Magistratura democratica

Gli assegni della crisi familiare nella giurisprudenza più recente, tra revirement e perduranti incertezze

di Geremia Casaburi
L’assetto attuale dei rapporti patrimoniali tra i coniugi nella fase di conflitto, con particolare riferimento all’assegno di mantenimento nella separazione e a quello divorzile, è qui delineato tenendo conto della evoluzione – o rivoluzione – giurisprudenziale degli ultimi anni, che ha messo in discussione le fondamenta stesse degli istituti. Sono, infine, esaminate le criticità e le linee di tendenza emerse nella giurisprudenza di merito più recente.

1. Premessa

Habent sua sidera lites, così recita uno (pseudo) brocardo già stigmatizzato, nientemeno, che da Calamandrei, al quale è, però, attribuito un gustoso aneddoto relativo a un pretore toscano di inizio Novecento che, anticipando in qualche modo certi suoi colleghi letterari tratteggiati da Piero Chiara, era solito decidere gettando il tocco contro il muro: se cadeva da una certa parte, aveva ragione l’uno; se cadeva dall’altra, vinceva l’avversario.

Da qui l’uso degli avvocati, edotti di quel costume, di accalcarsi nel cortile retrostante la camera di consiglio, con l’orecchio appoggiato al muro, in modo da capire in anticipo chi avesse vinto.

Le recenti vicende giurisprudenziali dell’assegno divorzile – e, in prospettiva, dei rapporti patrimoniali tra coniugi, ex coniugi, parti delle unioni civili, conviventi di fatto – mi induce a temere che, in fondo, il “metodo” di quel pretore d’antan offrisse maggiori garanzie di obiettività e di equo trattamento delle parti.

Andiamo per ordine, e in estrema sintesi, considerando che si tratta di questioni notissime (non solo agli addetti ai lavori).

Le disposizioni di riferimento sono immutate da decenni, può dirsi da generazioni: in primo luogo, quanto all’assegno periodico in favore del coniuge (ovvero dell’ex coniuge) in posizione di debolezza economica, l’art. 156 cc per la separazione (testo introdotto dalla storica riforma del 1975), l’art. 5, comma 6, legge n. 898/1970 per il divorzio (di poco più giovane, in quanto novellato dalla l. n. 74/1987).

I due istituti, l’assegno di mantenimento e quello divorzile, si reggono su principi e su criteri di determinazione profondamente diversi.

Profonde differenze concernevano anche gli istituti, per così dire, accessori, di tutela e di garanzia per il coniuge economicamente più debole (tanto per usare un’espressione sufficientemente generica e onnicomprensiva).

Così, ad esempio, quanto all’ordine di pagamento diretto dell’assegno da parte del terzo debitore del coniuge obbligato (in sostanza, da parte del datore di lavoro), per la separazione è previsto un (sub)procedimento integralmente giudiziario (art. 156, comma 6, cc), mentre per il divorzio il procedimento è del tutto stragiudiziale (art. 8 l. n. 898/1970).

Nel complesso, poi, la disciplina del divorzio ricomprende un vero e proprio arsenale di disposizioni di rilevanza patrimoniale (così smentendo ogni interpretazione restrittiva del diritto all’assegno divorzile).

Infatti, al coniuge che ha conseguito l’assegno divorzile (e non anche quello che ha conseguito l’assegno di mantenimento nella separazione) compete: una percentuale dell’indennità di fine rapporto percepita dall’altro (art. 12-bis l. div); la pensione di reversibilità (almeno una quota), in caso di premorte dell’altro (art. 9, commi 2 e 3, l.div.); qualora versi in stato di bisogno, un assegno periodico a carico dell’eredità (art. 9-bis l.div.); l’art. 5, comma 11 della stessa legge riconosce, inoltre, all’ex coniuge – che non ne gode altrimenti – l’assistenza sanitaria spettante all’altro, anche se non beneficia di un assegno (disposizione, questa, ormai del tutto residuale, ma non abrogata).

Inoltre l’assegno divorzile, su accordo delle parti, pur se sottoposto a un (vago) controllo di equità del giudice, può essere “tombalmente” corrisposto una tantum, in unica soluzione.

2. Il “peccato originale” e la progressiva omogeneizzazione di separazione e divorzio

Perché queste differenze?

Il “peccato” d’origine, ovviamente, sta nello stesso perdurare della distinzione, quanto alla definizione giudiziaria della crisi della famiglia matrimoniale, tra separazione e divorzio; più esattamente, quel che ormai è ingiustificabile è che, per conseguire il divorzio (mai qualificato con tale termine nella l. n. 898/1970, che “conosce” solo lo «scioglimento» e la «cessazione degli effetti civili del matrimonio») è necessario, nella immensa maggioranza dei casi, un previo periodo di separazione legale, giudiziale o consensuale che sia (art. 3, comma 1, n. 2 b, l. n. 898/1970), essendo statisticamente pressoché irrilevanti i casi di divorzio immediato, pur previsti dalla legge.

Il “dualismo” tra separazione e divorzio si rifletteva (e si riflette), appunto, nelle differenze che riguardano il regime dei profili patrimoniali sopra richiamate.

Fatto sta, però, che negli ultimi anni il rigore di quella distinzione di principio tra separazione e divorzio si è diluito, e di molto: è sempre più evidente, nella realtà giurisprudenziale (e, direi, in quella socio-culturale) che si tratta di istituti tendenzialmente omogenei, che fronteggiano la crisi matrimoniale.

È significativo che la l. n. 76/2016, all’art. 1, commi 22-25, abbia tout court soppresso il riferimento, nella disciplina delle unioni civili, alla separazione, sicché vi è solo lo scioglimento.

Separazione e divorzio, certo e ovviamente, si distinguono in quanto nella prima, a differenza che nella seconda, il vincolo, lo status coniugale, sopravvive. Si tratta, però, di elemento soprattutto formale, da non sopravvalutare.

La separazione, in particolare, rappresenta il momento di “effettiva esautorazione” della vita matrimoniale, con la sospensione, nella realtà definitiva, di pressoché tutti i diritti e i doveri di natura personale nascenti dal matrimonio (e infatti, da oltre un trentennio, la giurisprudenza esclude il mutamento del titolo della separazione, da consensuale a giudiziale); proprio il venir meno di tali obblighi, già nella coscienza sociale, segna la fine del rapporto matrimoniale.

Anche sotto il profilo patrimoniale, la comunione legale tra i coniugi si scioglie ormai già in forza dell’ordinanza presidenziale nel giudizio di separazione, ex art. 191 cc, nel testo introdotto dalla l. n. 55/2015).

La separazione, in altri termini, non è più una semplice fase di sospensione della vita matrimoniale (e funzionale a una ripresa di questa), ma l’anticamera del divorzio.

Gli effetti giuridici che ne conseguono sono infatti di tale «rilievo da consentire una  sostanziale assimilazione  alla situazione che caratterizza gli ex coniugi»: così Cass., 4 aprile 2014, n. 7981 (in termini 20 agosto 2014), secondo cui – così innovando una giurisprudenza in senso opposto pluridecennale – la sospensione della prescrizione tra i coniugi, prevista in via generale dall’art. 2941, n. 1, cc, non si applica ai coniugi legalmente separati.

D’altro canto già Corte cost., 21 gennaio 2000, n. 17 aveva sostanzialmente equiparato (ai fini del riconoscimento del privilegio di cui agli artt. 2751 n. 4, e 2778, n. 17, cc) i crediti da assegno di separazione e di divorzio.

Soprattutto — ed è una “rivoluzione” culturale prima ancora che giuridica —, separazione e divorzio costituiscono l’oggetto di un vero e proprio diritto potestativo di ciascun coniuge (per quanto responsabile della crisi del rapporto), alla stregua di una concezione finalmente non più pubblicistica del matrimonio – cfr. Cass., 21 gennaio 2014, n. 1164.

 Da qui, coerentemente, la possibilità (in caso di accordo) di conseguire l’una e l’altro senza l’intervento del giudice, con la negoziazione assistita o, addirittura, con una procedura amministrativa innanzi all’ufficiale di stato civile: cfr. dl n. 132/14, convertito in l. n. 162/14, artt. 6 e 12, nel cui ambito vi è spazio anche per la determinazione di assegni post-coniugali (cfr., con riferimento al rito “municipale”, Cons. Stato, 26 ottobre 2016, n. 4478).

