati solo alla riscossione del credito “vecchio”.

Sarebbe facile porsi al riparo della specialità, probabilmente non del tutto giustificata, dell’amministrazione straordinaria e non porsi il problema per le altre procedure. Questa opzione non pare fondata e le osservazioni che precedono inducono a interrogarsi se, nei procedimenti giurisdizionali, il valore della continuità non abbia conquistato dignità autonoma: in tal caso, le asimmetrie con l’amministrazione straordinaria sarebbero, sì, presenti, ma marginali.

Il d.lgs n. 14/2019, pur non potendo abbattere il muro della tutela del credito vista la legge delega, introduce significative (e forse discutibili) aperture verso l’impresa in quanto tale.

In primo luogo, l’art. 84 CCII (sotto la rubrica «Finalità del concordato preventivo») prevede che «In caso di continuità diretta il piano prevede che l’attività d’impresa è funzionale ad assicurare il ripristino dell’equilibrio economico finanziario nell’interesse prioritario dei creditori, oltre che dell’imprenditore e dei soci. In caso di continuità indiretta la disposizione di cui al periodo che precede, in quanto compatibile, si applica anche con riferimento all’attività aziendale proseguita dal soggetto diverso dal debitore». In secondo luogo, l’art. 211 CCII inverte il sistema della legge fallimentare e stabilisce che l’apertura della liquidazione giudiziale non interrompe l’attività d’impresa (pur se con i caveat che, al rovescio, determinavano nel fallimento la possibilità di disporre l’esercizio provvisorio).

Il messaggio che è stato lanciato è, chiaramente, quello di introdurre profili di contaminazione con l’amministrazione straordinaria, posto che il mantenimento dei livelli occupazionali diviene elemento fondante la qualificazione del piano di concordato come piano di continuità, se si assicura l’impiego della forza lavoro.

Occorre, allora, indagare sul fatto se il perseguimento del miglior interesse dei creditori possa avere soppiantato il principio di par condicio come paradigma di riferimento nei procedimenti di attuazione della garanzia patrimoniale.

La vera torsione normativa si rinviene nell’art. 100 CCII, là dove si stabilisce che, per i concordati che si fondano su un piano di continuità aziendale, è possibile, a procedura aperta e cioè quando si dovrebbe pienamente applicare la regola della par condicio, procedere al pagamento di crediti anteriori, senza un vincolo di parità di trattamento. Secondo la lezione corrente, la norma non consente solo una antergazione temporale (si pagano subito fuori concorso crediti anteriori), ma consente anche di sottrarli alla falcidia concordataria.

È discusso se questa disposizione sia di stretta applicazione e sia, quindi, confinata ai concordati con piani di continuità o se esprima un principio più generale estensibile anche ai concordati con piani di liquidazione.

Una lettura restrittiva significa distinguere fra diversi strumenti di attuazione della garanzia patrimoniale e giungere alla conclusione che la regola base è quella della par condicio, regola però derogabile nei concordati con piani di continuità.

Assumere, invece, una lettura espansiva significa traguardare il sistema verso un principio nuovo: assicurare il migliore soddisfacimento dei creditori (tutti) è obiettivo preminente rispetto a quello della parità di trattamento[87]. Il benessere collettivo prevale sull’uguaglianza.

17. Le tutele rimediali all’affievolimento della par condicio

A prescindere dalle conclusioni assunte supra, siamo ormai certi che la par condicio non è più un dogma né, tanto meno, un feticcio.

Ciò posto, però, occorre fare un passo in avanti e stabilire se essa sia ancora un valore, per quanto residuale, oppure se non debba proprio essere accantonata. Se si optasse per questa seconda soluzione, risulterebbe poco utile andare alla ricerca di strumenti alternativi, ad esempio la revocatoria concorsuale, per ripristinarla. Viceversa, se fosse ancora un valore, ma in larga parte prosciugato dal depotenziamento dell’azione revocatoria fallimentare, allora varrebbe la pena andare alla ricerca di strumenti idonei a salvaguardarla.

La prima soluzione avrebbe l’effetto di abrogare tacitamente l’art. 2741 cc e un simile risultato, quand’anche per taluno auspicabile, non è ancora giunto a maturazione.

La seconda soluzione appare, quindi, preferibile, avendo però l’accortezza di individuare strumenti che non portino al risultato, non voluto, di irrigidire ulteriormente un principio che il legislatore, dal 2005, ha voluto attenuare.

Nel passaggio dalla legge fallimentare al codice della crisi, l’impianto dell’azione revocatoria non è stato modificato nei suoi tratti salienti.

V’è, però, quanto al regime disciplinare una modifica che potrà, sebbene solo di riflesso, contribuire a ri-espandere un poco la promuovibilità delle azioni revocatorie fallimentari. Infatti, gli art. 163 ss. CCII neutralizzano il tempo dell’istruttoria pre-liquidazione giudiziale perché prevedono che il periodo sospetto (semestrale, annuale e biennale) decorrerà non più da un provvedimento formale del giudice di apertura di una procedura, ma dal momento in cui è stata depositata la domanda alla quale fa seguito la sentenza del tribunale.

Il sensibile calo (per usare un eufemismo) delle azioni revocatorie negli ultimi dieci anni è stato, evidentemente, “digerito” dai più e il fatto che un pilastro portante della concorsualità sistematizzata sia stato ignorato nella legge delega e, di conseguenza, anche nel decreto delegato (fatte salve incursioni invero marginali) non è senza significato. Tuttavia, il micro-sistema delle revocatorie vive nel macro-sistema delle procedure concorsuali, talché alla luce dei mutamenti del macro-sistema e, soprattutto, dell’introduzione degli strumenti di allerta[88], sarebbe stato opportuno riflettere se, per coerenza, non si dovesse incidere anche sulle azioni revocatorie.

18. L’azione risarcitoria per perdita di chance

Una volta presa consapevolezza che anche con il codice della crisi lo spazio di applicazione delle azioni revocatorie sarà decisamente ridotto, occorre valutare se possano esistere strumenti rimediali alternativi tali da poter perseguire comportamenti che abbiano prodotto l’effetto di elidere l’applicabilità dell’art. 166 CCII.

Per adoperare un termine in voga nell’era delle clausole generali, proviamo a immaginare che il debitore, d’intesa con un creditore, abbia concertato la predisposizione di un piano attestato di risanamento (art. 56 CCII) al solo scopo di assegnare al creditore una garanzia da porre al riparo in caso di successiva liquidazione giudiziale: cioè, una condotta abusiva. Di fronte a questo esempio, si potrebbe obiettare che sarebbe sufficiente che il curatore promuova l’azione revocatoria e, in quella sede, chiedere l’inoperatività dell’esenzione sul presupposto della insussistenza sostanziale di un piano attestato. Sennonché, la concertazione fra il debitore e il creditore potrebbe anche avere prodotto un ritardo nella dichiarazione di fallimento tale da porre quell’atto al di fuori del periodo sospetto.

