Magistratura democratica

Maternità e carcere: alla radice di un irriducibile ossimoro

di Anna Lorenzetti
Lo scritto affronta il tema della maternità reclusa definita quale irriducibile ossimoro, per la sua difficile compatibilità con il contesto penitenziario. Ricostruendo l’evoluzione normativa e la giurisprudenza costituzionale, sono evidenziate, de iure condendo, le prospettive di riforma e la complessità delle operazioni di bilanciamento il cui centro deve essere l’interesse del bambino coinvolto.

1. La maternità e i diritti della donna e del minore in ambito carcerario

Trattare di maternità e carcere significa risalire alle radici di un ossimoro, alla luce della strutturale incompatibilità dell’assolvimento della funzione materna, nel contesto penitenziario italiano[1].

Infatti, la maternità e, solo in via residuale, la paternità[2] delle persone private della libertà personale mettono in luce come la pena detentiva impatti inevitabilmente anche sulla condizione della prole, generando una «infanzia rubata in termini di continuità, affettività e serenità»[3]. Spesso, la madre reclusa è l’unica responsabile della cura del minore che, di fatto, si trova così a dover “scontare” una pena senza aver commesso alcun reato[4]. Due sono le alternative ugualmente problematiche che possono prospettarsi. Da un lato, vi è infatti la possibilità che, in alcuni casi consentiti dalla legge, la madre detenuta possa tenere con sé il minore durante l’espiazione della pena o durante la misura cautelare, generando una “carcerizzazione” vissuta in prima persona senza aver commesso alcun reato. Diversamente, potrebbe verificarsi il forzato distacco in ragione della detenzione che provoca la separazione dalla madre reclusa, con una brusca interruzione del legame affettivo di cui l’ordinamento è chiamato a prendersi carico, in primo luogo, in nome dei diritti del minore coinvolto[5].

In chiave introduttiva, appare peraltro necessario precisare alcune questioni che possono aiutare nella messa a fuoco del carattere problematico del tema. In primo luogo, occorre tenere presente come il contesto carcerario rappresenti di per sé un ambito profondamente problematico, al cui interno si assiste a un sistematico tradimento del senso costituzionale della potestà punitiva statuale secondo cui «le pene devono tendere alla rieducazione»[6]. A fronte di un’affermazione che assegna all’autorità pubblica il dovere di proiettare le pene in chiave di risocializzazione, è certo che le modalità di espiazione inneschino una tensione con l’orizzonte tracciato in Costituzione. Il dubbio di un contrasto con la tutela dignitaria della persona reclusa riguarda in specie la garanzia nell’accesso a diritti sociali, dunque al lavoro, alle prestazioni sanitarie, all’istruzione, ma in generale la pienezza nella tutela delle libertà di chi viva uno stato di detenzione.

È da tenere in considerazione anche il possibile impatto sulle modalità di espiazione della pena del cd. “sovraffollamento carcerario”, spesso acriticamente utilizzato nel dibattito quale prova del tradimento dello statuto costituzionale della pena, argomentazione autoevidente al punto da non essere neppure bisognosa di precisazioni. Come noto, in simile fenomeno è stata riconosciuta una “violenza” della lingua italiana, che ha coniato un «superlativo di un superlativo» per rappresentare la realtà del contesto carcerario[7], le cui condizioni sono state stigmatizzate a più riprese dalle istituzioni[8], in particolare dalla Corte costituzionale[9], e condannate dalla Corte europea dei diritti umani che le ha ritenute «ai limiti della tortura»[10]. Raccogliendo gli spunti di chi ha provato a problematizzare la questione, è importante tuttavia riflettere sulla portata che il cd. “sovraffollamento” assume – come questione giuridica – sul piano interno nella sua fenomenologia e nell’interpretazione che, negli anni, la Corte di Strasburgo ha messo a punto. Questi elementi inducono non tanto a svilire il sicuramente significativo impatto, sulla qualità della pena, delle ridotte dimensioni di spazio disponibile per la persona reclusa, quanto piuttosto a contestualizzarlo alla luce delle numerose variabili necessariamente da considerare per una valutazione di insieme. Ci si riferisce non soltanto ai parametri numerici da utilizzare per una valutazione degli spazi, ma anche, ad esempio, all’inclusione, nel computo complessivo, della mobilia, dei servizi igienici, così pure alla considerazione anche di altri fattori come la libertà di movimento all’interno della cella o la permanenza al di fuori della cella per la maggior parte della giornata[11]. Una corretta interpretazione della questione del sovraffollamento non soltanto eviterebbe quella eterogenesi dei fini che è stata stigmatizzata dalla dottrina e che, in ultima analisi, rischia di scalfire i diritti e le libertà delle persone recluse[12], ma eviterebbe altresì di “schiacciare” la problematicità del contesto carcerario a questo solo aspetto, aspetto che impedisce di prestare attenzione alle ulteriori dimensioni, così condizionando le possibili soluzioni al problema.

Vi è una ulteriore considerazione che fa da sfondo alla trattazione della maternità reclusa, posta la sua necessaria riconduzione nell’alveo delle specificità della criminalità femminile, spesso prevalentemente orientata verso tipologie di reato espressione più di marginalità sociale che di allarme sociale[13]. In aggiunta, le donne ree manifestano un peculiare rapporto tra restrizione in carcere, affettività e genitorialità, rispetto alla condizione femminile[14], di cui occorre necessariamente tenere conto parlando di maternità reclusa.

Sotto questo profilo, la questione è da inquadrare nel contesto di una assai poco indagata riflessione sulla condizione femminile all’interno delle carceri[15]. Poco assunta quale parametro sulla cui base valutare l’attuazione dei progetti di risocializzazione delle persone recluse, tanto da un punto di vista strutturale, quanto gestionale e organizzativo, la maternità in carcere – fisicamente ed emotivamente diversa[16] – vive «una dimensione penitenziaria quasi marginale»[17]. La stessa organizzazione penitenziaria, pensata e realizzata soltanto al maschile, ha regole comportamentali che rappresentano il prodotto di un’elaborazione tipicamente maschile[18], senza attenzione all’ambito emozionale[19], perpetrando un approccio che intende la differenza femminile come scostamento/deviazione dallo standard maschile, assunto quale punto di riferimento privilegiato dallo stesso sistema normativo[20].

Ampiamente riconosciuto dagli organismi internazionali[21], simile aspetto è confermato anche dalla limitatezza degli studi sulla criminalità e sulla criminologia femminile[22] che, anche in questo ambito[23], confinano la condizione femminile alla invisibilità[24], quasi all’insignificanza per il diritto penale[25]. La questione si pone come ancor più problematica per quanto riguarda la garanzia nell’accesso ai diritti sociali che, quale strumento di inveramento dell’uguaglianza costituzionale, dovrebbero esser garantiti anche (o meglio, soprattutto) per le persone recluse a prescindere dal genere. Un efficace esempio è rappresentato dalla valutazione delle patologie derivanti dalla reclusione, che pure non trova alcuno studio specifico rispetto alla condizione femminile, fatta eccezione per le patologie o le necessità tipiche della maternità, che certamente non può però ritenersi dimensione esaustiva.

Vi è un ultimo elemento da considerare come necessario presupposto della presente analisi. Posta l’assenza di considerazione del minore coinvolto, alla luce della visione “adultocentrica” del sistema penitenziario[26], occorre tenere conto di come molte delle questioni problematiche connesse alla maternità reclusa possano essere validamente estese anche a quante vivono la maternità all’interno delle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (cd. Rems), che hanno sostituito gli ospedali psichiatrici giudiziari (Opg)[27] o che sono trattenute nei centri di permanenza per i rimpatri (ex Cie)[28].

2. La tutela della maternità reclusa: le origini storiche e l’evoluzione normativa

In una prospettiva storica, mentre la necessità di una reclusione separata sulla base del sesso è presente fin dal 1600[29] e la criminalità femminile raccoglie attenzione già nel positivismo giuridico[30], il tema della condizione detentiva per le madri rappresenta una questione relativamente recente[31]. Solo nella metà dell’Ottocento si pose, per la prima volta, il problema della maternità delle detenute, giungendo alla conclusione per cui non si potesse consentire la presenza di minori in carcere, in particolare dopo i tre anni, dovendosi preferire l’affido alla famiglia di origine o l’orfanotrofio[32]. Per le madri recluse, si raccomandava comunque un trattamento adeguato alla particolare condizione[33].

Consapevole della delicatezza di questa fase della vita, anche il legislatore penale del 1930 aveva rivolto attenzione al rapporto tra la madre detenuta e la prole, attraverso il possibile differimento dell’esecuzione della pena per la donna incinta e la madre di prole in tenera età. Di regola, la presenza in carcere di un minore era preclusa (con il divieto, per i minorenni, persino della possibilità di visita) e solo in via eccezionale le madri con bambini di età inferiore ai due anni potevano essere autorizzate dalla direzione dell’istituto a tenere con sé i figli in carcere, presumendo una inidoneità educativa del genitore che conduceva alla interruzione della relazione con i figli nel loro stesso interesse[34].

In tempi più recenti, sono state introdotte ulteriori normative per mitigare l’impatto che la detenzione della madre può generare in termini di interruzione dei rapporti affettivi con la prole o, alternativamente, quale “carcerizzazione degli infanti”, attraverso la previsione di meccanismi volti a favorire l’espiazione della pena all’esterno delle strutture detentive nei primi anni di vita del bambino[35].

Una tappa fondamentale è costituita dalla riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975, che colloca al centro del sistema la figura del detenuto[36], non più subordinata rispetto all’amministrazione. Nel configurare per la persona reclusa o internata un vero e proprio “diritto a prestazioni sanitarie”[37] e nel riconoscere che il diritto alla salute spetta «alla pari dei cittadini in stato di libertà»[38], la normativa richiama la necessità di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione, ma anche – specificamente – dell’assistenza sanitaria per la gravidanza e la maternità, oltre che dell’assistenza pediatrica ai bambini che le donne recluse possono tenere in istituto durante la primissima infanzia. Così, presso ogni istituto penitenziario per donne, furono previsti servizi speciali per l’assistenza sanitaria alle gestanti e alle puerpere. Per le detenute madri, era inoltre contemplata la possibilità di tenere presso di sé i figli fino all’età di tre anni, con il connesso obbligo dell’amministrazione penitenziaria di organizzare appositi asili nido per la cura e l’assistenza dei bambini[39]. Pur nella salvaguardia della relazione materna, l’ingresso di un minore di tre anni in carcere rappresentava, comunque, una soluzione problematica poiché rendeva il successivo distacco forse ancor più drammatico. Inoltre, recludeva il bambino in un “contesto punitivo”, certamente povero di stimoli, insalubre e non idoneo alla creazione di un rapporto affettivo fisiologico con la figura genitoriale e – in generale – all’apprendimento, così fondamentale nei primi anni di vita[40].

Proprio nella consapevolezza della problematicità del tema, nel 1986, con la cd. “legge Gozzini”, dal nome del suo promotore, era così stata introdotta una modifica all’ordinamento penitenziario, prevedendo la detenzione domiciliare per la madre di prole in tenera età e garantendo al bambino un’assistenza materna continuativa in ambiente familiare o comunque extramurario[41]. In particolare, nel caso di una donna incinta, o madre di prole di età inferiore a dieci anni con lei convivente, che fosse condannata, si prevedeva la possibilità di scontare, nella propria abitazione o in altro luogo di privata dimora, la pena della reclusione non superiore a quattro anni, anche se parte residua di maggior pena, nonché la pena dell’arresto, fatto salvo il caso dell’elevata pericolosità sociale della madre[42]. La Corte costituzionale aveva successivamente esteso anche al padre questa possibilità, ma solo in caso di decesso della madre o di sua assoluta impossibilità di assistenza alla prole. Le argomentazioni avevano richiamato l’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi, su cui è ordinato il matrimonio, e il riconoscimento dei diritti della famiglia, del dovere-diritto dei genitori di cura della prole con pari responsabilità, nonché delle provvidenze che la legge deve disporre affinché siano assolti i compiti dei genitori nei casi di loro incapacità. Inoltre, era stata richiamata la tutela dell’infanzia che rende incompatibile con l’art. 3, in connessione con gli artt. 29, 30 e 31 Cost., la previsione a favore delle sole madri[43]. Analogamente a quanto avviene per la detenzione domiciliare ordinaria, la detenzione domiciliare speciale può essere concessa anche al padre detenuto, se la madre è deceduta o è in condizioni che le rendono assolutamente impossibile provvedere alla cura dei figli, né vi è modo di affidare la prole ad altri[44].

Nel 2001, con la cd. “legge Finocchiaro”, dal nome dell’allora Ministra per le pari opportunità[45], il legislatore pose al centro il fascio dei diritti e delle libertà del bambino coinvolto, riconosciuto come titolare di un diritto all’assistenza materna in modo continuato e in ambiente familiare[46]. Così, fu introdotta la possibilità di differire l’esecuzione della pena non pecuniaria per la donna incinta e per la madre di un bambino di età inferiore a un anno, insieme a una serie di altre vicende di ambito sanitario per la persona interessata[47]. Il differimento è possibile anche nel caso in cui la madre abbia un figlio di età non superiore ai tre anni, mentre per le condannate madri con figli di età non superiore ai dieci anni è possibile essere ammesse alla detenzione domiciliare, se non sussiste un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti e vi è la possibilità di ripristinare la convivenza con i figli. La legge aveva pure introdotto l’istituto della detenzione domiciliare speciale, che consente alle detenute condannate a pene superiori a quattro anni, madri di bambini di età non superiore a dieci anni, di poter scontare il residuo di pena presso la propria abitazione o in altro luogo di cura, assistenza o accoglienza, dopo aver espiato un terzo della pena in carcere o quindici anni in caso di condanna all’ergastolo. Ai tribunali di sorveglianza compete la facoltà di concedere la detenzione domiciliare e fissare le modalità di attuazione. Per la madre detenuta che non avesse ottenuto la detenzione domiciliare ordinaria o la detenzione domiciliare speciale, erano inoltre state ampliate le possibilità di provvedere alla cura dei figli, in un ambiente non carcerario, per un periodo di tempo predeterminato nel corso della giornata[48]. Fu, inoltre, prevista l’assistenza esterna dei figli minori, con l’estensione dei benefici alle detenute madri di bambini sopra i dieci anni di età. Per evitare abusi e un uso strumentale della maternità, erano state previste alcune condizioni per l’ammissione alle misure alternative, ossia l’assenza di rischio di recidiva e la dimostrazione della concreta possibilità di ripristinare la convivenza con i figli. Tuttavia, ciò aveva generato una maggiore difficoltà di accesso ai benefici per le detenute socialmente deboli o in condizioni di particolare fragilità, ad esempio, in quanto tossicodipendenti o straniere senza fissa dimora, dunque materialmente impossibilitate ad accedere alla detenzione domiciliare.