Vi è di più.

La separazione e il divorzio (fermo l’anacronismo, già segnalato, del primo istituto quale ordinario presupposto del secondo) possono essere cronologicamente molto vicini: depone in tal senso non solo il drastico abbreviamento del periodo di separazione legale per la proposizione della domanda di divorzio (di cui alla citata l. n. 55/2015, non a caso abitualmente indicata come legge del “divorzio breve”), ma anche la stessa giuridica possibilità (ampiamente utilizzata nella prassi) di conseguire decisioni anticipate sullo status, con la sentenza non definitiva di separazione giudiziale (art. 709-bis cc) e di divorzio (art. 4, comma 12, l. n. 898/1970).

Da qui, anche la possibilità di riunione dei giudizi relativi alle domande accessorie (almeno se lo consente il diverso stato di definizione), in diritto (ad esempio, quanto ai figli) o, almeno, in fatto ampiamente coincidenti (ad esempio, quanto alla ricostruzione della posizione economica dei coniugi, ai fini della decisione sulla domanda di assegno, di mantenimento o divorzile).

3. L’assegno di separazione e quello di divorzio prima del revirement del 2017

Si diceva, certo, della differenza dei presupposti per il riconoscimento dell’assegno di mantenimento e di quello divorzile.

D’altronde, la pronuncia di divorzio opera ex nunc, dal momento del passaggio in giudicato della pronuncia sullo status.

Ne segue, da un lato, che fino a tale pronuncia l’assegno resta di mantenimento; una volta che tale pronuncia sia intervenuta, non si configura la cessazione della materia del contendere nel giudizio di separazione personale che sia iniziato anteriormente e sia tuttora in corso, «ove esista l’interesse di una delle parti all’operatività della pronuncia e dei conseguenti provvedimenti patrimoniali»: cfr. Cass., 26 agosto 2013, n. 19555.

Specularmente, la domanda di modifica delle condizioni di divorzio, ex art. 9 della legge citata, è proponibile soltanto dopo il passaggio in giudicato della decisione che ha pronunciato il divorzio – cfr. Cass., 15 ottobre 2014, n. 21874, (id., rep. 2014, voce cit., n. 106) –; in precedenza è configurabile solo la domanda di modifica ex art. 710 cpc (relativa, per quanto qui interessa, all’assegno di mantenimento).

Nella realtà giurisprudenziale, però, la differenza tra i due assegni era molto diluita. Il «diritto vivente», infatti, aveva riscontrato la loro obiettiva vicinanza, al punto da configurare sovente una sorta di interscambiabilità: d’altronde, per non pochi profili, l’elaborazione giurisprudenziale era comune, senza significative differenziazioni (si pensi solo agli accertamenti in fatto).

In primo luogo, infatti, la giurisprudenza affermava costantemente che – ai fini della determinazione dell’assegno divorzile – l’assetto economico relativo alla separazione può rappresentare un valido indice di riferimento «nella misura in cui appaia idoneo a fornire utili elementi di valutazione relativi al tenore di vita goduto durante il matrimonio e alle condizioni economiche dei coniugi» (cfr., ex plurimis, Cass., 15 maggio 2013, n. 11686; cfr. anche Cass., 30 novembre 2007, n. 25010, che ha confermato la statuizione del giudice di merito che aveva riconosciuto alla moglie un assegno divorzile in misura sensibilmente maggiore rispetto all’assegno di mantenimento, stabilito in sede di separazione.

Il profilo di vicinanza di maggior peso concerneva, però, la rilevanza del tenore di vita.

Infatti, l’assegno di mantenimento in sede di separazione, ai sensi del citato art. 156 cc, competeva e tuttora compete (la giurisprudenza è stabile da circa un quarantennio) al coniuge, che «non è in grado, con i propri redditi, di mantenere un tenore di vita analogo a quello offerto dalle potenzialità economiche di entrambi, da individuarsi con riferimento allo standard di vita familiare reso oggettivamente possibile dal complesso delle loro risorse economiche, in termini di redditività, capacità di spesa, garanzie di elevato benessere e di  fondate aspettative per il futuro». Così ancora Cass., 16 maggio 2017, n. 12196 – successiva quindi a Cass., n. 11504/2017 (di cui si dirà), che infatti è espressamente richiamata –, che ha confermato la sentenza di merito la quale aveva riconosciuto, in favore della moglie, che pure gode di una ottima posizione economica complessiva, un assegno di mantenimento pari a euro due milioni mensili, «tenuto conto della ben superiore posizione del marito, definito uno degli uomini più ricchi al mondo, il quale oltretutto aveva ammesso di averle assicurato un tenore di vita “assolutamente al di fuori di ogni norma” e di disporre di un patrimonio “ultracapiente”, senza che tale determinazione comportasse la realizzazione di uno scopo eccessivamente consumistico, o comunque fosse destinata alla capitalizzazione o al risparmio, tenuto anche conto della durata del matrimonio e al contributo da lei apportato alla vita familiare».

Il tenore di vita, pertanto, era ed è il parametro di determinazione dell’assegno in oggetto. D’altronde, l’art. 156 cc enuncia che questo compete al coniuge che «non abbia adeguati redditi propri», espressione non dissimile da quella utilizzata, per l’assegno divorzile, dall’art. 5, comma 6, l.div.

Quanto a quest’ultimo, la giurisprudenza, almeno a partire dagli storici arresti delle sezioni unite del 1990 (si tratta di quattro sentenze “gemelle”: Cass., 29 novembre 1990, nn. 11489-11492), le quali avevano affermato che il presupposto per concedere l’assegno — con funzione solo assistenziale — è costituito «dall’inadeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente (tenendo conto non solo dei suoi redditi, ma anche dei cespiti patrimoniali e delle altre utilità di cui può disporre) a conservare un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio, senza che sia necessario uno stato di bisogno dell’avente diritto, il quale può essere anche economicamente autosufficiente, rilevando l’apprezzabile deterioramento, in dipendenza del divorzio, delle condizioni economiche del medesimo che, in via di massima, devono essere ripristinate, in modo da ristabilire un certo equilibrio».

Da qui, appunto, la profonda omogeneità (o almeno fortissima vicinanza) con l’assegno di mantenimento nella separazione, fermo che – la giurisprudenza l’aveva chiarito nei decenni successivi – nell’assegno di mantenimento la conservazione del tenore di vita rappresenta il parametro inderogabile di riferimento, mentre per l’assegno divorzile rappresenta il tetto massimo (astrattamente determinabile in sede di statuizione sull’an debeatur), in quanto, in concreto, il relativo importo poteva essere “moderato”, fino all’azzeramento, alla stregua dei criteri di cui alla prima parte dell’art. 5, comma 6, l.div.

4. L’effimera svolta del 2017

Tale assetto, forse non del tutto lineare giuridicamente, ma ormai stabilizzato (con ovvi vantaggi in termini di certezza del diritto e prevedibilità delle decisioni), e ritenuto costituzionalmente legittimo da Corte cost., 11 febbraio 2015, n. 11, è profondamente e ormai irreversibilmente mutato.

Tanto, una prima volta, in forza di Cass., 10 maggio 2017, n. 11504 (seguita da non poche pronunce in termini della stessa Suprema corte), che – abbandonando del tutto il riferimento al tenore di vita – afferma, in estrema sintesi, che: a) il  giudizio sulla domanda di assegno divorzile si articola in due fasi distinte e successive, sull’an e sul quantum debeatur (come affermato anche dalla giurisprudenza precedente), informate rispettivamente ai principî dell’autoresponsabilità e della solidarietà economica, con riferimento agli ex coniugi nella loro dimensione individuale; b) nella prima fase, il giudice accerta la sussistenza delle condizioni di legge per il riconoscimento del diritto, ossia la mancanza, da parte del richiedente, di mezzi adeguati e l’impossibilità di procurarseli per ragioni obiettive, con esclusivo riferimento all’autosufficienza economica del medesimo, che è onerato della prova relativa; c) nella seconda fase, cui accede solo in caso di esito positivo della prima, il giudice procede alla quantificazione in concreto dell’assegno, alla stregua degli ulteriori elementi indicati dall’art. 5 l.div.

