Magistratura democratica

La mano pubblica sull’economia, la crisi delle imprese e il partenariato ministeriale con la giurisdizione

di Massimo Ferro
Le norme di riguardo del decreto legislativo 12 gennaio 2019, n. 14 per le amministrazioni straordinarie e le liquidazioni coatte amministrative sono l’ultima puntata di un ridisegno normativo della crisi d’impresa e dei debitori comuni ancora di là dall’assumere portata organica e trasparente fissazione dell’interesse pubblico perseguito. L’insicuro ancoramento alla giurisdizione ne è il segno distintivo.

1. La frammentarietà dell’ordinamento concorsuale italiano nella mancata riforma delle procedure concorsuali amministrative

Il Parlamento italiano, nell’attribuire al Governo il potere di legiferare, ai sensi dell’art.76 Cost., «per la riforma delle discipline della crisi di impresa e dell’insolvenza», decise di conservare, nell’oggetto della delega, l’ambizioso obiettivo di una «riforma organica», limitando tuttavia l’intervento – ex art. 1, comma 1, legge 19 ottobre 2017, n. 155 - alle procedure della vecchia legge fallimentare (rd 16 marzo 1942, n. 267) e del sovraindebitamento (legge 27 gennaio 2012, n. 3).  Il ridimensionamento rifletteva, nel corso della XVII legislatura, lo stralcio dall’originario ddl “Orlando-Guidi” n. 3671 dell’art. 15, già frutto di un rilevante compromesso tra gli intendimenti della I Commissione Rordorf (volti ad attuare il mandato ministeriale e, dunque, a investire di un progetto di riforma anche le grandi imprese insolventi o in crisi) e le nette preclusioni poste dal Ministero dello sviluppo economico (Mise) verso un sistema che riportasse in un alveo unitario comunque tutte le insolvenze d’impresa del nostro ordinamento.

La relazione di accompagnamento aveva dato conto della indispensabilità di tale «disegno nell’ambito del quale (…) l’amministrazione straordinaria perderebbe quei profili di anomalia che ancora in qualche misura la connotano nel raffronto europeo e internazionale», dunque giustificando almeno il suggerimento che, pur non sopprimendo l’istituto, né determinando il suo assorbimento nelle comuni procedure ordinarie di  risoluzione della crisi e dell’insolvenza, comunque  residuasse la considerazione di esso «come un ramo appartenente al tronco comune e quindi (…) rendere applicabili (…) quando non vi siano esigenze specifiche di segno contrario, le regole e i princìpi dettati in via generale». In particolare, riprendendo un dibattito diffuso in dottrina, ma per la prima volta condotto in emersione a livello di modifica normativa, la relazione chiariva che era «particolarmente evidente il carattere straordinario (peraltro denunciato già dalla sua stessa denominazione) della procedura di cui si tratta, che trova la sua peculiare ragion d’essere – e il fondamento delle speciali competenze che in essa sono riservate all’autorità amministrativa – in esigenze di tipo economico-sociale, derivanti dalla crisi di imprese la cui dimensione o la cui funzione sia tale da poter provocare gravi ripercussioni occupazionali o comunque da richiedere un intervento governativo per ragioni di pubblico interesse». Ripercorrendo il dibattito interno alla Commissione ministeriale, al Parlamento venivano riassunti  i termini della discussione: «si è prospettata l’ipotesi che la procedura in esame possa essere riservata a imprese da taluno definite “strategiche”, cioè tali da influire sugli assetti economici e occupazionali di intere aree, in base a una valutazione rimessa all’autorità amministrativa competente, ma questa soluzione non ha trovato sufficiente condivisione, nemmeno da parte dei rappresentanti del Ministero dello sviluppo economico, al quale sarebbe toccato il compito di individuare i requisiti di strategicità delle predette imprese. Si è invece preferito optare per la più tradizionale individuazione di requisiti unicamente dimensionali, legati al fatturato dell’impresa e al numero dei dipendenti». Tale cauta premessa non è, tuttavia, bastata per affrontare in modo aggiornato e rinnovato il vero nodo della prospettata riforma, e cioè il punto di «equilibrio tra le competenze dell’autorità amministrativa, giustificate dalle (…) ragioni di pubblico interesse, e quelle dell’autorità giudiziaria, essenziali per la tutela dei diritti dei soggetti coinvolti». Già al Senato, infatti, il citato ddl giungeva senza l’art.15, tolto alla Camera e fatto confluire tal quale nell’atto C-3671-ter, che a sua volta diveniva oggetto d’esame unitario con la proposta di legge di iniziativa parlamentare (di deputati della medesima maggioranza di centrosinistra) sub atto 865, presentata nell’aprile 2013 (dunque ben tre anni prima dello stralcio del testo governativo) e il cui tenore, di elevato dettaglio, mal giustificava l’accorpamento. In realtà, l’impostazione dei due testi non era di facile conciliazione, avendo con l’art. 15 il Governo provato a varare un timidissimo aggancio alla insorgenda disciplina unitaria e a scrivere principi e criteri di legge delega, mentre la proposta di legge C. 865 era già una lista di emendamenti specifici del regime proprio del decreto legislativo n. 270 del 1999. In ogni caso, il progetto riformatore relativo all’amministrazione straordinaria è finito su un binario morto, non avendo mai visto la luce alcun testo definitivo nel corso della legislatura scorsa, né le scelte soppressive mantenute anche con la diversa maggioranza politico-parlamentare hanno trovato un appena significativo raccordo con un rinnovato proposito riformatore.

La citata disarticolazione strategica, per quanto grave, non è stata tuttavia considerata incidere in modo irreparabile sul disegno di unitarietà, potendo altre parti della riforma, per come licenziata dal Senato nell’ottobre 2017, innescare una spinta verso la riduzione della storica frammentarietà (e conseguente fragilità di affidamento) del sistema concorsuale italiano. Non solo la legge delega manteneva infatti, all’origine, la specializzazione dei giudici, con l’adeguamento degli organici degli uffici giudiziari e la concentrazione della competenza per le procedure riformate in capo a quelli dimensionati attorno a sezioni specializzate e una analoga indicazione verso la riorganizzazione della stessa Corte di cassazione, ma un’altra porzione del diritto della crisi appariva ricondotta alla giurisdizione. Il nuovo art. 15 (che era poi l’art. 14 del ddl governativo) interveniva sulle liquidazioni coatte amministrative, ricostituendo all’interno della disciplina della liquidazione giudiziale la casa comune per tutte le insolvenze, dunque anche per quelle prima regolate direttamente dall’autorità amministrativa nell’ambito delle ordinarie liquidazioni coatte amministrative. Le stesse autorità (i Ministeri vigilanti, in primo luogo il Mise) divenivano altresì centrali come collettori dell’allerta e investiti delle funzioni degli organismi di composizione della crisi.  Al di là, dunque, del regime speciale – mantenuto solo per banche e soggetti assimilati, intermediari finanziari, imprese assicurative – la liquidazione coatta amministrativa, per tutte le sue declinazioni speciali, si configurava come una procedura di diretta gestione da parte della pubblica amministrazione, ma solo per le irregolarità, mentre per l’insolvenza veniva superata ogni esclusiva e, con essa, anche il principio della prevenzione dichiarativa per le imprese di natura commerciale e non: l’insolvenza, con la liquidazione giudiziale e tutti gli altri strumenti di regolazione (concordati preventivi, accordi di ristrutturazione), avrebbe pertanto operato sotto un’unica egida organizzativa, con ripristino della parità di trattamento e senza ingerenze del potere politico o canali speciali a fronte delle comuni patologie del debito. Insomma, si sarebbe finalmente attuata una separazione fra i soggetti controllori e regolatori del sistema (strutturato su una continua  verifica amministrativa dei requisiti di accesso nonché dell’effettiva congruenza delle attività dei soggetti vigilati rispetto alle peculiarità mutualistiche o di settore, oltre che della stabilità economico-patrimoniale) e la funzione costituzionale assegnata all’autorità giudiziaria ordinaria (deputata a seguire, con il concorso di tecnici acquisiti a un quadro di funzioni pubblicistiche, la concorsualità conseguente all’insolvenza di tali debitori, per le implicazioni contrapposte di diritti soggettivi cui esse approdavano e le opposte tutele reclamate all’interno di contesti processuali giustiziabili).

