Magistratura democratica

Genere e genere di famiglia

di Laura Ronchetti
Il contributo propone un’analisi dell’ordinamento italiano che interroghi la dimensione giuridica dell’autonomia procreativa delle donne e delle diseguaglianze di fatto esistenti tra i generi nella riproduzione sociale. Se le nostre Costituenti affermarono il carattere sociale e pubblico del lavoro di riproduzione sociale sulla base del principio dell’uguaglianza sostanziale, oggi assistiamo al prepotente ritorno di una spinta verso la privatizzazione della famiglia e dei rapporti di forza endofamiliari.

1. La famiglia e il genere

La famiglia è il luogo, la formazione sociale nella quale si organizza e si struttura gran parte della riproduzione della società. Tale riproduzione sociale consiste in una serie di lavori di cura delle cose e delle persone, la quale è tradizionalmente svolta dalle donne a titolo gratuito; peraltro, un ruolo determinante nella riproduzione nel suo insieme è rappresentato dalla procreazione in sé. Mentre sarebbe sempre possibile, se non improcrastinabile, una diversa e più equa divisione sessuale del lavoro di riproduzione sociale, non più basata su una gerarchia tra i sessi che impone ruoli di genere all’interno dalle famiglie e anche al di fuori di esse, solo il corpo della donna può procreare, cioè compiere l’insieme degli atti e dei processi che consentono di trasmettere la vita. Quest’asimmetria tra i sessi nella procreazione è, dal mio punto di vista, un punto di ancoraggio indefettibile per ogni riflessione giuridica che coinvolga la maternità, i rapporti familiari e il concetto stesso di famiglia.

L’ordinamento dovrà, allora, essere analizzato anche in considerazione del determinante ruolo della procreazione in sé nell’intera riproduzione sociale per la prosecuzione della specie umana e di quanto questo ruolo possa essere svolto soltanto dalle donne. L’asimmetria tra i sessi nella procreazione è infatti alla base dei perenni tentativi da parte del diritto di dominare il potere procreativo delle donne. Qual è la considerazione che il nostro ordinamento ha dell’autonomia procreativa delle donne? Quanto la maternità non è confinata a mero affare privato, ma ha conquistato una dimensione sociale e politica di assoluto rilievo, fondativa delle forme della convivenza?

Una seconda questione investe, invece, le condizioni “di fatto” esistenti nel resto del lavoro riproduttivo: in altri termini, della cd. divisione sessuale nel lavoro della riproduzione sociale. I diritti sociali non sono proprio quei diritti che liberano le donne dal peso della riproduzione sociale attribuendone la responsabilità all’intera società e alle sue istituzioni pubbliche? Come l’ordinamento considera e pondera le diseguaglianze in base al genere rilevabili nel lavoro di riproduzione sociale? La stessa dimensione pubblica del lavoro di cura che spazio trova nel diritto civile e in particolare nel diritto di famiglia?

2. La funzione sociale della maternità in Assemblea costituente

Già le donne elette in Assemblea costituente dimostrarono di avere una grande consapevolezza del ruolo cruciale svolto dalle donne nella complessiva riproduzione della società e dell’impossibilità di subordinare tale riconoscimento a condizioni giuridiche o sociali di inferiorità. Ė interessante ricordare quel dibattito a pochi mesi dall’anniversario dei settant’anni dell’entrata in vigore della Costituzione. Spesso, infatti, si è criticato l’assorbente interesse delle donne Costituenti per la famiglia e il “materno”, ma a ben vedere la loro attenzione era rivolta alla concretezza della realtà sociale, incentrata sulle condizioni di fatto che andavano assicurate a tutti, ma soprattutto a tutte le donne, nel godimento di diritti sociali indispensabili per poter svolgere in maniera libera e dignitosa e, dunque, autonoma la propria esistenza.

Noto è il contributo assiduo e costante, con funzioni di relatrici e correlatrici, in particolare di quattro Costituenti che presero parte attivamente ai lavori della prima «Diritti e doveri dei cittadini» (Iotti - Pci) e della Terza sottocommissione «Diritti e doveri economici e sociali» (Federici - Dc; Merlin – Psi; Noce - Pci) della commissione incaricata di elaborare e proporre il progetto di Costituzione da discutere in aula, divenuta nota con il nome di “Commissione dei 75”.

Teresa Noce, sin dal 26 luglio 1946[1], pone il problema della funzione sociale della maternità perché «la maternità non deve essere considerata soltanto in funzione della famiglia, ma anche dello Stato, appunto perché è un problema di natura sociale». Nella sua relazione, ribadisce che la maternità non è solo un «affare privato». È l’occasione per fare uscire dal privato la famiglia e riconsegnarla alla sua dimensione schiettamente politica: non è più ammissibile una famiglia «antidemocratica» – come la definì Nilde Iotti – che relega le donne in una condizione di inferiorità che impedisce loro di sviluppare liberamente la propria personalità[2]. Se, per Iotti, i diritti e i doveri del padre e della madre sono identici, per contro il correlatore, uomo democristiano, afferma che «pur essendo d’accordo che sia oramai superato il concetto della inferiorità della donna, che non ha più bisogno dell’autorizzazione maritale per la stipulazione di negozi giuridici, non si sentiva di sconvolgere il diritto della famiglia ad avere un capo, che per la natura stessa della famiglia, deve essere il padre»[3].

Contemporaneamente, in Terza sottocommissione[4], Angelina Merlin ribadisce che «il riconoscimento della funzione sociale della maternità non interessa solo la donna, o i figli, ma l’intera società»[5]. Mentre Merlin e Noce parlano di lavoratrici e figli, la democristiana Maria Federici vuole che il soggetto sia la famiglia, ma al tempo stesso propone un articolato che parla di «donna-capofamiglia» e propone la tutela delle «famiglie irregolari»[6].