In altri termini, mentre le sentenze del 1990 fondavano il diritto all’assegno divorzile sulla esigenza di conservare, al coniuge economicamente più debole, e sia pure solo tendenzialmente, il tenore di vita goduto o godibile nel corso della vita matrimoniale, la pronuncia del 2017 lega tale diritto — visto alla stregua di una previdenza sostanzialmente eccezionale, e infatti addirittura fondato sull’art. 23 Cost. — alla mancanza di autosufficienza economica da parte del richiedente.

Da qui una artificiosa contrapposizione tra i due assegni, con conseguenze obiettivamente paradossali, trattandosi delle stesse parti e dello stesso rapporto matrimoniale: al medesimo coniuge, economicamente debole, può essere riconosciuto un assegno di mantenimento anche elevatissimo, e – subito dopo (si è detto della acquisita vicinanza cronologica tra separazione e divorzio) – può essere tout court negato l’assegno divorzile.

Così, ad esempio, la (pur abbiente) Sig.ra M.B. (la moglie, nel giudizio deciso da Cass., n. 12196/17, cit.) del tutto legittimamente gode di un assegno di mantenimento, ex art. 156 cc, di due milioni di euro mensili, a carico dell’immensamente ricco Sig. S.B.; ella però — almeno, alla stregua di Cass., n. 11504/17 — non potrà conseguire neppure un euro a titolo di assegno divorzile (e, infatti, Corte appello Milano, sez. V, 16 novembre 2017, in Foro it. 2017, I, 3732, ha negato a quella stessa moglie l’assegno divorzile, alla stregua del nuovo indirizzo); sicché davvero è stato un curioso quanto evitabile scherzo del destino che le due sentenze, pur decise a molti mesi di distanza l’una dall’altra, siano state poi pubblicate nel giro di pochissimi giorni. Ciò perché quel medesimo tenore di vita matrimoniale, rilevantissimo nell’ambito della separazione, perde ogni peso nel divorzio.

In altri termini, in uno stretto arco temporale, si può ormai passare da un regime a un altro sostanzialmente opposto, senza alcuna gradualità (è esattamente la vicenda delle parti di cui a Cass., n. 12196/17, cit.; a fronte di un assegno di separazione elevatissimo.

Alla stregua di quanto si è fin qui esposto, di contro, è evidente che una tale divergenza di regimi – per un rapporto che non può che svilupparsi prima nella separazione, poi nel divorzio – è giuridicamente inaccettabile.

Oltretutto, l’“allontanamento” tra assegno di mantenimento e assegno divorzile è sostanzialmente confermato anche dall’intervento delle sezioni unite della Cassazione, di cui si dirà, che pure ha superato, meritoriamente, i principi affermati da Cass. n. 11504/17.

5. Verso l’intervento delle sezioni unite

La Cassazione (la prima sezione civile, nonché quella “filtro”, la sesta), come accennato, ha mostrato di adeguarsi all’arresto del 2017. Così Cass., 22 giugno 2017, n. 15481, ha affermato l’applicabilità del nuovo indirizzo anche ai rapporti già definiti, per il tramite del procedimento di modifica, ex art. 9 l. n. 898/1970. Non sono mancati, però, tentativi di correzione: Cass., 26 gennaio 2018, n. 2042, ha poi cercato di relativizzare il concetto (astratto e non previsto dalla l. n. 898/1970) di autosufficienza economica.

La stessa rimessione alle sezioni unite è stata fortemente e reiteratamente ostacolata dalle sezioni semplici surrichiamate, nonostante fosse palese il contrasto rispetto alle pronunce del 1990.

Così Cass., n. 2042/18, cit. (udienza del 10 ottobre 2017), l’ha ancora rifiutata, alla stregua di discutibili motivazioni di diritto intertemporale non considerate dalla prima pronuncia (Cass., n. 11504/17, cit.), pur se, al momento della pubblicazione, quella rimessione era ormai già stata disposta (nell’ottobre 2017) dal presidente aggiunto della Suprema corte, in quanto questione di massima di particolare importanza, ex art. 374, comma 2, cpc.

 Così i criteri enunciati da Cass., n. 11504/17, sono stati confermati ancora da Cass., 4 giugno 2018, n. 14231 (udienza del 19 aprile, mentre quella delle sezioni unite si era già tenuta il 10 aprile).

Ancora più drasticamente, Cass., 16 marzo 2018, n. 6663 (udienza del 18 gennaio, allorché la rimessione alle sezioni unite era stata già disposta) non solo ha ribadito i criteri di cui a Cass., n. 11504/17, cit. (l’estensore, peraltro, è il medesimo), diffusamente enunciandoli, ma neppure ha esitato a decidere nel merito, dichiarando non dovuto l’assegno divorzile all’ex moglie richiedente, che l’aveva conseguito dal giudice di merito.

Non è questa la sede per ripercorrere i tanti, macroscopici profili critici dell’arresto del 2017; mi permetto di rinviare ai miei scritti (anche per ulteriori riferimenti dottrinali e giurisprudenziali) pubblicati sulle colonne de Il Foro italiano.

D’altronde, una tale sede può ormai essere solo una pubblicazione di storia del diritto, in quanto quell’arresto (nelle narcisistiche ambizioni di chi lo ha imprudentemente propugnato, destinato a durare per decenni) è stato spazzato via, dopo poco più di un anno, dalle sezioni unite finalmente intervenute (e che, pure, avrebbero dovuto pronunciarsi fin da subito per il chiaro disposto dell’art. 374, comma 3 cpc, platealmente violato da Cass., n. 11504/17, cit. e pronunce conformi).

Mi limito a segnalare che la giurisprudenza di merito, dopo una iniziale adesione (e non sono mancati uffici giudiziari più realisti del re, obnubilati dall’entusiasmo di assicurare una immediata e radicale applicazione dei principi affermati da Cass., n. 11504/17), si è mostrata sempre più restia a darvi seguito, a fronte delle insuperabili contraddizioni giuridiche, e soprattutto delle vere e proprie ingiustizie cui dava luogo.

Cfr., in particolare, Corte appello Napoli, in Foro it., 2018, I, 1386, che ha ampiamente sviluppato i  temi fatti poi propri dalle sezioni unite. Se ne riporta la massima:

«Posto che i principî di eguaglianza e di solidarietà tra i coniugi operano senza limitazioni anche nel divorzio e che, di conseguenza, l’assegno divorzile può assolvere, oltre la funzione assistenziale, anche quella perequativa e compensativa: a) le fasi di determinazione del diritto all’assegno (an debeatur) e di determinazione dello stesso (quantum debeatur) non sono rigidamente distinte, ma complementari, in quanto fondate sugli stessi canoni normativi, ivi compresi i criteri elencati nella prima parte dell’art. 5, 6° comma, l.div.; b) le nozioni di “autosufficienza” e di disponibilità di “mezzi adeguati” non sono astratte e parametrate a standard obiettivi, ma variabili, in relazione alla concreta vicenda matrimoniale, in una valutazione comparativa degli interessi in gioco, e tengono altresì conto della posizione sociale dei coniugi non solo come singoli, ma anche con riferimento alla pregressa vita comune; c) per i matrimoni di breve durata, con coniugi giovani e idonei al lavoro, prevale il principio di autoresponsabilità, sicché il canone dell’autosufficienza, ai fini del riconoscimento dell’assegno, va valutato con rigore; d) di contro, per i matrimoni di lunga durata, caratterizzati da una distribuzione asimmetrica degli impegni familiari, prevale il principio di solidarietà postconiugale, sicché l’assegno divorzile, sussistendo tutti i presupposti di legge, va riconosciuto e quantificato con riferimento, pur tendenziale, al pregresso tenore di vita coniugale».

6. Cass., sez. unite, 11 luglio 2018, n. 18287. I principi enunciati

L’intervento delle sezioni unite, Cass. n. 18287/18, generalmente ben accolto dalla dottrina, e – come si dirà – dalla giurisprudenza, in primo luogo di merito, ha scelto una terza via, tra quella indicata dalle sezioni unite del 1990 e l’“eresia” del 2017.

A ben vedere, però, le sezioni unite si concentrano proprio su Cass., n. 11504/17, cui muovono critiche  radicali e distruttive.