L’obiettivo unitario sul punto delle liquidazioni coatte amministrative ha passato indenne la prima fase della decretazione delegata, con cui il Governo ha inviato alle Camere l’8 novembre 2018 – dunque già nella Legislatura XVIII e con maggioranza politica diversa – il testo della bozza di decreto delegato, ma si è infranto poi nella fase finale all’esito dei pareri sollecitati. Varando il definitivo testo del Codice della crisi, il Governo ha recepito la richiesta della sua maggioranza e, sul punto, semplicemente (cioè senza alcuna motivazione) non ha esercitato la delega.

La legge 8 marzo 2019, n. 20, che in un articolo unico riattribuisce al Governo il potere di adottare disposizioni integrative e correttive del d.lgs n. 14 del 2019, assegna un nuovo termine (2 anni dalla vigenza dell’ultima normativa delegata) per emendare la riforma. Ma può già indicarsi che, se non muta la fonte di tale potere d’intervento, non sussiste base costituzionale per dare attuazione all’art. 15, comma 1, lett. a, l. n. 155/2017. Lo stesso giudizio può essere ripetuto per le sezioni specializzate e la concentrazione dei tribunali, mentre qualche dubbio – all’opposto, avanzabile in punto di coerenza con la legge delega, ove essa vincolava il Governo a sottoporre i debitori, senza distinzione, alla medesima procedura riorganizzativa (art. 2, comma 1 lett. e) – potrebbe darsi per imprenditore agricolo, società professionali, start up innovative[1].

A sua volta, l’art. 1 CCII, sancendo l’ambito di applicazione del codice stesso, fa salve le disposizioni delle leggi speciali in materia di amministrazione straordinaria delle grandi imprese e di liquidazione coatta amministrativa, per la quale, dall’art. 293 all’art. 315, si è operato un sostanziale trapianto degli artt. 194-215 rd n. 267/1942, solo coordinato in minimi dettagli.

2. Dalla riforma organica alla definitiva codificazione del dualismo italiano: i giudici dell’economia minore e i ministri dell’economia maggiore

Conclusivamente, il pesante deficit di organicità del disegno riformatore non solo vulnera il progetto di ricomposizione unitaria del sistema concorsuale, ma costituisce un aggiornato esempio di egemonia organizzativa dell’agenzia pubblica riferibile all’Esecutivo, simbolizzando l’atto amministrativo un marcato segno di discrezionalità rispetto all’atto giurisdizionale. Il primo è avvertito come meglio improntato a criteri di merito e di opportunità nel caso concreto, soddisfacendo un interesse anche immediato rispetto a istanze dell’opinione pubblica e di gestione dell’economia potenzialmente in conflitto con la mera applicazione di regole di parità di trattamento fra creditori e di ordinaria responsabilità patrimoniale. Il secondo, evidentemente, non viene ritenuto sufficientemente in grado di adattarsi alla corposità di interessi che, raccordati a una data dimensione dell’impresa[2], tendono a esprimersi con bisogni mal canalizzabili dentro le sole categorie giuridiche del credito e del debito, la liquidazione dell’attivo e la continuità aziendale nell’interesse riconoscibile dei creditori, l’eguaglianza e i poteri di controllo dei creditori, la legge quale unica fonte di privilegi e trattamenti preferenziali, financo l’esercizio provvisorio e le prededuzioni, categorie tutte, a propria volta, patite come inefficaci, in ogni loro declinazione processuale. In realtà, si tratta di parametri impliciti, ma ampiamenti superati almeno dalla legislazione riformistica della metà del primo decennio del nuovo secolo: così lo svincolo del concordato preventivo dalla regola dell’alternatività con il fallimento, il nuovo presupposto della crisi eligibile quanto l’insolvenza, i nuovi istituti del piano attestato di cui all’art. 67, comma 3, l.fall. e delle varie gemmazioni degli accordi di ristrutturazione dei debiti di cui all’art. 182-bis l.fall., il concordato con continuità aziendale dell’art. 186-bis l.fall., lo stesso concordato con riserva di cui all’art. 161, comma 6, l.fall. costituiscono i maggiori esempi di un’attenzione (o scommessa) conservativo-gestionale e non solo più esecutivo-liquidatoria dell’intero impianto concorsuale. Essa fa persino sfumare le differenze rispetto all’impianto lessicale del vecchio dl 30 gennaio 1979, n.26 (poi convertito nella l. 3 aprile 1979, n. 95), sopravanzato dal d.lgs 8 luglio 1999, n. 270 con riarticolazione nel dl 23 dicembre 2003, n. 347 (convertito nella l. 18 febbraio 2004, n. 39), che ha bipartito gli assetti delle imprese sottoposte all’amministrazione straordinaria. Le finalità sono, invero, le stesse – la ristrutturazione economico-finanziaria o il programma di cessione dei complessi aziendali – variando solo i requisiti d’ingresso[3]. L’art. 1 della “Prodi bis” fissa la natura della amministrazione straordinaria quale procedura concorsuale riservata alla grande impresa commerciale insolvente, con finalità conservative del patrimonio produttivo mediante prosecuzione, riattivazione o riconversione delle attività imprenditoriali[4].

Il parametro di inadeguatezza della giurisdizione concorsuale è stato dunque assunto alla base degli obiettivi di una generica o specifica conservazione dei complessi produttivi (sin dalla prima “legge Prodi” del 1979), per poi raffinarsi nel più evoluto traguardo della continuità aziendale. Appare, peraltro, curioso che l’intera storia amministrativa delle procedure concorsuali dirette dal Governo non abbia brillato con il pieno successo delle esigenze pubblicistiche in cui quegli obiettivi sono stati trasformati: in moltissimi casi, l’evoluzione gestionale delle relative imprese è pervenuta, più o meno stancamente, a esiti di mera liquidazione, spesso nemmeno unitaria e invece atomistica, dopo continue proroghe e spesso mutamenti del nucleo industriale dei programmi all’origine approvati in sede ministeriale. Il progetto di partenza, accentrato nella validazione dell’autorità ministeriale[5], ha infatti in gran parte lasciato il posto a programmi articolati in fatto secondo il modello delle vendite di beni o complessi di beni, più che di aziende funzionanti e con basi occupazionali seriamente connotative dell’identità produttiva originaria. Si tratta di procedure, inoltre, nelle quali la mano pubblica ha sovente sviluppato pratiche di trasferimento dei costi dell’occupazione (e della relativa crisi o dell’irreversibile tracollo) verso gli istituti di ammortizzazione sociale, accumulo in deficit di spesa previdenziale, assorbimento facilitato in comparti eteroregolati, sovraccaricando in modo indiretto la fiscalità generale. In altri casi, l’inseguimento della norma per il caso concreto ha prodotto mutamenti di fondo – e forsennati – della legislazione concorsuale già speciale, piegata all’attuazione di programmi di prosecuzione contingente dell’attività produttiva altrimenti non conseguibile nel perimetro delle norme ordinarie e senza risposte di lungo periodo rispetto agli interrogativi sulla permanente attualità del modello di business entrato in crisi.

Dal caso Parmalat a quello Alitalia 1 e 2 sino al caso Ilva, il legislatore  ha continuamente ridefinito, con “leggi-fotografia”, il titolo della propria competenza, realizzando una legislazione egemone sul piano organizzativo, ove essa ha riallocato in modo stabile interi settori dell’economia della crisi sotto il controllo dell’autorità amministrativa (essenzialmente governativa) e così sottraendo al controllo giurisdizionale (dei giudici ordinari) rilevanti aspetti di regolazione – per competenza e atti – dei conflitti fra debitori e creditori, nonché di indirizzamento delle procedure, oltre che influendo sulle attività recuperatorie e di affermazione delle responsabilità. In pari tempo, l’incidenza concorrenziale di tali discipline si è di fatto risolta in pratiche di politica industriale tendenzialmente conservativa, ma solo nel breve periodo, senza che le rispettive linee fossero visibilmente iscritte in un piano nazionale di promozione e sostegno non tanto della singola impresa, bensì dell’intero settore di riferimento.