3. Contro l’essenziale» funzione familiare delle donne, le donne conquistarono i diritti sociali

Di estremo rilievo è che molte Costituenti si opposero all’aggettivo «essenziale» riferito alla «funzione familiare» delle lavoratrici proposto da Aldo Moro[7], il quale trova sostegno nel collega Ottavio Mastrojanni, che concorda sul fatto che «il fenomeno dilagante dell’attività della donna nel campo sociale e politico, come nel campo del lavoro comune, ha portato come conseguenza l’indebolimento della compagine familiare e dell’educazione dei figli», mentre «la funzione naturale della donna è quella che la natura le ha attribuito, comprendente non solo la procreazione, ma anche la difesa e l’educazione dei figli». E, più avanti: «si verrebbe ad ammettere il principio che si possa anteporre alla funzione naturale biologica della donna, la funzione economica e sociale. Di conseguenza, ritiene che la parola “essenziale” abbia un significato dal quale non si possa prescindere, nel senso che si deve ritenere che la donna rimanga quanto è più possibile nella sua funzione naturale, e che il resto della sua attività nella vita pubblica e lavorativa sia considerato come accessorio e non come essenziale».

In aula, dieci donne[8] presentarono un emendamento, svolto da Merlin, che proponeva di sopprimere la parola «essenziale» perché «consacrerebbe un principio tradizionale, ormai superato dalla realtà economica e sociale, il quale circoscrive l’attività della donna nell’ambito della famiglia». La condizione di “addetta alla famiglia” della donna viene immediatamente collegata all’assenza di diritti sociali e economici: «nessuna assistenza sanitaria viene loro prodigata nel periodo delicato ed importante della maternità, né vi sono nidi, scuole, istituti sanitari per i bimbi, per sorvegliarli ed accoglierli nel tempo in cui la madre è impegnata nel suo lavoro. Io penso che la Costituzione, assicurando una adeguata protezione alla madre ed al bimbo, avrebbe garantito la difesa alla società tutta intera»[9].

Con questo obiettivo, a partire dalle condizioni concrete delle donne, Merlin aveva presentato una proposta sul diritto al lavoro aggiungendo l’idea di «piani economici per garantire il minimo di vita, o altrimenti, l’assistenza»[10]; Noce aveva chiarito la differenza tra previdenza e assistenza, affermando espressamente che l’assistenza è «per quelle persone che non fanno un lavoro salariato e in modo particolare [del]le madri di famiglia, [del]le cosiddette casalinghe, le quali, pur non facendo un lavoro salariato, sono utili alla collettività, in quanto hanno cura dell’allevamento dei bambini»[11]. Quando un costituente le risponde che si tratterebbe di beneficienza, Noce ribatte che «non si tratta di assistenza sotto forma di carità pubblica, sia pure sociale, ma di qualche cosa che sorge da un diritto»[12] perché «la donna lavoratrice non è soltanto l’operaia, bensì anche quella che, avendo una numerosa prole da allevare, non può lavorare»[13] e chiede per essa l’assistenza, un salario.

La correlatrice Federici insiste[14]: «noi crediamo che non si possa arrivare (…) tanto facilmente al salario familiare ed allora chiediamo almeno che le disposizioni generali, gli orari, la durata del lavoro, i permessi ed i congedi, tengano presente che la donna lavoratrice, oltre al suo lavoro, dinanzi alla macchina, dinanzi allo scrittoio, o in qualsiasi altra occupazione di carattere materiale o intellettuale, ha anche una grande funzione da svolgere: (…) [I]o credo che appartenga alla esperienza di tutti  (...) che la donna dispieghi nella famiglia un complesso grandioso di attività, il cui valore è notevolissimo anche dal punto di vista economico».

Merlin esprime la concretezza della visione dell’uguaglianza che le Costituenti veicolano: da subito, afferma che sarebbe necessario il diritto di ogni persona ad avere assicurato «il minimo necessario per l’esistenza, e precisamente agli alimenti, agli indumenti, all’abitazione e all’assistenza sanitaria»[15].

Tutti questi interventi dimostrano quanto fosse prioritario, per superare le diseguaglianze di genere costruite intorno alla dicotomia tra la sfera privata della famiglia e quella pubblica della produzione, affermare la più ampia pubblicizzazione e socializzazione del lavoro di riproduzione sociale, anche in nome del suo valore economico. Le Costituenti si batterono per il diritto alla salute, per il diritto all’istruzione, per il diritto all’assistenza e alla previdenza, ben consapevoli che, in assenza di un intervento pubblico a spese della collettività, il peso della cura dei malati, dei bambini, degli inabili al lavoro sarebbe ricaduto sulle loro spalle.

4. Le condizioni “di fatto” e l’eguaglianza: L’onorevole Angelina

I profili qui richiamati sono proprio quelli per i quali lotta la protagonista del film di Luigi Zampa, L’onorevole Angelina (con nome che ricorda la Merlin), uscito con i lavori della Assemblea costituente ancora in corso, nel 1947: Anna Magnani rappresenta la capacità di mobilitazione delle donne (solo delle donne e delle donne da sole) della borgata di Pietralata a Roma per rivendicare acqua, cibo, casa, trasporti, condizioni igieniche e sanitarie decorose. Mette in scena quanto la piena partecipazione alla vita collettiva delle donne comporti necessariamente una ridefinizione dei ruoli dei sessi all’interno della famiglia e dell’intera società. Angelina sa “baccagliare” talmente bene che le borgate potrebbero portarla in Parlamento facendola diventare “Onorevole”, ma presto si trova messa all’angolo: la borgata la rinnega, la pubblica sicurezza la mette in prigione, il marito la vuole lasciare perché non è più lui il capofamiglia. Il film coglie l’inadeguatezza delle relazioni tra i sessi e della società: Angelina ripristina il ruolo del marito come capofamiglia, rinuncia alla candidatura parlamentare anche se non smetterà di baccagliare per quei diritti necessari per vivere un’esistenza libera perché dignitosa.