Così, pure, si potrebbe pensare alla redazione di un accordo di ristrutturazione (poi omologato) con previsione di un pagamento a favore di un creditore aderente e successiva liquidazione giudiziale.

In casi come questi, non si dovrebbe escludere la percorribilità di un’azione risarcitoria promossa contro il terzo, per avere il terzo tenuto una condotta antigiuridica (in violazione del principio del neminem laedere) volta a conquistarsi una esenzione dall’azione revocatoria, in conflitto con il principio della par condicio. Oggi, l’art. 4 CCII stabilisce che «Nell’esecuzione degli accordi e nelle procedure di regolazione della crisi e dell’insolvenza e durante le trattative che le precedono, debitore e creditori devono comportarsi secondo buona fede e correttezza». Da questa regola di condotta si possono trarre spunti per confortare la tesi qui proposta: l’azione potrebbe configurarsi come diretta a risarcire un danno, quello derivante dalla perdita della chance di poter promuovere l’azione revocatoria.

19. L’azione di nullità per violazione di norma imperativa

Vi sono alcune condotte che, oltre a confliggere col principio di par condicio, appaiono lesive della tutela penale correlata e assicurata dalla previsione del reato di bancarotta fraudolenta preferenziale.

È ben noto come, mutato il quadro normativo dell’azione revocatoria fallimentare (dal 2005), il quadro normativo della bancarotta si sia modificato solo parzialmente per effetto dell’addizione dell’art. 217-bis l.fall., ora confluito nell’art. 324 CCII.

Tale disposizione ha aggiunto una scriminante penale parallela rispetto ad alcune ipotesi di esenzione dalla revocatoria concorsuale. Ciò, però, non ha comportato affatto che, là dove ricorrono casi di esenzione, ricorrano specularmente altre scriminanti sul fronte penale.

Il mancato coordinamento delle due discipline può determinare disarmonie, ma anche (forse non voluti) spazi residui di tutela.

Se un imprenditore in stato di insolvenza effettua il pagamento di alcuni crediti scaduti e ascrivibili alle esenzioni di cui all’art. 166, comma 3, lett. a e f, CCII, ma con un intento volutamente discriminatorio, non possiamo essere sicuri che quei pagamenti non siano penalmente sanzionabili. Il pagamento di un dipendente e il mancato pagamento di tanti altri va considerato un’operazione non revocabile; ma una condotta del genere non è, proprio, una emblematica rappresentazione della violazione del principio di par condicio?

Così, se potessimo predicare che quel pagamento contrasta con la disposizione di cui all’art. 322 CCII, se ne dovrebbe far conseguire che quel pagamento è nullo, in quanto contrario a norma imperativa. Una conclusione forse eterodossa, ma sostenibile.

Contro una siffatta lettura, si è mossa la Corte di cassazione, che ha recisamente negato che un negozio (ma anche un atto) posto in essere in frode ai creditori sia, al contempo, un atto in frode alla legge (vds. supra).

Per il principio di specialità, l’atto in frode dei creditori è inefficace, ma non è nullo. Questa conclusione, così radicale, non è condivisibile. Sicuramente non c’è equivalenza fra frode alla legge e frode ai creditori; tuttavia, da questo assunto non si può far conseguire che un unico atto possa sia pregiudicare la garanzia dei creditori, sia risultare contrario a una norma che eleva la par condicio a bene giuridico tutelato in sé.

20. L’azione risarcitoria contro l’autore dell’operazione preferenziale

Un ulteriore filone di indagine è rappresentato dalla possibilità di configurare il compimento di un atto lesivo della par condicio come condotta imprenditoriale che, nelle società di capitali, può esporre l’autore a una delle azioni di responsabilità previste nel codice civile.

La società ha interesse a che gli organi sociali esercitino i poteri di amministrazione e di controllo nell’osservanza della legge, in modo da non subirne un pregiudizio. Il pregiudizio si può concretare in un danno al patrimonio sociale, da intendersi anche come minore profitto. Se dalla condotta illecita degli amministratori non è sortito un danno, non c’è spazio per una azione di responsabilità, azione che ha natura risarcitoria e non sanzionatoria. Quando l’amministratore agisce per interessi personali o per danneggiare taluni soci, di certo si espone a una serie di reazioni, ma fra queste non dobbiamo includere l’azione di responsabilità sociale ove le condotte non si siano risolte in un danno.

Non vi è dubbio che siano configurabili condotte che danno luogo tanto a reazioni revocatorie quanto a reazioni sul piano della responsabilità. Ove un amministratore abbia ceduto un bene della società a prezzo vile, l’operazione negoziale potrà essere letta alla luce dell’art. 166, comma 1, CCII; ma, in questo caso, l’atto di gestione ha anche provocato un danno al patrimonio sociale.

Le due forme di tutela non coincidono perché la prima mira ad assicurare ai creditori il ripristino della garanzia patrimoniale, mentre la seconda è volta a rimpinguare il patrimonio sociale danneggiato. Questo non vuol dire che le due azioni non presentino profili di interconnessione; il ripristino della garanzia patrimoniale comporterà una distribuzione delle risorse fra i creditori e ciò potrà risolversi in una dissolvenza del danno ove il patrimonio venga reintegrato. Infatti, se è ben vero che l’azione revocatoria non produce un effetto restitutorio, il ripristino della garanzia patrimoniale potrà significare la soddisfazione dei creditori e quindi una elisione del danno, perché il bene non è stato restituito, ma il suo valore è stato convertito in liquidità destinata ai creditori.

Assai diverso è il discorso quando l’atto dell’amministratore non ha procurato un danno al patrimonio ma (solo) una lesione alla par condicio. L’amministratore ha eseguito un pagamento revocabile; ha adoperato risorse per estinguere un debito. In tal caso, la società non potrebbe reclamare alcun danno perché il pagamento di un debito scaduto è un atto neutrale (tanto è vero che non può essere impugnato con l’azione revocatoria ordinaria). L’azione di responsabilità ex art. 2393 cc sembra impercorribile.

In verità, questa potrebbe essere una conclusione affrettata, in quanto il pagamento a favore di un creditore potrebbe rilevare in termini di perdita di risorse per proporre una soluzione alternativa alla liquidazione giudiziale. Le ipoteche giudiziali iscritte nei novanta giorni anteriori alla domanda di concordato preventivo (o alla domanda di omologazione di un accordo di ristrutturazione) si considerano inefficaci e il creditore va trattato come creditore chirografario. Pertanto, se l’amministratore paga un creditore solo apparentemente privilegiato, sottrae risorse agli altri creditori e tale perdita potrebbe impedire l’accesso al concordato per insufficienza di risorse da destinare ad altri. La società potrebbe agire contro l’amministratore per avere impedito l’accesso al concordato, ma molto probabilmente quella società, nel frattempo, sarà stata assoggettata alla liquidazione giudiziale.

Questo significa che l’atto lesivo della par condicio, rispetto alla società, non è causativo di un danno in sé, ma può determinarlo laddove quell’atto rechi, altrimenti, un nocumento.