È, invero, ragionevolmente prospettabile, alla luce di tale vicenda, una chiara indicazione politico-parlamentare trasversale che, accomunando maggioranze politiche anche diverse, individua una consolidata zona di riserva che il potere governativo ascrive a prerogative proprie, compartecipando con la giurisdizione solo alcune fasi delle corrispondenti procedure, in una rivendicata visione di primazia. La rappresentazione plastica della distanza e, dunque, della funzione non strategica che viene riconfermata in capo alla giurisdizione trova esempio nei due poli organizzativi rispettivamente assegnati: le nomine dei commissari nonché il giudizio di meritevolezza ex ante dei piani spettano al Governo; l’accertamento del passivo, con le migliaia di domande dei creditori e le controversie sulle ripartizioni, sono attività del giudice ordinario e affollano i relativi uffici.

 Tentando una nobilitazione di questo fenomeno, non sfugge la possibilità di affermarne, in una lettura materiale, un modello politico che comunque ha inverato l’interesse pubblico, esprimendo un sovranismo gestorio che, sia pur in modo grezzo, combina di volta in volta contingenti politiche di interesse nazionale. Si potrebbe, cioè, sostenere che il legislatore italiano, incapace di tratteggiare in modo preventivo una qualche nozione di impresa di interesse strategico, oltre il comparto tecnico-bancario e assicurativo già selezionati dalle discipline Ue[6], comunque ha dato e dà prova di duttile considerazione verso settori della produzione che, per tipologia e base occupazionale, integrano realtà economiche organizzate tipologicamente, in grado di trascinare interessi ulteriori rispetto a quelli individualisticamente accorpabili secondo le categorie di partecipazione alle procedure concorsuali, nelle quali, storicamente e a tutte le latitudini, il credito costituisce la misura del potere del singolo e la legge aggiunge, in certi casi, una vestizione disparitaria attraverso i privilegi. E tuttavia si tratta di una tesi che – oltre a non poter leggere altri contesti ordoliberali, in cui sono  assenti istituti concorsuali a regolazione amministrativa così diretta – contraddice una serie di valori che, spesso negli stessi ambiti di giustificazione politica, vengono censiti: l’intervento modificativo ad hoc di una norma, in funzione di adattamento al caso concreto, confligge con la prevedibilità dello statuto economico-giuridico del debitore  e gli affidamenti dei suoi creditori; proprio tale prassi spesso indulge in aiuti di Stato, provocando continua tensione con le norme eurounitarie[7]; l’instaurazione di competenze amministrative e, al contempo, della giurisdizione ordinaria determina un separato regime di controllo di legalità sugli atti della medesima procedura, attingendo per alcuni al sistema delle decisioni dei giudici amministrativi e dunque ascrivendo lato sensu ad attività della pubblica amministrazione operazioni che, per meri limiti di densità organizzativa non superati, in situazioni analoghe sono tracciate in una più corretta relazione con diritti soggettivi; la  legalità dell’azione dell’Esecutivo è affidata a un regime di doverosità delle condotte amministrative che poggia su evidenti minori guarentigie degli autori rispetto all’indipendenza che supporta  l’attività dei giudici.

Per parte sua, il pensiero di economia sociale sotteso a tale regime non appare particolarmente attento né alla salvaguardia di veri e propri settori produttivi (di aree tradizionali o emergenti), né alla chiara selezione qualitativa che l’aspetto meramente dimensionale potrebbe assumere a date condizioni. La prima considerazione consegue all’apparente casualità con cui, nell’ordinamento delle amministrazioni straordinarie, hanno fatto ingresso i riferimenti di settore: così, ad esempio, le imprese assoggettate alla confisca con le misure antimafia, aggregate solo dal 1° gennaio 2008 (con la l. n. 344/2007) alle ipotesi di specialità di cui all’art. 2 d.lgs. n. 270/1999, a prescindere dalle caratteristiche della produzione o dai livelli di ricavi o indebitamento od occupazione. E parimenti, al di là di mutamenti delle regole-base inseriti nel corpus normativo in occasione di specifiche crisi di settore, il richiamo al comparto del trasporto aereo è stato investito alla luce del sole di una disciplina in parte derogatoria solo con la crisi del grande vettore Alitalia, cui si è affiancata, in prosieguo, la vicenda degli impianti Ilva.

Il primo caso non realizza una qualificazione nemmeno indiretta di interesse pubblico, posto che la costituzione e, poi, la crisi dell’impresa nel contesto criminale non rinviano di per sé a un settore sensibile della produzione, ma solo a una modalità illecita del modo di costituzione e, poi, di corrosione del capitale e del patrimonio relativi. Il secondo caso, più vicino alla progettualità, richiama l’inserzione, nell’art. 2 dl n. 347/2003 – ma solo a partire dal dl 28 agosto 2008, n. 134 –, della regola di accentramento concorrente verso la Presidenza del Consiglio dei Ministri (in alternativa, al Ministro dello sviluppo economico) dell’avvio d’imperio della procedura, dunque con ingresso immediato in essa, nomina del commissario straordinario, fissazione del compenso, a condizioni  dell’incarico «in deroga alla vigente normativa in materia», per le imprese dei servizi pubblici essenziali o che gestiscono almeno uno stabilimento industriale di interesse strategico nazionale ai sensi dell’art. 1  dl 3 dicembre 2012, n. 207 (convertito dalla l. 24 dicembre 2012, n. 231)[8]. Per entrambe le situazioni, sembrano aver prevalso tecniche definitorie ambigue e che non permettono alcuna predittibilità dello statuto di simili debitori: oltre a normare  spessissimo il caso del momento, tali leggi-fotografia (di regola, decreti legge) spostano sull’atto amministrativo ricognitivo ex post la stessa selezione dell’impresa operante nei servizi pubblici essenziali o che gestisce uno stabilimento industriale di interesse strategico nazionale, posto che anche la norma d’individuazione del secondo è parametrata a un  requisito solo  quantitativo, mentre la procedura e le sue specialità scattano solo se vi sia la assoluta necessità di salvaguardia dell’occupazione e della produzione, generica condizione concorrente all’evidenza frutto di una scelta discrezionale adottabile solo ex post. Ciò significa, come anticipato, che anche lo statuto economico-giuridico dei creditori non è né stabile né prevedibile, entrando in una zona di optabilità politica incerta se il debitore diventi insolvente.

Per altro verso, la recessività del solo elemento quantitativo (requisiti patrimoniali e del debito, dati occupazionali), per quanto esso resti non significante in termini assoluti, ha messo fuori gioco, in molti casi, la stessa lucidità della prospettiva di tali procedure, giustificate nella straordinarietà dall’esigenza di salvaguardia di importanti complessi produttivi e, invece, applicate anche in casi in cui risaltava la sola dimensione della base occupazionale, senza però che la massa dei rapporti di lavoro, scissa da un’azienda altrettanto corposa, potesse permanentemente integrare l’originaria visione conservativa del fattore economico-organizzativo in relazione a benefici per più ampie comunità di cittadini o ad utilità più vaste per la produzione nazionale e il mercato.

3. Parametri quantititavi e assetti di interesse pubblico nella grande impresa e...

La scelta soggettivistico-quantitativa alla base della mantenuta riserva di disciplina appare ribadita esplicitamente anche avendo riguardo ai molteplici istituti del CCII che, nonostante la premessa di estraneità, entrano in contatto con le grandi imprese. Ci sono, invero, intere nuove partizioni della riforma dalle quali, contraddittoriamente, il legislatore mostra di voler attingere vantaggi e regimi di favore anche per imprese che, per ogni altro aspetto della crisi ed insolvenza, restano regolate da procedure esterne al codice stesso. E ciò al punto che la menzionata estensione, anziché costituire un qualche spicchio di contaminazione tra diritto ordinario e diritto speciale della crisi, rischia di operare come leva di aggravamento dello statuto autonomo per le grandi imprese, cioè assicurando ad esse solo assetti di privilegio, trattamento disparitario, vantaggi. La mancanza, infatti, di una correlazione stabile con le nuove istituzioni della concorsualità preventiva e ordinaria, che assegnano alla giurisdizione compiti di sussidiarietà d’intervento, ove le soluzioni pattizie e pregiurisdizionali, fortemente incentivate[9], siano fallite, rende critiche le zone di contatto stabilite selettivamente per le grandi imprese e però scisse da una progressione dei controlli pubblicistici che sanzioni l’abuso o l’intempestività del ricorso a strumenti alternativi.