Viene da dire, con il grande Sergio Endrivo, che «la festa appena cominciata è già finita»; versi che potrebbero essere fatti propri da non pochi mariti (almeno nella gran parte dei casi) che, dopo Cass. n. 11504/17, cit., potevano sperare di essere gravati da un assegno divorzile “light”, come sintetizzato dalla stampa, o anche di esserne tout court esonerati.

 Quello che voleva essere un arresto rivoluzionario, frutto di una “eroica impresa”, nelle intenzioni destinato (come le pronunce del 1990) a durare per decenni, si è però rivelato una effimera insorgenza, dalla vita contrastata, non senza profili sottilmente misogini; né, poi, la fine è stata onorevole.

 L’eredità che inevitabilmente l’orientamento ora superato ha lasciato, poi, è molto pesante: la frammentazione (ai limiti del caos) della giurisprudenza di merito, un gran numero di provvedimenti che, troppo fiduciosamente, si erano adeguati al nuovo corso da riformare (quando ancora possibile; e, ovviamente, non è il caso proprio delle statuizioni della Cassazione conformi all’arresto del maggio 2017), pagine e pagine di dottrina utili ormai solo per il macero (ma è il danno minore).

Torniamo alle sezioni unite.

Queste muovono proprio dal riferimento, centrale nelle pronunce del 2017/2018, all’art. 23 Cost. quale fondamento del diritto all’assegno (visto pertanto come misura pressoché eccezionale, addirittura paragonata al prelievo fiscale).

Si tratta, tuttavia, di un riferimento del tutto estraneo al contesto giuridico costituzionale cui deve riferirsi la solidarietà postconiugale, fondata piuttosto sugli artt. 2 e 29 Cost. (la prima disposizione è anche a fondamento delle unioni omoaffettive, come ricordato dalla Cassazione; peraltro, l’art. 5, comma 6, l.div. trova applicazione anche in caso di scioglimento delle unioni civili, ex art. 1, comma 25, l. n. 76/2016, disposizione invece non richiamata dalla sentenza in rassegna).

La prospettiva di Cass., n. 11504/17, è pertanto rovesciata. Quest’ultima oltretutto, osservano ancora le sezioni unite, Cass. n. 11504/17, sottovaluta (e, viene da aggiungere, mortifica) quei principî di autodeterminazione individuale e autoresponsabilità che, pure, ampiamente invoca, in quanto non ne coglie i fattori interrelazionali; da qui anche lo scarsissimo ruolo attribuito ai criteri determinativi indicati nella prima parte del sesto comma dell’art. 5 l.div.

In particolare, la pronuncia del 2017 non ha considerato, secondo le sezioni unite, che l’autodeterminazione (specie quella del coniuge richiedente) deve essere anche effettiva, e non sconnessa dall’altro fondamentale profilo della tutela della dignità personale (vi è un espresso riferimento all’art. 3, cpv., Cost.).

Da qui anche un riferimento rapido, ma illuminante, al perdurante squilibrio di genere che, nel nostro Paese, contrassegna l’accesso al lavoro e anche, in altro punto della sentenza, all’obiettivo deterioramento delle condizioni di vita che segue, di norma, al divorzio, quanto al coniuge meno dotato di capacità reddituali, economiche e patrimoniali.

Le sezioni unite, come accennato, hanno scelto una “terza via”, offrendo una propria lettura dell’art. 5, comma 6, l.div.

L’obiettivo dichiarato è quello di individuare un criterio elastico e “integrato”, concreto e capace di adeguarsi alla molteplicità dei modelli familiari che si presentano all’operatore.

Punto di partenza è la centralità, nella vita matrimoniale, ma anche in quella successiva allo scioglimento del vincolo (al di fuori di ogni suggestione criptoindissolubilista, tiene a precisare la sentenza in rassegna), del canone espresso dall’art. 29 Cost., che esprime un modello costituzionale di matrimonio fondato sull’uguaglianza, la solidarietà, la pari dignità dei coniugi, la libertà di scelta, la stessa reversibilità della scelta matrimoniale; nell’ambito della famiglia unita, ne costituisce una ricaduta l’art. 143 cc.

È a tale canone costituzionale che vanno rapportati i principî di autoresponsabilità e di autodeterminazione. Vi è, qui, un espresso (e fondamentale) riferimento alle scelte liberamente compiute dai coniugi all’inizio e nel corso della vita familiare, quanto alla definizione dei ruoli e ai compiti assunti da ciascuno di essi all’interno della famiglia, e che determinano il modello di vita familiare da essi stessi prescelto; beninteso, l’impegno all’interno della famiglia può condurre all’esclusione o alla limitazione della costruzione di un proprio percorso professionale o reddituale.

Tanto ha riflesso anche nella fase successiva della crisi, proprio in quanto i ruoli in questione, e le eventuali ricadute negative per uno dei coniugi, costituiscono un fattore decisivo nella definizione dei profili economico-patrimoniali anche postmatrimoniali. Il divorzio, infatti, cancella il vincolo e incide sullo status, ma non distrugge il passato, né tanto meno tutte le conseguenze delle scelte di vita e delle modalità di realizzazione della vita familiare.

Il giudice di merito deve, evidentemente, muovere dall’accertamento (rigoroso sotto il profilo probatorio; e qui vi è, forse, ancora un riflesso di Cass., n. 11504/17) della mancanza di mezzi adeguati da parte del coniuge richiedente, e dall’impossibilità di procurarseli per ragioni obiettive (presupposto, questo, non oggetto di esame da parte delle sezioni unite), secondo quanto indicato dall’art. 5, comma 6, l.div.

La nozione di inadeguatezza, certo, ha carattere relativo (che sembra inteso nel senso, più corretto, di “indeterminato”); da qui, l’esigenza di un giudizio comparativo di concretizzazione, ovvero “di determinazione” (come meglio avrebbero potuto dire le sezioni unite).

 Sia le sezioni unite del 1990 che il revirement del 2017, al riguardo, hanno fatto ricorso a parametri estranei al testo normativo (il tenore di vita, nel primo caso; l’autosufficienza del richiedente, nell’altro), annota criticamente la sentenza in rassegna.

 Questa – e qui ne è lo snodo forse decisivo – intende invece fondare il giudizio di inadeguatezza su parametri interni al medesimo art. 5, comma 6, l.div., in particolare su quelli, definiti anche “indici”, di cui alla prima parte del medesimo comma.

In altri termini, l’accertamento della inadeguatezza dei mezzi (e l’incapacità di procurarseli per ragioni obiettive) va ancorato alle caratteristiche concrete di conduzione della relazione familiare e alla ripartizione dei ruoli endofamiliari, fattori appunto valorizzati dall’art. 5, comma 6, prima parte, l.div. (che detta criteri, precisa la Cassazione, di pari grado, il che varrebbe anche a limitare la discrezionalità del giudice di merito).

Il giudice è quindi anche chiamato, più precisamente, alla valutazione dell’effettivo contributo offerto dal coniuge risultato economicamente più debole alla formazione del patrimonio comune (e di quello di ciascuno dei due), anche in relazione alle potenzialità future (riferimento, quest’ultimo, non chiarissimo).

Tale contributo, lo si ribadisce, è infatti il frutto di decisioni comuni, adottate in sede di costruzione della comunità familiare, nell’osservanza dei doveri di cui all’art. 143 cc (e, quindi, degli artt. 2 e 29 Cost.), sicché le ricadute positive non possono andare unicamente a vantaggio di un solo coniuge.

Da qui, allora, l’espressa e reiterata affermazione che — alla stregua del principio di solidarietà — l’assegno divorzile svolge, sì, una funzione assistenziale, ma anche, e in misura prevalente, equilibratrice e perequativo-compensativa (appunto espressa dai più volte richiamati criteri di cui all’art. 5, comma 6, prima parte, l.div.).

La nozione di inadeguatezza, osservano ancora le sezioni unite, ha in sé una funzione non solo assistenziale-alimentare, ma anche equilibratrice (in altro punto della motivazione, meno felicemente, la sentenza osserva che la funzione assistenziale si compone di un contenuto perequativo-compensativo che, però, in una prospettiva più ampia, è quello prevalente, cfr. infra).

Il giudice di merito deve quindi procedere a una comparazione delle condizioni economico-patrimoniali delle parti (infatti tenute anche alla produzione della propria documentazione fiscale), avvalendosi, se del caso, dei poteri ufficiosi di cui dispone.