In questa protagonista ritroviamo quanto magistralmente detto in Assemblea costituente da Teresa Mattei[16]: «In una società che da lungo tempo ormai ha imposto alla donna la parità dei doveri, che non le ha risparmiato nessuna durezza nella lotta per il pane, nella lotta per la vita e per il lavoro (…) nessuno sviluppo democratico, nessun progresso sostanziale si produce nella vita di un popolo se esso non sia accompagnato da (…) un effettivo progresso e una concreta liberazione per tutte le masse femminili e non solamente nel campo giuridico, ma non meno ancora nella vita economica, sociale e politica del Paese». Mattei non pensa che il diritto, da solo, possa modificare la cultura: «È purtroppo ancora radicata nella mentalità corrente una sottovalutazione della donna, fatta un po’ di disprezzo e un po’ di compatimento, che ha ostacolato fin qui grandemente o ha addirittura vietato l’apporto pieno delle energie e delle capacità femminili in numerosi campi della vita nazionale. Occorre che questo ostacolo sia superato». Nel denunciare la cultura patriarcale, dunque, Mattei ricorre alle parole che poi saranno scolpite nel principio di uguaglianza sostanziale che ha reso la nostra democrazia una forma di Stato costituzionale sociale. 

Per far capire a quale cultura si riferisse, Mattei parte dalla sua esperienza diretta e racconta che «Un onorevole Deputato, che sta negli ultimi settori della destra» si sia così espresso, «con la solita aria di disprezzo (…): “Sono di genere femminile e quindi sempre infide” (ilarità). È questo un malvezzo (…). Per questa ragione io torno a proporre che sia migliorata la forma del secondo comma dell’articolo 7» – l’attuale art. 3 – «nel seguente modo: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli d’ordine economico e sociale che limitano «di fatto» — noi vogliamo che sia aggiunto — la libertà e l’eguaglianza degli individui e impediscono il completo sviluppo della persona umana”»[17].

Come si è dimostrato è una malevola voce quella che sminuisce l’apporto delle donne Costituenti, attribuendo loro “solo” la disciplina della famiglia e della maternità: esse introducevano, al contrario, quel «di fatto» che consente di calare il principio di uguaglianza nella concretezza delle relazioni socio-economiche, permettendo di parlare di eguaglianza sostanziale; rivendicavano reddito per il lavoro domestico sotto forma di assistenza e servizi; lottavano per una trasformazione radicale della famiglia quale formazione sociale che doveva garantire lo sviluppo della personalità e il reciproco sostegno e aiuto senza subordinazioni di genere.

5. Procreazione e riproduzione sociale

Innegabile, dunque, la consapevolezza di alcune donne alla Costituente sulla dimensione sociale della maternità come parte significativa della riproduzione dell’intera societàe quanto questa rivendicazione sia strettamente connessa alla dimensione dell’eguaglianza sostanziale. A distanza di settant’anni è importante verificare, dunque, se e quanto l’ordinamento attuale esprima un’analoga consapevolezza con l’obiettivo di superare le diseguaglianze di genere o se, viceversa, manifesti una tendenza a disconoscere l’asimmetria tra i sessi nella procreazione e la disparità di fatto esistente tra i generi nel lavoro di cura e di riproduzione sociale.

Sotto il profilo del riconoscimento dell’asimmetria tra i sessi nella procreazione, come ho tentato di argomentare in altre occasioni[18], sono convinta che la garanzia giuridica dell’autonomia sessuale e procreativa delle donne non sia ancora piena. Proprio in tema di procreazione, dove l’asimmetria tra i sessi è radicale e non superabile, l’autodeterminazione delle donne non è presa in considerazione, perché ogni forma di garanzia costituzionale è ricondotta alla salute psico-fisica ex art. 32, con la totale assenza di qualunque rilievo della libertà personale, del profilo della scelta libera e responsabile. Eppure il 2018, oltre a essere l’anniversario della Costituzione, è stato anche quello della legge n. 194 del 1978, che portava a compimento una nuova accezione della maternità cominciata con la legge sui consultori del 1975, lo stesso anno della riforma del codice di famiglia: al riconoscimento del “valore sociale della maternità” si affiancava il “diritto alla procreazione cosciente e responsabile”.

Maternità come scelta e non come destino sociale. Procreazione solo se desiderata, per evitare donne prigioniere del loro stesso corpo. In quegli anni, comincia ad affermarsi la fecondazione assistita dalla tecnica come potenziamento dell’autonomia procreativa delle donne, a prescindere dalla sessualità e, quindi, dall’altro sesso. Invece, con la legge n. 40, del 2004 la questione diventa, non di maternità, ma di genitorialità. Non solo si tratta di genitorialità basata sul cd. paradigma eterosessuale, ma è evidente che il legislatore diffida apertamente della donna che non sia accompagnata in modo stabile da un uomo: l’accesso alla fecondazione assistita è consentito solo alle coppie e non alla donna in quanto tale (art. 5, l. n. 40/2004)[19]. Se la capacità fecondativa vede i due sessi condividere lo stesso ruolo nelle scelte e nelle responsabilità procreative, non può non rilevare il dato di fatto, incontrovertibile, che gli uomini non possono né iniziare né portare a termine una gravidanza, né partorire. Questa differenza fondamentale, che emerge chiaramente nella legge sull’interruzione volontaria della gravidanza alla quale accede “la donna”, nella disciplina sulle tecniche di fecondazione assistita perde del tutto rilievo giuridico, contrariamente a quanto previsto in altri ordinamenti (Regno Unito e Spagna)[20], che riconoscono l’accesso alle tecniche alla singola donna. Con la sentenza n. 162 del 2014[21], la Corte costituzionale ha, sì, introdotto un elemento di autodeterminazione, di cui ho lamentato l’assenza nella ricostruzione giuridica e, in particolare, costituzionalistica sulle vicende relative al corpo delle donne[22]. Si tratta, tuttavia, di un’autodeterminazione connessa non alla autonomia procreativa della donna, ma al diritto della coppia alla formazione di una famiglia[23].

