Magistratura democratica

La gestione del sovraindebitamento

di Bruno Conca
Dalla lettura della regolazione delle crisi da sovraindebitamento contenuta nel CCII, sortisce un quadro contrastato, fra le luci rappresentate da alcuni fondamentali chiarimenti in materia di accesso alle procedure e le molte ombre ancora rimaste, specie in materia di esecuzione dei piani e di responsabilità degli OCC, pur nella più solida cornice costituita dalla collocazione del sovraindebitamento in un sistema normativo organico.

1. Una premessa: l’incerta navigazione del CCII al tempo della sua vacatio

Il «Codice della crisi dell’impresa e dell’insolvenza» (CCII), nel solco del mandato commesso dal legislatore delegante con la legge delega n. 155 del 2017, aspira a costituire la magna charta della regolazione concorsuale, ideale superamento del processo riformatore atomistico e, per così dire, événementiel che ha interessato costantemente la legge fallimentare a partire dal 2005, nonché innovativa consolidazione dell’intero spettro delle procedure concorsuali, anche di quelle non regolate dall’ormai irriconoscibile – rispetto al testo originario – rd n. 267 del 1942.

Già sappiamo che tale aspirazione è in parte frustrata dallo stralcio della materia – politicamente sensibile – dell’amministrazione straordinaria e dal puro e semplice make-up della liquidazione coatta amministrativa.

L’impatto sfidante della riforma, il cui buon esito passa attraverso un profondo salto culturale da parte di tutti i player della crisi (debitori, professionisti, autorità amministrative e giurisdizionali), appare già depotenziato dalla mancata attuazione della delega in punto di revisione della geografia giudiziaria, il che, in assenza di modifiche ordinamentali e di uno straordinario sforzo formativo e di circolazione di modelli organizzativi, renderà vana la pur avvertita necessità di una magistratura specializzata di settore, chiamata alla regolazione dei conflitti in questa materia e alla tutela degli interessi coinvolti sulla base di un approccio profondamente diverso da quello tradizionale.

Non basta. L’imminente varo della direttiva unionale in materia d’insolvenza rischia di vanificare la summa divisio su cui si fonda la regolazione codicistica del concordato preventivo, connotata da un regime disincentivante del concordato liquidatorio, implicante la doppia soglia economica ai fini di ammissibilità della proposta e, per contro, da un significativo favor per il concordato in continuità. Il regime di quest’ultimo è, sì, esteso alla cd. continuità indiretta e aperto anche al concordato cd. misto, ovvero comprensivo di continuità (diretta o indiretta) e di liquidazione di asset non strategici, ma condizionatamente alla sussistenza di certi presupposti economici del piano che, da un lato, non finiscano per renderlo un comodo salvacondotto per concordati liquidatori incapaci di assicurare le soglie di legge e di ancorare la continuità – che è e resta strumento per il miglior soddisfacimento dei creditori, al cospetto del quale gli interessi altri (mantenimento della produzione industriale, garanzia dei livelli occupazionali, conservazione di marchi storici, etc.) possono trovare tutela solo in quanto non distonici con il primo – e, dall’altro, facciano della preferenza per il going concern non già un “bene in sé”, ma lo strumento di politica legislativa per un effettivo mantenimento di complessi produttivi efficienti e, per tale via, anche di livelli occupazionali durevoli proprio in quanto effettivamente sostenibili. In questa traiettoria, ecco la previsione che il concordato di risanamento è tale solo in quanto i creditori vengano soddisfatti in misura prevalente dal ricavato prodotto dalla continuità aziendale stessa, come pure la regola di giudizio secondo cui tale prevalenza si presume, in ogni caso, sussistente quando i ricavi attesi per i primi due anni di attuazione del piano derivino da un’attività d’impresa a cui sono addetti almeno la metà di quelli in forza nei due esercizi antecedenti il momento del deposito del ricorso (art. 84 CCII).

L’assenza di tali distinguo nella proposta di direttiva, la quale non risente l’eco, tutta nazionale, dell’uso strumentale del concordato, apre la strada all’eliminazione di questo doppio binario e, con essa, al ritorno – sotto la maschera di un’apparente continuità – dei “concordati del 2%”, figli (forse) non voluti della lunga stagione dell’autotutela creditoria e della libertà negoziale nelle procedure concordate di regolazione della crisi, ma certamente non secondari artefici di quel macigno di NPL (“Non-Performing Loans”) che tuttora determina la fragilità del sistema bancario italiano.

Il nuovo codice concorsuale, tuttavia, corre rischi ancora più gravi in relazione al cuore stesso del suo impianto: l’anticipata emersione della crisi.

Quest’ultima costituisce l’essenza stessa del complesso testo normativo e il cuore della sua portata innovatrice. In assenza degli strumenti finalizzati al monitoraggio delle situazioni di crisi, quali momenti non graditi, ma fisiologici nel ciclo vitale di un’impresa, nonché alla prevenzione del dissesto attraverso un complesso mix di obblighi di segnalazione, di forti incentivi premiali, di estese misure protettive ma, anche, di un punto di caduta del sistema dato dall’iniziativa generalizzata del pubblico ministero alla dichiarazione d’insolvenza, il codice finirebbe per risolversi in una pletorica rinumerazione di articoli funzionali a una messa a punto e chiarificazione di istituti esistenti, in un palese e gravoso eccesso di mezzo rispetto allo scopo.

La “linea Maginot” (si confida, con altra attitudine difensiva) è data dal meccanismo delle allerte cd. interne, rappresentate dai nuovi obblighi dell’organo di controllo, ed esterne, costituite dai doveri di segnalazione da parte dei creditori pubblici allo scattare di certi parametri. Già depotenziata quest’ultima rispetto al testo originario, per il timore di una incapacità delle amministrazioni a fronteggiare tali compiti, ma anche per il paventato suo effetto su di un ceto imprenditoriale da tempo non esente dalla pratica di finanziarsi con il mancato pagamento di tributari e previdenziali, è proprio di questi giorni il varo al Senato di un emendamento, collocato nella legge di conversione del decreto cd. “sblocca cantieri”, che comporta il raddoppio dei parametri inseriti nell’art. 379 CCII ai fini dell’obbligatorietà dell’organo di controllo interno. Secondo tale versione, l’obbligo scatterebbe per la società che, per almeno due esercizi, superasse uno solo dei tre parametri: quattro milioni di ricavi, quattro milioni di attivo, venti dipendenti.

Se, come proposto anche da alcuni settori politici, si dovesse ulteriormente modificare l’articolo, prevedendo il sindaco unico di srl solo nel caso di superamento di almeno due dei tre parametri, l’ambito di operatività dell’allerta verrebbe ridotto a poco o nulla e, con esso, le chance di riduzione del danno da dissesto.

È bene sottolineare che ciò varrebbe non solo a frustrare l’insistita aspirazione a un incremento sostanziale delle opzioni di risanamento rispetto a quelle liquidatorie, ma anche a stabilizzare l’insussistente recovery per i creditori, prima fra tutte quella erariale e relativa alla distorsione del mercato, inquinato dalla concorrenza sleale di quelle imprese che fanno del mancato pagamento dei crediti erariali (specie Iva) e contributivi parte non secondaria delle loro strategie finanziarie.