Da una tale comparazione può discendere l’accertamento di una sperequazione della posizione economico-reddituale dei coniugi. In tal caso, almeno allorquando solo una parte non ha redditi propri, può venire in rilievo in via prevalente il profilo assistenziale dell’assegno, osservano le sezioni unite in un passo invero non chiarissimo (e poco coerente con la motivazione nel suo complesso) della sentenza.

Le fattispecie concrete sono però, di norma – osserva ancora quest’ultima –, più complesse.

Il giudice è allora chiamato a un accertamento ulteriore, dovendo valutare se una tale disparità economica, sussistente al momento del divorzio, discenda o meno dalle scelte condivise dai coniugi, in costanza di vita matrimoniale, circa la conduzione di quest’ultima e la divisione dei ruoli, con sacrificio delle aspettative professionali e reddituali della parte risultata, con il divorzio, economicamente più debole.

Rilievo cruciale hanno poi, sempre con riferimento a tale accertamento, la durata del matrimonio, ma anche l’età del coniuge richiedente.

Specie sotto tale ultimo profilo, il giudizio di inadeguatezza ha anche un contenuto prognostico quanto alla possibilità, per il richiedente, di recuperare quel pregiudizio attraverso una collocazione, o ricollocazione, nel mondo del lavoro.

7. La funzione perequativa–compensativa dell’assegno

In altri termini ancora — la sentenza delle sezioni unite è particolarmente insistente —, la disparità economica tra i coniugi costituisce elemento necessario, ma non sufficiente, per il riconoscimento dell’assegno divorzile. È infatti dirimente il fattore causale, dovendo accertarsi (come detto, con rigore) se quella condizione di squilibrio economico sia da ricondurre, trovandovi radice, alle determinazioni comuni e ai ruoli endofamiliari svolti (sempre in relazione alla durata del matrimonio e all’età del richiedente), che hanno comportato il sacrificio di aspettative professionali e reddituali da parte del coniuge che abbia assunto un ruolo prevalente o esclusivo all’interno della famiglia, pur avendo comunque contribuito in tal modo alla formazione del patrimonio comune e a quello di ciascuno dei due.

Il nesso causale tra la deteriore condizione economica del richiedente e il suo ruolo nella famiglia va, appunto, accertato con riferimento agli indicatori delle caratteristiche del matrimonio espresse dalla prima parte della disposizione in oggetto.

L’inadeguatezza dei mezzi, e l’impossibilità di procurarseli per ragioni obiettive, in altri termini, va desunta con rigore dalla valutazione – del tutto pari ordinata – degli indicatori più volte richiamati, espressione del principio di solidarietà anche postconiugale.

L’inadeguatezza, quindi, assume un contenuto prevalentemente perequativo e compensativo, senza essere limitato a quello assistenziale o al mero raffronto delle condizioni economiche delle parti. Come ulteriormente ribadito, essa va valutata non solo in relazione alla mancanza o insufficienza obiettiva dei mezzi, ma anche (e soprattutto) in relazione a quel che si è contribuito a realizzare in funzione della vita coniugale e che, sciolto il vincolo, produrrebbe effetti vantaggiosi solo per una parte.

Il profilo assistenziale, a sua volta, va contestualizzato con riferimento alla situazione effettiva in cui si inserisce la vita “postmatrimoniale” dei due ex coniugi, in chiave appunto perequativa e compensativa.

Nel complesso, il giudizio di adeguatezza/inadeguatezza va pertanto calato nel contesto sociale del richiedente, ed è dato sia dalle condizioni strettamente individuali del richiedente, sia dalle conseguenze delle scelte, specie se di “lunga durata”, adottate nel corso della vita familiare.

Il riconoscimento dell’assegno muove, sì, dalla comparazione delle condizioni economiche delle parti, ma — e qui il riferimento è più direttamente alla quantificazione (l’unico nella sentenza) — dovrà condurre a un importo non rapportato a un’astratta nozione di autosufficienza (vi è qui un ulteriore critica alla pronuncia del 2017), ma tale da garantire all’avente diritto un livello reddituale adeguato al contributo da esso fornito nella realizzazione della vita familiare, appunto tenendo conto delle aspettative professionali ed economiche sacrificate (sempre in considerazione anche della durata del matrimonio e dell’età del richiedente medesimo).

 La funzione equilibratrice dell’assegno, sottolinea la sentenza, prendendo qui le distanze dalle sezioni unite del 1990, non è finalizzata alla ricostruzione del tenore di vita endoconiugale, ma solo al riconoscimento del ruolo e del contributo fornito dall’ex coniuge più debole nella realizzazione dell’attuale situazione economica della famiglia.

 Quanto sopra comporta l’abbandono di quello che rappresentava il principale elemento comune dell’indirizzo espresso dalle sezioni unite del 1990 e da quello più recente: la rigida contrapposizione tra la fase dell’an debeatur dell’assegno divorzile (fondato sulla valutazione della mancanza di mezzi adeguati da parte del coniuge richiedente l’assegno) e quella del quantum debeatur (da condurre alla stregua dei criteri indicati nella prima parte del sesto comma dell’art. 5, più volte citato.).

Di contro, alla stregua della pronuncia delle sezioi unite, il criterio attributivo e quello determinativo non sono più separati, ma si coniugano in quello ora delineato e definito, come accennato, “assistenziale-compensativo”.

8. Pregi e criticità dell’intervento delle sezioni unite

Le sezioni unite, ponendo gli artt. 2 e 29 Cost. alla base della disciplina economica, – compresa quella relativa alla fase della crisi – della famiglia legittima, restituiscono allo stesso matrimonio, e alle unioni civili, quell’altissimo significato sociale e giuridico che la pronuncia del 2017 aveva svilito.

In altri termini, i principî di eguaglianza e di solidarietà, e la perdurante coesistenza di diritti e di doveri ampiamente inderogabili, accompagnano la coppia che ha scelto di ufficializzare il proprio legame innanzi alla società (col matrimonio o l’unione civile) anche nella fase successiva alla fine della vita comune.

Beninteso, resta acquisito che ciascun coniuge ha il diritto di divorziare; ma — al di là di ogni suggestione criptoindissolubilista — il passato comune non può essere cancellato del tutto, sicché il dovere di solidarietà può “convertirsi”, sussistendo le condizioni di legge, nel diritto di uno di essi a percepire dall’altro l’assegno divorzile.

Il principio di autoresponsabilità di entrambi i coniugi non può tradursi nell’irresponsabilità assoluta dell’uno nei confronti dell’altro.

Tutto questo è affermato o comunque sotteso, e con forza, dalla pronuncia delle sezioni unite, che ripristina (o, almeno, cerca di farlo) i diritti di tanti ex coniugi, in gran parte donne, messi da parte, “rottamati”, tanto per usare un neologismo in voga, da Cass., n. 11504/17, dimentica del carattere tuttora “asimmetrico” di tante famiglie italiane, anche di recente formazione.

È, poi, apprezzabile il superamento dell’assurda, e mai realmente praticata, distinzione tra la fase deteterminativa e quella di quantificazione dell’assegno, che non ha reale riscontro normativo – le sezioni unite hanno finalmente scoperto, viene da dire, che “il re è nudo”.

Non mancano criticità o, comunque, profili che avrebbero richiesto un maggiore approfondimento; d’altronde le sezioni unite, di norma, pronunciano principi generali, la cui concreta attuazione è rimessa alla giurisprudenza, non solo di merito.

La stessa marginalizzazione della funzione assistenziale dell’assegno divorzile (invece centrale sia per le sezioni unite del 1990 che per la pronuncia del 2017) non è priva di ambiguità, o almeno presenta delle possibili implicazioni meritevoli di sviluppo futuro: ad esempio, potrebbe esservi più ampio spazio per i cd. accordi prematrimoniali (il cui divieto si è fino ad ora fondato, essenzialmente, proprio sulla centralità di quella funzione, e dei diritti indisponibili che ne conseguono).

Di converso, la centralità acquisita dalla funzione perequativo-compensativa che si pensava superata dalla novellazione del 1987 (anche in tal caso senza reale riscontro normativo) rischia di trasformare il giudizio sull’assegno divorzile in una sorta di rendiconto di tutto quanto realizzato, o non realizzato, da ciascuno dei coniugi nel corso della vita comune, con conseguente esasperata patrimonializzazione di tutti i diritti e i doveri nascenti dal matrimonio, e che hanno invece in primo luogo una dimensione umana, irriducibile, nel profondo, a una lettura solo economica.