Eppure, le Costituenti ottennero di avere in Costituzione, all’art. 31, un secondo comma che sancisce la protezione della maternità, «favorendo gli istituti necessari a tale scopo».

Oltre la procreazione in sé, tuttavia, come evidenziavano le donne Costituenti, c’è un’intera esistenza di riproduzione sociale: prima, dopo e a prescindere dalla procreazione.

È sulla base di questa consapevolezza che alcune costituenti, alcune femministe degli anni settanta nonché parte del femminismo contemporaneo ritengono che il lavoro familiare, domestico e di cura, non salariato, dovrebbe essere fonte di un diritto a un reddito monetario, anche sotto forma di servizi e assistenza.

Oltre all’assistenza pubblica nelle sue varie sfaccettature, mai davvero soddisfacente, il diritto ha riconosciuto un valore pure economico, oltre che sociale, al lavoro familiare che coinvolge anche i rapporti interprivati: gli alimenti all’ex coniuge economicamente svantaggiato (statisticamente, la donna) esprimono il riconoscimento del valore economico del lavoro familiare svolto, del contributo personale dato da ciascuno nella conduzione familiare e nella formazione del patrimonio di entrambi; infatti, l’assegno, oltre ad avere natura assistenziale del coniuge più debole, ha anche una natura “compensativa” dell’impegno personale al benessere complessivo della famiglia che deve essere considerata nella definizione degli alimenti (art. 5, comma 6, l. n. 898/1970)[24]. L’assegno di mantenimento, istruzione ed educazione dei figli, che fa sorgere un credito iure proprio in capo al coniuge affidatario, non è rimesso a una illimitata autonomia privata dei coniugi, ma è determinato dal giudice in proporzione alle sostanze e alle capacità di lavoro di ciascuno dei genitori.

Sebbene sarebbe necessario operare una radicale trasformazione della divisione sessuale del lavoro (di cura[25] e non), che a mio parere non sarà mai soddisfacente se contemporaneamente non verrà ripensato il rapporto tra riproduzione sociale e produzione[26], non è possibile ignorare la perdurante sperequazione “di fatto” dei tempi di vita dalle donne dedicati alla cura, alla crescita e alla dedizione rivolti ai soggetti dipendenti – dai bambini agli anziani, fino ai malati –, oltre che al presuntoindipendente e autosufficiente uomo con il quale convivono. In base all’ultimo Rapporto Istat in argomento, abbiamo contezza che «sin da bambine, le donne svolgono più lavoro familiare e hanno meno tempo libero dei coetanei. La differenza inizia a manifestarsi già tra gli 11 e i 14 anni e aumenta sensibilmente al crescere dell’età. Il lavoro familiare (domestico e di cura) rappresenta il 21,7% della giornata media delle donne (5h13’), contro il 7,6% di quella degli uomini (1h50’)” con percentuali ancora più squilibrate nel fine settimana. Questo squilibrio dei carichi di lavoro non retribuito corrisponde a un indice del 64% che, nonostante la sua enormità, fa ben sperare rispetto alla rilevazione del 2009: rispetto a dieci anni fa è aumentato di 12’ al giorno il tempo dedicato dagli uomini adulti al lavoro familiare (1h50’) che, seppure di entità limitata, è un’accelerazione rispetto alle tendenze di fondo visto che in precedenza il contributo maschile era aumentato di soli 17’ in vent’anni»[27].

Con questi dati, che dimostrano come “di fatto” la libertà e l’uguaglianza delle donne sia “limitata”, vorrei ricordare che la drastica riduzione delle prestazioni sociali per favorire l’autonomia dei soggetti non solo ha comportato un aumento del lavoro riproduttivo delle donne, ma ha aperto la strada alla privatizzazione della famiglia. Si tratta di una privatizzazione intesa non come rispetto delle libere scelte delle persone che la compongono, ma proprio come ritrarsi della dimensione e dell’intervento pubblico a fronte di asimmetrici e impari rapporti di forza endofamiliari.

6. «Sono di genere femminile e quindi sempre infide»: “malvezzo” duro a morire, anzi più vivo che mai nel ddl Pillon

Il modello familiare patriarcale, eteronormato, privatizzato trova attualmente la sua massima espressione nel ddl Pillon[28], che esprime con chiarezza una visione delle madri come cattive educatrici, mogli parassitarie e approfittatrici, con l’obiettivo di cancellare il cammino fatto sull’autodeterminazione di genere dal 1948 in poi: le madri, una volta separate dal pater familias, sono “infide”, le uniche responsabili del poco tempo speso dai padri per prendersi cura dei loro figli. A prescindere dall’effettiva sorte che spetterà a tale ddl, la visione dei rapporti familiari di cui è portatore deve essere analizzata proprio dal punto di vista della messa in discussione del riconoscimento del lavoro di riproduzione sociale.

Per porre rimedio alla presunta persistente violazione del diritto dei padri a crescere i loro figli – diritto che, in base alle statistiche prima richiamate, gli uomini (di media certamente, non individualmente, ma il ddl prevede una disciplina da applicare a tutte le coppie) esercitano con notevole moderazione in costanza di matrimonio o convivenza – il ddl compie una significativa de-giurisdizionalizzazione della materia familiare, riportandola ad affare privato, ai meri rapporti di forza basati sulle diseguaglianze economiche tra i generi nonché, direttamente, sulla violenza contro le donne e i minori.