Diviene così chiaro che il complessivo regime di trattamento della crisi ed insolvenza delle imprese grandi, per gli aspetti di specialità e deroga rispetto a quello comune, non integra una criticità in sé, ma sollecita almeno due operazioni di comprensione costituzionale: la verifica che le diversità di trattamento non si spingano fino ad attuare in termini irrazionali e ingiustificati la protezione da fisiologico rischio d’impresa, sacrificio dei creditori, accesso alla giustizia, canoni di responsabilità, parametri redistributivi, da un lato; per altro verso, diviene decisivo intendere se la nozione di interesse pubblico persista davvero, anche solo quale considerazione implicita, nelle scelte normative che, individuando i soggetti destinatari del regime speciale, li eccettuano da gran parte del regime comune dell’ordinamento concorsuale. Il tema va ricostruito in modo diverso per le procedure di amministrazione straordinaria (in entrambe le declinazioni del d. lgs n. 270/1999, la cd. “Prodi-bis”, e del dl n.347/2003, la cd. “legge Marzano”) rispetto alle liquidazioni coatte amministrative (nelle quali la mancata riforma, come detto, non ha riguardato le imprese bancarie, assicurative e assimilate, ma le comuni cooperative). Per le prime, infatti, è la nozione patrimonial-contabile a integrare il requisito della grande impresa, mentre il regime speciale, anche quando menziona la strategicità dell’interesse o i servizi pubblici essenziali, finisce per sfumare o agganciarsi al requisito occupazionale. Per le seconde, vige invece un criterio tipologico-formale, trattandosi di soggetti a definizione codicistica o di legge speciale.

Il legislatore ha, invero, costruito le amministrazioni straordinarie intorno a un requisito di volta in volta contingente, adeguando i parametri in modo adesivo a specifiche realtà che, suscitando l’attenzione rilevante del mercato e – soprattutto – dell’opinione pubblica, sollecitavano un intervento dirigistico e, al contempo, di sottrazione alla giurisdizione[10]. La nozione di interesse pubblico, del tutto instabilmente e in contrasto con la prevedibilità dello statuto economico-concorsuale dell’imprenditore, non ha trovato una declinazione generale (per settore tipologico della produzione,  specialità del mercato, interferenza con le politiche pubbliche, aree di tutela di compositi interessi dello Stato o anche dell’eventuale specialismo professionale dell’occupazione, peculiarità nazionali geomerceologiche), bensì un punto di caduta ogni volta modificato da leggi-fotografia del momento, tutte omogenee nel ricorrere a decreti legge con adattamento finale nelle leggi di conversione. Né si può dire che, in altro modo, tali misure emergenziali abbiano saputo dialogare con i precetti di temperamento e reindirizzamento sociale di cui all’art. 41 Cost.: non solo perché, nonostante le dimensioni della concentrazione produttivistica, nessuna legge ha anche solo provato a cimentarsi con una prospettiva di aperta statalizzazione delle imprese coinvolte, avendo infatti i vari interventi operato curando che i nuovi gestori delle attività e proprietari delle aziende si dessero per lo più carico della continuità aziendale, debolmente condizionata nelle sue modalità; ma anche perché, proprio quanto alle seconde, i maggiori conflitti sono sorti sul piano della tenuta costituzionale di discipline di censurata conformità a primari diritti, come statuito dalla Corte costituzionale con riguardo all’art. 3 del dl 27 giugno 2015, n. 83 (convertito nella l. 6 agosto 2015, n. 132), non avendo il legislatore considerato le esigenze di tutela della salute, sicurezza e incolumità dei lavoratori a fronte di situazioni che espongono questi ultimi a rischio della stessa vita (sentenza n. 58 del 23 marzo 2018)[11]. È accaduto dunque che il legislatore ha dato prevalenza immotivata all’interesse alla prosecuzione dell’attività produttiva, «trascurando del tutto le esigenze di diritti costituzionali inviolabili legati alla tutela della salute e della vita stessa (artt. 2 e 32 Cost.), cui deve ritenersi inscindibilmente connesso il diritto al lavoro in ambiente sicuro e non pericoloso (artt. 4 e 35 Cost.)», cioè attuandone un sacrificio che non permette di rinvenire  alcuna «armonia con i principi costituzionali, sempre attenti anzitutto alle esigenze basilari della persona». In sostanza, tutta la costruzione domestica della grande impresa eccettuata dalla disciplina concorsual-giurisdizionale con il richiamo alla base occupazionale, e nell’implicito presupposto che la relativa conservazione potesse piegare altri diritti, ha rivelato la fragilità di tale requisito, dimostratosi mera leva d’accesso al regime speciale, ma non anche obiettivo-valore.

Frutto della cennata permeabilità alla legiferazione del momento, più che di una visione strategica dell’interesse pubblico, è a sua volta e pertanto la cennata inserzione determinatasi nel 2007, allorché all’art. 2 d.lgs. n. 270/1999 vennero aggiunte le imprese confiscate ai sensi della legge 31 maggio 1965, n. 575: ammesse all’amministrazione straordinaria, anche in mancanza dei requisiti di cui alle lett. a e b del comma 1. Si potrebbe, in realtà, prospettare una lungimiranza legislativa che, dando atto della diffusione di organizzazioni criminali nel nostro Stato, volga la crisi ed insolvenza delle relative imprese in una gestione vigilata e promossa dallo Stato stesso. Considerazione, per quanto severa, suscettibile di condivisione ove la mano pubblica si dia carico di perseguire forme di salvaguardia delle unità produttive. Ma in realtà, anche per questa norma, vengono in maggior rilievo gli aspetti critici: l’ingresso in amministrazione straordinaria prescinde da requisiti di consistenza organizzativa e dimensionale, includendo – come detto – anche imprese ben al di sotto del limite occupazionale dei 200 dipendenti o del totale del passivo pari a due terzi dell’attivo e dei ricavi. Una constatazione che, all’apparenza, prepone l’interesse pubblico con la gestione attraverso il Ministero, ma senza che le risorse pubbliche abbiano, nei casi meno elevati della scala dimensionale, una seria giustificazione d’impiego. Non è dato infatti ravvisare per quale utilità prospettica un’impresa confiscata con zero dipendenti e modesti debiti debba accedere a una procedura, come sancisce l’art. 1 d.lgs n. 270/1999, che è concepita per la grande impresa commerciale insolvente, con finalità conservative del patrimonio produttivo, mediante prosecuzione, riattivazione o riconversione delle attività imprenditoriali. E dunque, anche nell’ipotesi di possibile salvaguardia delle attività economico-produttive, si pone una duplice questione di incoerenza istituzionale: lo strumento appare eccedente rispetto alle sue finalità tipiche e, al contempo, impatta in modo ormai asimmetrico sul ridisegno, da tempo in atto, del rapporto fra procedure concorsuali e finalità conservative dell’azienda, trattandosi quest’ultime di un obiettivo  divenuto  immanente – almeno dal dl n. 35/2005 – all’ampia legislazione sui concordati preventivi, incluso nelle nuove forme negozial-processuali come gli accordi di ristrutturazione dei debiti e financo proprio delle prime attenzioni del nuovo fallimento. Con la riforma, e ancor più, il CCII all’art. 211 addirittura rovescia la pregressa logica dell’eccezionalità dell’esercizio provvisorio, sancendo anche che l’apertura della liquidazione giudiziale non determina di per sé la cessazione dell’attività d’impresa, mentre l’art. 172 CCII sorregge, quanto ai rapporti pendenti, prerogative che facilitano il generale subentro del curatore nei contratti in corso, l’art. 372 (anticipato dall’art.110 del codice degli appalti dal dl n.32 del 18 aprile 2019) permette, con la continuità, l’esecuzione dei contratti di appalto pubblico, l’art. 189 problematizza il recesso dai rapporti di lavoro  ancorandolo all’impossibilità di continuare o trasferire l’azienda.

