Magistratura democratica

Il concordato come procedimento concorsuale negoziato

di Vittorio Zanichelli
L’ondivago procedere del legislatore della crisi di impresa, alla ricerca di un punto di equilibrio tra le esigenze dei creditori, del debitore e dell’economia ha portato, negli ultimi anni, a una limitazione dello spazio di confronto tra i soggetti privati aumentando il tasso di eteronomia del sistema, anche mediante un maggior intervento del giudice sul merito delle soluzioni. L’Autore affronta il tema della negozialità del concordato preventivo anche alla luce del nuovo CCII, al fine di ricercare se e in che limiti tale qualificazione sia ancora attuale.

Il nuovo codice della crisi si impresa e dell’insolvenza sembra prendere posizione sulla vexata quaestio della natura negoziale dei diversi strumenti approntati per la risoluzione della crisi di impresa, operando una scelta netta.

Il titolo IV della parte prima del codice, titolato «Strumenti di regolazione della crisi», disciplina al capo I gli «Accordi», suddividendoli tra gli «Strumenti negoziali stragiudiziali» (sezione I) e «Strumenti negoziali stragiudiziali soggetti ad omologazione» (sezione II).

L’aggettivo “negoziale” non è più utilizzato nel codice (se non nella norma sulla transazione fiscale negli accordi di ristrutturazione dei debiti - AdR), che attribuisce specificatamente tale natura solo agli accordi stragiudiziali, suddivisi a loro volta tra quelli non soggetti a omologazione (gli accordi in esecuzione dei piani attestati di risanamento) e quelli invece soggetti a tale forma di controllo giudiziale (AdR, convenzione di moratoria, transazione fiscale e accordi contributivi).

Parrebbe dunque che la sistemazione dei rapporti patrimoniali intervenuta tra il debitore e i suoi creditori possa avere la natura di negozio giuridico solo se avviene al di fuori di una procedura giudiziaria, potendo semmai quest’ultima intervenire solo ad accordo concluso.

L’opzione definitoria porta a ritenere che il carattere di negozialità di un accordo quale strumento di regolazione della crisi derivi dalla circostanza che il legislatore non ha alcun interesse al contenuto del patto concluso tra le parti, la cui validità è unicamente condizionata alla conformità alla disciplina civilistica, e che quindi è insensibile, di per sé, alle successive vicende che non siano quelle concernenti l’adempimento del patto privatistico.

Pur ricompreso tra gli «strumenti di regolazione della crisi» (come da definizione del titolo IV), non entra invece tra gli strumenti negoziali, sempre seguendo la definizione del legislatore, il concordato, pertanto viene logico porsi il problema se si tratti di una scelta consapevolmente volta a escludere il carattere della negozialità di tale istituto.

La risposta deve essere prudentemente perplessa (come sempre quando, in relazione a testi legislativi, si vuol trarre elementi interpratativi dalle rubriche) in quanto il mancato richiamo al carattere negoziale del concordato, se non consegue alla distinzione tra strumenti e procedure (comunque mai definite negoziali),  potrebbe essere anche il frutto di una scelta volta a non prendere posizione e quindi conseguenza – più o meno consapevole – dell’incapacità del legislatore delegato, in ciò condizionato da quello delegante, di fare scelte precise e non ondivaghe, come emerge con evidenza dalla recente disciplina fallimentare. Quest’ultima ha fatto oscillare più volte il pendolo tra favor creditoris e favor debitoris, tra privatizzazione della crisi e gestione pubblicistica della stessa, tra autonomia ed eteronomia, mantenendo costante il mantra della miglior soddisfazione dei creditori, ma condizionandola in concreto alla continuità aziendale.

È noto come in dottrina non si sia, in generale, dubitato del carattere negoziale del concordato[1], discutendosi semmai della sua qualificazione come “contratto”[2].

La Corte di cassazione non pare avere dubbi sul carattere non solo negoziale, ma più specificatamente contrattuale del concordato preventivo, non solo perché ad esso ha applicato la categoria della causa in concreto e, quindi, della funzione dello strumento di regolazione dei rapporti tra le parti propria del contratto[3], bensì perché lo ha espressamente riconosciuto, anche di recente, nella nota sentenza sulla rilevanza del conflitto di interessi nel concordato[4], laddove evidenzia «che l’esigenza della sterilizzazione dei conflitti d’interesse è, in definitiva, imposta dal fondamentale principio dell’autonomia privata, nella quale anche il concordato fallimentare si iscrive per i suoi pacifici profili contrattualistici, dei quali, anzi, l’approvazione della proposta è l’essenziale manifestazione» e che «costituirebbe un’evidente lesione dell’autonomia privata dei creditori, contrastante con la stessa nozione di contratto (nella misura in cui essa pacificamente rileva nell’istituto del concordato), assoggettare i creditori alla volontà, in ipotesi decisiva, della loro stessa controparte, senza neppure la garanzia di un giudizio imparziale di compatibilità in concreto di tale volontà con l’interesse comune, in nome del quale soltanto si giustifica, come si è visto, l’applicazione della regola maggioritaria».