Deve, però, riconoscersi che la statuizione delle sezioni unite, ponendo al centro non il (pur necessario) accertamento della disparità economica tra i coniugi, ma le cause di quest’ultima, valorizza pienamente, nella fase della crisi (evitando i rischi della formazione di rendite di posizione), il ruolo svolto da ciascun coniuge nel corso della vita comune, e che rappresenta l’essenza stessa del matrimonio-rapporto; sono salvaguardati, in particolare, il lavoro domestico e la cura per i figli – cui, stranamente, la sentenza non fa alcun cenno –, così come la conseguente rinuncia a un’autonoma e piena affermazione professionale.

In definitiva trova tutela, nella delicatissima fase della dissoluzione (che attiene allo status, ma non sempre anche ai legami familiari), il carattere asimmetrico di tante famiglie cui si è fatto cenno.

Certo, le sezioni unite, al dichiarato scopo di limitare la discrezionalità dei giudici di merito, affermano la pari ordinazione — deve ritenersi in astratto, non in concreto — di tutti i criteri enunciati dalla prima parte dell’art. 5, comma 6, l.div. (di fatto pretermessi da Cass., n. 11504/17).

Tuttavia è palese che, già in astratto, di tali criteri o indicatori Cass., n. 18287/18, non senza sottile contraddizione, valorizza soprattutto il «contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune», da valutare alla stregua del fattore «tempo», pur centrale.

Il riferimento qui non è solo alla durata del matrimonio, richiamata dal medesimo sesto comma, ma anche all’età del richiedente l’assegno (che, al più, può rapportarsi alle «condizioni dei coniugi»).

Quest’ultimo profilo è di grande rilievo, perché la Cassazione non esita ad affermare che il giudizio non è solo storico, in quanto volto al passato (alla ricostruzione della vita matrimoniale), ma anche volto al futuro, e quindi prognostico, in relazione alla concreta possibilità di inserimento (o di pieno inserimento) nel mondo del lavoro del richiedente medesimo.

Potrebbe dunque affermarsi che l’assegno competerà, ovvero competerà in misura maggiore, a chi ha poco futuro, o meno futuro, rispetto al passato comune con l’ex coniuge.

L’assegno divorzile, allora, a fronte di matrimoni di breve durata, ovvero di coniugi richiedenti giovani e dotati in concreto di capacità lavorativa, sarà tendenzialmente negato o riconosciuto in misura molto contenuta.

L’istruttoria, nelle cause divorzili, si preannuncia perciò molto complessa e combattuta (non senza difficoltà quanto all’esatta distribuzione dell’onere della prova), ben più di quanto lo sia attualmente, e il giudice di merito è anche chiamato – le sezioni unite lo affermano chiaramente – a esercitare con ampiezza i poteri ufficiosi di cui è investito.

Un tale appesantimento dei giudizi, ovviamente, rischia di essere problematico anche quanto ai tempi processuali, che si dilateranno.

Vi è di più.

Il “ritorno” della funzione compensativa potrebbe favorire anche quello della funzione risarcitoria (ve ne è qualche cenno nella sentenza): il riferimento è a quel tuttora oscuro parametro delle «ragioni della decisione», suscettibile di letture ben più invasive di quelle offerte, fino ad ora, dalla giurisprudenza. Se così sarà, l’assegno divorzile dovrà essere riconosciuto e quantificato anche tenendo conto delle cause e delle responsabilità sottese al divorzio (il che pone delicatissime questioni di coordinamento con la precedente separazione, specie con riferimento alla pronuncia di addebito).

Vi è spazio per un rilievo finale: posto che l’assegno divorzile svolge ormai, in forza dell’arresto delle sezioni unite, essenzialmente una funzione perequativa-compensativa, non si comprende per quale ragione tale diritto non possa essere riconosciuto (e, se già riconosciuto, va revocato) in caso di stabile convivenza dell’avente diritto con altra persona, come invece affermato, sulla falsariga di quanto enunciato per l’assegno di mantenimento dalla giurisprudenza più recente – cfr., per la separazione, Cass., 27 giugno 2018, n. 16982; per l’assegno divorzile, Cass., 3 aprile 2015, n. 6855; 21 luglio 2017, n. 18111; 5 febbraio 2018, n. 2732.

9. I successivi interventi della prima sezione civile della Cassazione

Nei mesi successivi all’intervento delle sezioni unite, la prima sezione civile, competente in materia di diritto di famiglia, è rimasta ampiamente silente e, certo, delegittimata: le sezioni unite ne hanno clamorosamente smentito la svolta del 2017. Solo negli ultimi mesi sono state pubblicate pronunce di sicuro interesse, conformi ai principi enunciati da Cass., n. 18287/18, e di cui sono stati sviluppati taluni temi.

Di particolare interesse è Cass., 5 marzo 2019, n. 6386.

Nella specie, il giudice di merito aveva revocato l’assegno divorzile a carico dell’ex marito, a fronte di sicure sopravvenienze (il peggioramento delle condizioni economiche di quest’ultimo, pensionato, ma anche un obiettivo miglioramento di quelle dell’ex moglie, che dispone di congruo reddito proprio).

La Suprema corte ha confermato tale statuizione — alla stregua della pronuncia delle sez. unite — rilevando che non sono (più) operanti né la funzione assistenziale (la sentenza in rassegna non esita a richiamare l’autosufficienza economica dell’ex moglie, così operando i criteri di determinazione dell’assegno individuati da talune pronunce del 2017-2018, disattese proprio dal citato arresto delle sez. unite) né quella perequativo-compensativa, neppure evocata – forse però perché, all’epoca della decisione di merito, ora confermata, tale funzione (certo presente nell’art. 5 l.div.) non era adeguatamente valorizzata dalla giurisprudenza allora prevalente.

Così la massima non ufficiale:

«Posto che l’assegno divorzile svolge una funzione sia assistenziale che perequativa e compensativa, e va determinato alla stregua dei canoni enucleati da Cass. 18287/18, non si discosta da questi ultimi e va pertanto confermata la pronuncia di merito che, in sede di revisione delle condizioni di divorzio, ai sensi dell’art. 9 l. divorzio, ha revocato l’obbligo di corrispondere tale assegno a carico dell’ex marito, per il venir meno sia della richiamata funzione assistenziale, a causa della sopravvenuta riduzione della capacità reddituale dell’uomo, conseguente al suo pensionamento, mentre ormai l’ex moglie è del tutto autosufficiente economicamente, in quanto titolare di un reddito medio di euro 3.000 mensili, sia di quella perequativo-compensativa, atteso che la beneficiaria neppure aveva dedotto quale fosse stato il suo contributo alla formazione del patrimonio della famiglia e di quello personale dell’ex coniuge».

Cass., n. 6386/19, cit., merita attenzione proprio perché espressione di una (non univoca) tendenza sia della prima sezione civile che della sesta (la sezione «filtro») a “salvare”, per quanto possibile, i provvedimenti di merito in materia di assegno divorzile, pur se pronunciati (evidentemente) sotto l’“impero”, per così dire, dei criteri giurisprudenziali ora superati dalle sezioni unite (l’uno, come detto, per quasi un trentennio; quello più recente per poco più di un anno), sempre che, nella sostanza, l’iter motivazionale non si sia discostato dai canoni appunto evidenziati dalla pronuncia più recente, incentrati sulla funzione sia assistenziale che perequativo-compensativa dell’assegno divorzile.

La norma di riferimento, oltretutto, l’art. 5 l.div., è immutata dal 1987. Si vedano, in proposito, anche Cass., 6 marzo 2019, n. 6536; 28 febbraio 2019, n. 5975; nonché 14 febbraio 2019, n. 4523, la quale ha confermato la sentenza della Corte d’appello di Catania, che aveva a sua volta confermato l’assegno divorzile in favore dell’ex moglie alla stregua del criterio della conservazione tendenziale del tenore di vita – criterio ora superato. Tuttavia, secondo la Suprema corte, i giudici di merito hanno valorizzato anche gli altri parametri di cui all’art. 5 l.div., facendo quindi ricorso con prudenza al criterio del tenore di vita ed evitando ogni forzatura, di fatto in “singolare sintonia” con quanto statuito dalle sezioni unite (si era trattato, oltretutto, di un matrimonio di lunga durata).