In questo cangiante e tumultuoso contesto, la nuova regolazione del sovraindebitamento pare sostanzialmente al riparo dalla tempesta e, anzi, protetta dall’insistito richiamo contenuto nella proposta di direttiva di assicurare, comunque, una second chance al debitore, il che assicura la tenuta della nuova, estesissima facoltà di esdebitazione.

L’auspicio, in questo caso, è che il silenzio non preceda la tempesta, a fronte dell’impatto che la “nuova” esdebitazione potrebbe avere tanto sul numero dei procedimenti, quanto sulla recovery dei creditori.

2. La complessa topografia della regolazione del sovraindebitamento all’interno del sistema concorsuale disegnato dal CCII

Le situazioni di sovraindebitamento sono oggi disciplinate in un corpus normativo unitario (sebbene assai lacunoso): la legge 27 gennaio 2012, n. 3, recante «Disposizioni in materia di usura ed estorsione, nonché di composizione delle crisi da sovraindebitamento», così come modificata dall’art. 18 dl 18 ottobre 2012, n. 179, poi convertito nella legge 17 dicembre 2012, n. 221.

Con tale legge sono state introdotte, per la prima volta nel nostro ordinamento, norme finalizzate «a porre rimedio alle situazioni di sovraindebitamento non soggette né assoggettabili a procedure concorsuali diverse»da quelle regolate dalla legge fallimentare (art. 6, comma 1).

In sintesi, dunque, una sola legge speciale disciplina integralmente (fatta salva la normativa regolamentare di attuazione di parte della stessa norma primaria) quelle procedure concorsuali volte a porre rimedio alle situazioni di sovraindebitamento. Un’altra, ben più onusta, legge speciale – la legge fallimentare – disciplina altre procedure concorsuali; altre norme speciali, ancora, si occupano di singole procedure concorsuali, con variabili presupposti (amministrazioni straordinarie, liquidazioni coatte amministrative “speciali”, procedure di default degli enti pubblici, etc.).

Uno dei più antichi e avvertiti interrogativi in subjecta materia è la riconducibilità di tutte queste procedure a un unico sistema concorsuale, come tale suscettibile di autorizzare l’uso dell’analogia per colmare le apparenti lacune lasciate dal legislatore, nell’ambito di norme sì speciali ma che, proprio in quanto collocate all’interno di un plesso giuridico unitario, non possono ritenersi eccezionali, sempre alla non agevole condizione di ravvisare nella fattispecie non disciplinata quella eadem ratio che consente l’applicazione della medesima dispositio.

La questione diviene più rilevante, anzi di quasi quotidiana urgenza, proprio con l’entrata in vigore della legge n. 3/2012. Di là della sua non eccelsa qualità redazionale, dato comune e strutturale della produzione legislativa degli ultimi decenni, è la voluta tecnica normativa della sineddoche[1], che finisce per interpellare l’interprete a colmare i vuoti non più apparenti, come volevano i canoni interpretativi tradizionali secondo la suggestione del giudice quale bouche de la loi, ma reali e consapevoli lasciati dal legislatore.

La regolazione della composizione delle situazioni di sovraindebitamento è, in questo senso, icastica: qual è il regime di responsabilità degli organismi di composizione della crisi (Occ)? Posto che il riferimento alla competitività è presente solo per la procedura di liquidazione, come si effettuano le vendite in esecuzione del piano del consumatore o dell’accordo di composizione della crisi? È revocabile il liquidatore inerte o inadempiente? È opponibile alla procedura la cessione del credito retributivo o previdenziale? Questioni, fra le molte, che non trovano alcuna risposta nella stringata legge speciale, imponendo all’interprete di trovarla aliunde.

A ordinamento invariato, la Corte di cassazione, in una serie di recenti pronunce, ha profuso un rilevante sforzo interpretativo nel tentativo di avvalorare un sistema concorsuale già esistente e formato, seppur spartito in testi normativi diversi, con la conseguenza non solo di un’inedita – e potenzialmente dirompente – estensione del fenomeno di consecuzione delle procedure concorsuali, ma anche di un’applicazione analogica degli istituti.  Particolarmente emblematica di questo orientamento, Cass., 12 aprile 2018, n. 9087: «dovrebbe prendersi atto che la sfera della concorsualità può essere oggi ipostaticamente rappresentata come una serie di cerchi concentrici, caratterizzati dal progressivo aumento dell’autonomia delle parti man mano che ci si allontana dal nucleo (la procedura fallimentare) fino all’orbita più esterna (gli accordi di ristrutturazione dei debiti), passando attraverso le altre procedure di livello intermedio, quali la liquidazione degli imprenditori non fallibili, le amministrazioni straordinarie, le liquidazioni coatte amministrative, il concordato fallimentare, il concordato preventivo, gli accordi di composizione della crisi da sovraindebitamento degli imprenditori non fallibili, gli accordi di ristrutturazione con intermediari finanziari e le convenzioni di moratoria (…). Restano invece all’esterno di questo perimetro immaginario solo gli atti interni di autonoma ri-organizzazione dell’impresa, come i piani attestati di risanamento e gli accordi di natura esclusivamente stragiudiziale, che non richiedono nemmeno un intervento giudiziale di tipo meramente omologatorio».

Se dunque, de jure condito, la concorsualità come sistema rappresenta il frutto, contrastato[2] e tardivo, di uno sforzo interpretativo, essa invece diviene la cifra e il senso ultimo del CCII, posto che esso costituisce adempimento della delega conferita al Governo: l’adozione, appunto, di una disciplina organica delle procedure concorsuali di cui al regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 e della disciplina della composizione della crisi da sovraindebitamento di cui alla legge 27 gennaio 2012, n. 3.

Dalla collocazione delle procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento nel sistema concorsuale, consegue la frammentazione della relativa disciplina all’interno dell’intero corpus normativo.

In primo luogo, anche tali procedure sono governate (anche) dalla disciplina di parte generale, sicché all’art. 2 si trovano le definizioni inerenti i presupposti oggettivo e soggettivo di accesso: sovraindebitamento, impresa minore, consumatore; mentre il successivo capo II, ove si disciplinano gli obblighi di tutti i soggetti che partecipano alla regolazione della crisi o dell’insolvenza, il principio di economicità delle procedure (sez. II, che in concreto si riduce alla perimetrazione della prededuzione professionale per l’accesso alle procedure) e quelli di carattere processuale (sez. III), sebbene ratione loci a valenza generale, è in concreto inerente alle sole procedure maggiori.

Successivamente, nel titolo dedicato agli strumenti di regolazione della crisi, trovano collocazione tanto le disposizioni di carattere (sub-) generale, inerenti alle sole procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento (artt. 65 e 66), quanto le due procedure lato sensu negoziali, ovvero la ristrutturazione dei debiti (artt. 67-73), erede dell’attuale piano del consumatore, e il concordato minore (artt. 74-83), che succede all’attuale accordo di composizione della crisi.

La liquidazione controllata, in luogo dell’attuale liquidazione del patrimonio, trova regolazione agli artt. 268-277 in un apposito capo, il IX, in coda alla trattazione della liquidazione giudiziale, ma, singolarmente, nell’ambito di quello stesso titolo (V) formalmente intestato solo alla liquidazione giudiziale e non anche a quella controllata, che è espressamente alternativa a quella giudiziale in ragione della platea dei soggetti che possono accedervi.

