Magistratura democratica
Giurisprudenza e documenti

Un ostacolo ai diritti dello straniero: onerosi contributi in contrasto con i principi comunitari

di Doriana Vecchio
Tirocinante presso il Tribunale di Livorno
Commento a Consiglio di Stato, Sez. III, Sentenza del 26 ottobre 2016, n.448

Il Testo Unico sull'immigrazione, D. Lgs 286/1998, contiene, per la prima volta nella nostra legislazione, un elenco di diritti da riconoscere allo straniero, nell'ottica di una tardiva ma non più procrastinabile attuazione dell'art.10, comma 2, Cost.

Tra questi sono degni di nota: la parità di trattamento e la piena uguaglianza di diritti tra lavoratore regolarmente soggiornante in Italia e il lavoratore italiano (art. 2, comma 3); la partecipazione alla vita pubblica locale (art. 2, comma 4); la parità di trattamento con il cittadino relativamente alla tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi, nei rapporti con la pubblica amministrazione e nell’accesso ai pubblici servizi, nei limiti previsti dalla legge (art. 2, comma 5); il diritto di difesa (art. 17); il diritto all’unità familiare (art. 28) e al ricongiungimento familiare (art. 29). In quest’ottica devono, pertanto, considerarsi i fisiologici difetti di una normativa che si è trovata ad organizzare una materia fino a quel momento carente e lacunosa sotto diversi profili.

Non tutti gli obiettivi, difatti, sono stati raggiunti; si pensi alla realizzazione di una puntuale politica di ingressi legali, programmati e regolati o al contrasto dell’immigrazione clandestina e dello sfruttamento criminale dei flussi migratori, all’avvio di realistici ed effettivi percorsi di integrazione per i nuovi immigrati e per gli stranieri già regolarmente soggiornanti in Italia

L'immigrato irregolare dispone, essenzialmente, di un'unica via per la propria integrazione regolare, il permesso di soggiorno. Passare dall'irregolarità alla regolarità risulta, quindi, rimesso alla discrezionalità delle pubbliche amministrazioni e non è un caso che, negli ultimi anni, si sia verificato un aumento di revoche di tali permessi, data la scarsità di rimedi giurisdizionali a disposizione dello straniero contro eventuali abusi.

Si pensi, ad esempio, alla norma che inserisce tra i requisiti per ottenere il rilascio e, soprattutto, il rinnovo di qualsiasi tipo di permesso di soggiorno (escluso soltanto quello di lavoro subordinato), l’obbligo per lo straniero di dimostrare di disporre di mezzi di sussistenza non soltanto per il soggiorno in Italia, ma anche per il ritorno in patria, il cui venir meno, anche momentaneo, legittima in ogni momento la revoca del permesso di soggiorno (art. 5, comma 5, T.U.)

Le misure applicabili a rifugiati e sfollati, le misure in materia di politica di immigrazione (condizioni di ingresso e soggiorno, rilascio di visti a lungo termine e di permessi di soggiorno, compresi quelli di ricongiungimento familiare; l’immigrazione e soggiorno irregolare, compreso il rimpatrio degli irregolari), le misure relative al soggiorno dei cittadini dei Paesi terzi in Stati membri diversi da quello in cui risiedono legalmente, sono materie che appartenevano alla “giurisdizione domestica” degli Stati e che erano oggetto della cooperazione intergovernativa prevista dal Trattato di Maastricht sull’Unione Europea.

Con le modifiche introdotte dal Trattato di Amsterdam, agli Stati sono riconosciute competenze residue: quanto all’ingresso e al soggiorno; all’adozione o al mantenimento di norme nazionali purché compatibili con il diritto comunitario e con i trattati internazionali (art. 63) e, in generale, l’esercizio delle competenze (art. 64) per il mantenimento dell’ordine pubblico e la salvaguardia della sicurezza interna.

Alla realizzazione dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia e ai temi dell’immigrazione fu dedicato il Consiglio europeo di Tampere (15 e 16 ottobre 1999) che fornisce un quadro generale di iniziative e di azione, per la Comunità e gli Stati membri. Al punto 18) delle conclusioni adottate dal Consiglio si legge espressamente che “L'Unione europea deve garantire l'equo trattamento dei cittadini dei paesi terzi che soggiornano legalmente nel territorio degli Stati membri. Una politica di integrazione più incisiva dovrebbe mirare a garantire loro diritti e obblighi analoghi a quelli dei cittadini dell'UE. Essa dovrebbe inoltre rafforzare la non discriminazione nella vita economica, sociale e culturale e prevedere l'elaborazione di misure contro il razzismo e la xenofobia”.