Nel 2011, proprio per superare i limiti messi in luce dall’applicazione della cd. “legge Finocchiaro”, fu introdotta la possibilità di espiare la prima parte di pena (un terzo o quindici anni in caso di ergastolo) all’esterno del carcere, presso un istituto a custodia attenuata per detenute madri e presso case protette[49]. Gli «istituti a custodia attenuata per madri» (Icam) sono speciali strutture dotate di sistemi di sicurezza “non invasivi”, non riconoscibili dai bambini e pensate per poter ricreare un’atmosfera prossima a un normale ambiente familiare, spesso colorate, senza sbarre, armi o uniformi, nei quali i figli delle detenute possono rimanere fino ai sei anni[50]. Qualora non sussista un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti o di fuga, si può così evitare sin dall’inizio l’ingresso in carcere, consentendo lo svolgimento dei compiti di cura, assistenza e accoglienza, in strutture maggiormente idonee a dei bambini[51]. Al giudice è dunque richiesta una valutazione di compatibilità fra l’esecuzione in forma “attenuata” della custodia e le esigenze cautelari, non operando alcun automatismo[52]. Nel caso di impossibilità a scontare la pena nella propria abitazione o in altro luogo di privata dimora, la pena può essere espiata nelle case famiglia protette, ove istituite, affidate ai servizi sociali e agli enti locali, dovendosi tuttavia segnalare uno stato di inattuazione per l’assenza di finanziamenti. Per le madri condannate per delitti cd. “ostativi”[53] è consentita l’ammissione sia alla detenzione domiciliare ordinaria, nelle ipotesi in cui è possibile disporre il rinvio obbligatorio o facoltativo dell’esecuzione della pena, a prescindere dall’entità della pena da espiare[54], sia alla detenzione domiciliare speciale[55]. In tal modo, si è reso possibile l’accesso a tale istituto anche per le madri condannate a pene detentive superiori a quattro anni, o che devono ancora scontare più di quattro anni di pena, purché abbiano già scontato almeno un terzo della pena, o almeno quindici anni in caso di condanna all’ergastolo[56].

Con la riforma dell’ordinamento penitenziario del 2018, la normativa è stata ulteriormente modificata[57], consentendo alle madri di tenere presso di sé i figli fino all’età di tre anni e prevedendo per la cura e l’assistenza dei bambini appositi asili nido[58]. Si è così data attuazione alla legge delega che prevedeva la «revisione delle norme vigenti in materia di misure alternative alla detenzione al fine di assicurare la tutela del rapporto tra detenute e figli minori e di garantire anche all’imputata sottoposta a misura cautelare la possibilità che la detenzione sia sospesa fino al momento in cui la prole abbia compiuto il primo anno di età»[59]. Nella bozza di testo normativo, era presente un generale riferimento ai figli minori per le donne che stanno scontando una condanna, rispetto a cui si prevedeva il rinvio della pena o la detenzione domiciliare[60]. Per le misure cautelari, il riferimento operato era invece ai bambini fino a un anno i cui interessi cedono, però, di fronte a esigenze cautelari di eccezionale rilevanza[61] «che non possono essere ignorat[e] nel corretto bilanciamento tra esigenze dell’accertamento e bisogni di tutela della salute psico-fisica del minore»[62].  Si tratta dunque di superare un determinato livello di pericolo che, qualora le misure cautelari applicate siano diverse da quelle carcerarie[63], raggiunge una soglia di certezza quanto al verificarsi dell’evento temuto.

Il testo approvato ha confermato la connessione fra le tutele e l’età del minore, con la libertà della madre fino al terzo anno di vita anche in caso di condanna in via definitiva[64], la detenzione domiciliare[65] e l’assistenza extramuraria[66] fino ai dieci anni, senza tuttavia considerazione per le età successive, fatto salvo il caso di grave disabilità[67] e la doverosa garanzia di colloqui e contatti, mediante permessi e visite per la salvaguardia del rapporto. Infatti, «Alle madri è consentito di tenere presso di sé i figli fino all’età di tre anni», mentre «Per la cura e l’assistenza dei bambini sono organizzati appositi asili nido»[68].

Dunque, anche all’indomani dell’approvazione della modifica legislativa, un figlio abile di età superiore ai sei o ai dieci anni, a seconda che si tratti di una misura cautelare o dell’applicazione della pena, continua a non godere della continuità nel rapporto materno, salvo il caso in cui si tratti del prosieguo di una tutela già accordata nei limiti di età previsti, superati durante la privazione della libertà[69].

La riforma ha ridimensionato gli automatismi e le preclusioni ostative all’accesso ai benefici, senza comportarne tuttavia il definitivo superamento, poiché son comunque fatti salvi «i casi di eccezionale gravità e pericolosità specificatamente individuati» che danno seguito a «condanne per i delitti di mafia e terrorismo anche internazionale»[70].

In generale, ha però garantito come diritto, dunque come pretesa azionabile, l’assegnazione «a un istituto quanto più vicino possibile alla stabile dimora della famiglia o, se individuabile, al proprio centro di riferimento sociale, salvi specifici motivi contrari», comunque riconoscendo valore ai legami affettivi[71].

È stata poi prevista la detenzione delle donne «in istituti separati da quelli maschili o in apposite sezioni in numero tale da non compromettere le attività trattamentali»[72], garantendo altresì «Tramite la programmazione di iniziative specifiche (...) parità di accesso (…) alla formazione culturale e professionale»[73]. Quanto all’assistenza sanitaria, la previsione per cui «In ogni istituto penitenziario per donne sono in funzione servizi speciali per l’assistenza sanitaria alle gestanti e alle puerpere»[74] può essere letta in una duplice ottica poiché pare consentire che, nelle strutture miste, possa non esservi una assistenza specifica, vanificando la pienezza nel godimento di un diritto fondamentale.

Negli anni, la Corte costituzionale è intervenuta a più riprese circa le previsioni legislative in materia, non sempre considerate in linea con il dettato costituzionale. Ha così dichiarato incostituzionale la mancata esclusione della detenzione domiciliare speciale, prevista dalla legge a favore delle condannate madri di prole di età non superiore a dieci anni, dal regime di rigore che prevede il divieto di concessione dei benefici penitenziari per chi – detenuto e internato a seguito di alcuni gravi delitti – non collabori con la giustizia. La Corte ha precisato la necessità di una valutazione circa l’insussistenza di un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti, valorizzando il prioritario interesse del minore a mantenere un rapporto con la madre[75].

In via tendenziale, la giurisprudenza costituzionale si è orientata a riconoscere primazia alla instaurazione o al mantenimento di un rapporto quanto più possibile “normale” tra madri detenute e figli in tenera età[76], riconoscendo un rilievo prioritario alla tutela del minore, particolarmente meritevole di protezione[77], e ampliando le tutele riconosciute per via legislativa. Ha, così, progressivamente esteso le originarie previsioni sia a taluni soggetti (il padre o i minori disabili o di età superiore a quella prevista dalla legge)[78] sia per alcune tipologie di reati che ne erano inizialmente esclusi, mitigando le preclusioni e gli automatismi previsti dalla legge.

La Consulta ha così evidenziato la speciale rilevanza dell’interesse del figlio minore a mantenere un rapporto continuativo con la madre e con ciascuno dei genitori, dai quali ha diritto di ricevere cura, educazione e istruzione, posto che si tratta di un interesse complesso, articolato in diverse situazioni giuridiche e riconosciuto come preminente dalle normative interne e sovranazionali[79]. Proprio in nome della finalità della normativa di preservare il rapporto madre-figlio, ha dichiarato la manifesta irragionevolezza della disposizione che punisce l’allontanamento dal domicilio di una madre sottoposta a detenzione domiciliare, poiché imporrebbe un trattamento deteriore a carico della madre che debba scontare una pena pari o inferiore a quattro anni, rispetto a quello previsto per la madre che, in uguali condizioni, debba ancora espiare una pena maggiore[80].

Il giudice delle leggi ha ribadito la prevalenza, sull’interesse dello Stato all’esecuzione immediata della pena, della protezione del rapporto madre-figlio in un ambiente idoneo. L’incidente di costituzionalità era sorto in merito alla disposizione che impone il rinvio della pena detentiva nei confronti di donna incinta o madre di prole di età inferiore a un anno, nella parte in cui non consente al giudice di negare il differimento dell’esecuzione, qualora lo ritenga non adeguato alle finalità di prevenzione generale e la detenzione domiciliare non sia idonea a prevenire il rischio di recidiva. Secondo la Consulta, la disposizione non è irragionevole, poiché il rinvio del momento esecutivo non esclude la funzione di intimidazione e dissuasione della pena, non trattandosi di una rinuncia sine die della esecuzione. Inoltre, il rischio di una strumentalizzazione della maternità per ottenere il rinvio dell’esecuzione della pena è adeguatamente bilanciato dalle condizioni ostative alla concessione del differimento, ossia la dichiarazione di decadenza della madre dalla (allora) potestà sul figlio e il suo abbandono o l’affidamento del figlio ad altri[81].

Rispetto al requisito della necessaria collaborazione con la giustizia, quale causa di esclusione dai benefici di espiazione esterna, nel riconoscere la peculiarità del contrasto alla criminalità organizzata da perseguire tramite l’introduzione di uno sbarramento alla fruizione di benefici penitenziari, la Consulta ha ritenuto non legittima la preclusione automatica. Per quanto i benefici siano infatti costruiti in chiave di progresso trattamentale del condannato, che la condotta collaborativa attesta, non è possibile ammettere che il mancato accesso investa una misura finalizzata in modo preminente alla tutela dell’interesse di un soggetto distinto e, al tempo stesso, di particolarissimo rilievo, quale quello del minore in tenera età a fruire delle condizioni per un migliore e più equilibrato sviluppo fisio-psichico. Diversamente, il “costo” della strategia di lotta al crimine organizzato verrebbe a essere traslato su un soggetto terzo, estraneo tanto alle attività delittuose che hanno dato luogo alla condanna, quanto alla scelta del condannato di non collaborare[82].

La giurisprudenza costituzionale ha riconosciuto come l’estensione delle tutele della maternità per chi viva la condizione detentiva non può essere illimitata. Pure a fronte dell’interesse del minore, certamente di rango “elevato”, a fruire in modo continuativo dell’affetto e delle cure materne, non può ipotizzarsi il suo essere sottratto, in modo assoluto, al bilanciamento con interessi contrapposti, pure di rilievo costituzionale, quali la difesa sociale che l’esecuzione della pena garantisce.

A parere della Corte, è rimessa al prudente apprezzamento dei giudici la verifica circa l’insussistenza di un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti o di fuga, posto che «le esigenze collettive di sicurezza e gli obiettivi generali di politica criminale non possono essere perseguiti attraverso l’assoluto sacrificio della condizione della madre e del suo rapporto con la prole»[83]. Alla magistratura di sorveglianza è dunque rimessa la valutazione – caso per caso e di natura prognostica – circa la possibile commissione di delitti che rappresenta una condizione ostativa alla concessione dei benefici[84], comunque garantendosi la discrezionalità del legislatore[85]. La Corte è pure intervenuta quanto ai limiti all’accesso alla detenzione domiciliare finalizzata all’accudimento della prole, in ragione della tipologia di reato ostativo. Ne è risultata confermata la necessità di verificare il bilanciamento fra l’interesse del minore a beneficiare in modo continuativo dell’affetto e delle cure materne e le contrapposte esigenze, pure di rilievo costituzionale, quali quelle di difesa sociale, sottese alla necessaria esecuzione della pena. È stato così respinto l’automatismo, basato su indici presuntivi, cui segua il totale sacrificio dell’interesse del minore, senza possibilità per il giudice di valutare la sussistenza in concreto, nelle singole situazioni, delle ricordate esigenze di difesa sociale. Infatti, affinché l’interesse del minore non resti irragionevolmente recessivo rispetto alle esigenze di protezione della società dal crimine, «occorre che la sussistenza e la consistenza di queste ultime venga verificata (…) in concreto (…) e non già collegata ad indici presuntivi (…) che precludono al giudice ogni margine di apprezzamento delle singole situazioni»[86]. Resta, comunque, il dubbio generato dalla elencazione dei reati che ostano all’applicazione dei benefici penitenziari, poiché in essi sono incluse anche fattispecie espressione di marginalità sociale più che di pericolosità[87]. Sempre quanto ai possibili limiti nell’accesso ai benefici, in ragione della tipologia di reato commesso dalla madre, la Corte ha inoltre dichiarato l’illegittimità della disposizione che esclude il detenuto condannato per reati ostativi che non abbia ancora espiato almeno un terzo della pena dal beneficio dell’assistenza all’esterno dei figli di età non superiore ai dieci anni[88].