Sappiamo che, in presenza di una insolvenza accertata e di una procedura concorsuale imposta, l’art. 255 CCII attribuisce al curatore o al commissario la legittimazione a promuovere le azioni di responsabilità. Pertanto, se la società non è riuscita ad accedere al concordato, la legittimazione ad agire si trasferisce al curatore. V’è da chiedersi tuttavia se, a liquidazione giudiziale dichiarata, il danno cagionato per l’impossibilità di accedere al concordato possa essere azionato dal curatore o se tale danno che abbiamo ascritto alla società non sia, piuttosto, un danno che incide sui diritti dei soci.

Siamo abituati a pensare che i soci, in quanto residual claimants, non possano vantare pretese sul patrimonio, oggetto della responsabilità verso i creditori sociali, sino a che questi non vengano soddisfatti. Si tratta, però, di un pensiero “antico” perché, ormai, si sta diffondendo sempre di più l’idea che ai soci possa spettare ancora il valore dell’impresa quando questo valore è creato, dal nuovo, con la continuità dell’impresa (e l’art. 84 CCII offre, al riguardo, qualche segnale)[89].

Se si ammettesse che questo percorso è ragionevole, vi sarebbe un interesse economico e una legittimazione processuale a che siano i soci a far valere le alterazioni della par condicio creditorum, quando queste alterazioni abbiano compromesso le chance di accesso a una procedura negoziata, potenzialmente remunerativa (anche) per i soci.

Vediamo, ora, se la lesione della par condicio creditorum possa essere fatta valere dai creditori sociali. Perché sussista responsabilità verso i creditori sociali non basta che vi sia stata una condotta dannosa, ma è pure necessario che da questa condotta sia derivata la lesione alla garanzia patrimoniale perché il patrimonio è divenuto insufficiente a remunerare tutti i creditori.

Poniamo pure in disparte come si atteggi questa insufficienza patrimoniale e vediamo che, ai nostri fini, la lesione della par condicio potrà avere generato un pregiudizio al patrimonio, oppure no. Non è il caso di ripetere quanto abbiamo visto prima e si può concentrare l’attenzione su quelle condotte che si siano limitate a violare la par condicio con l’esecuzione di pagamenti di debiti scaduti. Il pagamento di un debito brucia risorse e, al contempo, fa decrescere il passivo. Quell’atto, in sé considerato, non dovrebbe avere cagionato alcun danno ai creditori dal punto di vista dell’aggravamento dell’insufficienza patrimoniale. Pertanto, la condotta pur posta in essere in frode ai creditori non avrebbe recato loro un danno diretto.

Si è visto prima, però, che talune condotte sono rilevanti anche come fattispecie di reato e che, quando un reato è stato commesso, i danni derivanti dal reato possono essere richiesti proprio dal curatore che è legittimato a costituirsi parte civile nel processo penale.

Da qui si fa conseguire questo sillogismo: se il pagamento preferenziale è un reato e se il reato può generare un danno che è il curatore a far valere, ecco allora che al curatore spetta l’azione contro gli autori della condotta per avere violato la par condicio. Il sillogismo non è eterodosso, ma non coglie tutta la portata della situazione. Infatti, un conto è postulare che i pagamenti preferenziali sono fattispecie di reato, altro conto è dimostrare che quel reato – in disparte il danno morale – ha creato un danno ai creditori intesi come massa, posto che il curatore è chi può costituirsi parte civile.

Un danno direttamente cagionato da un tale comportamento pare assai complicato da dimostrare perché non è un danno al patrimonio, e l’art. 2394 cc lo pretende. Diverso è il discorso per possibili danni collaterali: il pagamento di un debito correlato a un ricorso per dichiarazione della liquidazione giudiziale può rivelarsi idoneo a ritardare l’apertura del concorso, ma in questo caso il pagamento preferenziale è solo occasione del danno perché il danno deriva dalla condotta diretta a far indebitamente proseguire l’attività.

21. Conclusioni

Le riflessioni (di taglio rapsodico) condotte nei superiori paragrafi portano alla luce che, nel passaggio dalla legge fallimentare al codice della crisi, talune regole che esprimono tecnicalità sembrano conformarsi all’idea di un recupero della forza della par condicio; si pensi al contenimento della prededuzione e al (seppur limitato) ampliamento del periodo sospetto nelle azioni revocatorie. Ma, parallelamente, altre regole che esprimono concetti di valore paiono indirizzarsi verso una maggiore attenzione al risultato dell’operazione di regolazione della crisi (inclusa la liquidazione giudiziale). L’idea di migliorare le performance delle procedure è un marchio di fabbrica del codice della crisi, anche al costo di smorzare la razionalità del diritto e la sistematicità di regole risalenti. Ovviamente, si può discutere se questa scelta sia condivisibile e cioè se un impianto più sostanzialista sia accettabile; certo è che ora non è tempo di bilanci e le previsioni potranno risultare azzardate perché i comportamenti umani (e le imprese li riflettono direttamente) hanno un grado di prevedibilità spesso assai ridotto.

La sorte della par condicio resta, allora, affidata all’interpretazione di quella porzione del codice più attenta all’impresa; se sarà valorizzata, quel principio diverrà definitivamente una regola secondaria, altrimenti si continuerà a navigare nell’ambiguità.

[1] L’ampiezza della materia e la necessità di contenere il contributo in un “taglio” editabile hanno reso inevitabile condire l’elaborato con una bibliografia essenziale e ci si scusa per le molteplici omissioni. In luogo di molti, vds. P. Gallo, sub art. 2741, in E. Gabrielli (diretto da), Commentario del codice civile, Utet giuridica, Milano, 2016, p. 923; G. Amadio-F. Macario (a cura di), Diritto civile, vol. I, Il Mulino, Bologna, 2014, p. 486; V. Roppo, Par condicio creditorum, in P. Rescigno (diretto da), Trattato di diritto privato, Utet giuridica, Milano, 2008, pp. 529 ss.; J.M. Garrido, Preferenza e proporzionalità nella tutela del credito, Giuffrè, Milano, 1998, p. 280; L. Barbiera, Responsabilità patrimoniale, in P. Schlesinger (diretto da), Il codice civile. Commentario, Giuffrè, Milano, 1991, p. 88; M. Rescigno, Contributo allo studio della par condicio creditorum, in Riv. dir. civ., 1984, I, p. 370; V. Colesanti, Mito e realtà della par condicio creditorum, in Fallimento, 1984, pp. 32 ss.; P.G. Jaeger, Par condicio creditorum, in Giur. comm., 1984, I, p. 102; S. Ciccarello, Privilegio del credito e uguaglianza dei creditori, Giuffrè, Milano, 1983, pp. 23 ss.

[2] F. Di Marzio, La riforma delle discipline della crisi d’impresa e dell’insolvenza, Giuffrè, Milano, 2017, p. 4.