Al di là, comunque, delle considerazioni definitorie, ci si deve domandare se esista ed eventualmente in quali limiti rilevi il carattere di negozialità del concordato[5].

Questa opzione pareva priva di tentennamenti in quanto mantenuta anche dopo le modifiche apportate alla legislazione fallimentare con gli interventi legislativi del 2012, che hanno segnato la massima espansione della cd. “privatizzazione” della crisi di impresa.

Dopo tale data, tuttavia, le modifiche intervenute sono state di tale rilevanza da mettere in serio dubbio il principio di autonomia che è alla base del contratto, avendo invece introdotto un tasso di eteronimia tale da pregiudicare la stessa negozialità dell’istituto.

Per la verità, già il dl n. 83/2012, regolamentando la continuità aziendale nell’art. 186-bis l.fall., ha introdotto la poison pill della necessaria sussistenza della prospettiva del «miglior soddisfacimento dei creditori» come condizione per la prosecuzione dell’attività di impresa.

Nell’intenzione del legislatore, tuttavia, il requisito consistente nel miglior soddisfacimento dei creditori non avrebbe dovuto avere un trattamento diverso da quello relativo alla fattibilità del piano. La circostanza che entrambi dovessero essere oggetto di specifica attestazione da parte del professionista indipendente aveva (ed ha) una sua logica di sistema se l’attestazione rilasciata da un soggetto tecnicamente preparato e senza legami con il debitore, tali da imporgli una prospettiva di parte, ha il fine di sollevare il tribunale dall’onere di compiere una valutazione non solo tecnicamente complessa, ma che è comunque opportuno lasciare al ceto creditorio sul quale va, in definitiva, a incidere.

È, per contro, chiaro che, se il tribunale può valutare direttamente d’ufficio già in sede di ammissibilità del concordato con dichiarata continuità aziendale la sussistenza del requisito del miglior interesse dei creditori, non solo l’intervento giudiziale si avvicina pericolosamente alla soglia, ritenuta invalicabile, della convenienza, ma incide addirittura sulla scelta dello strumento per affrontare e risolvere la crisi, così che debitore e creditori, senza possibilità di reazione, vengono esclusi dall’accesso a una procedura in cui confrontarsi e valutare i loro interessi per effetto di una valutazione i cui margini di inevitabile opinabilità sono evidenti.

Per la verità, non è del tutto pacifico che cosa debba intendersi per «miglior soddisfacimento dei creditori» o «migliore soddisfazione dei creditori», essendosi stato ritenuto, da un lato, che lo stesso debba essere inteso in senso soggettivo, e quindi come soluzione maggiormente conveniente in relazione alle aspettative dei creditori[6] e, per contro, che debba essere oggettivamente valutato come sussistente nel caso in cui l’ammontare delle risorse messe complessivamente a disposizione della massa dei creditori grazie alla continuazione dell’attività sia complessivamente superiore a quella disponibile praticando soluzioni alternative[7]. Anche sulle possibili soluzioni da considerare come termine di paragone a quella consistente nella continuazione dell’attività in regime di concordato preventivo si può discutere, in quanto si contrappongono teorie anche estreme, come quella che impone il paragone tra la soluzione proposta e qualunque altra concretamente praticabile a quella che prevede la comparazione unicamente con la soluzione fallimentare, magari prendendo in considerazione la cessione, in tale sede, dell’azienda in esercizio.

La seconda questione mi pare di più agevole soluzione perché, per quanto si voglia far assurgere il paradigma del miglior soddisfacimento dei creditori a clausola generale[8] o “stella polare”, non bisogna dimenticare che il legislatore pone chiaramente la regola in relazione alla valutazione dell’ammissibilità del piano in continuità aziendale, imponendo all’attestatore di attestare che è la continuità la soluzione migliore per i creditori. Nessuna attestazione a questa paragonabile viene chiesta in caso di concordato liquidatorio, in relazione al quale, se mai, ogni valutazione comparativa con alternative concretamente praticabili (precisazione, questa, non presente nell’art. 186-bis) è subordinata alla contestazione dei creditori e, comunque, attiene alla posizione del singolo. Da ciò consegue che la comparazione deve essere effettuata non tra il risultato di un piano in continuità e quello di una liquidazione fallimentare, ma tra il primo e il risultato di un piano di liquidazione concordataria[9].