Quanto alle scelte legislative, la Corte ha riconosciuto la discrezionalità legislativa nel fissare limiti entro i quali i diversi principi possono trovare contemperata tutela[89], ad esempio, quanto alla considerazione dell’età del figlio come elemento che garantisce (o preclude) l’accesso con continuità alle cure materne. In materia di misure cautelari, il giudice delle leggi ha così ritenuto che non fosse censurabile la fissazione di un limite di età quale elemento da tutelare attraverso la continuità nel rapporto genitoriale[90]. Neppure è «in principio vietato alla legge differenziare il trattamento penitenziario delle madri condannate, a seconda della gravità del delitto commesso», riconoscendosi soltanto che l’assoluta e automatica preclusione per i reati ostativi lede l’interesse del minore, dotato di copertura costituzionale (ex art. 31, comma 2, Cost.). Per quanto siano scelte rientranti nella discrezionalità legislativa, occorre bilanciare la pretesa punitiva statale e le esigenze, che pure dovrebbero essere preminenti, di tutela della maternità e del minore, la cui automatica esclusione finirebbe per vanificare la ratio ispiratrice dei benefici dell’espiazione all’esterno, volti a ripristinare la convivenza tra madri e figli[91].

Il bilanciamento operato dalla Corte ha dunque assunto come fulcro le esigenze del minore e la continuità del suo legame con la madre reclusa, ma pure la difesa sociale che fonda i limiti previsti alla tutela della relazione genitoriale, nel rispetto della discrezionalità del legislatore nel fissare requisiti di accesso ai benefici e del giudice di decidere in base al caso concreto.

3. Le colpe dei padri non ricadano sui figli, ma quelle delle madri sì: lo scenario attuale e le possibili prospettive

Nel tentativo di ricomporre il quadro di insieme, appare interessante dare conto dell’assetto normativo attualmente vigente e dello stato dell’arte a partire dalla presenza numerica di madri detenute nei penitenziari italiani.

Ad oggi, le detenute madri con figli al seguito presenti negli istituti penitenziari italiani sono 49 e 54 i minori, di cui 11 donne con 14 minori al seguito non recluse negli Icam e, dunque, all’interno delle “sezioni nido”[92]. A seconda di come si intenda la questione, ciò può essere ritenuto una prova del successo della normativa, visto il numero contenuto di persone recluse, come pure del suo insuccesso poiché, comunque, vi sono minori trattenuti negli istituti penitenziari e che stanno scontando pene per azioni commesse dalle proprie genitrici[93]. Per quanto la lesione di un diritto non consenta distinzioni sulla base del quantum dei “protagonisti” della violazione, va ammesso che i numeri sono certamente contenuti, aspetto da considerare nell’ipotizzare possibili soluzioni, anche a fronte del verificarsi di fatti drammatici che impongono di agire per evitare simili vicende[94].

Alla luce del quadro normativo vigente, oggi, per le madri condannate in via definitiva, è garantita la temporanea libertà[95] fino al compimento dei tre anni del bambino,  nonché, sino ai dieci anni, la detenzione domiciliare[96] e l’assistenza extramuraria[97]. Al superamento del decimo anno di vita del bambino, l’ordinamento non ritiene più sussistente la necessità di proteggere la relazione materna, fatti salvi i casi di grave disabilità del figlio[98]. In caso di privazione della libertà a seguito dell’applicazione delle misure cautelari, la reclusione delle madri è possibile quando il bambino abbia superato l’anno di vita, posto che i suoi interessi cedono di fronte a esigenze cautelari di eccezionale rilevanza[99].

È dunque ancora presente – in nome della discrezionalità legislativa – un limite al di sopra del quale non è più possibile accedere ai benefici, fissato in tre, sei o dieci anni, reputate età in cui il bambino possa non avere ancora una propria autonomia o non comprendere appieno il contesto nel quale si trova[100].

Da notare come la recente riforma ha, da ultimo, definitivamente sdoganato l’espressione “asili nido” nell’ambito del contesto penitenziario, criticamente riproponendo l’ambiguità di fondo che rende pensabile la detenzione di bambini in tenera età.

Al quadro normativo interno si affiancano le regole di rango internazionale che richiamano la necessità di valutare la maternità e le sue peculiari esigenze[101], anche in chiave organizzativa e infrastrutturale[102], prendendo atto di come il carcere non sia un luogo idoneo per la crescita di un minore[103].

Il tema della tutela della maternità reclusa si mostra come certamente bisognoso di un complessivo ripensamento, sotto molti punti di vista.

Profonda è stata l’evoluzione e significativo lo stato dell’arte raggiunto, se paragonato ad alcuni decenni or sono, per quanto andrebbero ulteriormente valorizzati gli istituti e le fattispecie presenti nell’ordinamento. Si pensi, ad esempio, agli Icam esistenti, strutture di grande importanza[104], che andrebbero potenziate e affiancate da altri istituti e strumenti tali da rendere effettive le alternative alla detenzione delle donne madri recluse[105], come emerso in seno agli Stati generali dell’esecuzione penale[106].

I monitoraggi hanno messo in luce l’inadeguatezza anche delle sezioni o delle stanze deputate ad accogliere bambini fino ai tre anni di età – i cd. “asili nido” – quanto ai requisiti strutturali (adeguatezza delle stanze alle esigenze del bambino, cucina separata per i bimbi, presenza di un cortile attrezzato con giochi, di una ludoteca, di ambienti idonei per i colloqui con i familiari) e ai requisiti relativi alla qualità della vita dei bambini (presenza di personale specializzato e di volontari, convenzioni per l’inserimento scolastico, possibilità per i bambini di uscire con i volontari). Spesso, mancano cortili attrezzati per i bambini, ludoteche e locali idonei per i colloqui, come pure è assente personale loro dedicato e personale medico e sanitario specializzato, che viene chiamato in caso di necessità[107].

Non può tacersi il “peso” che, sulla vicenda, producono gli oneri economici evocati da questo tipo di soluzioni. Appare, infatti, un controsenso pensare a strumenti alternativi alla detenzione senza prevedere un impegno economico, come pure è peraltro accaduto di frequente[108]. L’aspetto problematico della questione non risiede (sol)tanto nella materiale impossibilità di realizzare queste strutture senza investimento economico alcuno, quanto piuttosto nella tiepida volontà di attuare strumenti alternativi alla detenzione che questo approccio testimonia[109].

La riflessione sulla condizione detentiva delle madri andrebbe poi collocata in una più generale riflessione sul tema del carcere, spesso inteso, non solo dal dibattito mediatico[110], come unica risposta alla commissione dei reati, in netta contrapposizione con il dettato costituzionale che espressamente si riferisce alle pene, nella loro accezione plurale. Dovrebbe, pertanto, intendersi il carcere come extrema ratio, sia nella fase di espiazione della pena sia, ancor più, in fase cautelare, valorizzando al massimo i possibili strumenti alternativi e non intendendo la privazione della libertà come risposta unica e indifferenziata a prescindere dalle condizioni – personali e materiali – della vicenda criminosa.

Più complessa appare la pensabilità di “femminilizzare” la risposta statale al crimine, che pure, in ipotesi, sembrerebbe possibile, anche attraverso l’attivazione di progetti specifici[111] e la creazione di strutture ad hoc ulteriori rispetto a quelle attualmente presenti. Infatti, l’esistenza di poche strutture dedicate alla detenzione femminile rispetto alle sezioni femminili all’interno di istituti maschili impone di tenere conto del principio di territorialità nell’esecuzione della pena, come pure del possibile effetto di marginalità che le detenute patiscono in contesti pensati per uomini[112].

Questi elementi consentirebbero di evitare lo “schiacciamento” della condizione detentiva femminile in sezioni interne alle strutture maschili, elemento che inevitabilmente ne condiziona ogni ulteriore aspetto, tra cui certamente il percorso trattamentale e le possibilità formative e occupazionali[113], con una sorta di “doppia segregazione” in ragione del genere[114]. Se, sul piano normativo, l’attenzione è stata rafforzata dalla recente riforma, si dovrà però verificare la sua attuazione sul piano pratico.

Posto che gli studi criminologici restituiscono un basso indice di pericolosità della popolazione detenuta femminile[115], si potrebbe forse rendere ancora più agevole il ricorso alle misure alternative sia durante la fase della cognizione, sia durante la fase della esecuzione[116]. Proprio al fine di garantire il superiore interesse del minore, o comunque la continuità nei contatti, con adeguati programmi di visita e colloqui in ambienti idonei, sono state proposte alcune linee guida tra cui è ricordata la valutazione di alternative alla detenzione[117].

Anche il tentativo di ripensare organizzazione e struttura penitenziaria per abbandonare il modello di istituto incentrato sulla sicurezza appare una possibile ipotesi, per quanto non sembri all’ordine del giorno dell’attuale legislatura. Al contrario, si segnalano criticamente alcune proposte di legge che non sembrano tenere conto dell’impatto della detenzione sui minori, mirando ad abbassare la soglia della punibilità a dodici anni[118].

In chiave di complessiva valutazione, appare importante mantenere netta la distinzione fra le ragioni della detenzione e l’idoneità genitoriale, poiché si tratta di prospettive che spesso tendono a confondersi, ma che dovrebbero invece essere opportunamente differenziate[119]. Certamente, la commissione di reati gravi può generare una presunzione di inidoneità e, dunque, condurre l’ordinamento a interrogarsi sul permanere della responsabilità genitoriale[120], la cui verifica deve però seguire un percorso parallelo incentrato sul minore coinvolto, che sgombri il campo dal rischio di un suo uso strumentale in chiave di pressione sul genitore ai fini della collaborazione o per lo scardinamento della criminalità organizzata[121].

È, pure, fondamentale interrogarsi circa le differenze previste in ragione dell’età del minore, della gravità dei reati e del motivo della carcerazione – dunque, se a seguito di una misura cautelare o della condanna, o ancora rispetto alla pena già scontata o residua –, in quanto aiuta nel mettere a fuoco quale sia l’obiettivo di tutela della normativa: se la condizione materna, se la relazione genitoriale di cura, se il bambino e il suo fascio di diritti e libertà, se i contro-interessi della difesa sociale.

Pare di doversi riproporre l’interrogativo di fondo da cui questa analisi ha preso le mosse, ossia la compatibilità tout court della detenzione con la condizione materna, che non dovrebbe soggiacere a limiti anagrafici del minore, quale soglia di (non) garanzia del rapporto affettivo. Così, pare difficile pensare alla tutela della maternità come costituzionalmente garantita, laddove questa ceda di fronte a esigenze di difesa sociale, peraltro spesso presupposte, ma non adeguatamente verificate per come si pongono nel caso concreto.

È certo che ogni operazione di bilanciamento debba assestarsi rispetto alla vicenda concreta, dovendosi però precisare come ciò sottintenda la comparabilità dei principi o valori che nel bilanciamento trovano ingresso. L’interrogativo è, allora, se possa configurarsi questa operazione tra la tutela della maternità e dell’infanzia, che trova un appiglio nella Carta costituzionale, e beni la cui tutela non è dotata di copertura costituzionale. Per quanto la giurisprudenza costituzionale[122] e quella convenzionale[123] abbiano individuato la difesa sociale come rientrante tra le finalità della pena, di concerto con obiettivi di prevenzione speciale e generale, l’esclusivo riferimento testuale in Costituzione è alla rieducazione del condannato. Peraltro, evocare le esigenze di difesa sociale significa comunque, implicitamente, assumere un livello minimo di offensività del comportamento, non sempre rinvenibile nei casi di carcerazione delle madri. Infatti, se il legame genitoriale può essere condizionato, non può però essere del tutto sacrificato, né peraltro la tutela dell’interesse del bambino coinvolto potrebbe posporsi rispetto a criteri generali e astratti, spesso soltanto apoditticamente riportati e non motivati, come la difesa sociale.

Pure, va considerato il caso in cui il bilanciamento possa prefigurarsi fra la tutela della relazione materna – che potrebbe, ad esempio, indurre a recludere il minore con lei convivente – e la tutela dell’infanzia attraverso la protezione della crescita del bambino dall’esperienza della reclusione. Per quanto la maternità possa certamente intendersi quale leva della riabilitazione della donna autrice di reato[124], è tuttavia fondamentale una lettura che ne intenda la tutela in una chiave non antagonista rispetto alla tutela dell’infanzia, tale da ammettere il sacrificio del superiore interesse del minore.

Conclusivamente, pare di potersi ammettere come una più attenta considerazione delle diverse istanze in gioco consentirebbe di costruire il bilanciamento senza, aprioristicamente, gerarchizzare diritti e libertà che – se dotati di copertura costituzionale – non possono essere sacrificati in nome di non meglio precisate esigenze contrapposte.

Diversamente, si ammetterebbe che il carcere non sia il luogo che la Costituzione deputa alla risocializzazione della persona che, tanto più quando reclusa nella condizione di maternità[125], necessita del massimo sostegno da parte dello Stato che ne assume la cura. Piuttosto, si ammetterebbe che esso si tramuti uno spazio fisico di contenimento e afflizione, riproponendo impostazioni oramai definitivamente superate e certamente incompatibili con l’impianto costituzionale che lo individua come «luogo di ricostruzione – o a volte di costruzione – del senso di legalità [in cui] non possono essere fatte vivere situazioni che ledono la legalità stessa»[126].

[*] L’Autrice desidera ringraziare sentitamente Alessandro Albano per l’attenta rilettura del presente lavoro, per i preziosi suggerimenti e per gli spunti di riflessione offerti.

[1] Per un inquadramento generale, vds. D.M. Schirò, Detenute madri, in Digesto pen., Agg., vol. IX, Utet, Torino, 2016, pp. 242 ss.