4. ... nell’impresa cooperativa

Per le imprese cooperative operano le stesse considerazioni, anche se il criterio discretivo è fornito dalla tipologia del debitore e prescinde dalle sue dimensioni. La riforma, dunque, è tornata indietro rispetto alla legge delega (non attuando il Governo l’art. 15, comma 1, lett. a l. n. 155/2017) e, dovendosi combinare il dato omissivo con altro mancato esercizio della prerogativa legislativa, impone una ricostruzione del campo d’indagine arretrata all’orizzonte economico-sociale del 1942. Posto che, infatti, nemmeno gli imprenditori agricoli saranno assoggettati alla liquidazione giudiziale, si può dire che tutto il mondo della cooperazione resta saldamente diretto dalle sopravvissute competenze dell’autorità governativa che era e resterà sia autorità di controllo sulle irregolarità della vita di tali soggetti, sia agenzia primaria d’intervento, con la liquidazione coatta amministrativa, sulla eventuale insolvenza di essi. Detto che il mancato esercizio della delega non è stato motivato con alcun richiamo alla protezione dell’art. 45 Cost. (invero assai blandamente evocata durante gli stessi lavori della Commissione Rordorf I), opera dunque, anche per il futuro, il principio della prevenzione temporale sulla dichiarazione d’insolvenza (l’apertura della liquidazione giudiziale preclude la liquidazione coatta amministrativa e viceversa, per l’art. 296 CCII), mentre ove l’impresa, per le sue caratteristiche di non commercialità, non sia assoggettabile alla liquidazione giudiziale, trova luogo, come unica procedura regolatrice dell’insolvenza, la tradizionale liquidazione coatta amministrativa (art. 295 CCII), oltre al concordato preventivo (se proposto ovviamente dallo stesso debitore) e salvo diversa previsione normativa.

Si tratta di uno scenario destinato, pertanto, a ospitare conflitti tradizionali e incertezze interpretative, con la perdurante sollecitazione, scaricata sui giudici ordinari, volta a rinvenire i tratti della commercialità, nonostante lo statuto e la veste di impresa agricola o comunque non commerciale, ove i creditori chiedano l’attuazione della responsabilità comune a tutti i debitori, con le connesse sanzioni da cattiva gestione. Sul punto, un ruolo importante, ancorché solo di spinta indiretta, potrà provenire dal richiamo agli assetti organizzativi di cui al novellato art. 2086 cc (già vigente) e dalla veste definitiva che sarà assunta dall’art. 2477 cc (in tema di obbligo di nomina dell’organo di controllo o revisore), per l’impatto sul più ampio fenomeno organizzativo societario, ai sensi dell’art. 2519 cc[12].

5. La grande impresa nel codice della crisi e le zone di contatto con gli istituti della gestione concorsuale ordinaria

L’insuccesso del disegno unitario riformatore non è attenuato dall’aver il CCII ospitato una serie di definizioni (all’art. 2) destinate ad applicarsi all’intero ordinamento concorsuale. L’opzione quantitativo-dimensionale, per quanto coerente con la necessità di fissare il campo di applicazione delle norme nuove, sancisce la rinuncia del legislatore a esercitare una politica economica di ingerenza sulla governance della crisi delle imprese raccordata a una visione di primario interesse nazionale o del mercato domestico o di linee di controllo, almeno per settori. Definire le grandi imprese sulla base di parametri meramente contabili e patrimoniali, a ben vedere, esprime un razionale indice organizzativo ove si voglia graduare, in un unitario sistema di regolazione della crisi e dell’insolvenza, il peso organizzativo delle procedure, dalla legittimazione dei soggetti al ruolo d’impulso del pm, sino al rito processuale e alla competenza del giudice. Ma il tutto nell’ambito di una cornice unitaria. Saltata, invece, l’aspirazione a un sistema concorsuale unitario, la fissazione di uno spartiacque appunto quantitativo, oltre il quale la mano pubblica, di per sé, ravvisa la giustificazione sia del proprio intervento di direzione della procedura sia la straordinarietà della misura, equivale a una profonda manifestazione di pervasività del controllo politico sull’economia. Se, cioè, indipendentemente dal settore produttivo o dalla coerenza della produzione con una o più delle scelte strategiche di un sistema economico, il Governo si dota di uno strumento di governance diretta delle crisi delle imprese sol che presentino indici organizzativi di consistenza patrimoniale, finanziaria e occupazionale prefissati, ciò integra un sistema che, all’opposto, riconduce le ordinarie crisi ed insolvenze, definite convenzionalmente per legge e per sottrazione, come assegnate alla competenza giurisdizionale secondo una nozione di minore rilevanza.

Ciononostante, il CCII costringe a ricostruire, attraverso il perimetro delle eccezioni, una nuova mappa dello statuto positivo delle grandi imprese che, programmaticamente escluse dalla liquidazione giudiziale, non per questo sono anche estromesse da alcuni istituti di vantaggio. Va innanzitutto precisato che, proprio sul piano del diritto concorsuale, si danno ora due definizioni di grande impresa: una prima, valevole per l’accesso alle figure del CCII, appunto fissata all’art. 2 lett. g, che comprende le imprese che, ai sensi dell’art. 3, par. 4, direttiva 2013/34/UE del Parlamento e del Consiglio, del 26 giugno 2013, alla data di chiusura del bilancio superano almeno due su tre requisiti, come 20 milioni dello stato patrimoniale, 40 milioni di ricavi netti dalle vendite e prestazioni, 250 dipendenti occupati in media nell’esercizio. Tali imprese, al pari dei gruppi di imprese di rilevante dimensione[13], sono esclusi dagli strumenti di allerta, né per essi valgono le opportunità della composizione assistita della crisi (art. 12, comma 4, CCII). Lo stesso statuto è attribuito, per assimilazione qualitativa discendente dall’art. 4, comma 1, lett. a della legge delega, alle spa quotate.

Una seconda definizione resta, a sua volta, consegnata proprio alla richiamata disciplina concorsuale speciale, cioè l’art. 2 d.lgs n. 270/1999 e, poi, l’art. 1 dl n. 347/2003: il possesso congiunto di requisiti come lavoratori subordinati pari nel minimo a 200 da un anno, nonché debiti per non meno dei due terzi dell’attivo e dei ricavi dell’ultimo esercizio ovvero, a prescindere da tali dati, l’essere imprese confiscate ai sensi della legge 31 maggio 1965, n. 575, implica l’ingresso (e almeno) nella prima delle due amministrazioni straordinarie. Ne consegue che c’è una zona di rilevanza della grande impresa assoggettabile all’amministrazione straordinaria, che però ancora non giunge alla soglia di immunità dal sistema dell’allerta e, corrispondentemente, dalle opportunità della composizione assistita.

Proprio per tali imprese, estranee alla liquidazione giudiziale, ma accomunate a quelle non grandi dalla soggezione agli istituti della concorsualità preventiva, l’art. 27, comma 1, CCII detta l’unica norma in tema di concentrazione della competenza. A occuparsi della crisi e delle insolvenze di tale tipologia di imprese, sin dal 16 marzo 2019, sono destinati i giudici che siedono presso i tribunali a loro volta sedi delle sezioni specializzate in materia di imprese, di cui all’art. 1 d.lgs 27 giugno 2003, n.168. Non si tratta di “sezioni fallimentari” specializzate, fondando la norma un mero criterio di individuazione della competenza concorsuale[14] e delle controversie che ne discendono.

Peraltro, anche le imprese grandi ai sensi del CCII possono fruire di alcuni strumenti collegati all’allerta e alla composizione assistita, benché non entrino propriamente nelle rispettive zone di controllo: infatti l’art. 12, comma 6, assicura a tali imprese l’accesso alle misure premiali di cui all’art. 25. Per conseguirle, occorre che tali imprese versino nella medesima situazione di tempestività declinata secondo l’art. 24. Sul punto, si apre un problema: posto che l’art. 24 prevede che sia il presidente del collegio dell’Ocri a certificare che, effettivamente, il ricorso agli strumenti della regolazione ivi menzionati sia stato tempestivo rispetto ai picchi debitori di cui al primo comma, ci si interroga su come possa operare l’attestazione se le dette imprese non accedono alla composizione assistita e, dunque, non sono assoggettate, a prima vista, alla competenza amministrativa degli Ocri. Una prima risposta suggerisce di provocare l’insediamento di tale organismo appositamente per pervenire a tale attestazione, ma un evidente limite della tesi risiede nella strumentalità eccessiva che simile attivazione avrebbe sul sistema dell’allerta, non innescato per le sue finalità di risoluzione della crisi, bensì solo per far asseverare dall’organo che vi sia stato il ricorso tempestivo – s’immagina – a una procedura concorsuale ordinaria.