Il capo successivo (X), sempre nell’ambito del medesimo titolo V - «Liquidazione giudiziale» -, disciplina l’esdebitazione, sia pur con una prima sezione, destinata a regolare le «condizioni ed il procedimento della esdebitazione nella liquidazione giudiziale e nella liquidazione controllata», nonché una seconda espressamente dedicata all’esdebitazione del sovraindebitato che, pure, dovrebbe essere governata dalla sezione prima. In concreto, la seconda sezione si occupa (del che, infra) di casi ulteriori di esdebitazione, specifici per il solo soggetto non liquidabile giudizialmente.

Ancora altrove troviamo la trattazione del procedimento per l’apertura di una di queste procedure e la disciplina penale per falsa attestazione dell’Occ.

Ora, di là di qualche menda nella sistematica di tali istituti, pare che il legislatore delegato, forse non del tutto consapevolmente, abbia riproposto la stessa geometria concentrica propugnata dalla Cassazione nella giurisprudenza 2018-2019.

Ecco, allora, un nucleo di norme generali, di valenza per tutte le procedure concorsuali del CCII, sebbene operativamente ridotte a poca cosa: alcune regole comuni al solo insieme delle procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento, regole egualmente generali sull’esdebitazione, oltre ad alcune, di maggior favore, specifiche per il sovraindebitato.

La disciplina delle singole procedure o istituti si trova invece diversamente collocata, non in ragione dei soggetti che possono accedervi, bensì della natura, schiettamente liquidatoria o – variamente – negoziale, secondo uno schema già lumeggiato dalla più recente giurisprudenza di legittimità[3].

3. La nuova triade procedurale, le certezze raggiunte e i residui insolubilia

La relazione illustrativa del 10 gennaio 2019 chiarisce bene le finalità del legislatore in materia di sovraindebitamento: armonizzazione, semplificazione, implementazione:

a) armonizzazione della materia con le restanti procedure, nel quadro di una regolazione unitaria e organica, così da differenziare la disciplina dei singoli istituti solo per quegli aspetti che richiedono uno specifico adattamento alla peculiarità della fattispecie;

b) semplificazione della farraginosa normativa del 2012, opinione quant’altra mai fra gli interpreti;

c) implementazione dell’istituto, quasi disapplicato nel contesto attuale, sul presupposto che il ricorso ampio – come in molti ordinamenti europei ed extraeuropei – a queste procedure consenta di raggiungere «l’obiettivo di concorrere, attraverso l’esdebitazione, alla ripresa dell’economia»: quest’affermazione è significativa di un nuovo indirizzo politico-economico – non si comprende fino a che punto inavvertito, ma certo – sorprendente, per cui l’attuazione del credito in sofferenza costituirebbe un ostacolo alla ripresa dell’economia, che sarebbe invece favorita dal liberare i debitori insolventi dalle loro inevase obbligazioni per riammetterli nel circuito del credito, così da consentire loro di caricarsi di nuovi debiti.

Le motivazioni di tale bizzarro percorso logico, non diverso da quello di chi volesse postulare l’amnistia quale precipuo strumento general-preventivo, sono note, come pure gli sforzi profusi dalla scienza economica contemporanea, applicati all’inesausta riforma della legislazione concorsuale, nel voler dimostrare l’utilità della second chance e del valore del going concern ad ogni costo, al fine di rivitalizzare realtà economiche mature e complesse come quelle italiane. I successi finora conseguiti, percentualmente paragonabili a quelli raggiunti da coloro che, nel Medioevo, si prodigavano a trasformare il piombo in oro, danno conto di quel po’ di alchemico che vi è anche in questa scienza sociale.

Ad ogni buon conto, le finalità espresse hanno condotto il legislatore, non infondatamente, a concentrare le innovazioni sul fronte dei requisiti di accesso delle procedure, oltre che dell’esdebitazione.

Il CCII ha così mantenuto il medesimo numero delle procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento, come pure la natura lato sensu negoziale di due di esse e quella schiettamente liquidatoria della terza.

La ristrutturazione dei debiti ha, pertanto, sostituito il piano del consumatore; il concordato minore, invece, l’attuale accordo per la ristrutturazione dei debiti, mentre la liquidazione controllata tiene luogo della liquidazione tout court.

I presupposti soggettivi sono più chiari rispetto alla l. n. 3/2012.

In primo luogo, è netta e non più discutibile la separazione tra soggetti che possono accedere alle procedure di composizione delle crisi da sovraindebitamento e soggetti liquidabili giudizialmente, mentre nel sistema attuale il solo cenno fatto de passage a coloro che non sono “assoggettabili” a procedure concorsuali ha dato la stura, per così dire, a un uso alternativo di tali procedure, sporadicamente documentato nei repertori giurisprudenziali, in favore di imprenditori aventi le soglie dimensionali di cui all’art. 1 l.fall., ma non ancora assoggettati a fallimento, cioè falliti.

È finalmente chiarito lo statuto del socio illimitatamente responsabile e del fideiussore.

Sono state introdotte le cd. procedure familiari, in concreto la possibilità di una trattazione coordinata delle situazioni di crisi di diversi componenti della famiglia, quando i famigliari siano conviventi o la situazione di crisi abbia un’origine comune, pur restando fermo il principio di separatezza e autonomia delle masse.

Si è bipartita la platea dei sovraindebitati, nel senso che il piano di ristrutturazione sarà accessibile solo al consumatore, il quale, per contro, non potrà avvalersi del concordato minore, salvo che nell’ambito di procedura familiare in cui uno dei componenti sia professionista o imprenditore, poiché in tal caso dovrà essere presentato un concordato minore per tutti i componenti della famiglia che intendono accedere alla procedura di composizione della crisi.

Soprattutto si è enunciata la legittimazione attiva del debitore in termini negativi, ovvero escludendola in ragione di tassativi presupposti ostativi (art. 69) e non più ammettendola solo in presenza di ulteriori requsiti positivi, quali, per esempio, la cd. meritevolezza per l’accesso al piano del consumatore, la cui presenza gioca un ruolo residuo solo ai fini dell’esdebitazione dell’incapiente.

Ulteriore significativa novità, più per l’armonia del sistema che per il rilievo pratico che ne deriverà, è l’estensione della legittimazione attiva anche ai creditori e al pubblico ministero nel richiedere la liquidazione, ma soltanto in sede di conversione della procedura negoziale in liquidatoria e limitatamente all’ipotesi di commissione di reati o di atti in frode dei creditori, ovvero in quelle stesse ipotesi in cui la chiusura della liquidazione (o il decorso di tre anni dal suo inizio) non dovrebbe comunque condurre all’esdebitazione.

Sempre nel segno di un rimando armonico al procedimento unitario per l’apertura delle procedure maggiori, anche nella composizione della crisi è prevista una trattazione coordinata che privilegi la delibazione delle soluzioni proposte dal debitore rispetto alla liquidazione, quale ultima ratio.