[2] La tutela della paternità è infatti avvenuta estendendo, in casi eccezionali, quanto previsto per le madri e nel solo caso di impossibilità di quest’ultima. Vds. infra.

[3] M.P. Giuffrida, Studio sulle donne ristrette negli istituti penitenziari, DAP - Gruppo di lavoro Icam, Roma, 3 aprile 2009.

[4] L. Ravagnani e C.A. Romano, Women in Prison. Indagine sulla detenzione femminile in Italia, Pensa, Lecce, 2013, p. 184.

[5] Ripercorre le possibili vicende del rapporto di filiazione, a seguito della carcerazione della madre, J. Long, Essere madre dietro le sbarre, in G. Mantovani (a cura di), Donne ristrette, Ledizioni, Milano, 2018, pp. 120 ss.; O. Robertson, Collateral Convicts: Children of incarcerated parents. Recommendations and good practice from the UN Committee on the Rights of the Child Day of General Discussion 2011, Quaker United Nations Office -Human Rights & Refugees Publications, Ginevra, marzo 2012. Vds. le risoluzioni del Parlamento europeo: 26 maggio 1989, sulla situazione di donne e bambini in carcere; 13 marzo 2008, sulla particolare situazione delle donne detenute e l’impatto dell’incarcerazione dei genitorisulla vita sociale e familiare; 15 dicembre 2011, sulle condizioni detentive nell’Ue; 27 novembre 2014, sul 25°anniversario della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia; 5 ottobre 2017, sui sistemi carcerari e le condizioni di detenzione. Vds. anche le raccomandazioni del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, tra cui le raccomandazioni: R(87)3 e R(2006)2, sulle regole penitenziarie europee; R(2000)1469, sulle madri e i neonati in carcere; R(2018)5, concernente i bambini figli di detenuti.

[6] Valorizza il portato di questa affermazione dell’art. 27, comma 3, A. Pugiotto, Il volto costituzionale della pena (e i suoi sfregi), in Dir. pen. cont., 28 maggio 2014, www.penalecontemporaneo.it/upload/1402260085PUGIOTTO%202014c.pdf.

[7] Così ricordano Franco Corleone e Andrea Pugiotto, nell’introduzione al volume Il delitto della pena, Ediesse, Roma, 2012. Sul tema, vds. l’importante lavoro di A. Pugiotto, La parabola del sovraffollamento carcerario e i suoi insegnamenti costituzionalistici, in Riv. it. dir. proc. pen., n. 3/2016, p. 1204; S. Buzzelli (a cura di), I giorni scontati. Appunti sul carcere, Sandro Teti Editore, Roma, 2012, p. 12, riferisce come già il termine “affollamento” sarebbe sufficiente a descrivere la concentrazione di un numero esorbitante di persone, l’ammasso, la ressa, oltre cui pare profilarsi il collasso.

[8] Si veda la posizione del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in F. Corleone e A. Pugiotto (a cura di), Il delitto della pena, op. cit., pp. 253 ss.

[9] Vds. Corte cost., 279/2013, con nota di A. Pugiotto, L’Urlo di Munch della magistratura di sorveglianza, in Dir. pen. cont., n. 1/2014, pp. 129-135; M. Ruotolo, Obiettivo carcere: guardando al futuro (con un occhio al passato), in questa Rivista trimestrale, n. 2/2015, www.questionegiustizia.it/rivista/2015/2/obiettivo-carcere_guardando-al-futuro_con-un-occhio-al-passato_235.php. La questione di legittimità costituzionale riguardava la possibilità di inserire, tra le ipotesi di rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena (con “addizione” all’art. 147 cp), la detenzione destinata a svolgersi in condizioni contrarie al senso di umanità in ragione del sovraffollamento. Pur riconoscendo la violazione del senso di umanità della pena, la Corte ha tuttavia deciso per l’inammissibilità, a fronte della pluralità di possibili soluzioni e in ragione dei limiti del proprio intervento, che consentono di adottare sentenze di accoglimento manipolative, di tipo additivo, solo in presenza delle cd. “rime obbligate”, ritenute assenti nel caso de quo. Ha così rimesso al legislatore la scelta del “come”, ricordando che non sarebbe «tollerabile il protrarsi dell’inerzia legislativa» e che dunque, in caso di inerzia, provvederà con «le necessarie decisioni dirette a far cessare l’esecuzione della pena in condizioni contrarie al senso di umanità». A. Ruggeri, Ancora una decisione d’incostituzionalità accertata ma non dichiarata (nota minima a Corte cost. n. 279 del 2013, in tema di sovraffollamento carcerario), in Consulta online, 26 novembre 2013, www.giurcost.org/studi/Ruggeri30.pdf; E. Malfatti, “Oltre le apparenze”: Corte costituzionale e Corte di Strasburgo “sintoniche” sull’(in)effettività dei diritti dei detenuti in carcere, in Quad. cost. (Forum), 16 dicembre 2013, www.forumcostituzionale.it/wordpress/images/stories/pdf/documenti_forum/giurisprudenza/2013/0033_nota_279_2013_malfatti.pdf; R. Basile, Il sovraffollamento carcerario: una problematica decisione di inammissibilità della Corte costituzionale, in Consulta online, 20 febbraio 2014, www.giurcost.org/studi/basile1.pdf. Sulle ordinanze di rimessione, vds. G. Dodaro, Il sovraffollamento delle carceri: rimedio extra ordinem contro le violazioni dell’art. 3 Cedu, in Quad. cost., 2013, pp. 428 ss.

[10] Le condizioni carcerarie sono state per anni oggetto di critiche da parte del Comitato europeo per la prevenzione della tortura. Anche la Corte Edu ha qualificato il trattamento italiano come inumano e degradante (Cedu, 16 luglio 2009, ric. n. 22635/03, Sulejmanovic c. Italia; 8 gennaio 2013, ricc. nn. 4357/09, 46882/09, 55400/09, 57875/09, 61535/09, 35315/10, 37818/10, Torreggiani e altri c. Italia, con nota di F. Rimoli, Il sovraffollamento carcerario come trattamento inumano e degradante, in Giur. it., 2013, pp. 1187 ss.; F. Viganó, Sentenza pilota della Corte EDU sul sovraffollamento delle carceri italiane: il nostro Paese chiamato all’adozione di rimedi strutturali entro il termine di 1 anno, in Dir. pen. cont., 9 gennaio 2013, www.penalecontemporaneo.it/d/1990-sentenza-pilota-della-corte-edu-sul-sovraffollamento-delle-carceri-italiane-il-nostro-paese-chiamat; P. Zicchittu, Considerazioni a margine della sentenza Torreggiani c. Italia in materia di sovraffollamento delle carceri, in Quad. cost., 2013, pp. 161 ss; G. Tamburino, La sentenza Torreggiani e altri della Corte di Strasburgo, in Cass. pen., 2013, pp. 11 ss.; M. Montagna, Art. 3 Cedu e sovraffollamento carcerario. La giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo ed il caso dell’Italia, in Federalismi, 17 maggio 2013, https://federalismi.it/nv14/articolo-documento.cfm?artid=22424). Imprescindibile, il riferimento a M. Ruotolo (a cura di), Il senso della pena. Ad un anno dalla sentenza Torreggiani della Corte Edu, Editoriale Scientifica, Napoli, 2014.

[11] La questione è complessa, ma merita un approfondimento alla luce della prevalente interpretazione – sia in dottrina sia nella giurisprudenza di merito e di legittimità – che intende la giurisprudenza della Corte di Strasburgo come agganciata al requisito spaziale dei 3 mq pro capite al di sotto dei quali si configurerebbe un trattamento inumano e degradante e, dunque, una automatica violazione dell’art. 3 Cedu (contra, vds. però A. Albano e F. Picozzi, Considerazione in tema di (misurazione dello) spazio detentivo minimo: lo stato dell’arte, in Archivio penale web, n. 1/2015, pp. 1-15; Iid., Considerazioni sui criteri di calcolo dello spazio detentivo minimo, in Cass. pen, 2014, p. 2679). Per quanto queste siano le conclusioni della pronuncia Torreggiani c. Italia, sono state le successive – fluviali - pronunce del giudice convenzionale a mettere a fuoco criteri sempre più puntuali nel definire quando il sovraffollamento generi una violazione dell’art. 3 Cedu, configurando una forma di trattamento inumano e degradante. Ci si riferisce, in particolare, a Muršic c. Croazia, 16 ottobre 2016, ric. n. 7334/13, su cui vds. A. Albano, Prime osservazioni sulla sentenza 20 ottobre 2016 della Corte europea dei diritti dell’uomo in Muršic c. Croazia: un caso icastico, in Rass. penit. crim., n. 3/2015, p. 168. Nel dettare una sorta di catalogo sulle modalità di computo degli spazi, la Corte ha superato gli automatismi che relegano a “forte presunzione” (e non a violazione automatica) la detenzione in spazi particolarmente esigui, che può essere compensata da altre condizioni (ad esempio, la permanenza al di fuori della cella per la maggior parte della giornata). La Corte ha pure indicato le modalità della misurazione degli spazi (al netto del servizio igienico e al lordo della mobilia), ferma restando la necessità di garantire la libertà di movimento nella cella (secondo quello che viene definito il “test Ananyev”, derivato da Ananyev e altri c. Russia, 10 gennaio 2012 (ric. nn. 42525/07 e 60800/08), § 148. Sbrigativamente, ma in modo certamente non conforme a queste indicazioni, la Corte di cassazione e la magistratura di sorveglianza hanno ritenuto vincolanti le indicazioni di Strasburgo quanto alla soglia minima di 3 mq, da garantire in modo inderogabile, mentre vistose incertezze vi sono state quanto alle modalità del calcolo (in specie quanto all’inclusione del mobilio e del bagno). Vds. inter alia, Cass., 13 dicembre 2016, n. 52819. Per una attenta ricostruzione dei diversi orientamenti e una valutazione dell’impatto di tale erronea interpretazione, vds. A. Albano e F. Picozzi, La Cassazione alle prese con la giurisprudenza CEDU sul sovraffollamento carcerario: anamorfosi della sentenza Muršic, in Cass. pen., nn. 7-8/2018, pp. 2875-2888. Curiosamente, con quello che è stato criticamente definito come “doppio standard”, se il giudice della legittimità ritiene vincolante l’indicazione della giurisprudenza convenzionale ai fini dell’inquadramento come trattamento inumano e degradante della detenzione in spazi ristretti, così non è rispetto alle strutture penitenziarie di altri Paesi, rispetto ai quali i parametri di valutazione utilizzati paiono maggiormente accomodanti. Sul punto, vds. A. Albano e F. Picozzi, Il doppio standard della Cassazione in tema di condizioni detentive inumane e degradanti, in Cass. pen., n. 11/2018, pp. 3641 ss. È importante ricordare pure come, in seno al Consiglio d’Europa, ogni singolo Stato adotti propri criteri di computo del sovraffollamento, di fatto falsando le classifiche comparative, che comunque sono riportate sulla base di dati non sempre realistici. Simile aspetto è stato peraltro rilevato, ma non superato, vds. il report di M.A. Aebi e N. Delgrande, Space I. Council of Europe Annual Penal Statistics. Prison populations. Survey 2012, Strasburgo, 2014, in www3.unil.ch/wpmu/space/space-i/annual-reports, p. 56. Infatti, «[c]omparisons of prison overcrowding should be conducted cautiously as the rules for establishing the capacity of penal institutions vary from country to country», che comunque riporta tabelle di natura comparativa. Al netto delle considerazioni di merito, queste precisazioni, acutamente addotte da una dottrina sinora minoritaria che, da tempo, ha rilevato l’impossibilità di comparare grandezze non omogenee (supra), consentono di relativizzare le ingenerose classifiche che proiettano l’Italia come “seconda solo alla Serbia” nel tasso di sovraffollamento e di ricordare come, ad esempio, sul piano interno, venga utilizzato un criterio assai più generoso dei 3 mq pro capite, ossia «9 mq, se per una persona», ai quali vanno aggiunti «ulteriori 5 mq per ciascun detenuto nelle camere detentive multiple», previsti per la quantificazione degli spazi delle camere da letto nelle civili abitazioni (Ministero della sanità, dm 5 luglio 1975). Per quanto possa apparire un tecnicismo, la questione non è soltanto di natura numerica, posto che il mancato rispetto non può considerarsi immediatamente giustiziabile. Resta, infine, problematica l’assenza di una definizione normativa del sovraffollamento.

[12] Palesa simile rischio A. Albano, Prime osservazioni, op. cit., p. 157, laddove, in un lavoro di commento al caso Muršic, rileva come la rigidità nel computo dello spazio minimo vitale rischi di tradursi in una derogabilità in peius delle condizioni complessive di vivibilità delle celle, ad esempio rispetto alla presenza della mobilia, che è certamente un progresso, ma che, misurando la superficie al netto dei mobili, rischia di innescare una spirale regressiva orientata all’eliminazione degli arredi dalle camere di pernottamento, fino all’installazione di letti a scomparsa.

[13] J. Long, Essere madre dietro le sbarre, op. cit., p. 122, richiama la dottrina che ha rilevato come, spesso, le donne con prole recluse per reati come furto, rapina, truffa, violazione della legge sulla droga, sfruttamento della prostituzione, riduzione in schiavitù non possono fruire di misure alternative poiché senza il domicilio necessario per l’ottenimento della detenzione domiciliare, in casi frequenti trattandosi di donne straniere e/o rom e sinte.

Altro aspetto che meriterebbe un approfondimento a sé stante riguarda la constatazione che molte donne si trovino a essere condannate al carcere per crimini applicati, nella sostanza, al solo genere femminile. Si pensi, in alcuni contesti stranieri, all’adulterio, alla violazione delle regole sull’abbigliamento, alla prostituzione, persino alla violenza sessuale subita, che è in reato in molti ordinamenti. Così C.A. Romano e L. Ravagnani, La detenzione al femminile in una prospettiva sovranazionale, in D. Pajardi - R. Adorno - C.M. Lendaro - C.A. Romano (a cura di), Donne e carcere, Giuffré, Milano, 2018, pp. 267 ss., spec. p. 276.