[3] La legge fallimentare è destinata (a cavallo di Ferragosto 2020) a essere sostituita dal codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza. Un codice, dunque; il che induce a svariate riflessioni: vds. G. Doria, La “dissolvenza” del codice civile e il ruolo della legge tra giustizia giuridica e incertezza applicativa, in Riv. dir. civ., n. 1/2019, p. 50.

[4] V. Roppo, Il diritto privato nel sistema giuridico, in Id., Diritto privato, Giappichelli, Torino, 2016 (quinta edizione), p. 3; L. Balestra, A proposito delle categorie del diritto civile, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2015, p. 25; P. Perlingeri, Lo studio del diritto nella complessità e unitarietà del sistema ordinamentale, in Foro nap., 2014, p. 100; E. Navarreta, Complessità dell’argomentazione per principi nel sistema attuale delle fonti di diritto privato, in Riv. dir. civ., 2001, I, p. 779.

[5] P. Gallo, sub art. 2740, in E. Gabrielli (diretto da), Commentario, op. cit., p. 841.

[6] R. Conte, Il sequestro conservativo nel processo civile, Giappichelli, Torino, 2000, pp. 11 ss.

[7] L. Montesano, La tutela giurisdizionale dei diritti, in Aa. Vv. (fondato da F. Vassalli), Trattato di diritto civile, Utet, Torino, 1994, pp. 175 ss.

[8] A. Proto Pisani, Lezioni di diritto processuale civile, Jovene, Napoli, 2014, pp. 32 ss.; I. Pagni, Tutela specifica e tutela per equivalente, Giuffrè, Milano, 2004, p. 9.

[9] E. Damiani, sub art. 1193 c.c., in E. Gabrielli (diretto da), Commentario del codice civile, Utet giuridica, Milano, 2012, p. 520; A. Di Majo, Pagamento (diritto civile), in Enc. dir., vol. XXXI, Giuffrè, Milano, 1981, p. 567; Cass., 3 ottobre 2013, n. 22639, in Foro it., rep. 2013, voce Obbligazioni in genere, n. 51.

[10] Secondo Cass., 12 luglio 2005, n. 14594, in Foro it., rep. 2005, voce cit., n. 43, «La disciplina dell’imputazione del pagamento, pur presupponendo l’esistenza di una pluralità di rapporti obbligatori omogenei tra le medesime parti, è applicabile analogicamente anche in presenza di una pluralità di creditori, qualora uno di essi sia legittimato a ricevere il pagamento sia in proprio che per conto dell’altro».

[11] Per una diversa lettura sul modo in cui debbono orientarsi le scelte di gestione degli amministratori, vds. M. Fabiani, L’azione di responsabilità dei creditori sociali e le altre azioni sostitutive, Giuffrè, Milano, 2015, pp. 35 ss. (per il quale il valore della tutela dei creditori entra sulla scena già in una situazione “grigia” della società) e P. Benazzo,  Il Codice della crisi di impresa e l’organizzazione dell’imprenditore ai fini dell’allerta: diritto societario della crisi o crisi del diritto societario?, in Riv. soc., 2019, in corso di pubblicazione (secondo il quale, invece, l’adeguatezza degli assetti organizzativi e la loro efficacia – ed efficienza – sono strumenti di tutela dei creditori sociali solo in via mediata: nel senso che la loro portanza può essere colta, più immediatamente e più fruttuosamente, se la si pensa essenzialmente in termini di opportunità per l’imprenditore); vds., anche con particolare riguardo all’adeguatezza degli assetti, N. Abriani e A. Rossi, Nuova disciplina della crisi d’impresa e modificazioni del codice civile: prime letture, in Società, n. 4/2019, p. 393; M. Spiotta, Continuità aziendale e doveri degli organi sociali, Giuffrè, Milano, 2017, p. 125; F. Pacileo, Continuità e solvenza nella crisi di impresa, Giuffrè, Milano, 2017, p. 109.

[12] M. Fabiani, Diritto della crisi e dell’insolvenza, Zanichelli, Bologna, 2017, p. 196; S. Bonfatti, Gli effetti del fallimento sugli atti pregiudizievoli ai creditori. Le azioni revocatorie, in A. Jorio e B. Sassani (diretto da), Trattato delle procedure concorsuali, vol. II, Giuffrè, Milano, 2014, p. 198; M. Porzio, Effetti del fallimento sugli atti pregiudizievoli ai creditori, in V. Buonocore e A. Bassi (diretto da), Trattato di diritto fallimentare, vol. II, Utet giuridica, Milano, 2010, p. 353.

[13] E. Bertacchini, Effetti del fallimento sugli atti pregiudizievoli ai creditori, in A. Jorio (a cura di), Fallimento e concordato fallimentare, Utet giuridica, Milano, 2006, p. 1380; G. Terranova, Effetti del fallimento sugli atti pregiudizievoli ai creditori, in Commentario Scialoja-Branca. Legge fallimentare, Zanichelli-Il Foro Italiano, Bologna-Roma, 1993, p. 86.

[14] Per Cass., 28 settembre 2016, n. 19196, in Foro it., rep. 2016, voce Contratto in genere, n. 407, «La violazione di una norma imperativa non dà luogo necessariamente alla nullità del contratto, giacché l’art. 1418, 1º comma, c.c., con l’inciso “salvo che la legge disponga diversamente”, impone all’interprete di accertare se il legislatore, anche nel caso di inosservanza del precetto, abbia consentito la validità del negozio predisponendo un meccanismo idoneo a realizzare gli effetti voluti della norma, sicché, in assenza di un divieto generale di porre in essere attività negoziali pregiudizievoli per i terzi, la stipulazione di un contratto di mutuo ipotecario in violazione dell’art. 216, 3º comma, l.fall., che punisce la condotta di bancarotta preferenziale, non dà luogo a nullità per illiceità di causa, ai sensi del citato art. 1418, ma costituisce il presupposto per la revocazione degli atti lesivi della par condicio creditorum»; per il versante penalistico, vds. C. Santoriello, La posizione del creditore favori nel delitto di bancarotta preferenziale: le possibili responsabilità penali, in Società, 2019, p. 233.

[15] In luogo di molti, vds. A. Luciano, La gestione della s.p.a. nella crisi pre-concorsuale, Giuffrè, Milano, 2016, pp. 16 ss.; F. Brizzi, Doveri degli amministratori e tutela dei creditori nel diritto societario della crisi, Giappichelli, Torino, 2015, pp. 11 ss.

[16] Cass., sez. unite, 23 gennaio 2017, n. 1641, in Fallimento, 2017, 149; per due opposte letture, vds. G. Fauceglia, Brevi note sul risarcimento dei danni per pagamenti preferenziali, in Società, 2017, p. 595 (contro la tesi affermata in decisione) e L. Balestra, Azioni di responsabilità e legittimazione del curatore: la questione dei pagamenti preferenziali, in Fallimento, 2017, p. 662 (a favore).