Si confronti, però, anche Cass., 29 gennaio 2019, n. 2480, la quale ha cassato la sentenza di merito che, pur sempre alla stregua del criterio del tenore di vita, aveva ridotto l’importo dell’assegno divorzile riconosciuto alla moglie in primo grado. Il giudice di rinvio, afferma la Suprema corte, dovrà ora adeguarsi ai nuovi parametri. È anche affermato che il mancato riconoscimento dell’assegno di mantenimento, in sede di separazione, di per sé non preclude il riconoscimento dell’assegno divorzile, pur se costituisce certo un elemento da considerare anche ex art. 5 l.div., in quanto fornisce utili elementi di valutazione sulle condizioni economiche dei coniugi; sostanzialmente in termini, cfr. Cass., 8 febbraio 2019, n. 3869; 6 marzo 2019, n. 6533; 6 marzo 2019, n. 6534.

Quanto ai profili probatori, è di grande rilievo Cass., 17 aprile 2019, n. 10782 che, nel ribadire che la funzione dell’assegno divorzile non è quella di ricostituire il tenore di vita coniugale, come appunto enunciato dalle sezioni unite, afferma che incombe sul coniuge richiedente l’onere della prova (in quanto fatto costitutivo del diritto azionato) che la sperequazione reddituale e patrimoniale in essere all’epoca del divorzio sia direttamente causata dalle scelte comuni di vita degli ex coniugi, per effetto delle quali un coniuge (richiedente l’assegno) abbia sacrificato le proprie aspettative professionali e reddituali per dedicarsi interamente alla famiglia, in tal modo contribuendo decisivamente alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio di ciascuno e di quello comune.

Di sicuro interesse è Cass., n. 11178/19, che ha cassato una pronuncia di merito che aveva confermato il diritto della ex moglie all’assegno divorzile alla stregua, però, dei principi enunciati dalle sezioni unite del 1990; il giudice del rinvio dovrà pertanto rivalutare la questione alla stregua di Cass., n. 18287/18. A tale riguardo, la sentenza osserva che nel giudizio di rinvio saranno ammissibili nuove prove, che servano a supportare il nuovo accertamento, non operando la preclusione di cui all’art. 345, comma 3, cpc.

In sostanza, quindi, e nonostante il carattere chiuso del giudizio di rinvio, vi è spazio per la rimessione in termini delle parti.

Infine, tra le pronunce più recenti a conferma dell’arresto delle sezioni unite, cfr. Cass., 7 maggio 2019, nn. 12022, 12024 e 17039, nonché 17 maggio 2019, n. 13415.

10. La giurisprudenza di merito

Di grande interesse le pronunce di merito successive alla sentenza delle sezioni unite, che ne hanno sviluppato taluni temi rimasti parzialmente in ombra, ad esempio quanto ai profili probatori. Inoltre, e soprattutto, è stato riconosciuto un ruolo assolutamente centrale alla funzione perequativa–compensativa, ben oltre lo stesso enunciato del 2018 (senza tuttavia escludere la configurabilità di un assegno solo assistenziale, da determinarsi però con particolare rigore, sostanzialmente alla stregua dei criteri già espressi dal revirement del 2017).

Tra i primissimi provvedimenti noti, vi è Trib. Pavia, 23 luglio 2018, in Foro it., 2019, I, 320 (in nota sono richiamati ulteriori provvedimenti).

Pur prestando adesione alla pronuncia delle sezioni unite, la sentenza sviluppa, come espressamente enunciato, profili “rimasti in ombra” in quella pronuncia.

 In particolare, al fine esplicitato di evitare che l’assegno determini una locupletazione ingiustificata, la sentenza esclude che la funzione perequativa-compensativa surrichiamata possa essere intesa come volta a superare (quasi in una prospettiva macroeconomica, che non può essere quella giudiziaria) le sperequazioni che tuttora esistono nel mercato del lavoro, specie a danno delle donne (la sentenza delle sez. unite alludeva, in un punto, alle perduranti discriminazioni di genere nella società italiana).

Particolare rilievo è poi attribuito al giudizio prognostico ex ante, “controfattuale” (il termine non è nella sentenza) sulle aspettative lavorative sacrificate dal coniuge richiedente l’assegno in ragione del matrimonio (il giudizio, appunto, va condotto “come se” il matrimonio non ci fosse stato). Nella specie, tale giudizio non è favorevole alla moglie, che, laureata in scienze politiche, rinunciò a lavorare come giornalista seguendo il marito nelle diverse città dove questi si era trasferito per lavoro, conseguendo poi brillantissimi risultati, anche economici. Infatti, secondo il tribunale, che ricorre a dati di comune esperienza, la donna, se anche avesse lavorato come giornalista, al termine della carriera non si sarebbe trovata in una situazione patrimoniale migliore di quella attuale (tenuto conto che, al di fuori delle “grandi firme”, i redditi dei giornalisti non sono particolarmente elevati).

Inoltre, e soprattutto, il tribunale esclude che vi sia una significativa disparità tra la posizione economica degli ex coniugi; infatti la moglie gode di un rilevante reddito da capitale e d’altronde i due, in sede di separazione, avevano già diviso il patrimonio comune, con attribuzioni che tenevano conto dell’apporto dato dalla moglie alla (brillante) carriera del marito con proprio sacrificio, sicché, in sostanza, la funzione perequativa-compensativa sopra richiamata è stata già ampiamente assolta.

Così la massima, non ufficiale:

«L’assegno divorzile va determinato in base ai parametri indicati da cass., sez. un., 18287/18, anche alla stregua di un giudizio prognostico “controfattuale”, come se il matrimonio non ci fosse stato, sulle aspettative sacrificate dal richiedente rispetto alla situazione che si crea con il divorzio, sulla scorta di fatti rientranti nella comune esperienza e delle presunzioni semplici, tenendo conto, in particolare: a) del tipo di modello familiare in concreto voluto e posto in atto dalla coppia, b) della circostanza che l’assegno divorzile non può comunque ovviare alle sperequazioni che esistono nel mercato del lavoro, atteso che, diversamente, si favorirebbero scelte matrimoniali basate sulla convenienza economica (nella specie, il tribunale ha negato l’assegno divorzile all’ex moglie, in quanto non vi è una significativa disparità economica tra i due, entrambi benestanti, che, in sede di separazione, già avevano proceduto alla divisione del patrimonio comune con attribuzioni che avevano tenuto conto dell’apporto dato dalla moglie al marito e alla famiglia, con sacrificio della propria carriera professionale, che però, verosimilmente, non le avrebbe comunque garantito, se pure si fosse sviluppata, una più favorevole posizione economica)».

Analogo rigore è espresso da Trib. Treviso, 1° marzo 2019 (in Foro it., di prossima pubblicazione sul fascicolo n. 6/2019), che, nel ribadire la centralità della funzione perequativa-compensativa, afferma che il diritto all’assegno (che presuppone la disparità economico-patrimoniale tra le parti) è proporzionato, anche nel quantum, ai sacrifici fatti dal richiedente. In altri termini, quanto più il richiedente si è speso per la famiglia, tanto maggiore sarà l’assegno cui può aspirare (tanto anche in una prospettiva temporale: la durata del matrimonio è essenziale).

Vi è, però, di più: la sentenza configura, in sostanza, anche una diversa tipologia di assegno divorzile solo assistenziale (qui inteso, anche nel quantum, come alimentare) e che spetta, in ultima analisi, a chi non abbia i mezzi adeguati per vivere e non sia in grado di procurarseli da solo.

Né mancano profili sottilmente sanzionatori: nella specie, l’assegno è stato negato all’ex moglie, pur priva di reddito proprio, perché – in concreto – ella avrebbe potuto inserirsi (o meglio, reinserirsi) nel mondo nel lavoro, sia per l’età che per la professionalità acquisita, sicchè la sua inerzia al riguardo (la donna, in un non breve arco di tempo, si era limitata a inviare dei curricula a possibili datori di lavoro) è apparsa colpevole.