È chiaro, però, che l’avvertita e perseguita esigenza di armonizzazione si risolve, in concreto, in un’euritmia puramente formale, senza alcun effettivo pareggiamento alla situazione del debitore liquidabile giudizialmente. La legittimazione attiva ostile, infatti, è circoscritta alle ipotesi patologiche, di frode o commissione di reati. Sotto il profilo penale, poi, i soggetti che accedono alle procedure in esame restano ovviamente esclusi dall’applicabilità dei reati (ex-) fallimentari, né in sede di liquidazione controllata sono esperibili azioni revocatorie diverse da quella ordinaria. Infine, il compenso dell’organismo di composizione della crisi è sicuramente prededucibile, ma consta non sia stata inserita una previsione che ne permette la liquidazione a carico dell’erario in caso d’incapienza dell’attivo.

In tale contesto, non pare vi sia alcun significativo interesse che possa stimolare il creditore a richiedere la liquidazione controllata per il proprio debitore.

Con riguardo al requisito oggettivo, pur rimanendo il concetto di sovraindebitamento – alla luce della definizione contenuta nell’art. 2, lett. c -, esso cessa di avere una propria autonomia concettuale per risolversi nel riassuntivo enunciato di una situazione economico-finanziaria equiestesa tanto alla crisi come all’insolvenza, così sgombrando il campo da ogni ulteriore questione sulla sua autonomia rispetto a quei concetti.

Il codice introduce anche altre modifiche, peraltro anticipate da indirizzi giurisprudenziali già affermati sotto il vigore dell’attuale disciplina, che possono costituire un potente volano alla proposizione di piani di ristrutturazione, quali la facoltà di falcidia in funzione di ristrutturazione dei debiti derivanti da contratti di finanziamento con cessione del quinto dello stipendio e del trattamento di fine rapporto, come pure il rimborso alla scadenza convenuta delle rate del contratto di mutuo garantito da ipoteca iscritta sull’abitazione principale del debitore, sempre che esso fosse regolarmente adempiuto al momento di presentazione della domanda.

In un quadro di significativi chiarimenti e semplificazioni rispetto alla disciplina attuale, nonché di armonizzazioni talora timide rispetto alle procedure maggiori – così il mantenimento della regola del silenzio assenso nella deliberazione della proposta di concordato minore, probabilmente sull’altare della maggior snellezza procedurale – restano ancora significativi spazi d’incertezza interpretativa.

Due su tutti: la disciplina dell’esecuzione del piano e del concordato minore; lo statuto dell’Occ.

L’attività esecutiva del piano e del concordato trovano regolazione in due soli articoli, rispettivamente l’art. 71 e l’art. 81. Il tratto comune è dato dall’esecuzione rimessa al debitore, ferma la vigilanza dell’Occ e la sottoposizione al giudice delle “difficoltà” incontrate nell’esecuzione; il rendiconto, però, è presentato dall’Occ e la liquidazione del compenso pare condizionata all’approvazione del conto di gestione. Nulla è scritto in ordine alle modalità di vendita dei cespiti, a differenza di quanto previsto per la liquidazione controllata, ove vi è il rimando alle vendite competitive come disciplinate nella liquidazione giudiziale, in quanto compatibili, né vi sono disposizioni che facciano ritenere assoggettato il debitore a un stato di spossessamento attenuato, residuando solo il monitoraggio da parte dell’Occ.

Va riconosciuto che tale indeterminatezza, per un verso, appare congrua in relazione alle dimensioni tendenzialmente modeste dei piani e dei concordati in questione – ma non si dimentichi che essi possono riguardare patrimoni personali anche molto consistenti, nonché le imprese agricole, di qualsiasi dimensione – e, fra l’altro, è ispirata a un ragionevole pragmatismo, essendo impensabile che il sistema giudiziario riesca ad assicurare lo stesso livello di controllo dei piani esercitato nell’ambito dei concordati preventivi. Resta, però, il fatto che, attraverso tale ermetismo normativo, il perimetro dei poteri del giudice e le modalità di esercizio del sindacato sono del tutto incerti, finendo per divenire incomprensibile – se non in termini di pura praticità – la ragione per cui l’autorità giudiziale sia pur sempre chiamata a cancellare le formalità all’esito delle vendite effettuate – come parrebbe ammissibile – a trattativa privata, fra l’altro nell’ambito di un procedimento o subprocedimento (l’esecuzione del piano o del concordato) neppur oggetto di diretta vigilanza da parte dell’autorità giudiziaria, ma da parte di un soggetto terzo, neppur designato da tale autorità. Sebbene non possa essere ignorata la forza espansiva del concetto di vendita invito domino, spinta da un certo orientamento di legittimità sino a ricomprendervi il subentro nel contratto preliminare da parte del curatore fallimentare, la latitudine delle modalità esecutive e del carattere indiretto e remoto del controllo da parte del giudice in tale fase paiono non compatibili con la pretesa di concludere la vicenda traslativa con un decreto purgativo da parte del giudice, il cui più icastico intervento procedimentale è stato non già di governare il processo esecutivo, ma di arrestarlo come misura protettiva strumentale alla soluzione concorsuale proposta dal debitore.

Non discosto da tale ordine di interrogativi è lo statuto dell’Occ, egualmente oscuro.

Esso è quanto mai nebuloso già nella disciplina attuale, poiché tale organismo interpreta ex lege ruoli fra loro del tutto incompatibili nelle procedure maggiori: risorsa multitasking della concorsualità minore, è consulente del debitore, attestatore della fattibilità del piano, organo d’investigazione della situazione economica del debitore (attraverso l’accesso alle banche dati e l’interlocuzione con i creditori pubblici), finendo per assumere un ruolo apparentabile a quello del commissario giudiziale e, in date condizioni, anche del liquidatore giudiziale o del curatore. Ciò che in contesti prossimi si risolverebbe in un abnorme conflitto d’interessi, è qui ex lege istituito come forma della normale operatività dell’organo.

Va detto che il conflitto appare anche materialmente più patente, tanto da rendere il ruolo dell’Occ difficilmente comprensibile al debitore, nel caso di nomina del professionista da parte del presidente del tribunale o di magistrato delegato, laddove, in caso d’istituzione dell’organismo, le diverse competenze sono solitamente interpretate ed esercitate da professionisti fisicamente distinti. Resta, però, l’incertezza della responsabilità dell’organismo, diviso tra ruolo privatistico e funzioni di garanzia di chiara matrice pubblicistica, come pure tra funzione di ideazione e, al contempo, di attestazione, di controllo, ma anche di stimolo o di diretta esecuzione.

Il CCII non modifica tale stato di cose, facendo premio sulla purezza del distinguo funzionale l’esigenza di massima compressione dei costi; le citate norme, anzi, accrescono la prismaticità del ruolo, destinando l’Occ alla vigilanza sull’esecuzione di un piano sostanzialmente libero, ma facendogli, poi, scontare l’onere di un conto di “gestione” su ciò che non ha gestito, ma vigilato, sino a inibirne il compenso in ragione della mancata approvazione del conto, ove pure ciò consegua non già a una cattiva vigilanza, ma a un’inerte o cattiva gestione.