La separazione, in tutti i casi in cui sia coinvolto un minore, viene affidata alla mediazione familiare obbligatoria, quale condizione di procedibilità per l’accesso al giudice precostituito per legge. Si tratta, dunque, di una forma di privatizzazione della sfera familiare[29], affidata a nuove e sconosciute figure di liberi professionisti pagati al 50 per cento dai coniugi. Non si tratta, quindi, di un approfondimento dell’autonomia della famiglia in sé, che anzi si troverebbe dal legislatore costretta a sottoscrivere un “piano genitoriale” che stabilisce tutto quanto concerne la vita dei figli.

Soprattutto, il ddl prevede che per legge i minori siano affidati in modo paritario tra i due genitori: una bigenitorialità intesa come parificazione dei tempi di frequentazione genitoriale imposta per legge, e avente come minimo dodici pernottamenti al mese. A fronte della pervasività della legge, al giudice viene lasciato un ruolo notarile: in caso di rifiuto o di esito negativo del percorso di mediazione, qualora la conflittualità persista, il giudice potrà proporre ai genitori di nominare un coordinatore genitoriale, con poteri decisionali che il giudice si limita a recepire.

Unico margine di apprezzamento lasciato al giudice si ha nei «comprovati» casi di violenza e abuso sessuale nei confronti del minore ex art. 337-ter, comma 2[30]: in tal caso, il giudice «può» decidere per l’affidamento esclusivo all’altro genitore e, per di più, solo a titolo «temporaneo». Ma anche nell’affido esclusivo deve, in ogni caso, essere garantito il diritto del minore alla bigenitorialità, con adeguati tempi di frequentazione del minore con l’altro genitore, che quello affidatario ha l’obbligo di favorire e garantire salva diversa, motivata e discrezionale valutazione del giudice.

Questa iniziativa legislativa si dichiara in attuazione di una risoluzione del Consiglio di Europa: si tratta della risoluzione n. 2079 (non «1079», come scritto nella relazione di accompagnamento)[31] che, nel tentativo di rafforzare la responsabilità paterna in un contesto di forte squilibrio tra i sessi nella cura e nell’educazione dei figli, raccomanda, oltre l’introduzione di congedi obbligatori per i padri che il legislatore italiano neanche prende in considerazione, di «introduire dans leur législation le principe de la résidence alternée des enfants après une séparation, tout en limitant les exceptions aux cas d’abus ou de négligence d’un enfant, ou de violence domestique, et en aménageant le temps de résidence en fonction des besoins et de l’intérêt des enfants». Sin dal titolo della risoluzione, si evince subito che la residenza alternata non è rigidamente paritaria, ma si basa proprio sulla ponderazione dei bisogni e degli interessi dei minori e giammai può diventare un boomerang contro chi subisca violenza domestica. Il ddl, dunque, travisa il senso della risoluzione andando oltre anche quanto richiesto dallo stesso “contratto di governo”[32] e violando drammaticamente l’art. 48 della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e il contrasto della violenza contro le donne e della violenza domestica, aperta alla firma a Istanbul l’11 maggio 2011, che stabilisce il divieto di fare ricorso obbligatorio a procedimenti di soluzione alternativa delle controversie, incluse la mediazione e la conciliazione[33].

Dal linguaggio del ddl, invece, emerge l’idea che la violenza endofamiliare (divenuta neutra dal punto di vista di genere) sia prodotta inevitabilmente dalla “conflittualità”, quindi dalla provocazione che porta all’esasperazione[34]. Anzi, nel ddl si ipotizza che le donne accusino falsamente il partner di violenza per avere benefici nelle cause civili di separazione e divorzio e per «alienare» l’affetto dei figli nei confronti dei padri. Il giudice potrà disporre provvedimenti molto punitivi «in ogni caso ove riscontri accuse di abusi e violenze fisiche e psicologiche evidentemente false e infondate mosse contro uno dei genitori».

A ciò di aggiunga che l’art. 14 del ddl rende impossibile per il nucleo genitore/minore vittime di violenza fuggire dalla casa familiare e, anzi, affida all’autorità di pubblica sicurezza il compito di ricondurre immediatamente il minore presso il luogo di residenza in base alla mera segnalazione dell’altro genitore e non su ordine dell’autorità giudiziaria.

Contestualmente, «il mantenimento di un rapporto equilibrato e continuativo con l’altro genitore e la conservazione di rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale» deve essere assicurato da ciascun genitore, altrimenti si macchierà di «abusi familiari» che possono portare alla perdita della responsabilità parentale e, comunque, alla «inversione della residenza abituale» o addirittura al «collocamento presso una struttura» del minore. Questi nuovi «Ordini di protezione contro gli abusi familiari» (art. 342-bis cc) «possono essere applicati – nell’esclusivo interesse del minore – anche quando, pur in assenza di evidenti condotte di uno dei genitori, il figlio minore manifesti comunque rifiuto, alienazione o estraniazione con riguardo ad uno di essi»[35].

Altrettanto dirompente è quanto previsto dal punto di vista dei rapporti economici. Secondo l’indagine EU-Silc, pubblicata nel 2011, le donne separate, divorziate o riconiugate a rischio di povertà sono il 24% rispetto al 15,3% degli uomini nella stessa condizione e rispetto alle altre donne (19,2%), condizione determinata, all’origine, proprio dall’impari divisione sessuale del lavoro domestico e di quello salariato. Su questo fronte, il ddl Pillon prevede l’eliminazione dell’assegno di mantenimento dei figli perché ciascun genitore provvederà a loro nella metà del tempo di propria competenza, senza peraltro prevedere alcuno strumento volto a tutelare il nucleo genitore/minore in caso di inadempimento dell’altro genitore. Anzi, abroga le pene previste dall’art. 570-bis per «il coniuge che si sottrae all’obbligo di corresponsione di ogni tipologia di assegno dovuto in caso di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio ovvero vìola gli obblighi di natura economica in materia di separazione dei coniugi e di affidamento condiviso dei figli» (art. 21). A ciò si aggiunga la previsione del pagamento, a prezzi di mercato, della locazione della casa familiare di proprietà dell’altro coniuge.