[14] Si veda, in proposito, l’attento lavoro di B. Giors, Il diritto all’affettività tra norme e prassi penitenziarie, in G. Mantovani (a cura di), Donne ristrette, op. cit., 59 ss. che richiama la questione dell’accesso alle tecniche di procreazione assistita e le difficoltà di concepimento, ad esempio, per coloro che sono destinate a lasciare l’istituto in età non più fertile (pp. 95 ss.).

[15] G. Mantovani (a cura di), Donne ristrette, op. ult. cit.; M. De Pascalis, Uno sguardo al carcere femminile - Prefazione, in L. Ravagnani e C.A. Romano, Women in Prison, op. cit., pp. 7 ss. e in particolare, p. 13. Vds., però, gli studi di C. Pecorella e C. Juanatey Dorado, Madres con hijos en prisión: una visión comparada de los sistemas penitenciarios español e italiano, in C. Juanatey Dorado e N. Sánchez-Moraleda Vilches (a cura di), Derechos del condenado y necesidad de pena, Aranzadi, Pamplona, 2018, pp. 311-341; C. Pecorella, Donne in carcere. Una ricerca empirica tra le donne detenute nella II Casa di Reclusione di Milano-Bollate, in C.E. Paliero - F. Viganò - F. Basile - G.L. Gatta (a cura di), La pena, ancora. Fra attualità e tradizione. Studi in onore di Emilio Dolcini, Vol. II, Giuffrè, Milano, 2018, pp. 663-689.

Va ricordato come, nel 2016, venne promossa dalla «International Association Women Judges» (IAWJ), ossia dall’associazione mondiale delle magistrate, una conferenza mondiale proprio con l’obiettivo di avviare una riflessione sul tema. Sul piano interno, nello stesso anno, l’«Associazione Donne Magistrato Italiane» (ADMI) aveva dedicato alla condizione femminile reclusa il proprio convegno associativo, le cui riflessioni sono raccolte nel volume D. Pajardi - R. Adorno - C.M. Lendaro - C.A. Romano (a cura di), Donne e carcere, Giuffré, Milano, 2018, in specie nel contributo di C.M. Lendaro, Dalla 13^ Conferenza biennale 2016 I.A.W.J-International Association Women Judges – (Washington D.C., 2016) al Convegno A.D.M.I. “Donne e carcere – normativa, criticità e soluzioni” (Lecce, 2016), pp. 239 ss.

[16] I. Casciaro, Esecuzione e carcere: uno sguardo alle problematiche femminili, in D. Pajardi - R. Adorno - C.M. Lendaro - C.A. Romano (a cura di), Donne e carcere, op. cit., p. 124.

[17] M. De Pascalis, Uno sguardo, op. cit., p. 7; G. Fabini, Donne e carcere: quale genere di detenzione?, in Associazione Antigone, Torna il carcere - XIII Rapporto sulle condizioni di detenzione, disponibile al seguente link: www.antigone.it/tredicesimo-rapporto-sulle-condizioni-di-detenzione/03-detenzione-femminile/.

[18] I. Casciaro, Esecuzione e carcere, op. cit.; M. De Pascalis, Uno sguardo, op. cit., p. 7.

[19] Per quanto esuli dal presente lavoro, si rinvia a chi ha affrontato le specificità del tema, rilevando come la detenzione del minore con la madre tenda a innescare sentimenti di inadeguatezza e di privazione di autorevolezza genitoriali indotti dallo stato detentivo. Infatti, se il rapporto affettivo simbiotico con la madre si esprime in un contesto chiuso, delimitato da sbarre e caratterizzato da rumori anomali rispetto alla società esterna (si pensi ai chiavistelli), nonché da poca luce e aria, diventa una pressione reciproca. M.L. Fadda, La detenzione femminile: questioni e prospettive, in Ristretti orizzonti, aprile 2010, www.ristretti.it/commenti/2010/aprile/pdf12/articolo_fadda.pdf.

[20] M. Miravalle, Quale genere di detenzione? Le donne in carcere in Italia e in Europa, in G. Mantovani (a cura di), Donne ristrette, op. cit., pp. 31 ss.

[21] L. Ravagnani, C.A. Romano, Women in Prison, op. cit., p. 14. Gli Autori ricordano come, nel preambolo alle «United Nations Rules for the Treatment of Women Prisoners and Non-custodial Measures for Women Offenders» (cd. “Bangkok Rules”,ossia le regole delle Nazioni Unite, adottate dall’Assemblea generale nel dicembre 2010, relative al trattamento delle donne detenute e alle misure non detentive per le donne autrici di reato), venga riportato come la maggior parte delle prigioni siano pensate per detenuti uomini. Sulle Bangkok Rules, vds. P.H. Van Kempen e M. Krabbe (a cura di), Women in prison. The Bangkok Rules and Beyond, Intersentia, Cambridge-Antwerp-Portland, 2017; I. Casciaro, Esecuzione e carcere, op. cit., pp. 125 ss.

[22] Vds., però, L. Ravagnani e C.A. Romano, Women in Prison, op. cit.; G. Fabini, Donne e carcere, op. cit., la quale ricorda che le donne vengono più frequentemente condannate alla pena detentiva per reati legati al patrimonio, alla droga e contro la persona; J. Long, Essere madre dietro le sbarre, op. cit.

[23] È solo possibile, in questo scritto, dare rapidamente conto di come la questione dello schiacciamento del femminile in una prospettiva che lo confina nell’alterità dal maschile, dunque marcandolo implicitamente con un segno di disvalore, attraversa tutto il dibattito femminista. Specificamente, quanto all’universo carcerario, vds. S. Ronconi e G. Zuffa, Recluse. Lo sguardo della differenza femminile sul carcere, Ediesse, Roma, 2014.

[24] C. Cantone, La detenzione al femminile, in D. Pajardi - R. Adorno - C.M. Lendaro - C.A. Romano (a cura di), Donne e carcere, op. cit., pp. 185 ss., rileva la specificità non soltanto dell’analisi criminologica, ma anche di quella psico-sociale e trattamentale, evidenziando come la marginalità numerica porti con sé il rischio di rendere invisibile la condizione femminile. Vds. S. Squilloni, La criminalità femminile come differenza tra i sessi: teorie classiche, in Psicolab, 26 giugno 2008, www.psicolab.net/2008/la-criminalita-femminile-come-differenza-tra-i-sessi-teorie-classiche/.

[25] L. De Cataldo Neuburger, Dati e tendenze della criminalità femminile in prospettiva internazionale, in Id. (a cura di), La criminalità femminile tra stereotipi culturali e malintese realtà, atti del convegno di Noto, 1995, Cedam, Padova, 1996, p. 65.

[26] J. Long, Essere madre dietro le sbarre, op. cit., pp. 111 ss., rileva come ogni valutazione della magistratura di sorveglianza sia incentrata sulla pericolosità sociale dell’autore di reato e sulle sue prospettive di reinserimento sociale, elemento che tende inevitabilmente, ma inesorabilmente, a far scivolare in secondo piano l’interesse del minore, anche in ragione dell’ancora incerta collaborazione fra autorità giudiziaria (penale, civile e di sorveglianza), amministrazione penitenziaria e servizi sociali territoriali.

[27] M. Miravalle, Dagli ospedali psichiatrici giudiziari alle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza: un approccio socio-giuridico; G. Rivellini, Luoghi e trattamento della criminalità femminile condizionata dal disturbo mentale. Dati nazionali, analisi e prospettive; F. Pennazio e V. Villari, Imputabilità, pericolosità sociale e misure di sicurezza: esistono differenze di genere?, in G. Mantovani (a cura di), Donne ristrette, op. cit., rispettivamente pp. 367, 391 e 483.

[28] Vds. M. Consito, La detenzione amministrativa dello straniero: profili generali, e C. Mazza, Le donne del Centro di permanenza per i rimpatri di Ponte Galeria, in G. Mantovani (a cura di), Donne ristrette, op. ult. cit., rispettivamente pp. 505 e 527.

[29] L. Ravagnani e C.A. Romano, Women in Prison, op. cit., p. 15, secondo cui non vi era alla base soltanto la necessità di proteggere le donne da possibili abusi da parte della popolazione reclusa maschile, ma anche l’idea di proteggere quest’ultima dall’immoralità femminile.

[30] Per un’analisi sul dibattito, all’interno della scuola positiva, intorno all’imputabilità al femminile, ispirate a un’idea di diversità come inferiorità, fisica e mentale, delle donne, vds. I. Ferrero, “Eva delinquente”: la scuola positiva e l’imputabilità al femminile, in G. Mantovani (a cura di), Donne ristrette, op. cit., 489. L. Ravagnani e C.A. Romano, Women in Prison, op. cit., p. 15, ricostruiscono il duplice filone di pensiero che, da un lato, argomentava circa la diversa e minore imputabilità della donna in ragione della sua inferiorità giuridica, che doveva dunque condurre a una risposta correttiva più che punitiva e, dall’altro, sosteneva un’imputabilità pari a quella degli uomini.  A. Pennini, Note sulla detenzione femminile in Piemonte dall’antico regime all’Ottocento, e M. Riberi, La criminalità femminile in Piemonte attraverso le sentenze degli organi giudiziari (1802-1861), in G. Mantovani (a cura di), Donne ristrette, op. cit., rispettivamente, pp. 182 e 157 ss.

[31] Al dibattito sulla detenzione non si accompagnò, infatti, una pari riflessione sulla condizione femminile. S. Trombetta, Punizione e carità. Carceri femminili nell’Italia dell’Ottocento, Il Mulino, Bologna, 2004, p. 26.

[32] L. Ravagnani e C.A. Romano, Women in Prison, op. cit., p. 16, si riferiscono alle riflessioni elaborate in seno al V Congresso penitenziario internazionale di Parigi, nel 1857.

[33] S. Trombetta, Punizione e carità, op. cit., p. 62; I. Ferrero, “Eva delinquente”, op. cit., p. 489.

[34] Vds. gli artt. 146 e 147 cp, nella loro originaria formulazione. Anche il regolamento per gli istituti di prevenzione e di pena, approvato con rd 18 giugno 1931, n. 787 («Regolamento degli istituti di prevenzione e pena»), in vigore fino al 1975, all’art. 43, prevedeva per i bambini sino ai due anni di età la possibilità di rimanere presso le madri, consentendo la cd. “carcerazione degli infanti”. Vds. D.M. Schirò, L’interesse del minorenne ad un rapporto quanto più possibile “normale” con il genitore: alcune considerazioni a margine della sentenza della Corte costituzionale n. 174 del 2018, in Dir. pen. cont., n. 11/2018, p. 110, e J. Long, Essere madre dietro le sbarre, op. cit., pp. 117 ss.

[35] G. Mantovani, La de-carcerazione delle madri nell’interesse dei figli minorenni: quali prospettive?, in Dir. pen. cont., n. 1/2018, pp. 231 ss.; G. Mantovani, La marginalizzazione del carcere in funzione di tutela della relazione madre-figlio, in G. Mantovani (a cura di), Donne ristrette, op. cit., 196 ss.

[36] Art. 1, comma 1, l. 26 luglio 1975, n. 354, «Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative» - d’ora in avanti: o.p.

[37] Art. 1, comma 1, d.lgs n. 230/1999. M. Ruotolo, Salute e carcere, in L. Chieffi (a cura di), Bioetica pratica e cause di esclusione sociale, Mimesis, Milano, 2012, p. 60; Id., Diritti dei detenuti e Costituzione, Giappichelli, Torino, 2002; Id., Dignità e carcere, Editoriale Scientifica, Napoli, 2014; Id., Carcere e inclusione sociale, in C. Pinelli (a cura di), Esclusione sociale. Politiche pubbliche e garanzie dei diritti, Passigli, Firenze, 2012, pp. 125-138; Id., La tutela dei diritti dei detenuti, in Aa. Vv., I diritti dei detenuti e la Costituzione, atti del 41° Convegno nazionale SEAC, Herald, Roma, 2009, pp. 90-105; M. Caredda, La salute e il carcere. Alcune riflessioni sulle risposte ai bisogni di salute della popolazione detenuta, in Costituzionalismo, n. 2/2015, pp. 1-31 (www.costituzionalismo.it/download/Costituzionalismo_201502_519.pdf).

[38] Il Ssn deve assicurare «livelli di prestazione analoghi a quelli garantiti ai cittadini liberi» (art. 1, comma 2, lett. a, d.lgs n. 230/1999).

[39] Vds. art. 11, commi 8 e 9, o.p.

[40] J. Long, Essere madre dietro le sbarre, op. cit., pp. 118 ss. che dà conto degli studi sul benessere dei bambini reclusi, ponendo in bilanciamento l’interesse del minore alla vita familiare rispetto a quello a non venire a contatto con una struttura carceraria, certamente poco idonea.

[41] Art. 47-ter, o.p., aggiunto dalla l. 10 giugno 1986, n. 663, «Modifiche alla legge sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà». Si tratta di una disposizione modificata a più riprese da: dl 13 maggio 1991, n. 152, conv. mod. l. 12 luglio 1991, n. 203; dl 14 giugno 1993, n. 187, conv. mod. l. 12 agosto 1993, n. 296; l. 27 maggio 1998, n. 165, cd. “Legge Simeone” (che ha aumentato prima a cinque, poi a dieci anni l’età-soglia del figlio in presenza della quale la madre può essere ammessa alla detenzione domicialire); dl 24 novembre 2000, n. 341, conv. mod. l. 19 gennaio 2001, n. 4; l. 5 dicembre 2005, n. 251; l. 21 aprile 2011, n. 62; dl 1 luglio 2013, n. 78, conv. mod. l. 9 agosto 2013, n. 94; dl 23 dicembre 2013, n. 146, conv. mod. l. 21 febbraio 2014, n. 10. R. Mastrotauro, La detenzione domiciliare, in D. Pajardi - R. Adorno - C.M. Lendaro - C.A. Romano (a cura di), Donne e carcere, op. cit., pp. 103 ss.