È proprio da qui che deve prendere le mosse l'analisi della Sentenza del 26 ottobre 2016, n.448, della Terza Sez. del Consiglio di Stato che, dichiarando l'illegittimità del decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze del 6 ottobre 2011, adottato di concerto con il Ministero dell’Interno e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 304 del 31 dicembre 2011, concernente il «Contributo per il rilascio ed il rinnovo del permesso di soggiorno», adottato in attuazione degli artt. 5, comma 2-ter, e 14-bis del d. lgs. n. 286 del 1998, rappresenta senz'altro un considerevole passo in avanti nell'effettiva attuazione di quegli stessi principi che hanno ispirato il Testo Unico.

Il decreto oggetto di censura fissa gli oneri contributivi per il rilascio e per il rinnovo dei permessi di soggiorno nella seguente misura:

  • € 80,00 per i permessi di soggiorno di durata superiore a tre mesi ed inferiore o pari ad un anno;

  • € 100,00 per i permessi di soggiorno di durata superiore ad un anno e inferiore o pari a due anni;

  • € 200,00 per il rilascio del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo e per i richiedenti il permesso di soggiorno ai sensi dell’art. 27, comma 1, lett. a), del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 e successive modifiche e integrazioni.

Con l’ordinanza n.5290 del 20 maggio 2014 il T.A.R. per il Lazio, rimetteva alla Corte di Giustizia dell’Unione europea (da ora CGUE) la questione incidentale in merito alla compatibilità tra la normativa interna in materia di contributi previsti per il rinnovo o il rilascio dei permessi di soggiorno e la relativa disciplina europea, in specie circa la compatibilità tra i principi stabiliti dalla direttiva del Consiglio n. 2003/109/CEi e successive modifiche ed integrazioni, anche alla luce dell’orientamento interpretativo già manifestato dalla Corte su analoga questione nella sentenza del 26 aprile 2012 in C-508/10, ed una normativa come quella italiana che, all’art. 5, comma 2-ter, del d. lgs. n. 286 del 1998, dispone che la richiesta di rilascio o di rinnovo del permesso di soggiorno sia sottoposta al versamento di un contributo, il cui importo è fissato in un minimo di € 80,00 e in un massimo di € 200,00, somma che risulta pari ad otto volte circa il costo per il rilascio di una carta di identità nazionale, e pertanto oggettivamente gravoso.

Con la Sentenza del 2 settembre 2015 in C-309/14, la Corte di Giustizia dell’Unione europea ha affermato che la direttiva n. 2003/109/CE osta ad una normativa nazionale, come quella qui controversa, che impone ai cittadini di Paesi terzi - che chiedano il rilascio o il rinnovo del permesso di soggiorno nello Stato membro considerato - di pagare un contributo che nella misura prevista, risulta sproporzionato rispetto alla finalità perseguita dalla direttiva, tra cui sono di certo annoverabili, ex multis,la garanzia del diritto di soggiorno, la tutela all'eguaglianza formale e sostanziale ed il rispetto del principio di non discriminazione - anche per ragioni economiche -, in un ottica di integrazione sociale alla luce di realtà europea sempre più multiculturale.

L'obbligo contributivo così previsto risulta difatti idoneo a creare un ostacolo all’esercizio dei diritti conferiti da quest’ultima, nonché dei diritti fondamentali e dei principi riconosciuti segnatamente nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali e nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea.

A seguito della pronuncia del giudice europeo, la causa è stata ritualmente riassunta dalle ricorrenti, ed è stata chiamata per la definizione del merito avanti al T.A.R, il quale, tenendo conto della pronuncia della Corte di Giustizia, con sentenza n. 6095/2016 ha ritenuto la fondatezza del ricorso nella parte in cui ha dedotto la radicale illegittimità dell’imposizione del contributo de quo.

Avverso tale sentenza ed avverso la presupposta ordinanza collegiale n. 5290 del 20 maggio 2014 del T.A.R. per il Lazio, hanno proposto appello, la Presidenza del Consiglio dei Ministri, il Ministero dell’Interno e il Ministero dell’Economia e delle Finanze, lamentando il difetto di legittimazione in capo alle associazioni sindacali ricorrenti in primo grado (motivo respinto perché infondato)ii, nonché l’erroneità dell’interpretazione che il primo giudice ha dato della sentenza della Corte di Giustizia, estendendone gli effetti anche alla previsione del contributo previsto per i contributi di breve durata e non, invece, ai soli permessi UE di lungo soggiorno, gli unici disciplinati dalla direttiva n. 2003/109/CE.