Pure improntata a rigore è Corte appello Napoli, 10 gennaio 2019, in Foro it., 2019, I, 658, che in particolare ha sviluppato il tema della rilevanza dei contributi ricevuti dal richiedente dall’altro coniuge, quello economicamente più forte, oltre alla rilevanza del criterio delle ragioni della decisione (espressamente richiamato dall’art. 5, comma 6, l.div.).

La Corte partenopea ha, comunque, riconosciuto particolare rilievo alla funzione perequativa-compensativa dell’assegno e, quindi, al ruolo del contributo dato dal richiedente alla vita della famiglia; non è escluso un assegno divorzile meramente assistenziale, sempre però che il richiedente non sia economicamente autosufficiente (autosufficienza da intendersi in senso relativo, tenuto conto del contesto socio-economico della famiglia). Da qui, nella specie, la revoca dell’assegno riconosciuto in primo grado alla ex moglie, pur a fronte di una notevole sperequazione economica rispetto all’ex marito e nonostante, tra l’altro, la lunga durata del matrimonio: infatti la donna, da un lato, aveva ampiamente beneficiato delle contribuzioni dell’altro (godendo così di un altissimo tenore di vita); dall’altro, non aveva però contribuito a sua volta al benessere e alla vita della famiglia; il suo relativo benessere, infine, ha impedito il riconoscimento di un assegno anche solo assistenziale.

Trib. Civitavecchia, 14 settembre 2018, in Foro it., 2018, I, 3724, attraverso un’attenta ricostruzione in fatto, anche cronologica, della posizione economica dei coniugi, ha accertato che la moglie, nell’arco di un lunghissimo rapporto matrimoniale, aveva ampiamente contribuito alla vita della famiglia, consentendo così al marito di conseguire un notevole successo professionale, che si riflette nella elevata redditività dell’uomo; da ciò la conferma dell’assegno divorzile (benché la donna disponesse di un modesto reddito, comunque notevolmente inferiore a quello del marito).

Infine, Trib. Roma, 11 ottobre 2018, in Foro it., 2018, I, 3724, pure ha aderito  espressamente all’insegnamento delle sezioni unite, al punto che non vi è alcun richiamo agli orientamenti precedenti. In particolare, con Cass., n. 18287/18, cit., i giudici romani riconoscono che, nell’ambito del giudizio di determinazione-quantificazione dell’assegno, debba non solo accertarsi l’eventuale sperequazione della posizione economica delle parti, ma anche se e in che misura questa sia il frutto di scelte condivise, assunte in costanza di matrimonio, alla luce del contributo fornito da ciascuno di essi alla vita e al benessere comune. Nella specie, tale disparità reddituale patrimoniale sussiste sicuramente, alla stregua di un puntuale esame del materiale istruttorio disponibile.

Tuttavia — e qui hanno sicuramente inciso i revirement giurisprudenziali in materia — il Tribunale (pur se non è affermato espressamente) non dispone di elementi specifici circa il contributo dato alla formazione del patrimonio comune e di ciascuno di essi; si tratta di una situazione, come accennato, destinata a presentarsi con frequenza.

Nondimeno, l’assegno divorzile è stato riconosciuto alla moglie, in posizione economica sicuramente deteriore rispetto a quella del marito; la sentenza fa espresso ricorso alle presunzioni, ritenendo che proprio dalla disparità economica possa desumersi il contributo surrichiamato della moglie, nel corso della non breve vita matrimoniale, che ha determinato un sicuro vantaggio per il marito. Ha, inoltre, pesato, ai fini della decisione, la non corretta condotta processuale del marito (che ha omesso di esibire la documentazione reiteratamente richiesta: cfr., al riguardo, Trib. Roma, 17 aprile 2018, in Foro it., 2018, I, 2188).

Il Tribunale, inoltre – ed è profilo di sicuro rilievo –, ha anche valorizzato, sempre per la determinazione-quantificazione dell’assegno, la circostanza che al marito era stata addebitata la separazione; in altri termini, attraverso il richiamo alle «ragioni della decisione» è qui riconosciuta, sia pure in subordine, anche la funzione risarcitoria dell’assegno divorzile, comunque sottesa alla pronuncia delle sezioni unite.

Di contro (così escludendosi la rilevanza del pregresso tenore di vita), è stato ritenuto irrilevante che la posizione economica del marito sia migliorata in forza di una successione ereditaria.

Non mancano pronunce relative alle conseguenze economiche dello scioglimento delle unioni civili.

Tra le prime, cfr. Trib. Pordenone, 13 marzo 2019, in Foro it., 2019, I, 1451, secondo cui il presidente del tribunale, con l’ordinanza resa ai sensi dell’art. 4, comma 8, l.div., disposizione applicabile ai sensi dell’art. 1, comma 25, l. n. 76/2016, può attribuire alla parte che ne abbia fatto richiesta l’assegno divorzile (come accennato, pure richiamato dall’art. 1, comma 25, l. cit.), e da determinarsi secondo i parametri di cui a Cass., n. 18287/18, tenendo però anche conto del periodo di convivenza anteriore alla costituzione dell’unione civile.

Ciò sul presupposto, invero del tutto inedito in giurisprudenza, che le parti non avevano alcuna altra possibilità di legalizzare la loro unione anteriormente alla l. n. 76/2016.

11. Profili di “diritto” giurisprudenziale intertemporale

Il rapido succedersi di tre orientamenti giurisprudenziali difformi, pur con riferimento a una norma rimasta invariata, ha determinato notevoli incertezze, specie nei giudizi di appello (ma, si è detto, di quelli di rinvio), nonché nei procedimenti di modifica delle condizioni di divorzio, ai sensi dell’art. 9 l. n. 898/1970 (i continui revirement di cui si è detto hanno comportato la moltiplicazione delle domande di modifica, aumento, diminuzione, revoca di assegni fissati alla stregua di criteri ormai non più seguiti).

Di rilievo è, allora, Corte appello Palermo, 26 novembre 2018, in Foro it., 2019, I, 319.

Si tratta di un decreto pronunciato ex art. 9 l. n. 898/1970, quindi a fronte di una domanda di modifica di condizioni di divorzio disposte con precedente provvedimento; si consideri che, ai sensi dell’art. cit., può procedersi alla modifica solo a fronte di giustificati motivi, graniticamente individuati dalla giurisprudenza, nell’intervento di circostanze di fatto sopravvenute significative, che abbiano alterato l’assetto della posizione economica delle parti considerata dal (primo) giudice.

Cass., 22 giugno 2017, n. 15481, pur ribadendo l’esigenza dell’intervento (e della prova, da parte del richiedente) di sopravvenienze, aveva però affermato che il nuovo assetto dovrà essere valutato dal giudice secondo i «nuovi» criteri per la determinazione dell’assegno divorzile che, all’epoca, erano quelli enunciati dalla sentenza, poi superati da Cass., n. 18287/2018, cit.

La Corte d’appello di Palermo ha richiamato, nell’individuare e riconoscere la sussistenza delle sopravvenienze in fatto, proprio Cass., n. 15481/17, «applicando» però, ovviamente, quanto ai canoni per il riconoscimento dell’assegno divorzile, quelli affermati dalle sezioni unite.

Da qui, nella specie, la revoca dell’assegno divorzile (con riferimento a una fattispecie altamente conflittuale, che già ha dato luogo a un intervento della Suprema corte): il mutamento delle condizioni degli ex coniugi (migliorate quelle della ex moglie, peggiorate quelle dell’altro) ha infatti consentito di negare — coerentemente con Cass., n. 18287/18 — ogni contributo della donna alla brevissima vita coniugale, sicché non vi è una esigenza perequativa-compensativa da soddisfare.

I giustificati motivi, può allora informarsi, sono anche le “sopravvenienze” giurisprudenziali, che rendono rilevanti fatti, sì, preesistenti, ma (in passato) non rilevanti, quale ad esempio proprio la contribuzione data da ciascun coniuge alla vita familiare.

Cfr., infine, Trib. Treviso, 27 maggio 2019, di prossima pubblicazione su Il Foro italiano, che, nel corso di un giudizio divorzile, allorchè (prima dell’intervento delle sez. unite) erano già decorsi i termini per le richieste istruttorie ex art. 183, comma 6 cpc, ha rimesso le parti in termini (evidentemente dopo la sentenza delle sez. unite) in applicazione dell’art. 153 cpv cpc; tanto richiamando anche Cass., n. 11179/2019, cit., in tema di giudizio di rinvio.