[17] D. Galletti, Il concorso nel fallimento, in A. Jorio (a cura di), Fallimento e concordato fallimentare, Utet giuridica, Milano, 2016, p. 1252; A. Nigro, La disciplina delle crisi patrimoniali delle imprese, in M. Bessone (diretto da), Trattato di diritto privato, vol. XXV, Giappichelli, Torino, 2012, p. 251; D. Vattermoli, Crediti subordinati e concorso tra creditori, Giuffrè, Milano, 2012, p. 46; V. De Sensi, La concorsualità nella gestione della crisi d’impresa, Luiss University Press, Roma, 2009, p. 195.

[18] La contiguità fra fallimento ed esecuzione forzata è affermata con riguardo al trascinamento degli effetti fra il pignoramento e la liquidazione fallimentare: vds. Cass., 30 luglio 2015, n. 1615, in Foro it., rep. 2015, voce Fallimento, n. 298; Cass., 22 dicembre 2015, n. 25802, in Foro it., rep. 2015, voce cit., n. 431; è con la sentenza di fallimento che si apre il processo esecutivo: vds. Cass., 28 maggio 2012, n. 8432, in Fallimento, 2013, p. 28.

[19] A. Rossi, Il valore dell’organizzazione nell’esercizio provvisorio dell’impresa, Giuffrè, Milano, 2013, p. 1; F. Pasquariello, Gestione riorganizzazione dell’impresa nel fallimento, Giuffrè, Milano, 2010, p. 19; G.C.M. Rivolta, L’affitto e la vendita dell’azienda nel fallimento, Giuffrè, Milano, 1973, pp. 5 ss.

[20] In luogo di molti, A. Rossi, Il migliore soddisfacimento dei creditori (quattro tesi), in Fallimento, 2017, p. 637; A. Patti, Il miglior soddisfacimento dei creditori: una clausola generale per il concordato preventivo?, in Fallimento, 2013, p. 1099.

[21] G. Meo, Il risanamento finanziato dai creditori, Giuffrè, Milano, 2013, p. 3.

[22] Sulle criticità dell’art. 84 CCII, vds. R. Brogi, Il concordato con continuità aziendale nel codice della crisi in Fallimento, 2019, in corso di pubblicazione; L. Stanghellini, Il Codice della crisi e dell’insolvenza: una primissima lettura (con qualche critica), in Corr. giur., 2019, p. 449.

[23] Mentre la nozione di insolvenza è rimasta invariata, il legislatore delegato ha definito «“crisi”: lo stato di difficoltà economico-finanziaria che rende probabile l’insolvenza del debitore, e che per le imprese si manifesta come inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate»; sulla criticità della formula, vds. A. Rossi, Dalla crisi tipica ex CCII alla resilienza della twilight zone, in Fallimento, 2019, p. 295; S. De Matteis, L’emersione anticipata della crisi d’impresa, Giuffrè, Milano, 2017, p. 29.

[24] S. Satta, Diritto fallimentare, Cedam, Padova, 1990, p. 337; A Bonsignori, Il fallimento, in F. Galgano (diretto da), Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia, Cedam, Padova, 1986, p. 643.

[25] Sul vincolo da spossessamento vds., inter alia, G. De Ferra e L. Guglielmucci, Effetti del fallimento per il fallito (art. 42-50), in Commentario Scialoja-Branca. Legge fallimentare, Zanichelli-Il Foro Italiano, Bologna-Roma, 1986, pp. 13 ss.; per quanto attiene alla posizione dei creditori, vds. D. Galletti, Il concorso nel fallimento, op. cit., p. 1257.

[26] Quando il debitore ha pagato tutti i suoi creditori tranne uno e non ci sono beni residui, è evidente l’interesse del creditore ultimo, pur unico, a chiedere l’apertura del fallimento per aprire un concorso dinamico con i creditori (già) soddisfatti.

[27] G. Terranova, Le procedure concorsuali. Problemi d’una riforma, Giuffrè, Milano, 2004, p. 51; A.C. Mimola, Risanamento delle imprese, mercato e parità di trattamento, Giuffrè, Milano, 2004, p. 86; A. Maisano, La tutela concorsuale dei creditori tra liquidazione e riassetto delle imprese in crisi, Giuffrè, Milano, 1989, p. 7.

[28] L.A. Bottai, Il pagamento di debiti anteriori tra regole di efficienza e incalcolabilità del diritto, in Fallimento, n. 2/2017, p. 225; G. D’Attorre, Concordato con continuità ed ordine delle cause di prelazione, in Giur. comm., 2016, I, p. 39; M. Falagiani, Il pagamento autorizzato di debiti anteriori nel concordato preventivo - Il nuovo art. 182 quinquies, 4º comma, l.fall., in Fallimento, 2014, p. 827.

[29] Cfr. M. D’Amelio (a cura di), Codice civile. Tutela dei diritti - Commentario, Barbera, Firenze, 1943, p. 439; V. Colesanti, Mito e realtà, op. cit., p. 46. Una conferma della preesistenza della par condicio alle regole di tecnica normativa si può trarre dal fatto che il principio, considerato “di civiltà”, è presente nella gran parte degli ordinamenti giuridici (a partire dalla norma “ascendente” dell’art. 2093 Code Napoleon), eppure proprio nel nostro sistema presenta oggi incrinature tali da far dubitare che ancora assuma la funzione di principio; vds. F. Macario, Insolvenza, crisi d’impresa e autonomia contrattuale, in Riv. società, 2008, p. 104. Decisamente contrario a questa tesi è P. Schlesinger, L’eguale diritto, op. cit., p. 330, ad avviso del quale il principio di eguale trattamento è solo una regola applicativa che può essere invocata, senza enfasi, quando appaia la soluzione più ragionevole; sulla stessa linea, V. Andrioli, Fallimento e atti che limitano la disponibilità dei beni, in Riv. dir. proc., 1961, p. 569; Gius. Tarzia, Par aut dispar condicio creditorum, in Riv. dir. proc., 2005, p. 6; L. Barbiera, Responsabilità patrimoniale, op. cit., p. 89.

[30] C: Ferri, Classi di creditori e poteri del giudice nel giudizio di omologazione del ‘‘nuovo’’ concordato preventivo, in Giur. comm., 2006, I, p. 562.

[31] M. Fabiani, Contratto e processo nel concordato fallimentare, Utet giuridica, Milano, 2009, pp. 15 ss.; ma in termini simili anche M. Ferro, I nuovi strumenti di regolazione negoziale dell’insolvenza e la tutela giudiziaria delle intese fra debitore e creditori: storia italiana della timidezza competitiva, in Fallimento, 2005, p. 587 e, più di recente, F. Guerrera, Le competenze degli organi sociali nelle procedure di regolazione negoziale della crisi, in Riv. soc., 2013, p. 1114.

[32] Per alcuni tentativi definitori, cfr. M. Fabiani, Il diritto della crisi e dell’insolvenza, Zanichelli, Bologna, 2017, p. 7; M. Sandulli e G. D’Attorre, Manuale delle procedure concorsuali, Giappichelli, Torino, 2016, p. 24; A. Nigro, La disciplina delle crisi patrimoniali delle imprese, Giappichelli, Torino, 2012, p. 147.