A parere degli stessi, tale operazione ermeneutica risulta “certamente erronea” (p.18 del ricorso) ed in evidente contrasto con la ratio della stessa direttiva e, pertanto, il contrasto che la CGUE ha ritenuto di ravvisare tra la normativa introdotta dall’art.1, comma 22, l. 94/2009 e la direttiva n.2003/109/CE riguarderebbe soltanto il contributo (200,00 €) stabilito per il rilascio del permesso UE per soggiorni di lungo periodo e non anche per le residuali ipotesi. Inoltre, sempre secondo gli appellanti, la direttiva non è volta ad assicurare ai cittadini di Pesi terzi la maturazione delle condizioni per l’acquisizione dello status di soggiornante di lungo periodo, in quanto nessuna normativa europea impone agli Stati membri di attenersi ad una specifica disciplina nello stabilire limiti e condizioni di ammissione dei cittadini extraeuropei per l’ingresso nel territorio. Ne discende la critica al ragionamento del primo giudice in merito al principio del c.d. “effetto utile” - che giustificherebbe l’estensione delle ragioni di incompatibilità anche ai contributi relativi ai soggiorni di breve periodo, prodromo per l’ottenimento dello status di soggiornante di lungo periodo.

Prima di passare all'analisi della relativa pronuncia ad opera del Consiglio di Stato è opportuno sottolineare come sia lo stesso Trattato dell'Unione Europea, all'art.5, a sottolineare come l'Unione sia legittimata ad intervenire, anche nelle materie rimesse alla competenza statale, ogni qual volta l'intervento della medesima risulti fondamentale a garantire un'omogeneità sistematica e sistemica tale da non compromettere, e quindi garantire, il c.d. principio dell'effetto utileiii. Tornando alla pronuncia, il relativo motivo è stato disatteso dal Consiglio di Stato in quanto la Corte di Giustizia, contrariamente a quanto sostenuto dai ricorrenti, ha « inteso riferirsi consapevolmente e deliberatamente, per evidenti e motivate ragioni di ordine logico-sistematico, anche alla misura dei contributi stabiliti per il rilascio o il rinnovo dei permessi di breve durata», pur se non espressamente contemplati n. 2003/109/CE.

La CGUE rileva infatti (§ 27 della sentenza del 2 settembre 2015, in C-309/14) che «l’incidenza economica di un contributo siffatto può essere considerevole per taluni cittadini di paesi terzi che soddisfano le condizioni poste dalla direttiva 2003/109 per il rilascio dei permessi di soggiorno previsti da quest’ultima, e ciò a maggior ragione per il fatto che, in considerazione della durata di tali permessi, tali cittadini sono costretti a richiedere il rinnovo dei titoli assai di frequente e che all’importo di detto contributo può aggiungersi quello di altri tributi previsti dalla preesistente normativa nazionale, cosicché, in tali circostanze, l’obbligo di versare il contributo di cui trattasi nel procedimento principale può rappresentare un ostacolo alla possibilità per i predetti cittadini dei paesi terzi di far valere i diritti conferiti dalla summenzionata direttiva».

La Corte di Giustizia muove dall’evidente presupposto che, a norma del diritto europeo (art. 4 della direttiva n. 2003/109/CE) e nazionale (art. 9, comma 1, del d. lgs. n. 286 del 1998), il conseguimento del permesso UE per lungo-soggiornanti possa essere richiesto in Italia solo dallo straniero che, oltre agli altri requisiti richiesti dalla legge, sia «in possesso, da almeno cinque anni, di un permesso di soggiorno in corso di validità». È pertanto evidente l’incidenza “a cascata” che gli ostacoli apposti all’ottenimento del permesso di soggiorno di breve durata abbiano riguardo al permesso per lungo periodo di permanenza. Peraltro, ad aggravare tale sistema contributivo – già di per sé oneroso - si aggiungono ulteriori costi fissi, complessivamente ammontati ad €73,50iv, richiesti in Italia per il rilascio ed il rinnovo di ogni singolo titolo di soggiorno. Ed è proprio sulla base di una valutazione complessiva del sistema vigente in Italia che la Corte è giunta a sostenere la contrarietà della normativa nazionale oggetto del presente procedimento con la direttiva 2003/109.