Il soggetto economicamente debole – statisticamente, la donna – non solo in molti casi non potrà permettersi di restare nella casa familiare, ma rischia anche di vedersi tolta la responsabilità familiare per «inadeguatezza evidente degli spazi predisposti per la vita del minore».

Altro che tutela della maternità, altro che salario familiare.

Il «malvezzo» di cui parlava Teresa Mattei non solo è duro a morire, ma a settant’anni dalla Costituzione è più vivo che mai. Per questo le garanzie costituzionali dell’autonomia delle donne devono essere approfondite e non possono essere agganciate alla mera tutela della salute psico-fisica, ma devono coinvolgere il concreto esercizio della libertà personale presidiata dall’obiettivo del pieno sviluppo della personalità e dell’effettiva partecipazione alla vita consociata.

[*] Il presente contributo è parte della relazione tenuta all’Università di Bergamo, il 5 ottobre 2018, nel convegno intitolato «70 anni dopo, tra uguaglianza e differenza. Una riflessione sull’impatto del genere nella Costituzione e nel costituzionalismo», in corso di pubblicazione a cura di A. Lorenzetti e B. Pezzini.

[1] Atti dell’Assemblea costituente, resoconto sommario, Terza commissione, 26 luglio 1946, p. 5.

[2] Nella sua relazione, Nilde Iotti afferma che «uno dei coniugi poi, la donna, era ed è tuttora legata a condizioni arretrate che la pongono in stato di inferiorità e fanno sì che la vita familiare sia per essa un peso e non fonte di gioia e aiuto per lo sviluppo della propria persona. Dal momento che alla donna è stata riconosciuta, nel campo politico, piena eguaglianza col diritto di voto attivo e passivo, ne consegue che la donna stessa dovrà essere emancipata dalle condizioni di arretratezza e di inferiorità in tutti i campi della vita sociale e restituita a una posizione giuridica tale da non menomare la sua personalità e la sua dignità di cittadina».

[3] Il 30 ottobre 1946 la Prima sottocommissione della Commissione per la Costituzione inizia la discussione sulla famiglia, con le relazioni di Nilde Iotti e Camillo Corsanego: il relatore (Dc) dichiara di non essere riuscito a formulare un’articolazione unica con la onorevole Iotti, secondo la quale i diritti e doveri del padre e della madre sono identici mentre a suo giudizio deve stabilirsi il principio della prevalenza del pater familias. Il terzo punto di disaccordo è dovuto alla richiesta della correlatrice di affermare in Costituzione il principio che i figli illegittimi debbono avere la stessa identica posizione giuridica di quelli legittimi.

Il relatore aggiunge, infine, che «Altro punto non proprio di disaccordo, ma di differenziazione, è in ordine alla indissolubilità del matrimonio. A tale proposito la onorevole Iotti, pur avendo dichiarato (…) che non avrebbe fatto proposte relative al divorzio, non si è sentita d’altra parte di accedere alla dichiarazione opposta, cioè che lo Stato garantisce l’indissolubilità del matrimonio».

[4] Il 13 settembre 1946, la Terza sottocommissione della Commissione per la Costituzione inizia la discussione generale sulle garanzie economico-sociali per l’assistenza della famiglia partendo dalla relazione dell’onorevole Angelina Merlin e dalle relazioni delle correlatrici Maria Federici e Teresa Noce. Nella relazione, Merlin afferma che «il concetto dell’uguaglianza dei diritti della donna nei confronti dell’uomo (…) ha un’importanza decisiva nella formazione della famiglia».

[5] 13 settembre 1946, resoconto, p. 34.

[6] Terza sottocommissione, 18 settembre 1946, resoconto, p. 45. Noce insiste sul fattore economico. Nel confronto tra l’impostazione di Noce e quella di Merlin e Federici, passerà questa seconda, meno stringente. Noce propone anche un articolo: «Lo Stato italiano garantisce ad ogni donna, qualunque sia la sua posizione sociale e giuridica, la possibilità di procreare in buone condizioni economiche, igieniche e sanitarie», in Terza sottocommissione, 13 settembre 1946, resoconto, p. 40.

[7] 8 ottobre 1946, Prima sottocommissione della Commissione per la Costituzione.

[8] Nadia Gallico Spano, Teresa Noce Longo, Teresa Mattei, Elettra Pollastrini, Rita Montagnana Togliatti, Angelina Merlin, Maria Maddalena Rossi, Adele Bei, Leonilde Iotti, Angiola Minella, insieme con gli onorevoli Barbareschi, Carmagnola, Mariani, Vischioni, De Michelis, Costantini, Merighi.

[9] 10 maggio 1947, quando l’Assemblea costituente prosegue l’esame degli emendamenti agli articoli del titolo terzo della parte prima del progetto di Costituzione: «Rapporti economici». Angelina Merlin aggiunge che: «Se la Costituzione deve essere quell’atto fondamentale e solenne per cui si traducono in norme i rapporti fra le esigenze etiche, sociali, economiche e gli ordinamenti giuridici, non potevamo che dar valore di legge ad una rivoluzione già compiuta nella nostra coscienza di donne. Noi sentiamo che la maternità, cioè la nostra funzione naturale, non è una condanna, ma una benedizione e deve essere protetta dalle leggi dello Stato senza che si circoscriva e si limiti il nostro diritto a dare quanto più sappiamo e vogliamo in tutti i campi della vita nazionale e sociale, certe, come siamo, di continuare e completare liberamente la nostra maternità (…) [A]nche nella casa, in troppe case, la funzione della maternità si svolge contemporaneamente al lavoro ed in condizioni inumane. Non soltanto nella Sicilia, nell’Italia meridionale e centrale, ma anche nelle progredite regioni dell’Italia settentrionale, vi sono case nelle quali le donne svolgono un lavoro senza avere per sé e per i loro bambini una speciale, adeguata protezione». Sul punto cfr. F. Covino, Donna Lavoratrice (dir. cost.), in Dig. disc. pubbl. (Aggiornamento), 2015, pp. 138-141, nonché M.G. Rodomonte, L’eguaglianza senza distinzioni di sesso in Italia: evoluzioni di un principio a settant’anni dalla nascita della Costituzione, Giappichelli, Torino, 2018, in particolare p. 46.