Ritornando al discorso tra miglior interesse soggettivo e oggettivo, è difficile non esprimere l’adesione alla seconda opzione interpretativa, in quanto la prima non solo presuppone un’indagine sull’interesse dei singoli creditori o di singole categorie, ma soprattutto porterebbe all’impossibilità di redigere un’attestazione sul punto poiché basterebbe la carenza di interesse di una minoranza per rendere impercorribile il concordato in continuità.

Se l’interesse deve essere oggettivo, pare evidente che un solo parametro possa essere utilizzato, e cioè quello della comparazione tra importo complessivamente destinato al soddisfacimento dei creditori in caso di continuità e in caso di liquidazione dei beni aziendali.

Ma proprio la rozzezza del criterio che, in astratto, potrebbe scontentare tutti i creditori convince della scarsa attenzione del legislatore alla negozialità.

Pare chiaro, infatti, che i creditori vengono espropriati anche del potere di decidere, sia pure a maggioranza, il tipo di procedura da adottare e quindi, in definitiva, di valutare la convenienza della proposta che potrebbe essere migliore rispetto all’alternativa liquidatoria anche per i creditori per i quali la prospettiva della continuità è del tutto ininfluente e che, proprio per questo, dovrebbero essere incentivati al voto favorevole da una proposta allettante – e che, in ogni caso, sono tutelati dal meccanismo del cram down.

Discorso non diverso può essere fatto in relazione al limite introdotto con l’art. 4 dl 27 giugno 2015, convertito dalla l. 6 agosto 2015, n. 132, che prevede che «in ogni caso la proposta di concordato deve assicurare il pagamento di almeno il venti per cento dell’ammontare dei crediti chirografari».

Qualunque sia l’interpretazione che si vuole dare in relazione all’atecnico utilizzo del verbo «assicurare», è indiscutibile che il concordato il cui piano non assicura il raggiungimento della percentuale di legge deve essere dichiarato inammissibile o, comunque, non omologabile, senza che sia lasciata ai creditori la scelta tra la percentuale concretamente raggiungibile tramite la proposta modalità di liquidazione e quella presumibilmente ottenibile in esito a un diverso percorso.

Anche in questo caso, la negozialità del concordato, intesa come ricerca del punto di equilibrio tra la volontà del debitore di superare la situazione di crisi e dei creditori di recuperare il loro credito, viene pesantemente condizionata, quando non esclusa, dall’intervento autoritativo il quale, non potendosi ipotizzare come risultato costante quello di ottenere proposte più convenienti, comporta che ai creditori è inibita l’accettazione di proposte comunque maggiormente remunerative rispetto alla liquidazione fallimentare nei casi non infrequenti in cui vi sia la disponibilità di terzi a immettere finanza esterna o ad acquistare beni a prezzi superiori a quelli di mercato, condizionatamente all’omologazione del concordato.

Resta da valutare se la negozialità venga recuperata dalla nuova disciplina del concordato, come dettata dal d.lgs n. 14/2019.

La risposta non può essere affermativa in quanto, innanzitutto, non sono venute meno le criticità evidenziate, ma – oltre a ciò – altre se ne sono aggiunte.

Già l’art. 7, che pone il principio della necessaria trattazione unitaria delle domande di regolazione della crisi o dell’insolvenza, nel prevedere l’obbligo per il tribunale, nel caso di proposizione di più domande, di trattare in via prioritaria quella diretta a regolare la crisi o l’insolvenza con strumenti diversi dalla liquidazione giudiziale o dalla liquidazione controllata, la condiziona alla circostanza che nel piano sia espressamente indicata la convenienza per i creditori, e che la domanda medesima non sia manifestamente inammissibile o infondata.

Poiché l’orientamento del legislatore è quello di non escludere dalla valutazione critica del giudice nessuna indicazione o conclusione del piano, anche se attestata dal professionista indipendente, se ne deve desumere che il tribunale può procedere prioritariamente alla valutazione dell’eventuale ricorso per l’apertura della liquidazione giudiziale, se ritiene che la proposta del debitore di percorrere l’opzione negoziale non sia conveniente per i creditori e quindi, ancora una volta, escludendo le parti private dalla stessa possibilità di confrontarsi nella procedura concordataria.