È certamente vero che la suddetta direttiva è riferibile solo ai permessi di lungo periodo di permanenza, ma è altrettanto indubbio che il sistema regolativo del rilascio dei permessi di breve durata è sillogisticamente connesso al predetto permesso: se il permesso di soggiorno per breve durata è a tal punto oneroso da mettere gli aventi diritto nella condizione di non poterne usufruire, per inadeguata capacità economica, è in re ipsa che ciò rappresenterà un ostacolo all’effettivo conseguimento del permesso di soggiorno UE di lunga durata.

Al contrario, ove si ipotizzasse che oggetto di formazione eurounitaria e di interpretazione da parte della Corte di Giustizia fosse solo la procedura per il rilascio del permesso di lunga durata, ciò lascerebbe un margine di discrezionalità statale talmente ampio da poter ricadere in ipotesi regolative in cui gli oneri - economici e procedurali - imposti dal singolo Stato sarebbero così gravosi da rendere la stabilità del singolo un traguardo irraggiungibile ed illusorio, per quanto in possesso di tutti i requisiti previsti dalla normativa comunitaria, con evidente elusione delle finalità perseguite dalla direttiva n.2003/109/CE, primo fra tutti la garanzia del diritto all’eguaglianza formale e sostanziale nonché del divieto di trattamenti discriminatori, principi cardini che hanno ispirato la disciplina sia comunitaria che interna.

Peraltro, già con la Sent. del 26 aprile 2012, la Corte di Giustizia, sempre in tema di regolamentazione dei permessi di soggiorno, ha avuto modo di specificare che gli Stati membri «non possono applicare una normativa nazionale tale da compromettere la realizzazione degli obiettivi perseguiti da una direttiva e, pertanto, da privare quest’ultima del suo effetto utile».

Tale principio vale, a fortiori, in questa materia per le previsioni della legislazione italiana relative ai contributi, quali prestazioni patrimoniali imposte (art. 23 Cost.), richiesti per i soggiorni di breve durata che, inscindibilmente legate alla concessione dei permessi UE per soggiornanti di lungo periodo, incidono fortemente, nel lungo periodo, sulla realizzazione degli obiettivi perseguiti dalla direttiva n. 2003/109/CE.

Il principio dell’effetto utile deve trovare applicazione anche agli obiettivi perseguiti dalla direttiva n. 2003/109/CE, ove si consideri, tra l’altro, che:

  • la direttiva «rispetta i diritti fondamentali e osserva i principi riconosciuti segnatamente nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea» (“Considerando” n. 3);

  • l’integrazione dei cittadini di Paesi terzi stabilitisi a titolo duraturo negli Stati membri costituisce «un elemento cardine per la promozione della coesione economica e sociale, obiettivo fondamentale della Comunità enunciato nel trattato» (“Considerando” n. 4);

  • la condizione principale per ottenere lo status di soggiornante di lungo periodo dovrebbe essere la durata del soggiorno nel territorio di uno Stato membro (“Considerando” n. 6);

  • le considerazioni economiche «non dovrebbero essere un motivo per negare lo status di soggiornante di lungo periodo» (“Considerando” n. 9);

  • occorre stabilire un sistema di regole procedurali per l’esame della domanda intesa al conseguimento dello status di soggiornante di lungo periodo, ma le regole e le procedure, chiare ed eque, comunque «non dovrebbero costituire un mezzo per ostacolare l’esercizio del diritto di soggiorno» (“Considerando” n. 10).

Queste premesse portano all’evidenza la contrarietà della normativa italiana in materia, tra gli altri, con il diritto di soggiorno riconosciuto agli stranieri dalla direttiva 2003/109/CE.

Il diritto comunitario, anche nella forma del “diritto vivente” scolpita nell’attività ermeneutica della Corte di Giustizia, ben può incidere trasversalmente in settori della legislazione nazionale tradizionalmente non rientranti nelle proprie attribuzioni, senza per ciò solo comportare un’invasione di competenza. Invero, laddove le regole poste privino l’effetto utile dell’euronormativa imposta, rendendo di fatto suoi principi e le sue regole prive di efficacia sostanziale, in quanto difficilmente applicabili e sostanzialmente inapplicati dagli Stati membri, la primazia del diritto europeo si impone a salvaguardia dei diritti riconosciuti direttamente dalla normativa sovranazionale.