La soluzione di tali aporie non pare convenientemente suscettibile di essere devoluta, per l’ennesima volta, a scelte interpretative veicolate ex art. 47-quater ordinamento giudiziario, ricorrendo a documenti organizzativi e best… or improvable practices, potendo e dovendo essere oggetto di chiare scelte legislative, nel senso di una piena negozialità o di un’adeguata procedimentalizzazione dell’esecuzione, sussistendo oggi il veicolo normativo adeguato, ovvero la legge n. 20/2019, che delega il Governo a emanare uno o più decreti legislativi contenenti norme integrative o correttive del CCII, nel rispetto dei principi e dei criteri fissati dalla legge delega n. 155/2017.  

4. Il cuore del sistema: la “remissione” dei debiti

Mediante l’esdebitazione, il debitore, al ricorrere di determinati presupposti, è liberato dalle obbligazioni rimaste insoddisfatte nell’ambito della procedura concorsuale. L’istituto, originariamente previsto dalla “riforma Vietti” (anni 2006-2007), per il solo fallito, dagli artt. 142-144 l. fall. (anteriormente recanti la disciplina della riabilitazione), è attualmente esteso al sovraindebitato in forza dell’art. 14-terdecies l. n. 3/2012, norma di analogo tenore letterale.

È bene precisare che l’istituto vorrebbe – o dovrebbe – costituire una deroga al principio generale, di cui è espressione l’art. 120, comma 3, l. fall.

Anteriormente alla riforma del 2006, la norma prevedeva semplicemente che «i creditori riacquistano il libero esercizio delle azioni verso il debitore per la parte non soddisfatta dei loro crediti, per capitale ed interessi»; con la modifica apportata dall’art. 110 d. lgs 9 gennaio 2006, n. 5, il principio resta fermo «salvo quanto previsto dagli artt. 142 e seguenti».

L’esdebitazione, letteralmente, non costituisce causa di estinzione dell’obbligazione, ma mera ragione d’inesigibilità della stessa: in tal senso, infatti, le identiche locuzioni impiegate dal legislatore tanto all’art. 143, comma 1, l.fall. che all’art. 14 terdecies, comma 4, l. n. 3/2012, ove si prevede che, accertate le condizioni di legge, il giudice «dichiara inesigibili nei confronti del debitore i crediti non soddisfatti integralmente», come pure l’espressa previsione della sopravvivenza dell’obbligazione nei confronti dei coobbligati, dei fideiussori  e degli obbligati in via di regresso. Il CCII non abbandona tale qualificazione, anzi la riafferma all’art. 278, comma 1, ove si stabilisce che l’esdebitazione «comporta l’inesigibilità dal debitore dei crediti rimasti insoddisfatti».

Va, però, sottolineato che tale inesigibilità è del tutto sui generis, non solo perché interviene per factum principis, essendo cioè del tutto estranea a una dinamica interna al rapporto obbligatorio, a differenza dell’analogo effetto prodotto dal concordato o dall’accordo di ristrutturazione – ove la falcidia dei crediti è effetto dell’ accordo, obbligatorio per tutti i creditori concorsuali o, nella fattispecie di cui all’art. 182-bis, per i creditori aderenti –, ma soprattutto perché è definitiva, non essendo soggetta a termine o a condizione e venendo addirittura meno, nel CCII, la possibilità di revoca del beneficio, oggi prevista nelle sole procedure di cui alla legge n. 3/2012 (art. 14-terdecies, comma 5). L’esdebitazione, dunque, deprivando definitivamente il creditore del potere di attuazione coattiva del proprio credito, costituisce de facto causa estintiva dell’obbligazione, degradata a mera obbligazione naturale. 

Si è detto che, nel sistema attuale, l’esdebitazione costituisce deroga al principio di sopravvivenza delle obbligazioni alla procedura concorsuale. Tuttavia, così come la formale qualificazione dell’esdebitazione in termini di mera inesigibilità non pare cogliere in pieno la concreta operatività dell’istituto quale sostanziale remissione del debito, proprio per la sua tendenziale definitività, parimenti essa non costituisce, in concreto, eccezione alla regola della sua sopravvivenza nella forma di mera obbligazione naturale.

Il rovesciamento quantitativo fra regola ed eccezione è dato dall’oscura previsione, contenuta tanto nell’art. 142 l.fall. quanto nell’art. 14-terdecies l. n. 3/2012, secondo cui l’esdebitazione non può essere concessa qualora non siano stati soddisfatti, neppure in parte, i creditori concorsuali.

Il fatto ostativo, enunciato dal legislatore mediante una triplice negazione, autorizza esiti interpretativi di segno opposto; l’uno, più restrittivo, che postula la concedibilità solo allorquando tutti i creditori concorsuali siano stati soddisfatti, seppure solo in parte; l’altro, più estensivo, secondo cui è sufficiente che una parte dei creditori sia stata – parzialmente – soddisfatta.

Nel primo caso, sarà dunque necessario il pagamento, sia pur in misura esigua, anche dei creditori chirografari; secondo l’opzione alternativa, il pagamento, anche in misura esigua, solamente dei creditori privilegiati di primo grado non sarà ostativo al riconoscimento del beneficio.

È noto che la Suprema corte[4] ha avallato questa seconda interpretazione, seppur limitandosi ad affermare l’ammissibilità – non l’accoglibilità – della domanda allorquando solo parte dei creditori sia stata soddisfatta, per poi rimettere al prudente – quanto fatidico – apprezzamento del giudice di merito la determinazione del punto di equilibrio fra soddisfacimento e non soddisfacimento, costituente limite di operatività di un istituto per via giurisprudenziale trasformato in una sorta di “amnistia civilistica” à la carte, ovvero soggetta a un’applicazione potenzialmente differenziata quanti sono i tribunali italiani.

La ratio dell’istituto è discussa, ma tendenzialmente riconducibile, da un lato, a ragioni solidaristiche – sebbene si tratti di una singolare solidarietà, in forza della quale si determina un esproprio astratto di valore dal ceto creditorio al debitore – e, dall’altro, a una valutazione del carattere fisiologico del debito in una società capitalistica matura, fondata sui circuiti finanziari, sicché a livello macroeconomico appare più profittevole recuperare la capacità di lavoro e di produzione di reddito di un soggetto; capacità che, a sua volta, passa attraverso l’accesso al credito, la cui denegazione finirebbe per costituire una sorta di nuova morte civile.

Il CCII interviene su questo assetto in termini dirompenti.

Dal punto di vista sistematico, l’art. 278, pur ribadendo che l’esdebitazione comporta l’inesigibilità dei crediti rimasti insoddisfatti, fornisce una definizione ontologica dell’istituto: essa «consiste nella liberazione dai debiti», talché diventa ora arduo non assimilarla fra le cause – non satisfattive – di estinzione dell’obbligazione.