[42] Secondo gli artt. 58-quater e 4-bis o.p., l’accesso alle misure alternative, inclusa la detenzione domiciliare, era precluso a soggetti per quei reati che destano maggiore allarme sociale, quali ad esempio l’appartenenza a forme di criminalità organizzata, con una scelta giudicata poco attenta ai bisogni del minore; L. Caraceni, Preclusioni assolute exart. 58-quaterord. pen. e detenzione domiciliare speciale: verso una nuova declaratoria di incostituzionalità?, in Dir. pen. cont., n. 10/2018, pp. 257 ss.; R. Mastrotauro, La detenzione domiciliare, op. cit., pp. 108-109 e 114 ss., su cui è intervenuta Corte cost., n. 239/2014, dichiarando l’incostituzionalità, su cui v. infra. G. Mantovani, La marginalizzazione del carcere, op. cit.,pp. 196 ss.

[43] Corte cost., n. 215/1990.

[44] Art. 47-quinquies, comma 7, o.p.; G. Mantovani, La de-carcerazione delle madri, op. cit.; G. Mantovani, La marginalizzazione del carcere, op. cit., pp. 196 ss.

[45] La legge 8 marzo 2001, n. 40: «Misure alternative alla detenzione a tutela del rapporto tra detenute e figli minori» – fu detta anche “legge otto marzo” poiché approvata in questa data. Vds. P. Canevelli, Misure alternative al carcere a tutela delle detenute madri. Il commento, in Dir. pen. proc., 2001, p. 807; L. Cesaris, Misure alternative alla detenzione a tutela del rapporto tra detenute e figli minori (l. 8.3.2001 n. 40), in Legisl. pen., 2002, p. 547.

[46] R. Mastrotauro, La detenzione domiciliare, op. cit., p. 104, ritiene invece che, sino a quel momento, vi fosse una preminenza della tutela della maternità più che dell’infanzia.

[47] Così, per le persone affette da AIDS conclamata, da grave deficienza immunitaria o da altra malattia particolarmente grave.

[48] Art. 21-bis, o.p., modificato dall’art. 5, l. n. 40/2001.

[49] Art. 284, comma 1, cpp.

[50] C. Vergine, La vicenda cautelare: le modalità esecutive delle misure custodiali, in D. Pajardi - R. Adorno - C.M. Lendaro - C.A. Romano (a cura di), Donne e carcere, op. cit., pp. 79 ss.

[51] Vds. l. 21 aprile 2011, n. 62, «Modifiche al codice di procedura penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, e altre disposizioni a tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori, di modifica del co.1, art. 47-quinquies»; S. Marcolini, Legge 21 aprile 2011, n. 62 (Disposizioni in tema di detenute madri), in Dir. pen. cont., 5 maggio 2011, www.penalecontemporaneo.it/d/520-legge-21-aprile-2011-n-62-disposizioni-in-tema-di-detenute-madri; G. Di Rosa, La detenzione delle donne con figli minori e l’istituto a custodia attenuata per madri (I.C.A.M.) di Milano, in Cass. pen., n. 12/2009, pp. 4899 ss.; G. Longo e A. Muschitiello, L’accoglienza dei bambini negli Istituti Penitenziari della Lombardia – l’esperienza pilota dell’ICAM di Milano, in Quad. ISSP, n. 13/2015, pp. 129 ss.; G. Dosi, Migliorano le condizioni delle mamme detenute ma la partita si gioca sulle strutture alternative, in Guida dir., n. 17/2011, p. 9; F. Fiorentin, La misura dell’affidamento presso le case famiglia pienamente operativa solo dopo il 31 dicembre 2013, in Guida dir., n. 23/2011, p. 46; Id., Tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori, in Giur. mer., 2011, p. 2616; P. Pittaro, La nuova normativa sulle detenute madri. Il commento, in Dir. pen. proc., 2011, p. 870; L. Scomparin, Una “piccola” riforma del sistema penitenziario nel segno della tutela dei diritti dell’infanzia, in Legisl. pen., 2011, p. 597. Di matrice empirica, vds. G. Manzelli, La prima esperienza degli istituti a custodia attenuata per detenute madri, in D. Pajardi - R. Adorno - C.M. Lendaro - C.A. Romano (a cura di), Donne e carcere, op. cit., p. 211.

[52] C. Vergine, La vicenda cautelare, op. cit., pp. 96-97.

[53] Si tratta dei reati indicati nell’art. 4-bis o.p.

[54] Art. 47-ter, comma 1-ter, o.p.

[55] Art. 47-quinquies, comma 1-bis, o.p.

[56] F. Fiorentin, Tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori, in Giur. mer., n. 11/2011, p. 2626.

[57] D.lgs 2 ottobre 2018, n. 123, art. 11, lett. e.

[58] Art. 14 o.p.

[59] Art. 1 comma 85, lett. s, l. n. 103/2017.

[60] Art. 47-ter, comma 1-ter, o.p.

[61] Art. 275, comma 4 cpp, secondo cui il divieto di disporre la custodia cautelare in carcere per la donna incinta o madre di prole con una età inferiore ai sei anni con lei convivente viene meno qualora sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza. Si tratta di quella che è stata definita una presunzione di segno contrario, ossia di “non necessità” della custodia: così, vds.. R. Adorno, La vicenda cautelare: presupposti e criteri di scelta delle misure de libertate, in D. Pajardi - R. Adorno - C.M. Lendaro - C.A. Romano (a cura di), Donne e carcere, op. cit., p. 57. Come ricorda D.M. Schirò, L’interesse del minorenne, op. cit., pp. 114-115, tuttavia, anche nell’ipotesi in cui vi siano esigenze cautelari, il giudice potrebbe disporre la custodia della madre di prole in tenera età in un luogo diverso dal carcere, in specie in un istituto a custodia attenuata per detenute madri, ove tuttavia le esigenze cautelari di eccezionale rilevanza lo consentano.

[62] Relazione illustrativa, p. 5.

[63] R. Adorno, La vicenda cautelare, op. cit., p. 62.

[64] Artt. 146, 147 e 211-bis cp.

[65] Art. 47-ter e 47-quinques o.p.

[66] Art. 21-bis o.p.

[67] Sono state fatte proprie le conclusioni della pronuncia Corte cost., n. 350/2003, ampliando le tutele al «figlio affetto da disabilità grave ai sensi dell’articolo 3, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104, accertata ai sensi dell’articolo 4 della medesima legge»; il dettato normativo sembrerebbe prescindere dalla convivenza, con una operatività anche in rapporto alla detenzione domiciliare speciale, destinata ai genitori (madri in primo luogo) condannati a pene detentive medio-lunghe o all’ergastolo.

[68] D.lgs n. 123/2018, art. 11, comma 7, lett. e, n. 3), di modifica all’art. 14 o.p.

[69] Il limite di età del figlio deve infatti sussistere al momento in cui si chiede accesso al beneficio, non quando il tribunale delibera o nel prosieguo. Vds. L. Cesaris, Per una più efficace tutela del rapporto genitoriale: la proroga della detenzione domiciliare comune, in G. Giostra e P. Bronzo (a cura di), Proposte per l’attuazione della delega penitenziaria, in Dir. pen. cont., 15 luglio 2017, p. 319.

[70] Così il criterio direttivo contenuto nell’art. 1, comma 85, lett. e, l. n. 103/2017; G. Mantovani, La de-carcerazione delle madri, op. cit., p. 249.

[71] D.lgs n. 123/2018, art. 11, comma 7, lett. e, n. 1), di modifica all’art. 14 o.p. Sul tema specifico dell’affettività della madre detenuta, vds. B. Giors, Il diritto all’affettività, op. cit.;M. Masi, Brevi considerazioni sul diritto all’affettività della detenuta nella dinamica dei principi europei, in D. Pajardi - R. Adorno - C.M. Lendaro - C.A. Romano (a cura di), Donne e carcere, op. cit., p. 255.

[72] D.lgs n. 123/2018, art. 11, comma 7, lett. e, n. 3), di modifica all’art. 14, comma 5, o.p.

[73] D.lgs n. 123/2018, art. 11, comma 7, lett. h, n. 1), di modifica all’art. 19 o.p.

[74] D.lgs n. 123/2018, art. 1, comma 8, di modifica all’art. 11 o.p.

[75] Corte cost., n. 239/2014, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, o.p. nella parte in cui non esclude dal divieto di concessione dei benefici penitenziari, da esso stabilito, la misura della detenzione domiciliare speciale prevista dall’art. 47-quinquies o.p. e, in via conseguenziale, dell’art. 4-bis, comma 1, o.p. nella parte in cui non esclude dal divieto di concessione dei benefici penitenziari, da esso stabilito, la misura della detenzione domiciliare prevista dall’art. 47-ter, comma 1, lett. a e b, o.p., ferma restando la condizione dell’insussistenza di un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti. Vds. A.M. Capitta, Detenzione domiciliare per le madri e tutela del minore: la Corte costituzionale rimuove le preclusioni stabilite dall’art. 4-bis, co. 1, ord. penit. ma impone la regola di giudizio, in Arch. pen., n. 3/2014; L. Pace, La “scure della flessibilità” colpisce un’altra ipotesi di automatismo legislativo. La Corte dichiara incostituzionale il divieto di concessione della detenzione domiciliare in favore delle detenute madri di cui all’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario, in Giur. cost., n. 5/2014, pp. 3948 ss.; F. Siracusano, Detenzione domiciliare e tutela della maternità e dell’infanzia: primi passi verso l’erosione degli automatismi preclusivi penitenziari, ivi, pp. 3940 ss.; G. Tabasco, La detenzione domiciliare speciale in favore delle detenute madri dopo gli interventi della Corte costituzionale, in Arch. pen., n. 3/2015; U. Zingales, Benefici penitenziari alle madri di bambini con età inferiore a 10 anni. Commento alla sentenza n. 239 del 22 ottobre 2014 della Corte Costituzionale, in Minorigiustizia, n. 2/2015, pp. 186 ss.; F. Fiorentin, La Consulta dichiara incostituzionale l’art. 4 bis ord. penit. laddove non esclude dal divieto di concessione dei benefici la detenzione domiciliare speciale e ordinaria in favore delle detenute madri, in Dir. pen. cont., 27 ottobre 2014, www.penalecontemporaneo.it/d/3395-la-consulta-dichiara-incostituzionale-l-art-4-bis-ord-penit-laddove-non-esclude-dal-divieto-di-conc; F. Cassibba, La Consulta accantona la prevedibilità delle nuove contestazioni e compie un’incursione sul diritto vivente, in Arch. pen., n. 1/2015, pp. 1-7.

[76] Corte cost., nn. 239/2014 e 177/2009.

[77] Vds. ancora, Corte cost., nn.: 239/2014, 177/2009, 350/2003 e 76/2017, su cui vds. G. Leo, Un nuovo passo della Consulta per la tutela dei minori con genitori condannati a pene detentive, e contro gli automatismi preclusivi nell’ordinamento penitenziario, in Dir. pen. cont., n. 5/2017, pp. 321 ss.; P. Sechi, Nuovo intervento della Corte costituzionale in materia di automatismi legislativi e detenzione domiciliare speciale, in Giur. cost., 2017, p. 733; A. Menghini, Cade anche la preclusione di cui al comma 1 bis dell’art. 47 quinquies ord. penit., in Dir. pen. proc., n. 8/2017, p. 1047; L. Pace, Preminente interesse del minore e automatismi legislativi alla luce della sentenza costituzionale n. 76 del 2017, in Studium iuris, 2017, p. 1453; D. Mone, Bambini e madri in carcere. Il rapporto detenute madri e figli fra esigenze di sicurezza sociale, dignità umana e diritti del bambino, in Diritto pubblico europeo, rassegna online, n. 2/2017, www.edizioniesi.it/dperonline/data/uploads/articoli/mone_formattato.pdf; M. Tiberio, La detenzione domiciliare speciale nella lettura della Corte costituzionale, in Arch. nuova proc. pen., n. 6/2017, pp. 593 ss.; S. Tognazzi, La detenzione domiciliare della madre: bilanciamento tra tutela della collettività e tutela del minore, in Dir. pen. proc., n. 8/2018, pp. 1034 ss.; E. Farinelli, Verso il superamento delle presunzioni penitenziarie tra ragionevolezza in concreto e prevalenza dello “speciale interesse del minore”, in Proc. pen. giust., n. 5/2017, p. 872. Vds. D.M. Schirò, L’interesse del minorenne, op. cit., p. 119, che analizza la giurisprudenza costituzionale nella prospettiva del minore coinvolto.

[78] Le tutele a favore dei figli fino a una certa età sono state estese, nel caso della detenzione domiciliare ordinaria, anche in caso di figlio portatore di handicap totalmente invalidante, a prescindere dall’età, convivente con la madre condannata. Corte cost., n. 350/2003, su cui L. Filippi, La Corte costituzionale valorizza il ruolo paterno nella detenzione domiciliare, in Giur. cost., 2003, p. 3643, e G. Repetto, La detenzione domiciliare può essere concessa anche alla madre di figlio disabile, ovvero l’irriducibile concretezza del giudizio incidentale, in Giur. cost., 2004, p. 754.