[33] Cass., 18 gennaio 2018, n. 1182, in Foro it., 2018, I, 1275; Cass., 12 aprile 2018, n. 9087 e Cass., 21 giugno 2018, n. 16347, ambedue reperibili online sul sito www.ilcaso.it.

[34] M. Fabiani, Dal codice della crisi d’impresa agli accordi di ristrutturazione senza passare da Saturno, in Il caso, 14 ottobre 2018, http://blog.ilcaso.it/libreriaFile/1054.pdf.

[35] «La sfera della concorsualità può essere oggi ipostaticamente rappresentata come una serie di cerchi concentrici, caratterizzati dal progressivo aumento dell’autonomia delle parti man mano che ci si allontana dal nucleo (la procedura fallimentare) fino all’orbita più esterna (gli accordi di ristrutturazione dei debiti), passando attraverso le altre procedure di livello intermedio, quali la liquidazione degli imprenditori non fallibili, le amministrazioni straordinarie, le liquidazioni coatte amministrative, il concordato fallimentare il concordato preventivo, gli accordi di composizione della crisi da sovraindebitamento degli imprenditori non fallibili, gli accordi di ristrutturazione con intermediari finanziari e le convenzioni di moratoria … Restano all’esterno di questo perimetro immaginario solo gli atti interni di autonoma riorganizzazione dell’impresa, come i piani attestati di risanamento e gli accordi di natura esclusivamente stragiudiziale che non richiedono nemmeno un intervento giudiziale di tipo omologatorio». Forse la Corte di legittimità si è fatta prendere dal “perimetro immaginario”, là dove ha incluso fra le procedure concorsuali persino le convenzioni di moratoria di cui all’art. 182-septies l.fall. (ora art. 62 CCII), che mai nessuno aveva avuto l’ardire di collocare nella concorsualità e che non prevedono alcun tipo di intervento omologatorio del giudice.

L’ultimo passaggio della motivazione è quella di “cifratura” della concorsualità, racchiusa fra: a) pubblicità del procedimento; b) coinvolgimento di tutti i creditori; c) interlocuzione con l’autorità giudiziaria ai fini protettivi (prima) e di controllo (poi). Orbene, la prova del nove della asistematicità della cifratura si coglie nell’empito dei giudici di legittimità di aver voluto inglobare la convenzione di moratoria che, tutti ben sanno, non produce alcun effetto protettivo sul patrimonio del debitore.

[36] In dottrina, per tutti, C. Trentini, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti sono una «procedura concorsuale»: la cassazione completa il percorso, in Fallimento, 2018, p. 988.

[37] Per l’ammissibilità, cfr. Trib. Milano, 20 dicembre 2018, ined.; Trib. Milano, 10 novembre 2016, ined.

[38] Gius. Tarzia, Par aut dispar condicio creditorum?, op. cit., p. 1.

[39] Parliamo delle azioni di rivendica e di restituzione nel fallimento (art. 103 CCII) e delle opposizioni di terzo all’esecuzione (art. 619 cpc). Vds. L. Baccaglini, Limiti probatori e azione di rivendica nel fallimento: un regolamento di confini tra l’art. 621 c.p.c. e le altre norme in materia di divieto di prova per testimoni, in Fallimento, 2016, p. 702; G.P. Macagno, La domanda di rivendica/restituzione, in Fallimento, 2011, p. 1049; A. Castagnola, Le rivendiche mobiliari nel fallimento, Giuffrè, Milano, 1996, p. 361.

[40] L’art. 7, comma 4, l. n. 155/2017 prevedeva: «escludere l’operatività di esecuzioni speciali e di privilegi processuali, anche fondiari; prevedere, in ogni caso, che il privilegio fondiario continui ad operare sino alla scadenza del secondo anno successivo a quello di entrata in vigore del decreto legislativo ovvero dell’ultimo dei decreti legislativi emanati in attuazione della delega di cui all’articolo 1».

[41] Cass., 28 settembre 2018, n. 23482, in Foro it., rep. 2018, voce Fallimento, n. 435; Cass., 30 marzo 2015, n. 6377, in Fallimento, 2015, 784; in dottrina, M. Montanari, La realizzazione dei crediti fondiari nel fallimento, in Il caso, 4 settembre 2018, http://blog.ilcaso.it/libreriaFile/1044.pdf; F. Casa, Appunti sul credito fondiario tra privilegio processuale e concorso formale, in Fallimento, 2015, p. 786.

[42] Cass., 9 gennaio 2013, n. 339, in Fallimento, 2013, 937; Cass., 22 luglio 2004, n. 13647, in Foro it., rep. 2004, voce Liquidazione coatta amministrativa e ammin. straord.  n. 68; in dottrina, D. Galletti, Il concorso nel fallimento, op. cit., p. 1282.

[43] Cass., 18 gennaio 1995, n. 520, in Fallimento, 1995, p. 837.

[44] Cass., 5 aprile 2013, n. 8425, in Foro it., rep. 2013, voce Fallimento, n. 329; Trib. Padova, 22 maggio 2007, in Fallimento, 2008, 593; E. Staunovo Polacco, Il divieto di azioni cautelari e i procedimenti di istruzione preventiva nel fallimento e nell’amministrazione straordinaria, in Fallimento, 2008, p. 1341

[45] Per un primo inquadramento, vds. M. Fabiani, Le misure cautelari e protettive nel codice della crisi d’impresa, in Riv. dir. proc., 2019, in corso di pubblicazione; I. Pagni, Le misure protettive e le misure cautelari nel codice della crisi e dell’insolvenza, in Società, n. 4/2019, p. 438; prima del codice della crisi, vds. V. Baroncini, Inibitorie delle azioni dei creditori e automatic stay, Giappichelli, Torino, 2017, p. 30.

[46] Si tratta di affermazione ampiamente condivisa. Vds. M. Onorato, Gli accordi concorsuali. Profili civilistici, ETS, Pisa, 2017, p. 85; F. Guerrera, La ristrutturazione ‘negoziata’ dell’impresa in crisi: novità legislative e spunti comparatistici, in F. Barachini (a cura di), Il diritto dell’impresa in crisi tra contratto, società e procedure concorsuali, Giappichelli, Torino, 2014, p. 131; C.L. Appio, Gli accordi di ristrutturazione del debito, Giuffrè, Milano, 2012, p. 81.

[47] R. Rosapepe, La tutela cautelare nel concordato preventivo e negli accordi di ristrutturazione dei debiti, in F. Fimmanò (a cura di), Diritto delle imprese in crisi e tutela cautelare, Giuffrè, Milano, 2012, p. 205; L. Masi, L’inibitoria delle azioni cautelari ed esecutive nel corso delle trattative di un accordo di ristrutturazione dei debiti: profili processuali e di merito, in Fallimento, 2012, p. 1365; G. Carmellino, Riflessioni sul procedimento cautelare ex art. 182 bis, 6º comma, in Fallimento, 2011, p. 1222.