Una seconda tesi, per accreditarsi, impone allora di riconsiderare il valore stesso della citata asseverazione, considerandola non strettamente necessaria: o perché propria dell’iter che dovranno seguire solo i debitori che possono accedere fisiologicamente all’Ocri[15], o in quanto effettivamente facoltativa, anche per i casi di previsione espressa[16]. La conseguenza di tale approdo conduce inevitabilmente a riversare sulla giurisdizione ordinaria la verifica effettiva della sussistenza della tempestività, rendendo certamente meglio controllato il requisito di meritevolezza, ma indebolendo sullo sfondo l’appetibilità degli stessi incentivi che presidiano i cospicui vantaggi economici, processuali e penali spettanti ai sensi dell’art. 25 e premianti i debitori che autonomamente attivano le procedure concorsuali in modo precoce.

6. L’applicazione degli istituti della concorsualità preventiva alle imprese cooperative

La sopravvissuta specialità del sistema concorsuale applicabile all’insolvenza delle imprese cooperative non ha, inoltre, impedito per esse – in attuazione assai parziale della legge delega – che, ai sensi del comma 1, lett. b dell’art. 15, fosse introdotta una indiretta partecipazione all’allerta e alla composizione assistita. Il compromesso normativo è desumibile dall’impianto dell’art. 316 (che opera il raccordo con gli Ocri) e dell’art. 381, comma 2, CCII. Lo schema muove dal riconoscimento che l’autorità di vigilanza (ministeriale) non dispone né di strutture centrali né di articolazioni periferiche idonee a sostenere il peso, che peraltro avrebbe rivelato un reale apporto tutorio e di ausilio al debitore, degli organismi deputati a raccogliere le segnalazioni della crisi e, così, indirizzarsi per determinare un primo approccio delle cooperative al rispettivo superamento. Più razionale è dunque apparso rispettare l’impianto degli Ocri, in via di costituzione territoriale presso le Cciaa, e influire sulle nomine del corrispondente collegio: nella misura di due terzi (cioè sostituendosi alle indicazioni di cui all’art. 17, comma 1, lett. b e c CCII) ovvero, in caso di impresa minore, direttamente nominando l’unico commissario. Al commissario invece nominato in caso di irregolarità e, se vi sia, anche crisi o insolvenza, il Ministero potrà attribuire il potere, a sua volta, di domandare la nomina del collegio o del commissario unico per la composizione assistita o l’accesso a una delle procedure regolatrici della crisi o insolvenza (cioè, tipicamente, il concordato preventivo o gli accordi di ristrutturazione, ma formalmente nemmeno sarebbe esclusa la liquidazione giudiziale, se si tratta di cooperativa commerciale) ex art. 381 CCII.

Lo stesso art. 316 costituisce l’autorità di vigilanza in ricettore istituzionale delle segnalazioni d’allerta, provengano esse dagli organi interni di controllo dei soggetti vigilati ovvero dai creditori qualificati di cui all’art. 15 CCII – mentre la nascita del collegio dell’Ocri può essere l’effetto sia dell’iniziativa della cooperativa (in quanto debitrice), sia di una richiesta amministrativa al referente della Cciaa.

7. Il quadro ordinamentale europeo: la duttile convivenza dei modelli amministrativi per la eventuale gestione e di quelli giurisdizionali per le assegnazioni delle tutele dei diritti

L’ordinamento eurounitario s’incentra essenzialmente su due fonti di rilievo: il regolamento Ue n. 848/2015 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 20 maggio 2015, relativo alle procedure di insolvenza (che ha evoluto il precedente n. 1346/2000 del Consiglio in materia d’insolvenza transfrontaliera) e la risoluzione del Parlamento europeo 28 marzo 2019, n. 321, conseguente alla raccomandazione 12 marzo 2014 della Commissione  (e che prelude a un’imminente direttiva volta a regolare i quadri di ristrutturazione preventiva, l’esdebitazione e l’efficientamento delle procedure concorsuali). Va premesso che, in entrambi gli strumenti, la competenza amministrativa convive con quella giurisdizionale, avendo gli Stati accettato la pluralità dei rispettivi modelli organizzativi (considerando 20). Ma è altrettanto ferma l’opzione giurisdizionale, imprescindibile ogniqualvolta occorra giustificare, in un contesto di concorsualità o di assetto ad essa funzionale, un più o meno ampio e definitivo sacrificio dei diritti soggettivi, dei creditori in primo luogo.

Così il regolamento n. 848/2015, procedendo alla rifusione del precedente e delle sue molte modifiche, rilancia l’obiettivo dell’efficienza delle procedure implicanti elementi di internazionalità, al fine di assicurare, anche in tal modo, il buon funzionamento del mercato interno (considerando 3), scoraggiando il forum shopping pretestuoso o fraudolento (considerando 29) e quindi coordinando le conseguenze fra Stati dei provvedimenti delle autorità domestiche. Di rilievo è la definizione di «giudice» nell’art. 2, par. 6: per alcuni compiti espressamente richiamati, si tratta dell’autorità giudiziaria di uno Stato membro; per altri, residuali, può essere la stessa autorità giudiziaria o qualsiasi altro organo competente di uno Stato legittimato ad aprire una procedura d’insolvenza, a confermare detta apertura o a prendere decisioni nel corso della procedura. Giudice in senso stretto è, dunque, il soggetto che riveste i compiti di cui all’art. 1, par. 1, lett. b e c, all’art. 4, par. 2, agli artt. 5 e 6, all’art. 21, par. 3, all’art. 24, par. 2, lett. j, agli artt. 36 e 39 nonché agli artt. da 61 a 77.

Da tale rinvio si evince l’essenzialità dell’autorità giudiziaria, e cioè con prerogative di tendenziale esclusività, con riguardo, in particolare, a: a) procedure concorsuali pubbliche con spossessamento del debitore e nomina di un amministratore e nelle quali figuri una sospensione temporanea delle azioni esecutive individuali, ciò al fine di proteggere le trattative tra debitore e creditori, ma con la previsione di una concessione anche «per legge»; b) le impugnative contro l’apertura della procedura principale d’insolvenza e la competenza per le azioni che derivano dalla procedura aperta, nonché quelle contro l’apertura della procedura secondaria; c) l’adozione di misure di coercizione sui beni oggetto di liquidazione; d) l’apertura di una procedura di coordinamento di gruppo. Il regolamento, inoltre, lascia impregiudicate le norme in materia di recupero degli aiuti di Stato presso le società in stato d’insolvenza, secondo l’interpretazione giurisprudenziale della Corte di giustizia dell’Unione europea (considerando 18).

Da tale premessa si può già ricavare che ogni automatismo protettivo del patrimonio del debitore e immediatamente conseguente all’apertura della procedura, benché derivi dall’eventuale atto dell’autorità amministrativa, deve trovare incardinamento in una decisione giudiziaria. A sua volta, la riserva di legge sopra menzionata induce a ritenere ammissibile un simile meccanismo di produzione, ma fa anche meditare sui limiti che una discrezionalità non controllabile ex ante reca con sé, precludendo ogni vaghezza di previsione del potere di apertura somministrato alla pubblica amministrazione per un efficace controllo sui requisiti di accesso fissati in astratto.