È ben vero che la relazione di accompagnamento dà un’accezione riduzionistica, affermando che l’art. 278 dispone, fra le altre cose, che «per “liberazione dai debiti” non si intende l’estinzione dei debiti rimasti insoddisfatti, ma più riduttivamente la loro inesigibilità», ma essa è contraddetta dalla lettera della norma, secondo cui è l’esdebitazione a costituire la liberazione dai debiti pur comportando quoad effectum l’inesigibilità del credito. Tale liberazione, dunque, comporta l’inesigibilità, ma non si esaurisce in essa, poiché è un’inesigibilità definitiva. Non vale evocare il fatto che rimanga l’obbligazione naturale, in primo luogo perché nulla prevede il legislatore al riguardo, non espressamente prevedendo alcuna soluti retentio, talché il carattere naturale dell’obbligo è più intuito che trovato nel codice; in secondo luogo, perché essa finirebbe allora per confermare l’assunto, comportando la novazione dell’obbligazione, in un dovere che non è più giuridico, ma morale o sociale. Parimenti, non prova il mantenimento dell’obbligazione il fatto che restino intatti i diritti nei confronti dei coobbligati, poiché l’argomento potrebbe dirsi probante solo in caso di pluralità di debitori, né ciò varrebbe a escludere l’elisione del rapporto obbligatorio stesso nei confronti di uno – almeno uno – dei condebitori: quello, appunto, liberato dai suoi debiti.

La seconda, significativa novità è l’estensione del beneficio dell’esdebitazione anche nei confronti delle società, il che costituisce pressoché un unicum del nostro ordinamento.

La rilevanza della norma è più sistematica che pratica, ma impone di trovare una ratio diversa all’istituto, certo non più declinabile né in termini solidaristici (nei confronti di una società di capitali priva di capitale) né economici, non potendosi ravvisare un valore organizzativo o una potenzialità reddituale in un ente giuridico oramai svuotato di ogni rapporto giuridico attivo o passivo e privo, in caso di società di capitali, del principale fra i suoi elementi costitutivi.

Infine, il legislatore si fa carico di risolvere il problema interpretativo connesso, come cennato, alla questione relativa alla parte di credito soddisfatto ai fini del riconoscimento del beneficio, in modo gordiano: eliminando, semplicemente, tale condizione.

L’art. 280 – che dovrebbe avere valenza generale, ovvero tanto per i debitori liquidabili giudizialmente quanto per quelli che non lo sono – enuncia le condizioni soggettive di accesso, tanto ampie da relegare il non esdebitabile al ristretto club dei bancarottieri, degli insolventi fraudolenti e dei renitenti a ogni collaborazione con gli organi della procedura, ma non contempla alcuna soglia di soddisfacimento. E, anzi, prevedendo che non possa essere concesso il beneficio ove il debitore ne abbia già fruito per due volte, contempla il lavacro debitorio per ben tre volte.

Prova ulteriore della sostanziale irrilevanza del soddisfacimento dei creditori è dato dall’art. 279, il quale, nel disciplinare le condizioni temporali di accesso al beneficio, lungi dall’imporre un termine ne ante quem, afferma il diritto del debitore a conseguire l’esdebitazione decorsi tre anni dall’apertura della procedura di liquidazione, ridotti a due in caso di tempestiva proposizione dell’istanza di composizione della crisi.

Posto che, con riguardo alla liquidazione giudiziale, il termine ordinario di esecuzione della stessa è indicato in cinque anni, mentre nessun termine è indicato per la liquidazione controllata, è possibile e, anzi, probabile che il debitore consegua l’esdebitazione anteriormente alla sussistenza delle condizioni per procedere anche solo a un riparto parziale: il ritardo nell’adempimento, da presupposto della mora debendi, diventa ex se strumento estintivo dell’obbligazione.

Ricostruiti così i termini generali dell’istituto, non può allora fare specie l’esdebitazione di diritto, consentita al solo sovraindebitato e operante in via automatica a seguito del decreto di chiusura della liquidazione controllata, o anche anteriormente, decorsi tre anni dalla sua apertura, costituendo l’art. 282 che la disciplina la mera declinazione dell’art. 279 nella prospettiva dei debitori non liquidabili giudizialmente; resta, semmai, oscura la pretesa valenza generale dell’art. 279, teoricamente applicabile a tutti i debitori, laddove l’art. 282 detta una disciplina specifica – ma pressoché identica, se non per l’ulteriore, necessariamente speciale, abbreviazione premiale in caso di accesso ai procedimenti di composizione assistita della crisi – per il sovraindebitato.

Né può destare stupore la previsione dell’esdebitazione dell’incapiente, ovvero della «persona fisica meritevole, che non sia in grado di offrire ai creditori alcuna utilità, diretta o indiretta, nemmeno in prospettiva futura () fatto salvo l’obbligo di pagamento del debito entro quattro anni dal decreto del giudice, laddove sopravvengano utilità rilevanti che consentano il soddisfacimento dei creditori in misura non inferiore al dieci per cento».

A ben vedere, la differenza fra l’esdebitazione ordinaria e quella dell’incapiente, di là della diversa perimetrazione soggettiva dell’istituto – l’una iterata, una prima volta, all’art. 279 apparentemente per tutti, ma in concreto solo per i liquidabili giudizialmente, e di nuovo, all’art. 282, espressamente solo per i sovraindebitati; l’altra solo per la persona fisica “meritevole” – non sta nella capacità di offrire una qualche utilità ai creditori, ma solo di prospettarla, poiché il riconoscimento del beneficio, come già cennato, non è ancorato a un principio di realtà, ma solo al tempo: decorso un certo termine, si ha diritto.

L’esdebitazione cambia, per così dire, in base allo storytelling del soddisfacimento: se la narrazione postula una qualche forma di soddisfacimento parziale di almeno alcuni creditori, siamo nell’ipotesi ordinaria; se la narrazione dà conto ex ante dell’impossibilità di soddisfacimento, se ne può fruire lo stesso, a condizione che il richiedente sia persona fisica “meritevole”, in quanto debitore.

La ratio della norma è ravvisata, nella relazione di accompagnamento, nell’esigenza di offrire una second chance «a coloro che non avrebbero alcuna prospettiva di superare lo stato di sovraindebitamento, per fronteggiare un problema sociale e reimmettere nel mercato soggetti potenzialmente produttivi».

Di là del fatto che, per quanto sopra osservato, il legislatore nazionale non si limita, nel solco delle raccomandazioni e delle prossime direttive europee, a offrire una seconda opportunità, dandone addirittura una terza (cfr. art. 280, lett. e), il favor per la persona fisica sovraindebitata e incapiente è, ad avviso di chi scrive, più apparente che reale, ove si consideri che anche l’esdebitazione, per così dire, ordinaria non è più vincolata a una percentuale di soddisfacimento dei creditori ed è conseguibile per il solo decorso del tempo, né, per il caso in cui il parziale soddisfacimento pure ab origine ipotizzato si realizzi, è prevista alcuna clausola come quella ex art. 283 (destinazione al soddisfacimento dei creditori delle utilità sopravvenute in misura non inferiore al dieci per cento). La conseguenza è che una società di capitali, liquidabile giudizialmente o meno, potrebbe esdebitarsi prima, definitivamente, senza alcun vincolo sulle utilità sopravvenute alla chiusura della procedura, nonché in assenza di alcuno scrutinio di meritevolezza, se non in termini meramente negativi (commissione di reati di bancarotta, insolvenza fraudolenta, etc., o di atti di frode nei confronti dei creditori).