[48] T. Tomasi, Impresa in crisi e creditore bancario, Giuffrè, Milano, 2017, p. 216; A. Zorzi, L’accordo di ristrutturazione con banche e intermediari finanziari (art. 182 septies l.fall.): le categorie di creditori e l’efficacia nei confronti dei non aderenti, in Dir. fall., 2017, p. 405; L. Balestra, Accordi di ristrutturazione dei debiti con le banche e normativa civilistica: peculiarità, deroghe e ambiguità, in Corriere giur., 2016, p. 449.

[49] Si consideri che è proprio nella procedura di fallimento oggi, e di liquidazione domani, che si enfatizza un vincolo di segregazione (a favore dei creditori). Vds. A. De Martini, Il patrimonio del debitore nelle procedure concorsuali, Giuffrè, Milano, 1956, pp. 63 ss.

[50] G. Presti, Il pegno irregolare: profili ricostruttivi e di disciplina fallimentare, in Vita not., 2001, p. 29.

[51] C. Avolio, Il pegno non possessorio nel fallimento, in Giur. comm., n. 2/2019, I, p. 267; M. Campobasso, Il pegno non possessorio - «Pegno», ma non troppo, in Nuove leggi civ., 2018, p. 703; E. Gabrielli, Pegno «non possessorio» e teoria delle garanzie mobiliari, in Riv. dir. comm., 2017, II, p. 241.

[52] G. Ferri jr., Le pretese del terzo revocato nel fallimento, Giuffrè, Milano, 2011, p. 143.

[53] A. Maffei Alberti, Il danno nella revocatoria, Cedam, Padova, 1970, p. 241.

[54] C. Costa, La revocatoria fallimentare ed il progetto di riforma, in Dir. fall., 2004, I, p. 139; S. Fortunato, La revocatoria concorsuale nei progetti di riforma, in Fallimento, 2004, p. 340; M. Fabiani, La revocatoria fallimentare nelle prospettive di riforma, in Foro it., V, 2001, p. 250; Gius. Tarzia, La revocatoria dei pagamenti nei progetti di riforma delle procedure concorsuali, in Riv. dir. proc., 2001, p. 835

[55] Gior. Tarzia, Le esenzioni (vecchie e nuove) dall’azione revocatoria fallimentare nella recente riforma, in Fallimento, 2005, p. 835.

[56] G.B. Nardecchia, Le nuove esenzioni del 3º comma dell’art. 67 l.fall, in Fallimento, 2009, p. 14; D. Galletti, Le nuove esenzioni dalla revocatoria fallimentare, in Giur. comm., 2007, I, p. 163; B. Meoli, Vecchie e nuove esenzioni dalla revocatoria fallimentare, in Giur. comm., 2006, I, p. 207.

[57] M. Lubrano Di Scorpaniello, Le regole di distribuzione dell’attivo tra vecchio e nuovo, in G. Palmieri (a cura di), Temi del nuovo diritto fallimentare, Giappichelli, Torino, 2009, p. 180.

[58] D. Galletti, La ripartizione del rischio insolvenza, Il Mulino, Bologna, 2006, p. 337.

[59] L. Stanghellini, Le crisi d’impresa tra diritto ed economia, Il Mulino, Bologna, 2007, p. 249; F. Di Marzio, Fallimento. Storia di un’idea, Giuffrè, Milano, 2018, p. 203.

[60] G. Rocca e D. Corrado (a cura di), Le amministrazioni straordinarie fra salvaguardia della continuità, tutela dei livelli occupazionali ed efficacia delle azioni di risanamento, in Quaderni SAF Luigi Martino (Milano), n. 74, 2018, p. 110.

[61] N. Rondinone, Il mito della conservazione dell’impresa in crisi e le ragioni della “commercialità”, Giuffrè, Milano, 2012, p. 264; R. Rossi, Insolvenza, crisi d’impresa e risanamento, Giuffrè, Milano, 2003, p. 175.

[62] G. Alessi, I debiti di massa nelle procedure concorsuali, Giuffrè, Milano, 1987, p. 96; A. Vitale, I debiti della massa nel fallimento, individuazione della fattispecie, Giuffrè, Milano, 1975, p. 97; M. Vaselli, I debiti della massa nel fallimento, Cedam, Padova, 1951, p. 37.

[63] S. Pacchi Pesucci, L’amministrazione controllata, in Aa. Vv., Trattato Cicu-Messineo, Giuffrè, Milano, 2004, p. 14; V. Giorgi, Consecuzione di procedure concorsuali e prededucibilità dei crediti, Giuffrè, Milano, 1996, p. 24; T. Mollura, L’amministrazione controllata delle società, Giuffrè, Milano, 1989, p. 54; fra le tante, Cass., 9 novembre 1982, n. 5883, in Dir. fall., 1983, II, 42; Cass., 19 agosto 1983, n. 5402, in Foro it., 1983, I, 2748; Cass., 26 febbraio 1988, n. 2069, in Fallimento, 1988, 552.

[64] Cass., 24 luglio 2007, n. 16387, in Fallimento, 2008, 431; Cass., 12 marzo 1999, n. 2192, in Foro it., 1999, I, 2948; Cass., 5 agosto 1996, n. 7140, in Giur. it., 1997, I, 1, 290; G. Lo Cascio, Il concordato preventivo, Giuffrè, Milano, 2015, p. 361; S. Bonfatti, Giurisprudenza in bilico tra massime tralaticie ed obiter dicta su casi di specie, in S. Pacchi Pesucci (a cura di), L’interprete e l’operatore dinanzi alla crisi dell’impresa, Giuffrè, Milano, 2001, p. 201; A. Dimundo e A. Patti, I rapporti giuridici preesistenti nelle procedure concorsuali minori, Giuffrè, Milano, 1999, p. 143; A. Bonsignori, Processi concorsuali minori, in F. Galgano (diretto da), Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia, vol. XXIII, Cedam, Padova, 1997, p. 263; P.F. Censoni, I ripensamenti della Cassazione sulla prededucibilità dei crediti sorti durante il concordato preventivo, in Giur. it., 1997, I, p. 289; G. Bozza e G. Schiavon, L’accertamento dei crediti nel fallimento e le cause di prelazione, Giuffrè, Milano, 1992, p. 587; F. D’Alessandro, Procedure concorsuali consecutive e prededuzione, in Giust. civ., 1992, II, p. 149.

[65] G. Lo Cascio, La prededuzione nelle procedure concorsuali: vecchi e nuovi profili normativi ed interpretativi, in Fallimento, 2015, p. 6; A. Cavalaglio, I crediti prededucibili nelle procedure concorsuali, in Dir. fall., 2010, I, p. 467.

[66] M. Fabiani, La variabile dei costi nei procedimenti di regolazione della crisi, in Fallimento, 2017, p. 1091.

[67] Cass., 10 febbraio 2003, n. 1946, in Arch. civ., 2003, p. 737; Cass., 15 giugno 1988, n. 4082, in Fallimento, 1988, p. 1080; S. Ciccarello, Privilegio del credito, op. cit., p. 55.