Tale circostanza costituisce uno dei principali punti di contatto con i dettami della direttiva impostata dal Parlamento con la citata risoluzione n. 321/2019. Essa ha come obiettivi la rimozione di ostacoli che non permettano alle imprese e agli imprenditori sani che sono in difficoltà finanziarie – e anche non finanziarie (considerando 28) – di accedere a quadri nazionali efficaci in materia di ristrutturazione preventiva (considerando 24), continuando a operare, agli imprenditori onesti insolventi o sovraindebitati di beneficiare di una seconda opportunità mediante l´esdebitazione dopo un ragionevole periodo di tempo, e a conseguire una maggiore efficacia delle procedure di ristrutturazione, insolvenza ed esdebitazione, in particolare attraverso una riduzione della loro durata  (considerando 1). La parte più innovativa è dunque dedicata ai «quadri di ristrutturazione preventiva», nozione che si riferisce a debitori che intendano ristrutturarsi efficacemente in una fase precoce e così prevenire l’insolvenza, evitando la liquidazione di imprese sane. Si tratta pertanto, per tale istituto, di principi che, a prima vista, attengono ai nostrani concordato preventivo e accordi di ristrutturazione dei debiti, ma anche agli strumenti di allerta e alla composizione assistita della crisi, così come introdotte con il d. lgs n. 14/2019[17], oltre che all’istruttoria sulla futura liquidazione giudiziale (erede dell’attuale fallimento). Anche se, va detto, la situazione di compromesso fra istituzioni Ue che ha originato la concertazione con il Parlamento è scorgibile nel considerando 16, che lascia agli Stati membri la facoltà di mantenere o anche introdurre quadri di ristrutturazione preventiva nazionali diversi da quelli della direttiva. Occorre, allora, comprendere se tale diversità sia legata ai presupposti (debitori sani in difficoltà finanziaria) o ai congegni (ristrutturazioni perseguibili dall’interno di procedure concorsuali già avviate) o ad entrambi (con combinazioni originali e di deroga).

Parimenti, la robusta iniezione laburistica operata dal Parlamento[18] intercetta un inedito coinvolgimento dei portatori di interessi omogenei, segnatamente indicando (considerando 10) la necessità di un dialogo sulle misure previste con le operazioni di ristrutturazione, adeguatamente includendo un ruolo per i rappresentanti dei lavoratori e tutelando i relativi crediti: il primo punto, proprio perché raccomandato per «quelle [operazioni] di grandi dimensioni che generano un impatto significativo», appare destinato a interrogare i limiti autoritativi delle scelte dell’amministrazione straordinaria italiana, in cui – come visto – il requisito occupazionale è determinante come scrimen rispetto alla giurisdizione, ma senza obbligatoria interlocuzione normativa alcuna con le organizzazioni dei lavoratori stessi, salvo le tutele per le ipotesi di trasferimento d’azienda.

Inoltre, si segnala che – in netta controtendenza con l’esenzione di cui all’art. 12, comma 4, CCII – il considerando 22 prevede espressamente un adattamento degli strumenti di allerta precoce anche alle grandi imprese e ai gruppi di imprese di grandi dimensioni. E, in parallelo, l’art. 19 impone ai «dirigenti», qualora sussista una probabilità d’insolvenza, di adottare iniziative che tengano conto degli interessi dei creditori, evitino l’insolvenza stessa, scongiurino il venir meno della sostenibilità economica dell’impresa. Il che suonerebbe conferma della coerenza delle riforme italiane del diritto societario in tema di controllo sindacale (art. 2477 cc), assetti organizzativi (art. 2086 cc) e misure di allerta interne (art.14 CCII).

La sospensione temporanea delle azioni esecutive individuali, anticipatamente recepita nella sua massima estensione (12 mesi) dall’art. 8 d.lgs n.14/2019, è nel progetto di direttiva riferita a una competenza che, almeno per il considerando 32 e negli artt. 2, par. 4, e 6 (e poi 10 e 15 per l’omologa dei piani, e 14 per le valutazioni in caso di contestazioni), sembrerebbe ascriversi sia ai giudici che alle autorità amministrative, se queste sono le scelte nazionali, cui si aggiunge un’applicazione per previsione di legge. In realtà, la condizione è la stretta necessità di agevolare le trattative, viene negato ogni automatismo e financo si consente la tipizzazione di motivi di rifiuto (considerando 32 e art. 6, par. 1). È, in ogni caso, ribadito che va assicurata la giustiziabilità delle citate decisioni; questa s’incentra in una competenza esclusiva dei giudici ed essa include anche poteri di sospensione dell’esecuzione dei piani o di loro parti (art. 16).

Uno dei punti di maggiore impatto problematico resta, comunque, il precetto sulla durata limitata della sospensione delle azioni esecutive individuali: l’art. 6 illumina così, e in generale, gli strumenti diversi dalla liquidazione giudiziale, fissandone una gittata circoscritta e fortemente agganciata al merito di successo della ristrutturazione in corso. Tale disciplina è destinata ad applicarsi anche alle misure preventive (siano esse i concordati o la composizione assistita), che poi preludono all’ingresso del debitore in procedure amministrative, nelle quali invece, alla vocazione liquidatoria o comunque al presupposto dell’insolvenza, corrisponde la diversa regola della stabile impossibilità dell’aggressione individuale al patrimonio del debitore.

Va, infine, riportato l’art. 25 che, premettendo la salvezza dell’indipendenza della magistratura e, al contempo, prendendo atto delle differenze nell’organizzazione del potere giudiziario all’interno dell’Unione, prescrive agli Stati di promuovere un’adeguata formazione, così da raggiungere «le competenze necessarie per adempiere alle loro responsabilità», con riguardo non solo ai magistrati (evidentemente giudici e altri membri delle autorità giudiziarie, come nel nostro ordinamento anche i pubblici ministeri), ma altresì alle autorità amministrative che si occupano delle procedure di ristrutturazione, insolvenza ed esdebitazione. Il che pone una questione non di mero aggiornamento tecnico-giuridico, investendo la formazione aspetti di doverosità dell’agire non in conflitto d’interessi, con la medesima cultura di legalità e in vista dell’obiettivo dell’efficienza delle procedure. La problematicità investe, per la pubblica amministrazione italiana, quelle procedure che, organizzate all’interno del ministeri, ascrivono la responsabilità degli atti al ministro pur essendo articolate in una filiera di competenze interne di funzionari, con statuti di terzietà e autonomia ovviamente diversi da quelli dei componenti la magistratura. Altro obiettivo comune, per la stessa norma, è poi che il trattamento delle procedure di ristrutturazione, insolvenza ed esdebitazione avvenga in modo efficiente ai fini di un espletamento in tempi rapidi.

Sarà poi interessante notare, quando l’art. 29 andrà a regime, il confronto tra procedure e ordinamenti, avendo riguardo in particolare alla raccolta dei dati che gli Stati debbono promuovere, specie per il costo medio della procedura, i tassi di recupero dei creditori, i posti di lavoro perduti. Si darà allora vita, con questi e altri dati aggregati, a un completo e moderno sistema di monitoraggio e controllo, sul presupposto della loro affidabilità e comparabilità per i risultati delle procedure di ristrutturazione, insolvenza ed esdebitazione al fine di aggiornare l’applicazione della direttiva.

[1] Ulteriori criticità costituzionali si ravvisano nella parte penalistica, con riguardo alle misure premiali di cui all’art. 25 CCII (M. Ferro, Allerta e composizione assistita della crisi nel d.lgs. n.14/2019: le istituzioni della concorsualità preventiva, in Fallimento, 2019, pp. 435-436); non affronta il tema, se non – e all’opposto – sottolineando un trattamento deteriore nel regime intertemporale da applicarsi a condotte solo per il futuro, ai sensi dell’art. 390 CCII inquadrate tra le nuove cause di non punibilità, ovvero l’attenuante speciale ad effetto speciale, P. Chiaraviglio, Le innovazioni penalistiche del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza: alcuni rilievi critici, in Società, 2019, pp. 452,455. F. Di Vizio, invece, da un lato rileva come tali istituti diano nuova sostanza al contenuto del dovere di diligenza dell’imprenditore dinanzi ai segnali di allerta della crisi e, dall’altro, enfatizza le criticità di strumenti assegnati all’emersione precoce dell’insolvenza e però utilizzabili anche in caso di insolvenza conclamata (Codice della crisi d’impresa: tra novità e ricadute penali, in Quotidiano giuridico, 13 marzo 2019, www.quotidianogiuridico.it/documents/2019/03/13/codice-della-crisi-d-impresa-tra-novita-e-ricadute-penali#.).

[2] Vi fa cenno G. Scognamiglio, I gruppi di imprese nel CCII: fra unità e pluralità, in Società, 2019, p. 414.