Sotto questo profilo, anche il CCII, pur in un generale favor per il debitore-consumatore o impresa minore, finisce per replicare, in modo depotenziato, il volto più arcigno nei confronti del piccolo rispetto al grande, tipico del panorama concorsuale nazionale, almeno fino al 2015. Così, mentre l’imprenditore commerciale in crisi o insolvente poteva accedere al concordato preventivo senza alcuna valutazione di meritevolezza e di merito – declinata nel concetto di cd. fattibilità economica, “trovata” dalle sezioni unite della Cassazione del 2013 – e, per tale via, giungere all’esdebitazione negoziale, ovvero mediante la falcidia concordataria, obbligatoria per tutti i creditori concorsuali, il consumatore, pur affrancato dall’onere dell’accordo con i creditori – peraltro spiritualizzato, anche per gli altri, nella forma del silenzio-assenso –, doveva passare attraverso la cruna dell’ago della valutazione di merito ed etica, di meritevolezza del giudice. La stessa responsabilità penale dell’attestatore venne introdotta proprio con la l. n. 3/2012 e solo successivamente introdotta (sia pur nel medesimo anno) anche per le procedure maggiori, con la previsione di cui all’art. 236-bis l.fall.

Un’ultima aporia pare affliggere il sistema.

La liquidazione controllata, oltre a essere procedura autonomamente accedibile su iniziativa del debitore stesso e, a determinate condizioni, anche del creditore o del pubblico ministero, costituisce anche esito procedurale di conclusioni anomale del concordato minore (art. 83) come pure della ristrutturazione dei debiti (art. 70, commi 10 e 11; art. 73).

Ora, sebbene parte delle ipotesi di conversione nella procedura liquidatoria sia equiestesa ai requisiti soggettivi impedienti l’esdebitazione (illeciti o atti di frode) e una delle ragioni di inammissibilità della proposta di concordato sia rappresentata proprio dall’intervenuta fruizione dell’esdebitazione nei cinque anni precedenti o per due volte, la medesima sorte tocca anche al piano di ristrutturazione o al concordato non eseguibile (il che, però, esclude l’astratta prospettabilità di un residuo parziale soddisfacimento dei creditori, pur in termini diversi e inferiori).

A tutto ciò consegue, allora, che la mancata esecuzione del piano conduce, in queste ipotesi, al medesimo esito sostanziale della sua esecuzione: la liberazione dai debiti concorsuali.

Ciò pare confermare che l’esdebitazione, al pari della prescrizione, si fondi su di un solo presupposto oggettivo: il decorso del tempo (due, tre, quattro anni); come pure l’insufficiente decorso dello stesso (cinque anni) costituisce ostacolo alla concessione di un nuovo beneficio, sia pur inquadrato in un contesto procedimentale e corroborato dall’allegazione vuoi di un ipotetico parziale soddisfacimento (art. 278), vuoi della sua impossibilità (art. 283).

5. La grande assente: un’analisi economica della regolazione del fenomeno

La legge n. 3 del 2012 ha istituito la prima regolazione dell’insolvente civile, sebbene sulla base di una nozione – il sovraindebitamento – non equiesteso, sino alle definizioni di cui all’art. 2 CCII, a quello di insolvenza o di crisi.

Una serie di fattori ne ha sinora limitato notevolmente la fruizione, potenzialmente destinata a una platea sterminata di soggetti, poiché sotto il perimetro di applicazione della norma rientravano, e tuttora rientrano, la moltitudine delle persone fisiche indebitate e la grandissima maggioranza delle imprese.

Fra le molte ragioni della resistibile ascesa della composizione regolata della crisi del debitore non fallibile sono sicuramente da annoverare un certo gap culturale nell’affrontare il fenomeno con le categorie giuridiche tradizionali, le resistenze nella istituzione degli Occ, vero motore del sistema, nonché la qualità della tecnica normativa, foriera di notevoli incertezze interpretative.

V’è tuttavia da ritenere, al postutto, che gli ostacoli maggiori alla diffusa applicazione siano differenti per imprese e consumatori.

Per le prime, permane la forte ritrosia a “portare i libri in tribunale”, fatto necessario per le imprese fallibili al fine di evitare più gravi conseguenze sotto il profilo penale, ma del tutto opzionale per quelle sotto soglia, che tale rischio non corrono.

L’attesa dell’esdebitazione non costituisce stimolo sufficiente per sottoporsi a un procedimento di regolazione della crisi, a fronte della sicura inanità delle azioni esecutive individuali nei confronti di società del tutto depatrimonializzate e della possibilità di riprendere l’attività d’impresa sotto le insegne di un nuovo veicolo societario.

Ove anche si volesse ritenere percorribile, la l. n. 3/2012 vieta la falcidiabilità del credito Iva, così rendendo spesso insostenibile l’onere della ristrutturazione del debito.

Per quanto riguarda i consumatori, il primo ostacolo è rappresentato dal giudizio di meritevolezza, dal momento che, frequentemente, la situazione di dissesto economico-finanziario è derivata non già da eventi traumatici e non preventivabili (licenziamento, divorzio, malattia), ma da scelte deliberate, seppur coadiuvate da insussistenti o corrive analisi del merito creditizio da parte dei finanziatori, quando non da stili di vita solo in taluni casi documentabili come patologici (ad esempio, ludopatia).

Di là di ciò, lo stock debitorio del consumatore è tendenzialmente meno comprimibile di quello dell’impresa, caratterizzato com’è, nell’id quod plerumque accidit, da crediti non negoziabili (ad esempio, obblighi alimentari in caso di separazione o divorzio) di controversa inopponibilità alla massa (finanziamenti assistiti da cessione in garanzia del quinto dello stipendio o dell’assegno previdenziale), il cui regolare adempimento è necessario al fine di evitare soluzioni liquidatorie o l’aggressione in sede esecutiva (mutuo sulla casa; utenze domestiche), solo parzialmente falcidiabili (debiti tributari) in assenza di provvedimenti normativi che aprano la via, del tutto esterna alle possibilità proprie della l. n. 3/2012, ad ampli e sostanziali stralci in forza di condoni, definizioni agevolate, rottamazioni, etc.

Su tale panorama, il CCII, come sopra cennato, incide significativamente, dando (parziali) risposte agli snodi interpretativi più critici opposti dalla normativa attuale, pareggiando i conti, per così dire, con le procedure maggiori relativamente alla falcidiabilità dell’Iva e delle ritenute, permettendo la riappropriazione alla massa dei crediti retributivi e previdenziali ceduti in funzione di adempimento di crediti chirografari.

Il CCII, soprattutto, istituisce, normalizzandola, la possibilità di un’amplissima esdebitazione a fronte di un soddisfacimento dei creditori nullo o irrisorio, ciò non solo per effetto dell’esdebitazione dell’incapiente, istituto che nella sua denominazione è apparso il più capace di épater les bourgeois, ma soprattutto per le enormi capacità espansive dell’esdebitazione ordinaria rispetto a quella attuale.

Va anche detto che il fenomeno trascinerà inevitabilmente con sé il prodursi di nuovo sovraindebitamento. Se si pensa che oggi una quota significativa dei procedimenti di esecuzione immobiliare vede i condominii quali creditori procedenti o intervenuti, l’arresto delle procedure esecutive promosse e la sostanziale perdita dei crediti chirografari quale esito probabile delle procedure concorsuali dell’insolvente civile condurrà a una distribuzione dei costi dell’insolvenza su altri creditori, affatto qualificati, portando al sovraindebitamento dei singoli, nell’apparente impossibilità di annettere anche il condominio, nella sua attuale veste giuridica, a soggetto suscettibile di fruire degli istituti del codice della crisi.