Alle stesse conclusioni deve giungersi anche in relazione al dettato dell’art. 84 che, trattando delle finalità del concordato preventivo con continuità diretta o indiretta, pone sostanzialmente gli stessi paletti alla sua ammissibilità dell’art. 186-bis l.fall. (comunque ribaditi esplicitamente nell’art. 87, comma 1, lett. f, e comma 3) in quanto, condizionandola alla previsione di funzionalità ad assicurare il ripristino dell’equilibrio economico finanziario nell’interesse prioritario dei creditori, oltre che dell’imprenditore e dei soci, rende arbitro il tribunale di fare una diversa valutazione rispetto a quella degli interessati e, quindi, di bloccare sul nascere il tentativo di negoziare un accordo.

Un chiaro esempio di drastico arretramento della negozialità è rappresentato dalla vicenda legislativa della disciplina della condizione di ammissibilità del concordato, costituita dalla fattibilità economica del piano che supporta la proposta.

Pare difficilmente contestabile che la logica che ha portato il legislatore del 2005, con l’intervento che ha segnato l’inizio della cd. privatizzazione della crisi di impresa, a introdurre la figura del professionista qualificato, con il compito di attestare la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano, fosse quella di sollevare il tribunale da un giudizio che, soprattutto nei concordati che prevedono la ristrutturazione attraverso la continuità aziendale e quindi, necessariamente, con un orizzonte temporale non breve, presuppone il possesso di specifiche ed elevate competenze tecniche, lasciando tale giudizio all’esclusiva valutazione dei creditori.

Tale logica è stata condivisa, almeno al più alto livello, dal giudice di legittimità, anche se, in seguito alle perduranti resistenze di una parte della giurisprudenza di merito e di certa dottrina, non sono mancate successive incertezze e puntualizzazioni, salvo poi attestarsi sul principio secondo il quale il giudizio negativo sulla mancanza di fattibilità economica sarebbe consentito solo in caso di assoluta evidenza dell’assenza della stessa[10].

Sta di fatto che il legislatore ha preso una posizione netta, autorizzando (rectius: imponendo) al tribunale di valutare la sussistenza del requisito della fattibilità economica del piano già nella fase iniziale (art. 47) «acquisito, se non disponga già di tutti gli elementi necessari, il parere del commissario giudiziale, se nominato» e quindi in esito a un giudizio piuttosto sommario, soprattutto se paragonato a quello che, sullo stesso requisito, si deve pronunciare in sede di omologazione, in cui la valutazione deve essere fatta «tenendo conto dei rilievi del commissario giudiziale». Quest’ultimo, allora, non solo è un interlocutore necessario, ma anche particolarmente influente, se del suo parere il tribunale, pur non essendo ovviamente allo stesso vincolato, deve obbligatoriamente tenere conto motivando, eventualmente, il suo dissenso.

Se è certamente vero che fattibilità economica e convenienza non si possono confondere, pare altrettanto vero che l’accordo tra debitore e creditori si formi non solo sulla proposta, ma anche sul piano, in quanto è impensabile che i secondi siano disponibili a valutare la proposta allorquando hanno la certezza che questa non potrà essere mantenuta per l’inidoneità del piano a fornire la necessaria provvista.

Se così è, sottrarre ai creditori la possibilità di valutare, prima ancora della proposta, il piano sotto il profilo della probabilità che questo possa performare come previsto dal debitore significa escludere un ulteriore tassello dall’ambito del negoziato, sostituendolo con la valutazione eteronoma del tribunale, ancora una volta chiamato a decidere che cosa possano decidere i diretti interessati.

A questo punto, è inevitabile chiedersi se il concordato preventivo possa ancora essere considerato un procedimento negoziale e la risposta, come anticipato, non può essere che perplessa, in quanto l’unica ipotesi in cui l’incontro o lo scontro tra la volontà del debitore e quella dei creditori si esprimono in libertà da condizionamenti è, paradossalmente, quella in cui il consenso viene negato, in quanto nessuna valutazione terza può sovrapporsi, portando a una soluzione non conforme a quella emergente dall’intervenuta negoziazione.

Diversamente, se, prima ancora del tentativo di accordo, o nonostante l’accordo raggiunto con l’approvazione del concordato, l’assetto dei rapporti di natura privatistica viene modificato a causa dell’intervento di una difforme valutazione sui presupposti non giuridici, ma fattuali di tale accordo espressa dal tribunale, il dubbio sull’effettiva negozialità dell’istituto non pare peregrino.