[3] Nella “legge Marzano” (nata dal caso Parmalat), l’accesso è riservato a imprese con lavoratori subordinati, compresi quelli ammessi al trattamento di integrazione dei guadagni, non inferiori a cinquecento da almeno un anno e con esposizione debitoria, con anche le garanzie rilasciate, non inferiore a 300 milioni di euro.

[4] I requisiti di accesso, dunque il minimo del relativo sistema, implicano un numero di lavoratori subordinati, compresi quelli ammessi al trattamento di integrazione dei guadagni, non inferiore a 200 da almeno un anno e debiti per almeno due terzi dell’attivo dello stato patrimoniale e dei ricavi provenienti dalle vendite e dalle prestazioni dell’ultimo esercizio.

[5] L’art. 55 d.lgs n.270/1999 prevede che il programma sia redatto sotto la vigilanza del Mise «in conformità degli indirizzi di politica industriale dal medesimo adottati, in modo da salvaguardare l’unità operativa dei complessi aziendali, tenuto conto degli interessi dei creditori». La formula riassume la ratio della primazia amministrativa poiché la valutazione dei soggetti creditori (incisi dalla insolvenza dell’impresa) non è diretta (essi non votano), ma è intermediata dall’apprezzamento governativo che, a sua volta, imprime, attraverso l’approvazione del programma, una funzionalizzazione alle proprie scelte di indirizzo economico-produttivo, di cui risponde in primo luogo nella sede politica, apparendo il riferimento di per sé assai ampio ove il confronto debba avvenire sul profilo di legalità dell’atto autorizzato. Il controllo degli interessati è, dunque, a valle, ai sensi dell’art. 65, realizzabile mediante l’accesso alle impugnazioni degli atti di liquidazione e con recupero solo ex post della giurisdizione ordinaria (Cass., sez. unite, 24 novembre 2015, n. 23894 e 29 maggio 2017, n. 13451).

[6] Che però sono solo speciali e a dimensione anche sovranazionale, invero esclusi anche dalla prossima direttiva, per scelta della stessa raccomandazione 12 marzo 2014 (considerando 15), oltre che estranei al regolamento n. 848/2015.

[7] Se ne è occupata più volte la giurisprudenza, isolando le azioni revocatorie fallimentari (Cass., 27 maggio 2013, n. 13080) e l’accertamento dello stato passivo (Cass., 3 settembre 2014, n. 18580) rispetto alle pronunce e decisioni emesse in ambito europeo.

[8] La norma, sorta con il caso Ilva, prescrive che, in caso di stabilimento di interesse strategico nazionale, individuato con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, con un’occupazione di lavoratori subordinati pari almeno a 200 (dunque inferiore a quella dettata in via generale dalla “legge Marzano”) e qualora sussista «una assoluta necessità di salvaguardia dell’occupazione e della produzione, il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare può autorizzare, in sede di riesame dell’autorizzazione integrata ambientale, la prosecuzione dell’attività produttiva per un periodo di tempo determinato non superiore a 36 mesi ed a condizione che vengano adempiute le prescrizioni contenute nel provvedimento di riesame della medesima autorizzazione, secondo le procedure ed i termini ivi indicati, al fine di assicurare la più adeguata tutela dell’ambiente e della salute secondo le migliori tecniche disponibili». Il successivo comma 4 ora stabilisce che le disposizioni «trovano applicazione anche quando l’autorità giudiziaria abbia adottato provvedimenti di sequestro sui beni dell’impresa titolare dello stabilimento. In tale caso i provvedimenti di sequestro non impediscono, nel corso del periodo di tempo indicato nell’autorizzazione, l’esercizio dell’attività d’impresa». L’art. 3, comma 1-ter, a sua volta, prevede la prededuzione per crediti particolari attinenti a prestazioni necessarie al risanamento ambientale, alla sicurezza e alla continuità dell’attività degli impianti produttivi essenziali nonché anteriori e relativi al risanamento ambientale, alla sicurezza e all’attuazione degli interventi in materia di tutela dell’ambiente e della salute previsti dal piano.

[9] Denuncia peraltro alcuni limiti di debolezza della sensitività dei fattori d’allarme, contro le critiche che enfatizzano opposti rischi di propalazione impropria delle difficoltà interne, M. Bini, Procedura di allerta: indicatori della crisi ed obbligo di segnalazione da parte degli organi di controllo, in Società, 2019, p. 431.

[10] E, spessissimo, a un inesorabile destino liquidatorio, data l’inattualità del modello di business bocciato dal mercato (come alcuni esempi della grande distribuzione generalista, call center, produzione di lavorazioni estrattive, aviolinee a ristretta base regionale, tessile, componentistica meccanica).

[11] Sostiene la Corte che non può ritenersi in astratto «precluso al legislatore di intervenire per salvaguardare la continuità produttiva in settori strategici per l’economia nazionale e per garantire i correlati livelli di occupazione, prevedendo che sequestri preventivi disposti dall’autorità giudiziaria nel corso di processi penali non impediscano la prosecuzione dell’attività d’impresa; ma ciò può farsi solo attraverso un ragionevole ed equilibrato bilanciamento dei valori costituzionali in gioco (…) condotto senza consentire “l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe ““tiranno”” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona” (sent. n. 85 del 2013). Il bilanciamento deve, perciò, rispondere a criteri di proporzionalità e di ragionevolezza, in modo tale da non consentire né la prevalenza assoluta di uno dei valori coinvolti, né il sacrificio totale di alcuno di loro, in modo che sia sempre garantita una tutela unitaria, sistemica e non frammentata di tutti gli interessi costituzionali implicati (sentenze n. 63 del 2016 e n. 264 del 2012)».

[12] N. Abriani e A. Rossi, Nuova disciplina della crisi d’impresa e modificazioni del codice civile: prime letture, in Società, n. 4/2019, pp. 394-395 e 403.

[13] La definizione per essi risiede nell’art. 2 lett. i, CCII: «gruppi di imprese composti da un’impresa madre e imprese figlie da includere nel bilancio consolidato», nel rispetto dei limiti numerici dell’art.3, parr. 6 e 7 direttiva 2013/34/UE.

[14] Mentre, per i gruppi di imprese di rilevante dimensione, siffatta competenza per materia e territorio non sembra potersi già attuare, non così potrebbe dirsi per le altre procedure concorsuali, quali lo stesso concordato preventivo, apparendo contraddittorio che la relativa competenza (fino all’entrata in vigore del codice della crisi, con il ferragosto  2020) continui a essere assegnata in base alla sede (dunque presso il tribunale del luogo) e solo l’amministrazione straordinaria – oltretutto – in base al COMI («center of main interests» – del debitore) e rinviando al tribunale in cui ha sede la citata sezione specializzata.

[15] Estendendo le stesse prerogative al presidente o analogo organo dell’Occ, quando vi sia lo smistamento a tale organismo a fronte di incompetenza amministrativa dell’Ocri ex art. 17, comma 6.

[16] Divenendo allora essenziale ricostruire l’attestazione, se chiesta e ottenuta, come avente un valore che verrebbe a irrompere nel giuoco probatorio (più o meno vicino alle presunzioni) dei requisiti di conservazione o conseguimento dei benefici.

[17] Al punto che diviene dubitabile la copertura eurounitaria di tutti i sistemi automatici di stay che, da un lato, non coinvolgano un passaggio giudiziario ovvero, dall’altro, siano propri di procedure fondate sull’insolvenza in senso stretto e non sulla sua mera probabilità, che nell’ottica della direttiva dovrebbe infatti essere scongiurata. Nel considerando 3 si legge che «le imprese non sane che non hanno prospettive di sopravvivenza dovrebbero essere liquidate il più presto possibile. Se un debitore che versa in difficoltà finanziarie non è sano o non può tornare a esserlo in tempi rapidi, gli sforzi di ristrutturazione potrebbero comportare un’accelerazione e un accumulo delle perdite a danno dei creditori, dei lavoratori e di altri portatori di interessi, come anche dell’economia nel suo complesso». L’inciso è destinato a riaprire il dibattito sulla predeterminazione normativa delle fasi dell’amministrazione straordinaria destinate alla verifica della tenuta della ristrutturazione tentata con un piano, almeno ove essa, de facto, sospenda ogni misura di pagamento ai creditori.

[18] Il confronto è con il testo della proposta di direttiva della Commissione del novembre 2016, profondamente rivisto sulla questione.