[10] 30 settembre 1946, resoconto, p. 15.

[11] Atti Assemblea costituente, Terza sottocommissione, 11 settembre 1946, resoconto, p. 21.

[12] Ibid., p. 25.

[13] Terza sottocommissione, 13 settembre 1946, p. 38.

[14] Il 10 maggio 1947, nella seduta antimeridiana, l’Assemblea costituente prosegue l’esame degli emendamenti agli articoli del titolo terzo della parte prima del progetto di Costituzione: «Rapporti economici».

[15] Terza sottocommissione, 13 settembre 1946, p. 33.

[16] Il 18 marzo 1947, nella seduta pomeridiana, l’Assemblea costituente prosegue la discussione generale delle «Disposizioni generali» del progetto di Costituzione della Repubblica italiana. Teresa Mattei aggiunge che: «Nasce e viene finalmente riconosciuta nella sua nuova dignità, nella conquistata pienezza dei suoi diritti, questa figura di donna italiana finalmente cittadina della nostra Repubblica. Ancora poche Costituzioni nel mondo riconoscono così esplicitamente alla donna la raggiunta affermazione dei suoi pieni diritti. Le donne italiane lo sanno e sono fiere di questo passo sulla via dell’emancipazione femminile e insieme dell’intero progresso civile e sociale. È, questa conquista, il risultato di una lunga e faticosa lotta di interi decenni. Il fascismo, togliendo libertà e diritti agli uomini del nostro Paese, soffocò, proprio sul nascere, questa richiesta femminile fondamentale, ma la storia e la forza intima della democrazia ancora una volta hanno compiuto un atto di giustizia verso i diseredati e gli oppressi».

[17] Segnala l’intervento di Mattei, mettendolo in connessione con il lavoro di Merlin e Noce sul concetto di assistenza, C. Giorgi, Il principio di eguaglianza: culture politiche e dibattito costituente, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, n. 1/2018, pp. 9 ss, in particolare pp. 40-41.

[18] Da ultimo, rinvio al mio La dimensione costituzionale dell’autodeterminazione riproduttiva delle donne, in M. Caielli - B. Pezzini – A. Schillaci (a cura di), Riproduzione e relazioni. La surrogazione di maternità al centro della questione di genere, Cirsde, Torino, 2019.

[19] In questa sede, dedicata all’autodeterminazione della singola persona, si critica il paradigma della coppia in sé per l’accesso alle tecniche.

[20] Cfr. C. Casonato e T.E. Frosini (a cura di), La fecondazione assistita nel diritto comparato, Giappichelli, Torino, 2006. In Spagna, dal 1988, può accedere alle PMA ogni donna maggiorenne con capacità d’agire e, dal 2006, a prescindere dallo stato civile e dall’orientamento sessuale.

[21] Con la decisione n. 162 del 2014, che ha dichiarato illegittimo il divieto di inseminazione cd. “eterologa”, la Corte costituzionale afferma che «la scelta (…) di diventare genitori e di formare una famiglia che abbia anche dei figli costituisce espressione della fondamentale e generale libertà di autodeterminarsi, libertà (…) riconducibile agli artt. 2, 3 e 31 Cost.», «poiché concerne la sfera privata e intima ed intangibile della persona umana [che] non può che essere incoercibile» e si caratterizza per «la libertà e volontarietà dell’atto».

Sull’accesso alla donazione dei gameti in Italia, si rinvia alle analisi di F. Angelni, Dalla fine di un irragionevole divieto al caos di una irragionevole risposta. La sentenza n. 162 del 214 della Corte costituzionale, lo Stato e le Regioni sulla fecondazione assistita eterologa, in Istituzioni del federalismo, n. 1/2015, pp. 61-87.

[22] Si rinvia al mio Donne e corpi tra sessualità e riproduzione,in Costituzionalismo, 11 aprile 2006, www.costituzionalismo.it/articoli/207/.

[23] Come rileva M. D’Amico, L’incostituzionalità del divieto assoluto della c.d. Fecondazione eterologa,in Rivista di BioDiritto, n. 2/2014, p. 22, «il divieto di procreazione medicalmente assistita cd. “eterologa” veniva, altresì, ritenuto lesivo del diritto all’autodeterminazione delle coppie in relazione alle proprie scelte procreative, pregiudicando in modo irragionevole il diritto della coppia di vedersi riconosciuto il diritto delle “giuste esigenze della procreazione”, enucleato dal Giudice costituzionale in occasione della fondamentale decisione n. 151 del 2009, e di fondare una famiglia».

[24] In questo senso, da ultimo, Corte di cassazione, ordinanza n. 18287 del 11 luglio 2018, sez. unite civili: «Le Sez. Unite hanno affermato che ai sensi dell’art. 5, comma 6, della l. n. 898 del 1970, dopo le modifiche di cui alla l. n. 74 del 1987, il riconoscimento dell’assegno di divorzio, cui deve attribuirsi una funzione assistenziale ed in pari misura compensativa e perequativa, “ove il coniuge più debole abbia rinunciato alle proprie aspettative professionali per assolvere agli impegni familiari” (…) ».