Ciò condurrà, secondo le attese dei più, a un considerevole aumento delle procedure, in uno con il blocco di moltissimi procedimenti esecutivi individuali.

Non vi sono dati per comprendere, a preventivo, se il saldo fra flussi in uscita (procedure esecutive arrestate) e flussi in entrata (nuove procedure concorsuali, negoziali e liquidatorie dell’insolvente civile) sia positivo, mentre è certo che, ove l’entrata in vigore del CCII determinasse l’apertura di decine di migliaia di procedimenti, così come avviene in altri ordinamenti che, però, prevedono una gestione in tutto o in parte amministrativa degli stessi, il sistema giustizia rischierebbe il collasso.

A ciò si aggiunge un altro rischio sistemico. Un sostanziale “indulto finanziario” dell’indebitamento familiare, quale possibile esito del nuovo assetto normativo della regolazione della crisi dell’insolvente civile, pare già metabolizzato dal sistema bancario, che, semmai, ha concentrato gli sforzi nel tentativo di arginare novità potenzialmente rilevanti della legge delega, fra cui il previsto criterio dei privilegi, tanto che si è giunti addirittura al mantenimento del cd. privilegio processuale del credito fondiario, vero e proprio “pezzo di antiquariato” giuridico, ormai privo di ratio e foriero di maggiori costi, in primo luogo proprio per gli istituti di credito fondiario.

Tale inaspettato laissez faire può spiegarsi in ragione dell’ormai intervenuta esternalizzazione dei portafogli di NPL, grazie ad estese operazioni di cartolarizzazione e, nell’ambito di tali cessioni in blocco, della percentuale relativamente esigua dell’indebitamento familiare – 12,9 per cento rispetto al totale.

È altresì noto che l’indebitamento familiare italiano (21 per cento dei nuclei) è decisamente inferiore alla media europea e rappresenta solo il 42 per cento dell’indebitamento privato (contro il 60 per cento dell’area Euro e percentuali superiori anche di sistemi forti, come la Germania, al 53 per cento).

Peraltro, dal 2007 a oggi, l’indebitamento è aumentato e in Italia il peso relativo del debito, a differenza che nei Paesi (ritenuti) economicamente più forti, non è distribuito in misura omogenea per classi di reddito, ma concentrato sulle famiglie meno abbienti, per le quali l’incidenza degli NPLè molto maggiore, anche perché più soggette alle conseguenze economiche dell’alto tasso di disoccupazione[5].

Il rischio, allora, è che i nuovi istituti del CCII non valgano solo a costituire lo strumento per un effettivo refresh start di apprezzabile valenza espansiva per il sistema, ma, nella condizione economica del Paese e del sistema bancario, finiscano per costituire il rischio di nuove bolle finanziarie.

Una parte importante della soluzione, anche per l’insolvente civile, è l’anticipata emersione della crisi, questione regolata frontalmente dal CCII, ma solo con riguardo all’altra metà del cielo concorsuale, quello degli imprenditori assoggettabili a liquidazione giudiziale, mentre è o dovrebbe essere maturo il tempo per un recupero di autoresponsabilità non solo per i creditori – il cui mancato scrutinio del merito creditizio della controparte è opportunamente sanzionato dal CCII mediante la sterilizzazione dei loro poteri oppositivi alle soluzioni negoziali proposte dal sovraindebitato –, ma anche per i debitori.

L’ampiezza dell’esdebitazione offerta dal CCII, in uno con le diverse soluzioni espansive rispetto alla legge n. 3/2012, debbono costituire l’occasione per una profonda rimeditazione del processo esecutivo.

La piena giurisdizionalizzazione del processo esecutivo, vanto del sistema ma, nel contempo, forte freno a un’attuazione efficace del credito, spesso a sua volta definitivamente accertato all’esito di un iter pluriennale, non pare più pienamente compatibile con le chances di fuga – meglio, di discharge – del debitore.

In altri termini, il creditore degli ordinamenti europei con cui ci confrontiamo è chiamato ad assorbire il costo della second chance riconosciuta al debitore, che è enormemente inferiore al costo della seconda o terza possibilità per il debitore, che il creditore italiano si appresta ad accusare.

Tanto il legislatore quanto i creditori istituzionali non paiono, tuttavia, indirizzati a questo tipo di riflessione. Recenti, rapsodici interventi legislativi paiono anzi indirizzati esattamente nel senso opposto, come la modifica dell’art. 560 cpc per effetto della cd. “legge Bramini”: il debitore continua a “comprare” tempo dal processo esecutivo, in attesa di porre le condizioni perché i creditori rimettano valore ope legis, nel quadro di una soluzione negoziale o anche liquidatoria, purché in assenza di frode (il che potrebbe generare nuovo contenzioso e, quindi, nuovo tempo).

Gli effetti inflativi del contenzioso e, conseguentemente, depressivi del valore del credito non possono trovare risposta in nuovi quanto inani interventi ex post,finalizzati a contrarre i tempi del processo successivamente all’assunzione di scelte che, consapevolmente, ne hanno incentivato la proliferazione o complicazione.

Di là di ciò, prendendo a prestito locuzioni ampiamente utilizzate in tutt’altro ambito, pare giunto il tempo per una complessiva riflessione su di un sistema che, non prevedendo contrappesi organizzativi e giurisdizionali in materia esecutiva a fronte delle grandi opportunità offerte dal CCII, rischia di creare un intero ceto debitorio capace di difendersi non solo nel processo (esecutivo), ma anche dal processo, grazie alle chances di un’esdebitazione conseguibile ipso jure per il solo decorso di alcuni anni dall’inizio della liquidazione, tale così da sfidare l’antico adagio secondo cui il tempo sarebbe denaro, in ultima analisi ribaltandolo.

[1] G. Alpa, Il linguaggio omissivo del legislatore, in G. Conte e M. Palazzo (a cura di), Crisi della legge e produzione privata del diritto, in Biblioteca della Fondazione italiana di notariato, n. 2/2018, Giuffrè Francis Lefebvre, Milano, 2018, pp. 45-59.

[2] Nel medesimo senso, fra le molte, Cass., 25 gennaio 2018, n. 1896 e Cass., 21 giugno 2018, n. 16347. Anche la giurisprudenza di merito accredita, oramai, proprio con specifico riguardo alle procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento, la possibilità di un’applicazione analogica, sul presupposto di un sistema concorsuale unitario: Trib. Verona, 21 agosto 2018, in Il caso, sez. giurisprudenza, 20437, 7 settembre 2018, www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/20437.pdf.

[3] Cass., 12 aprile 2018, n. 9087.

[4] Cass., sez. unite, 18 novembre 2011, n. 24215 (www.ilfallimento.it/?p=682).

[5] Sul tema, C. Bussi, Dai mutui agli Npl, trappola del debito per le famiglie Ue, in Il Sole 24 ore, 9 ottobre 2017.