[1] La letteratura sul punto è vastissima, per cui non si possono che richiamare alcuni dei contributi più recenti quali quelli di S. Ambrosini, Il concordato preventivo, in F. Vassalli - F.P. Luiso - E. Gabrielli (diretto da), Trattato di diritto fallimentare e delle altre procedure concorsuali, vol. IV, Giappichelli, Torino, 2014, pp. 6 ss; F.P. Censioni, Il concordato preventivo, in A. Jorio e B. Sassani (diretto da), Trattato della procedure concorsuali, vol. IV, Giuffrè, Milano, 2016, pp. 11 ss.; M. Fabiani e G. Carmellino, Il concordato preventivo, in A. Didone (a cura di), Le riforme delle procedure concorsuali, vol. II, Giuffrè, Milano, 2016, pp. 1684 ss.

Sulla eterna disputa tra teorie privatistico-contrattuali e teorie pubblicistico-processuali, già in tempi non vicini, A. Bonsignori, Del concordato preventivo, in Commentario Scialoja-Branca. Legge fallimentare, artt. 160-186, Zanichelli-Il Foro italiano, Bologna-Roma, 1979; più di recente, su posizioni contrapposte, A.M. Azzaro, Le funzioni del concordato preventivo tra crisi e insolvenza, in Fallimento, 2007, pp. 743 ss., e D. Galletti, Commento agli artt. 160 e 161 l.f., in A. Jorio e M. Fabiani (diretto da), Il nuovo diritto fallimentare, Zanichelli, Bologna, 2007, pp. 2268-2332.

[2] In proposito, mette conto segnalare la tesi di F. Di Marzio, Contratto e delibazione nella gestione della crisi di impresa, in F. Di Marzio e F. Macario (a cura di), Autonomia negoziale e crisi di impresa, Giuffrè, Milano, 2010, pp. 91 ss., secondo il quale il concordato non sarebbe inquadrabile tra i contratti, difettando la possibilità di configurare come parte contraente la massa dei creditori, ma troverebbe piuttosto la sua configurazione nel paradigma deliberativo.

[3] Cass. civ., sez. unite, 23 gennaio 2013, n. 1521, in Fallimento, 2013, 2, p. 149, con nota di M. Fabiani; ivi, n. 3/2013, pp. 279 ss., con note di F. De Santis, I. Pagni e A. Di Majo; in Corriere del merito, n. 4/2013, p. 403, con nota di G. Travaglino; in Diritto fallimentare, n. 1/2013, II, p. 1, con nota di A. Didone.

[4] Cass. civ., sez. unite, 28 giugno 2018, n. 17186, in Foro it., n. 12/2018, I, 4020; in Giur. it., n. 11/2018, p. 2407, con nota di M. Spiotta; in Fallimento, nn. 8-9/2018, p. 960 nota di G. D’Attorre.

[5] Perplessità sul punto già si rinvengono in M. Fabiani e G. Carmellino, Il concordato preventivo, op. cit., p. 1684, ove si tratta della «disgregazione dell’impronta negoziale del concordato preventivo».

[6] In tal senso S. Ambrosini, Il nuovo concordato preventivo alla luce della “miniriforma” del 2015, in Dir. fall., 2015, I, pp. 362 ss. e M. Fabiani, L’ipertrofica legislazione concorsuale fra nostalgie e incerte contaminazioni ideologiche, in Il Caso, 6 agosto 2015, www.ilcaso.it/articoli/cri.php?id_cont=814.php.

[7] Così A. Rossi, Il miglior soddisfacimento dei creditori (quattro  tesi), in Fallimento, n. 6/2017, pp. 639 ss.

[8] A. Patti, Il miglior soddisfacimento dei creditori: una clausola generale per il concordato preventivo?, in Fallimento, n. 9/2013, p. 1107.

[9] Di diverso avviso A. Rossi, Il miglior soddisfacimento, op. cit., p. 642, e S. Ambrosini, Concordato preventivo con continuità aziendale: problemi aperti in tema di perimetro applicativo e di miglior soddisfacimento dei crediti, in Il Caso, 25 aprile 2018, http://blog.ilcaso.it/libreriaFile/1017.pdf.

[10] Ex aliis, Cass., sez. I civ., ord. 4 maggio 2018, n. 10752, in Fallimento, nn. 8-9/2018, p. 973, con nota di L.A. Bottai.