[25] B. Fischer e J. Tronto, Toward a Feminist Theory of Caring, in E. Abel e M. Nelson (a cura di), Circles of Care, State University of New York Press, Albany (NY), 1990, pp. 36-54, hanno prospettato una lettura politica e democratica della cura che ha molto a che fare con la qualità della vita che concorriamo a determinare. In Italia il pensiero femminista che propone «il “paradigma della cura” come un rovesciamento dei modi e delle forme del pensare e del vivere», come scrive B. Pomeranzi, “Sulla violenza. Ancora” / Cura come resistenza allo spirito dei tempi, in Donne e altri, 15 marzo 2018, (www.donnealtri.it/2018/03/sulla-violenza-ancora-cura-come-resistenza-allo-spirito-dei-tempi/), è espresso ne La cura del vivere, documento de «Il gruppo del mercoledì» (Fulvia Bandoli, Maria Luisa Boccia, Elettra Deiana, Laura Gallucci, Letizia Paolozzi, Bianca Pomeranzi, Bia Sarasini, Rosetta Stella, Stefania Vulterini), in Leggendaria, supplemento al numero di settembre 2011 (vds.: www.donnealtri.it/2011/10/la-cura-del-vivere/).

[26] A. Del Re, Produzione-Riproduzione, in Aa.Vv., Lessico marxiano, Manifestolibri, Roma, 2008, p. 111, constata che «se la riproduzione degli individui è analizzata nell’arco della vita delle persone, risulta evidente che ciascuno di noi è stato prodotto da qualcuno e per parti non irrilevanti della vita è stato o sarà dipendente da qualcuno che si occupa della sua riproduzione e del suo benessere. Se si assume nell’analisi come fondamentale la riproduzione della forza lavoro, si diverge radicalmente da ogni ideologia liberista che veda l’individuo esclusivamente nell’istante in cui è sano, adulto, vive da solo e basta a se stesso. Il partire dalla riproduzione degli individui mette in evidenza l’improponibilità scientifica di un’analisi dei rapporti sociali che si attesti sulle capacità produttive degli individui, escludendo la relazione e la riproduzione».

[27] Istat, Anno 2014. I tempi della vita quotidiana, 23 novembre 2016, in www.istat.it/it/files//2016/11/Report_Tempidivita_2014.pdf.

[28]  Disegno di legge n. 735 di iniziativa dei senatori Pillon, Candura, Pellegrini, Ostellari, Piarulli, D’Angelo, Evangelista, Giarrusso, Riccardi: Norme in materia di affido condiviso, mantenimento diretto e garanzia di bigenitorialità, www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/01071882.pdf.

[29] Sulla giustizia riparativa come privatizzazione, vds. A. Lorenzetti, Giustizia riparativa e dinamiche costituzionali. Alla ricerca di una soluzione costituzionalmente preferibile, Franco Angeli, Milano, 2018, in particolare p. 182.

[30] «Salvo comprovato e motivato pericolo di pregiudizio per la salute psico-fisica del figlio minore in caso di: 1) violenza; 2) abuso sessuale; 3) trascuratezza; 4) indisponibilità di un genitore; 5) inadeguatezza evidente degli spazi predisposti per la vita del minore» (art. 11).

[31] Per la discussione in Assemblea parlamentare, 2 ottobre 2015 (36° seduta), vds.: doc. 13870, Rapport de la commission sur l’égalité et la non-discrimination, relatrice: F. Hetto-Gaasch; doc. 13896, Avis de la commission des questions sociales, de la santé et du développement durable, relatore: S. Schennach) – testo adottato dall’Assemblea nella stessa seduta (http://assembly.coe.int/nw/xml/XRef/Xref-XML2HTML-FR.asp?fileid=22220&lang=FR).

[32] Disponibile online (http://download.repubblica.it/pdf/2018/politica/contratto_governo.pdf): «Diritto di famiglia. Nell’ambito di una rivisitazione dell’istituto dell’affidamento condiviso dei figli, l’interesse materiale e morale del figlio minorenne non può essere perseguito se non si realizza un autentico equilibrio tra entrambe le figure genitoriali, nel rapporto con la prole. Pertanto sarà necessario assicurare la permanenza del figlio con tempi paritari tra i genitori, rivalutando anche il mantenimento in forma diretta senza alcun automatismo circa la corresponsione di un assegno di sostentamento e valutando l’introduzione di norme volte al contrasto del grave fenomeno dell’alienazione parentale».

[33] Ratificata in Italia con l. n. 77 del 27 giugno 2013.

[34] Soprattutto il mediatore «deve altresì adoperarsi per impedire o per risolvere gravi conflittualità che possono produrre ogni forma di violenza endofamiliare, anche informando le parti della possibilità di ottenere l’aiuto di altri specialisti» (art. 1, comma 2, lett. k).

[35] Art. 17 (Modifica all’art. 342-bis del codice civile): «All’articolo 342-bis del codice civile (Ordini di protezione contro gli abusi familiari) dopo il comma 1, è aggiunto il seguente: “Quando in fase di separazione dei genitori o dopo essa la condotta di un genitore è causa di grave pregiudizio ai diritti relazionali del figlio minore e degli altri familiari, ostacolando il mantenimento di un rapporto equilibrato e continuativo con l’altro genitore e la conservazione rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale, il giudice, su istanza di parte, può adottare con decreto uno o più dei provvedimenti di cui agli artt. 342 ter e 342 quater. I provvedimenti di cui a quest’ultimo articolo possono essere applicati – nell’esclusivo interesse del minore – anche quando – pur in assenza di evidenti condotte di uno dei genitori – il figlio minore manifesti comunque rifiuto, alienazione o estraniazione con riguardo ad uno di essi”».