[79] Art. 3, comma 1, Convenzione sui diritti del fanciullo; art. 24, comma 2, Cdfue. Vds. Corte cost., n. 17/2017, su cui E. Aprile, in Cass. pen., 2017, p. 1465; vds. E. Andolfatto, Custodia cautelare in carcere ed esigenze di tutela dei figli minori: la sentenza della Corte Costituzionale sull’art. 275, comma IV, c.p.p., in Dir. pen. cont., n. 3/2017, pp. 286-288; A. Gasparre, Presunzione di adeguatezza della custodia cautelare e tutela del minore, in Cass. pen., 2017, p. 3174; M. Caredda, Il limite d’età del figlio per il divieto di custodia cautelare in carcere del genitore: automatismo ragionevole?, in Giur. cost., 2017, p. 98. Vds. Corte cost., nn. 239/2014 e 7/2013, su cui V. Manes, La Corte costituzionale ribadisce l’irragionevolezza dell’art. 569 c.p. ed aggiorna la “dottrina” del “parametro interposto” (art. 117, comma primo, Cost.), in Dir. pen. cont., n. 2/2013, pp. 199-203; Corte cost., n. 31/2012.

[80] Corte Cost., n. 177/2009, su cui vds. C. Fiorio, Detenzione domiciliare e allontanamento non autorizzato: una decisione nell’interesse del minore, in Giur. cost., n. 3/2009, pp. 1986 ss.

[81] Vds. art. 146, comma 1, nn. 1) e 2), e comma 2, cp; Corte cost., n. 145/2009; (ord.) n. 260/2009. Vds. P. Comucci, Il rinvio obbligatorio dell’esecuzione nei confronti di condannata-madre al vaglio della Corte costituzionale, in Corr. mer., n. 1/2009, pp. 59 ss.

[82] Corte cost., n. 239/2014, ripresa da n. 76/2017.

[83] Corte cost., n. 76/2017, che dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 47-quinquies, comma 1-bis, o.p., limitatamente alle parole «Salvo che nei confronti delle madri condannate per taluno dei delitti indicati nell’articolo 4-bis».

[84] Vds. risoluzione 27 luglio 2006 del Consiglio superiore della magistratura, che aveva individuato nel «concetto di pericolosità sociale, inteso come probabilità di commissione di delitti», un «obiettivo ostacolo» all’accesso al sistema dei benefici penitenziari previsti a tutela del rapporto tra madre e figlio.

[85] Proprio su questi profili argomenta la Consulta, laddove riconosce che qualora la collaborazione con la giustizia risulti impossibile, inesigibile o irrilevante, o laddove si richieda, prima di accedere al beneficio, di avere scontato una determinata frazione di pena, la presunzione assoluta che opera non consente di bilanciare in concreto le esigenze di difesa della società rispetto all’interesse del minore (Corte cost., nn. 76/2017 e 174/2018).

[86] Corte cost., n.  239/2014, su cui F. Siracusano, Detenzione domiciliare e tutela della maternità, op. cit., pp. 3940 ss.; Corte cost., n. 76/2017.

[87] G. Mantovani, La de-carcerazione delle madri, op. cit., p. 253.

[88] Art. 21-bis, o.p., per contrasto con l’art. 31, oltre che con gli artt. 3, 29 e 30 Cost.: Corte Cost., n. 174/2018; nello stesso senso, Cass., n. 37578/2016; Cass., 30434/2016. Sulla pronuncia di Corte Cost., n. 174/2018, vds. D.M. Schirò, L’interesse del minorenne, op. cit., pp. 105-124; M. Picchi, La tutela dell’interesse del minore alla continuità della funzione genitoriale di assistenza e cura: una nuova dichiarazione d’incostituzionalità degli automatismi legislativi preclusivi dell’accesso ai benefici penitenziari, in Quad. cost. (Forum), 15 marzo 2019, www.forumcostituzionale.it/wordpress/?p=12255. M.C. Saporito, Automatismi penitenziari e tutela del minore: la Consulta detta i criteri di bilanciamento, in Proc. pen. giust., n. 1/2019, pp. 67-77; G. Marra, La Corte costituzionale prosegue l’opera di smantellamento delle preclusioni “rigide” all’accesso ai benefici penitenziari, in Il Penalista, 22 ottobre 2018; A. Lo Calzo, Il diritto all’assistenza e alla cura nella prospettiva costituzionale tra eguaglianza e diversità, in Osservatorio costituzionale AIC, n. 3/2018, pp. 211 ss. Sul tema, vds. D. Galliani e A. Pugiotto, Eppure qualcosa si muove: verso il superamento dell’ostatività ai benefici penitenziari?, in Rivista AIC, n. 4/2017, p. 18.

[89] Corte cost., nn. 17/2017 e 177/2009.

[90] Corte cost., n. 17/2017, di non fondatezza.

[91] Corte cost., n. 76/2017, quanto alla detenzione domiciliare speciale.

[92] I dati sono aggiornati al 31 marzo 2019. Sono 19 le detenute con cittadinanza italiana, con 22 minori al seguito, e 30 cittadine straniere, con 32 minori al seguito (www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_14_1.page?contentId=SST183018&previsiousPage=mg_1_14). G. Fabini, Donne e carcere, op. cit., ricorda come il picco di bambini reclusi vi fu nel 2001, alla vigilia dell’approvazione della cd. “legge Finocchiaro”, con 83 minori ristretti. In quel momento, soltanto le detenute con pena anche residua inferiore a 4 anni e figli di età non superiore a 10 anni potevano accedere alla detenzione domiciliare, mentre in caso di pena superiore ai 4 anni e un figlio minore di tre, l’alternativa era la separazione dal figlio o la sua reclusione. Gli asili nido, in Italia, sono 19, distribuiti nell’Istituto femminile di Roma-Rebibbia e nelle 18 sezioni femminili degli Istituti prevalentemente maschili di Agrigento, Avellino, Bologna, Cagliari, Castrovillari, Firenze “Sollicciano”, Foggia, Forlì, Genova, Messina, Milano Bollate, Perugia, Pesaro, “Giuseppe Panzera” di Reggio Calabria, Sassari, Teramo, Torino e Trento. Per quanto temporalmente contenuta, è pure da ricordare la presenza di bambini sotto i tre anni negli istituti penali per minorenni (ipm), che vengono poi rapidamente assegnati a case famiglia protette. Nel 2018, sono stati sette, con una presenza media di cinque giorni: due di loro sono rimasti meno di un giorno (uno soltanto per mezz’ora), due un massimo di due giorni, uno sette giorni e uno, però, ben 25. Vds. la «Relazione al Parlamento del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà» (d’ora in avanti: “relazione Garante”), presentata il 27 marzo 2019, pp. 66-67, e disponibile online: www.garantenazionaleprivatiliberta.it/. Sull’esperienza delle case famiglia, vds. A. Tollis, Le case famiglia protette e il “caso milanese, in G. Mantovani (a cura di), Donne ristrette, op. cit., pp. 330 ss.

[93] Come ricordato nella relazione Garante citata, infatti, «i bambini non sono reclusi e (…) pertanto, le loro libertà e i loro diritti non devono soffrire alcuna limitazione oltre a quella, inevitabile, della condivisione con la madre di una struttura chiusa» (ibid., p. 67).

[94] Si ricordino le parole di grande spessore umano che il garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà Mauro Palma ha riservato, nella relazione al Parlamento, alla vicenda che ha visto due bambini uccisi per mano della propria madre con cui condividevano l’esperienza della carcerazione. Il Garante ha ricordato come, per quanto sia «[u]na situazione che non ha colpevoli interni in senso stretto – e le stesse indagini disciplinari si sono chiuse in tal senso – (…) trova tutti noi colpevoli di non saper prospettare soluzioni diverse a queste drammatiche vite, segnate da reati, forse da malattia, non prive mai però della necessità della nostra pietas e del nostro interrogarci su quanto di diverso avremmo potuto fare» (ibid., p. 6).

[95] Vds. artt. 146, 147 e 211-bis cp.

[96] Vds. artt. 47-ter e 47-quinquies o.p.

[97] Vds. art. 21-bis o.p.

[98] Per quanto riguarda la disabilità del figlio, vds. le note 67 e 79 del presente lavoro. Per quanto riguarda le misure cautelari, non vi sono invece state pronunce sul merito della questione. Corte cost., (ord.) n. 239/2011, restituzione degli atti al giudice a quo per la necessità di una nuova valutazione della rilevanza della questione; (ord.) n. 250/2011 e (ord.) n. 104/2015, per insufficiente descrizione della fattispecie oggetto del giudizio e oscurità, ambiguità, indeterminatezza del petitum.

[99] Art. 275, comma 4, cpp.

[100] L. Ravagnani e C.A. Romano, Women in Prison, op. cit., p. 197.

[101] Raccomandazione del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa R(99)19, concernente la mediazione in materia penale; Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite,risoluzione del 24 luglio 2002 (2002/12) sui «Basic Principles»relativi all’uso dei programmi di giustizia riparativa in materia penale.

[102] Vds. la proposta di risoluzione del Parlamento europeo sulla condizione delle donne detenute e sull’impatto della detenzione sulla vita familiare, in cui è previsto l’obiettivo di sviluppare unità di piccole dimensioni nelle quali i bambini possano crescere in un ambiente idoneo: «Relazione sulla particolare situazione delle donne detenute e l’impatto dell’incarcerazione dei genitori sulla vita sociale e familiare» [2007/2116 (INI)] - Commissione per i diritti della donna e l’uguaglianza di genere, A6-0033/2008, 5 febbraio 2008.

[103] Consiglio d’Europa, raccomandazione dell’Assemblea parlamentare n. 1340(1997), sugli effetti sociali e familiari della detenzione; vds. «Regole penitenziarie europee», nn. 36.1, 36.2 e 36.3, su cui M. Tirelli, La tutela della dignità del detenuto nelle Regole Penitenziarie europee, in G. Bellantoni e D. Vigoni (a cura di), Studi in onore di Mario Pisani - Diritto dell’esecuzione penale; diritto penale; diritto, economia e società, vol. III, Celt, Piacenza, 2010, pp. 99 ss.; vds., inoltre, le “Bangkok Rules” del 2010, cit.

[104] C. Vergine, La vicenda cautelare, op. cit., pp. 80-81, ritiene si tratti di un’opportunità tradita dalla pratica, oltre che per ragioni statistiche, connesse a un numero contenuto di donne detenute, anche per il ritardo nella loro realizzazione. Le strutture avrebbero infatti dovuto funzionare a pieno regime già dal 2014, sulla base di un piano straordinario penitenziario non ancora approvato. La stessa fissazione delle caratteristiche delle strutture per le quali sarebbe stata possibile la stipula di convenzioni con gli enti locali è intervenuta nel 2013, con dm 8 marzo 2013. Nello stesso senso, R. Mastrotauro, La detenzione domiciliare, op. cit., p. 112.

[105] M.P. Giuffrida, Studio sulle donne ristrette, op. cit.Ad oggi, gli Icam in Italia sono Torino "Lorusso e Cutugno", Milano "San Vittore", Venezia "Giudecca", Cagliari e Lauro.

[106] Vds. la relazione finale del Tavolo 3, coordinato da T. Pitch e composto da G. Bezzi, L. Cesaris, I. Del Grosso, M. Graziosi, E. Pierazzi, D. Stasio, S. Steffenoni (in www.giustizia.it), secondo cui la presenza di bambini all’interno delle strutture penitenziarie è dovuta alla scarsa diffusione, sul territorio nazionale, di istituti a custodia attenuata per detenute madri e di case famiglia protette, nonché allo scetticismo della magistratura che, spesso, in assenza di un domicilio ritenuto “sicuro”, non concede la detenzione domiciliare.

[107] Relazione Garante nazionale, cit., p. 66.

[108] Si pensi alla l. n. 40/2001, approvata escludendo «maggiori oneri per il bilancio dello Stato» derivanti dal ruolo affidato al servizio sociale nella gestione della misura speciale della detenzione domiciliare (art. 3, comma 2). Anche la successiva l. n. 62/2011, attivando le case famiglia protette tra i luoghi di possibile esecuzione della detenzione domiciliare per madri con figli al seguito, oltre che della misura cautelare degli arresti domiciliari, riconobbe che «il Ministro della giustizia (…) può stipulare con gli enti locali convenzioni volte ad individuare le strutture idonee ad essere utilizzate come case famiglia protette», ma «senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica» (art. 4). Da ultimo, anche nella legge delega è prevista l’attuazione «senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica» (art. 1, comma 83, l. n. 103/2017), alla luce della clausola di invarianza finanziaria contenuta nell’ultimo articolo dello schema di decreto legislativo approvato dal Consiglio dei ministri, per cui «le amministrazioni interessate provvedono agli adempimenti previsti dal presente decreto con le risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente».

[109] G. Mantovani, La de-carcerazione delle madri, op. cit., pp. 258-260. L’autrice rileva come, in tal senso, deponga la neutralità finanziaria dello schema di decreto legislativo risultante dalla relazione tecnica (p. 20), secondo la quale l’adozione delle misure alternative sarà comunque disposta «solo nei limiti dell’effettiva disponibilità delle strutture nell’ambito delle risorse di bilancio degli enti sopra citati», rappresentati da «associazioni, cooperative sociali e (…) altre agenzie private e pubbliche presenti nel territorio per l’azione di inclusione sociale e dedite ad attività di volontariato», con le quali s’intende incentivare la collaborazione «sulla base di protocolli con gli uffici di esecuzione e i tribunali di sorveglianza». Rispetto agli uffici di esecuzione penale esterna, l’autrice ricorda come la legge di bilancio 2018 abbia quanto meno disposto l’avvio di procedure per nuove assunzioni (art. 1, comma 493, l. n. 205/2017). Si veda, però, il dinamismo di alcuni legislatori regionali che, nell’introdurre azioni positive in tal senso, hanno anche stanziato appositi fondi. Vds. l. regionale Lazio, 8 giugno 2007, n. 7, «Interventi a sostegno dei diritti della popolazione detenuta della Regione Lazio». A seguito della l. regionale Lazio, 22 ottobre 2018, n. 7, all’art. 12, comma 1, è stata aggiunta la lettera a-bis, che impegna la Regione a «favorire la realizzazione di strutture destinate alla detenzione delle detenute madri con figli di età non superiore ai sei anni ai sensi della legge 21 aprile 2011, n. 62»; è stato introdotto l’articolo 13-bis (Istituti a custodia attenuata per detenute madri – Icam), secondo cui «la Regione, in attuazione dell’articolo 12, comma 1, lettera a bis), promuove la costituzione di un gruppo interistituzionale con le amministrazioni competenti per definire i requisiti e le procedure per l’individuazione di immobili regionali che possono essere destinati ad accogliere gli Istituti a custodia attenuata per detenute madri (Icam)»; due i fondi istituti per gli anni 2019 e 2020, rispettivamente, di parte corrente e in conto capitale, pari ognuno ad euro 250 mila.