La conclusione cui perviene il Consiglio di Stato è che Nel caso di specie, deve essere disapplicata, per effetto della sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea del 2 settembre 2015, in C-309/14, la disposizione dell’art. comma 2-ter dell’art. 5 del d. lgs. n. 286 del 1998, nella misura in cui fissa gli importi dei contributi richiesti per tutti i permessi di soggiorno da un minimo di € 80,00 ad un massimo di € 200,00, in quanto costituenti nel loro complesso un ostacolo, per il loro importo eccessivamente elevato, ai diritti conferiti ai cittadini stranieri richiedenti i permessi UE di lungo soggiorno, con conseguente illegittimità del D.M. qui impugnato, nelle parti già annullate dal T.A.R.

Lo Stato italiano nella regolazione dei contributi di più breve periodo, non ha tenuto conto dell’evoluzione storica e sistematica del diritto dell’immigrazione costituente, ormai, un corpus unico e compatto, tipico di un ordinamento c.d. multilivello.

In un sistema concepito quale il nostro, in cui il discrimine tra regolarità e irregolarità dello straniero è tale da condizionare la titolarità dei diritti civili e sociali dei medesimi, non è di certo tollerabile che il rilascio del permesso di soggiorno, per chi è in possesso di tutti i requisti richiesti dall'ordinamento, possa in alcun modo essere (legalmente) condizionato da pretese contributive talmente onerose da rendere di fatto il diritto di soggiorno un diritto economicamente condizionato.

La stretta interrelazione tra le competenze legislative degli Stati membri e quelli dell’Unione, nel diritto dell’immigrazione, rende del resto indispensabile e sempre più frequente una compenetrazione tra l’ordinamento eurounitario e quello nazionale, in un processo osmotico, che induca il primo, da un lato, a recepire progressivamente i valori di civiltà giuridica e di solidarietà sociale più elevati comuni alla maggior parte, se non a tutti, gli Stati membri, così innalzando il livello minimo di tutela dei diritti fondamentali dei richiedenti soggiorno (o asilo) nell’ambito del territorio dell’Unione, e dall’altro il secondo a farsi plasmare e conformare dai principî del diritto dell’Unione, quali enucleati dall’attività interpretativa della Corte.

 

________________________

i) Direttiva n.2003/109/CE del 25 Novembre 2003 relativa allo status dei cittadini di Paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo

ii) Il Consiglio di Stato fonda la decisione sul presupposto che, se è vero che un'organizzazione di categoria quale è la CGIL non può legittimamente agire per la difesa di singole posizioni o di interessi di una sola parte degli iscritti, è tuttavia ben legittimata ad agire in giudizio a tutela delle prerogative della stessa organizzazione sindacale, quale istituzione esponenziale di un categoria di lavoratori e degli interessi collettivi della stessa categoria, unitariamente considerata. Come già rilevato dal Giudice di primo grado, l'associazione sindacale è senz'altro titolare di una posizione soggettiva che la legittima ad agire per tutelare l'interesse dei cittadini stranieri che hanno trovato una più o meno stabile occupazione in Italia, costituendo tale occupazione uno dei presupposti per il rilascio dei titoli di soggiorno. Medesime considerazioni sono state fatte riguardo la legittimazione facente capo all'INCA.

iii) M. G. Scorrano, Il Principio dell'effetto utile in L'ordinamento europeo – esercizio delle competenze Vol.2, a cura di S. Mangiameli, Milano, Giuffrè Editore, 2006 “[Il principio dell'effetto utile] assurge a canone ermeneutico fondamentale del diritto comunitario...Secondo tale principio, le disposizioni comunitarie devono essere interpretate in modo da consentire alla Comunità di svolgere i propri compiti e raggiungere i propri obiettivi. Nell'ordinamento comunitario, il principio si pone essenzialmente sul piano interpretativo, collocandosi nel sistema delle fonti, ma opera anche su quello applicativo, inserendosi tra il primato del diritto comunitario e l'effettività della tutela dei singoli

iv) Le stesse Amministrazioni appellanti opportunamente ricordano (p. 3 del ricorso), infatti, che ai contributi qui controversi si assommano gli oneri, imposti indistintamente e per qualsiasi richiesta di permesso di soggiorno, relativi al costo del premesso di soggiorno in formato elettronico – € 27,50 previsti dal decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze, di concerto con il Ministero dell’Interno, del 4 aprile 2006 – nonché quelli – pari ad € 30,00 fissati dal decreto del Ministero dell’Interno del 12 ottobre 2015 – relativi al servizio di accettazione delle istanze, svolto da Poste Italiane s.p.a., e infine l’imposta di bollo, pari ad € 16,00, Cfr. Sent., n.448/2016, III Sez. del Consiglio di Stato.

 

17/11/2016
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