[68] G. Bozza, I criteri per la distribuzione delle prededuzioni tra il ricavato dei beni messi a disposizione dei creditori dal debitore concordatario, in Fallimento, 2015, p. 701; M. Spadaro, La prededucibilità dei crediti professionali sorti in funzione di una procedura minore nel fallimento consecutivo: tra adeguatezza funzionale e utilità per i creditori, in Fallimento, 2014, p. 540; A. Trinchi, sub art. 111, in C. Cavallini (diretto da), Commentario alla legge fallimentare, vol. II, Giuffrè, Milano, 2010, p. 1170; A. Patti, I privilegi, in Aa. Vv., Trattato Cicu-Messineo, Giuffrè, Milano, 2003, p. 10; U. Azzolina, Il fallimento e le altre procedure concorsuali, Utet, Torino, 1961, p. 844; G. Alessi, I debiti di massa, op. cit., p. 28.

[69] Cass., 11 giugno 2019, n. 15724.

[70] P. Spolaore, Garanzia patrimoniale e trust nella crisi d’impresa, Giuffrè, Milano, 2018, p. 87.

[71] A. Patti, I privilegi, op. cit., p. 11.

[72] Contra, G. Ferri jr., In tema di prededuzione prefallimentare, in Corr. giur., 2015, p. 453.

[73] E. Bruschietta, La ripartizione dell’attivo, in A. Didone (a cura di), Le riforme delle procedure concorsuali, Giuffrè, Milano, 2016, p. 1191; S. Bonfatti e P.F. Censoni, Manuale di diritto fallimentare, Cedam, Padova, 2011, p. 430.

[74] D. Galletti, Il concorso nel fallimento, op. cit., p. 1283; E. Marinucci, I crediti prededucibili nel fallimento, Cedam, Padova, 1998, p. 185. In senso contrario, sulla assimilazione ai privilegi, vds. ancora G. Bozza, I criteri per la distribuzione delle prededuzioni tra il ricavato dei beni messi a disposizione dei creditori dal debitore concordatario, in Fallimento, 2015, p. 701.

[75] A questo si riferisce l’art. 6 CCII laddove premia con la prededuzione il risultato dell’ammissione del debitore al concordato preventivo. Sia chiaro, però, che tutto ciò non trasforma l’obbligazione del professionista in una obbligazione di risultato (come taluno sembra adombrare), in quanto l’utilità diviene parametro per l’attribuzione del rango prededucibile, fermo restando il credito e il privilegio di cui all’art. 2751-bis, n. 2), cc.

[76] A. DI Gennaro – M. Ghione – L. Iovino, Segregazione patrimoniale ed impresa in crisi: vincolo ex art. 2645-ter c.c., fondo patrimoniale, trust, società semplice di mero godimento, azioni correlate, patrimoni destinati ad uno specifico affare - Pubblicità immobiliare - Il notaio «burocrate», in Riv. notarile, n. 1/2018, p. 27.

[77] A. Nigro, Società unipersonali e fallimento, in Dir. fall., 2005, I, p. 330; G. Positano, Socio unico di società di capitali e fallimento, in Dir. fall., 2004, I, p. 310; M. Fabiani, Società insolvente e responsabilità di socio unico, in Fallimento, 2000, p. 25.

[78] La letteratura è vastissima (e inversamente proporzionale allo scarso successo dell’istituto); vds., in luogo di molti, P. Manes e F. Pasquariello, Patrimoni destinati ad uno specifico affare, in Commentario Scialoja-Branca-Galgano. Codice civile, Zanichelli-Il Foro Italiano, Bologna-Roma, 2013; F. Fimmanò, Patrimoni destinati e tutela dei creditori nelle società per azioni, Giuffrè, Milano, 2008, p. 267; G. Guizzi, Patrimoni destinati e crisi societarie, in Riv. dir. comm., 2006, I, p. 773; S. Vincre, Patrimoni destinati e fallimento, in Giur. comm., n. 1/2005, I, p. 126.

[79]G. D’Attorre, I concordati di gruppo nel codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, in Fallimento, 2019, p. 277; G. Scognamiglio, I gruppi di imprese nel CCII fra unità e pluralità, in Società, 2019, p. 413.

[80] Sul coinvolgimento delle partecipazioni sociali nel processo di regolazione della crisi da riorganizzazione, vds. G. Ferri jr., Ristrutturazione dei debiti e partecipazioni sociali, in Riv. dir. comm., 2006, I, p. 747.

[81] Trib. Milano, 19 luglio 2011, in Foro it., rep. 2012, voce Concordato preventivo, n. 165; Corte appello Torino, 27 gennaio 2010, ivi, rep. 2011, voce cit., n. 171; per l’analoga situazione nel concordato fallimentare, vds.  Cass., 10 febbraio 2011, n. 3274, ivi, 2011, I, 2095.

[82] In luogo di molti, D. Galletti, Classi obbligatorie? No, grazie!, in Giur. comm., 2010, II, p. 343; P.F. Censoni, Il controllo giudiziale sull’ammissibilità della domanda di concordato preventivo e sulla formazione delle classi, in Fallimento, 2010, p. 328; S. Ambrosini, Autonomia negoziale e controllo giudiziale nel concordato preventivo, in F. Di Marzio e F. Macario (a cura di), Autonomia negoziale e crisi d’impresa, Giuffrè, Milano, 2010, p. 542.

[83] R. Sacchi, Concordato preventivo, conflitti di interessi fra creditori e sindacato dell’Autorità giudiziaria, in Fallimento, n. 1/2009, p. 30; G. D’Attorre, Il conflitto d’interessi fra creditori nei concordati, in Giur.comm., 2010, I, p. 419; M. Fabiani, Brevi riflessioni su omogeneità degli interessi ed obbligatorietà delle classi nei concordati, in Fallimento, 2009, p. 437.

[84] Trib. Biella, 27 aprile 2009, in Foro it., rep. 2010, voce cit., n. 143; Trib. Monza, 7 aprile 2009, ivi, rep. 2009, voce cit., n. 81.

[85] V. Zanichelli, La nuova disciplina del concordato preventivo, Neldiritto, Molfetta, 2019, p. 34.

[86]  Cass., sez. unite, 28 giugno 2018, n. 17186, in Foro it., 2018, I, 4020.

[87] A. Bartalena, Il concordato in continuità, in L. Calvosa (a cura di), Crisi di impresa e insolvenza, Pacini, Pisa, 2017, p. 102.

[88] A: Guiotto, I sistemi di allerta e l’emersione tempestiva della crisi, in Fallimento, 2019, p. 409; M. Perrino, Crisi d’impresa e allerta: indici, strumenti e procedure, in Corr. giur., n. 5/2019, p. 653.

[89] M. Fabiani, Appunti sulla responsabilità patrimoniale “dinamica” e sulla de-concorsualizzazione del concordato preventivo, in S. Ambrosini (diretto da), Fallimento, soluzioni negoziate della crisi e disciplina bancaria, Zanichelli, Bologna, 2017, pp. 45 ss.