[110] Si pensi alle riforme che innalzano le pene edittali, alcune delle quali recentemente oggetto di censure di incostituzionalità da parte della Consulta.

[111] Vds. la «Carta dei figli dei genitori detenuti», documento unico in Europa, firmata dal Ministro della giustizia, dall’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza e dall’associazione “Bambinisenzasbarre”, il 21 marzo 2014. Riepiloga alcuni significativi progetti interistituzionali per i figli di donne recluse S. Baldassarri, Donne in carcere e figli: diritto al colloquio e autorizzazione alla corrispondenza, in D. Pajardi - R. Adorno - C.M. Lendaro - C.A. Romano (a cura di), Donne e carcere, op. cit., pp. 229 ss.

[112] Le strutture detentive soltanto femminili sono appena cinque nel contesto interno: Trani, Pozzuoli, Roma-Rebibbia, Empoli, Venezia-Giudecca. Il ridotto numero fa sì che, spesso, le detenute ivi ospitate patiscano un significativo isolamento, poiché spesso le famiglie non sono in condizioni di sostenere frequenti viaggi in occasione dei colloqui. L. Ravagnani e C.A. Romano, Women in Prison, op. cit., p. 20; G. Russo, Le peculiarità del carcere femminile, in U. Gatti e B. Gualco (a cura di), Carcere e territorio, Giuffrè, Milano, 2003, pp.123-124. Anche il numero assai contenuto di Icam, di fatto, “privilegia” le madri che risiedono in prossimità delle strutture esistenti. Sul punto, vds. M. Miravalle, Quale genere di detenzione?, op. cit.; R. Mastrotauro, La detenzione domiciliare, op. cit., p. 113; P. Corvi, La n. 62/2011 rafforza almeno sulla carta la tutela delle detenute madri, in Il Corriere del merito, nn. 8-9/2011, pp. 838-843; G. Mantovani, Tempi (incomprensibilmente) dilatatati per garantire ai bambini fino a sei anni la continuità del rapporto con la madre al di fuori degli istituti di custodia, in Cass. pen., n. 10/2012, pp. 3451-3465.

[113] Sul tema specifico del lavoro, vds. A.M. Rizzo, Essere madri lavoratrici dal carcere, in D. Pajardi - R. Adorno - C.M. Lendaro - C.A. Romano (a cura di), Donne e carcere, op. cit., pp. 176 ss.

[114] Ad oggi, sono 52 le sezioni femminili di penitenziari maschili. G. Fabini, Donne e carcere, op. cit.,ricorda in proposito come l’essere all’interno di strutture maschili e spesso di dimensioni contenute limiti profondamente la possibilità, per le detenute, di fruire di spazi sufficienti nonché di attività a loro dedicate. L’autrice fa riferimento al fatto che la gran parte delle donne recluse sono esclusivamente impiegate in servizi d’istituto, ad esempio addette alle pulizie e aiuto cuoche (73,6 per cento del totale delle lavoranti). I. Del Grosso, Realtà e peculiarità degli istituti femminili, in D. Pajardi - R. Adorno - C.M. Lendaro - C.A. Romano (a cura di), Donne e carcere, op. cit., p. 195, sottolinea come le donne recluse negli istituti misti siano emarginate due volte, poiché tutte le risorse sono disposte a vantaggio della popolazione maggiore, cioè quella maschile.

[115] Su cui vds. il par. 1 del presente lavoro.

[116] M. De Pascalis, Uno sguardo, op. cit., p. 9. M. Miravalle, Quale genere di detenzione?, op. cit., p. 53, si domanda in proposito il perché, a fronte delle poche donne ristrette nelle carceri italiane ed europee, di cui solo una minoranza ha commesso reati gravi e di rilevante allarme sociale, la detenzione continui a essere un’opzione praticata. L’autore ricorda, altresì, come la stessa valutazione della criminalità non sia neutra, ma effetto di un costrutto sociale.

[117] È poi prevista la valutazione dell’impatto economico della carcerazione sui minori, il diritto del minore a essere informato circa le ragioni dell’allontanamento del genitore, l’uso delle tecnologie per garantire continuità nei contatti con i minori, il diritto del bambino a non subire stigmatizzazioni e discriminazioni per la detenzione del genitore.

[118] Ddl C.1580, XVIII legislatura, che detta «Modifiche al codice penale e alle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 settembre 1988, n. 448, in materia di imputabilità dei minori e di pene applicabili a essi nel caso di partecipazione ad associazione mafiosa», con il quale, oltre a prevedere l’abbassamento dell’età imputabile dagli attuali 14 anni ai 12 anni, si introduce l’eccezione alla regola della diminuzione di pena nel caso del reato di associazione mafiosa commesso da minorenni.

[119] Lo rileva G. Mantovani, La de-carcerazione delle madri, op. cit., pp. 231-232.

[120] Riepiloga con accuratezza la questione J. Long, Essere madre dietro le sbarre, op. cit., pp. 114 ss., che parla, in proposito, di una presunzione forte di incompetenza del genitore che commette alcune tipologie di reato per il fatto stesso di compiere la scelta di delinquere. L’autrice ricorda come lo stato detentivo che consegue all’accertamento di una condotta illecita debba intendersi come in contrasto con il dovere di educare i figli alla legalità, intesa come obiettivo funzionale a un adeguato inserimento di bambini e ragazzi nel contesto sociale, ponendosi quale limite rilevantissimo a un adeguato esercizio della responsabilità genitoriale da parte della madre.

[121] Della sanzione accessoria della decadenza dalla responsabilità genitoriale (art. 569 cp, allora «potestà» genitoriale) si è occupata la giurisprudenza costituzionale che, in un primo momento, aveva avallato l’automatismo sanzionatorio poiché «non è certamente in ragione di eventuali ripercussioni negative, su terzi, che l’applicazione di sanzioni penali, principali od accessorie, può eventualmente provocare, che va dichiarata l’illegittimità costituzionale d’una determinata pena». Peraltro, la Consulta aveva ricordato come, proprio per i casi di rilevata incapacità genitoriale, la legge avesse previsto la possibilità di assegnare la cura del minore a terze persone (Corte cost., n. 723/1988). Successivamente, riconoscendo centralità al minore e ai suoi interessi, la Corte ha invece dichiarato l’illegittimità della disposizione che prevedeva come automatica la perdita della responsabilità genitoriale, senza possibilità alcuna per il giudice di valutare il caso concreto (Corte cost., n. 31/2012, su cui vds. J. Long, Essere madre dietro le sbarre, op. cit., pp. 114 ss.; L. Ferla, Statusfiliationis ed interesse del minore: tra antichi automatismi sanzionatori e nuove prospettive di tutela, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2012, p. 1585; S. Larizza, Alterazione di stato: illegittima l’applicazione automatica della decadenza dalla potestà dei genitori, in Dir. pen. proc., 2012, p. 597; G. Leo, Illegittimo l’automatismo nell’applicazione della sanzione accessoria della perdita della potestà di genitore per il delitto di alterazione di stato, in Dir. pen. cont., 27 febbraio 2012; M. Mantovani, La Corte costituzionale fra soluzioni condivise e percorsi ermeneutici eterodossi: il caso della pronuncia sull’art. 569 c.p., in Giur. cost., 2012, p. 377; A. Tesauro, Corte costituzionale, automatismi legislativi e bilanciamento in concreto: “giocando con le regole” a proposito di una recente sentenza in tema di perdita della potestà genitoriale e delitto di alterazione di stato, in Giur. cost., 2012, p. 4909). Vds. anche Corte cost., n. 7/2013, ancora in occasione del vaglio di legittimità dell’art. 569 cp, nella parte in cui prevedeva che conseguisse la perdita di diritto della responsabilità genitoriale alla condanna pronunciata nei confronti del genitore ritenuto responsabile del delitto di soppressione di stato, art. 566, comma 2, cp; su cui vds. S. Larizza, Interesse del minore e decadenza dalla potestà dei genitori, in Dir. pen. proc., 2013, p. 554; M. Mantovani, Un nuovo intervento della Corte costituzionale sull’art. 569 c.p. sempre in nome del dio minore, in Giur. cost., 2013, p. 176; V. Manes, La Corte costituzionale ribadisce l’irragionevolezza dell’art. 569 c.p. ed aggiorna la “dottrina” del “parametro interposto” (art. 117, comma primo, Cost.), in Dir. pen. cont., n. 2/2013, p. 199. Si ricordino, in proposito, i «provvedimenti di decadenza o limitazione della responsabilità genitoriale quindi con affido del minore ai servizi sociali e con collocamento in comunità o in famiglie fuori dalla (…) realtà territoriale», anche considerando che sono talvolta le madri a fare da «anello di congiunzione tra i minori e la criminalità organizzata» (così, «Risoluzione in materia di tutela dei minori nel quadro della lotta alla criminalità organizzata», approvata dal Consiglio superiore della magistratura con delibera del 31 ottobre 2017). G. Mantovani, La de-carcerazione delle madri, op. cit., p. 239, ricorda che nemmeno la matrice mafiosa del delitto attribuito all’adulto può invariabilmente decretare, in sé, la sua inidoneità quale genitore, piuttosto dovendosi attivare gli organismi di riferimento per la tutela del minore. Proprio in riferimento alla criminalità organizzata, la risoluzione Csm del 2017 ricordava l’«opportunità di rivisitare (…) le forme di cooperazione ed interazione tra i diversi uffici giudiziari competenti», chiedendo che le stesse non vengano lasciate «al prudente apprezzamento ed alle lodevoli iniziative dei singoli magistrati», ma siano standardizzate e prescritte dal legislatore. In particolare, «l’eventuale previsione di un obbligo per il giudice ordinario di comunicare al Tribunale per i minorenni e al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni competenti provvedimenti limitativi della libertà personale o i procedimenti in corso nei confronti di soggetti coinvolti nelle associazioni mafiose che abbiano figli di età inferiore agli anni 18, consentirebbe di intervenire adottando i provvedimenti di cui agli artt. 330 e ss. c.c.». Appare ovvio che, nel caso di decadenza dalla responsabilità genitoriale ex art. 330 cc, si verrebbe a generare una condizione ostativa alla fruizione del beneficio volto alla salvaguardia del benessere psico-fisico della prole, venendo meno il presupposto stesso del beneficio, ossia il rapporto affettivo da salvaguardare e il rapporto di convivenza da non interrompere bruscamente. Nella risoluzione del 27 luglio 2006, dedicata alla «Disciplina delle esigenze della tutela della maternità e dei figli minori dei detenuti, con particolare riferimento all’esercizio dei poteri del magistrato di sorveglianza e del Tribunale per i minorenni», il Csm rilevava che la decadenza ex art. 330 cc e l’abbandono materno sono «situazioni che possono comportare accertamenti istruttori complessi presso il Tribunale per i Minorenni, talora impossibili per i soggetti che usano alias o irregolarmente presenti nel territorio dello Stato».

[122] La giurisprudenza costituzionale ha costantemente affermato come la finalità rieducativa concorra con l’obiettivo di prevenzione generale e di difesa sociale della pena. Il legislatore può far prevalere ora l’una, ora l’altra, senza tuttavia poterne del tutto escludere alcuna (inter alia, vds. Corte cost., n. 183/2011; richiama anche la riparazione Corte cost., n. 179/2017).

[123] Negli anni, con una significativa giurisprudenza, la Corte di Strasburgo ha contribuito a definire un obiettivo multiplo della pena nei termini di «punishment, deterrence, public protection and rehabilitation», da ultimo con Hutchinson c. Regno Unito, 17 gennaio 2017, par. 43 (ric. n. 57592/08), ma vds. anche Murray c. Paesi Bassi, 26 aprile 2016 (ric. n. 10511/10); Khoroshenko c. Russia, 30 giugno 2015 (ric. n. 41418/04); Vinter e altri c. Regno Unito, 9 luglio 2013, (ric. n. 66069/09);James, Wells e Lee c. Regno Unito, 8 settembre 2012 (ricc. nn. 25119/09, 57715/09 e 57877/09); Maiorano e altri c. Italia, seconda sezione, 15 dicembre 2009 (ric. n. 28634/06); Dickinson c. Regno Unito, 4 dicembre 2007 (ric. n. 44362/04); Mastromatteo c. Italia, 24 ottobre 2002 (ric. 37703/97).

[124] G. Mantovani, La marginalizzazione del carcere, op. cit., pp. 196 ss.

[125] Come riportato nella relazione del Garante nazionale, cit., «La detenzione di una donna con i propri figli deve essere sempre una misura estrema; se adottata, richiede una grande attenzione da parte del personale, sia nei confronti delle madri che nei confronti dei bambini» (p. 66).

[126] Vds. relazione Garante, cit., p. 5.