Magistratura democratica
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Le prospettive di riforma della giustizia penale: ricostruire la fiducia tra magistrati, politici e cittadini partendo dal dialogo sul diritto vigente

di Fabio Pinelli
avvocato del Foro di Padova

In concomitanza con l’avvio della nuova legislatura, le questioni sul tappeto della riforma della giustizia penale offrono al cittadino, sia esso comune o tecnico del diritto, un rinnovato importante slancio di confronto.

I temi che si mostrano più presenti all’attenzione della cronaca, tuttavia, non sono affatto nuovi e sembrano perpetuare una logica di contrapposizione, in seno alla politica e tra quest’ultima e la magistratura, che negli ultimi trent’anni non è mai stata foriera di risultati significativi in positivo.

I più rilevanti di essi sono ancora, sul piano ordinamentale, l’obbligatorietà dell’azione penale e la separazione di carriera tra magistrati inquirenti e giudicanti; in relazione allo specifico delle indagini e del processo, la limitazione all’accesso indiscriminato all’utilizzo delle intercettazioni telefoniche e ambientali, quale strumento investigativo e di ricerca della prova.

Le ragioni delle parti in contesa su tali temi sono note e tutte comunque meritevoli, nel loro antagonismo, di essere prese seriamente in considerazione.

L’obbligatorietà dell’azione penale, al cospetto della sistematica ipertrofia pan-penalistica del legislatore, rappresenta oramai un totem di carattere formale, che ha poca aderenza con la realtà dell’azione quotidiana degli Uffici giudiziari di Procura; questi sono costretti a selezionare, nel mare magnum perennemente agitato delle notizie di reato ricevute, quali coltivare e quali lasciare in disparte.

Il vincolo costituzionale dell’art. 112 della Carta fondamentale, tuttavia, è presidio irrinunziabile, in via di principio, per la sua funzione di salvaguardia dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge.

La cd. separazione delle carriere si mostra come una sorta di necessità strutturale del nostro architrave ordinamentale, al cospetto della – oramai ultra ventennale – costituzionalizzazione del “giusto processo”, che esige terzietà assoluta del giudice, rispetto alle altre parti processuali.

Al contempo, tuttavia, l’appartenenza comune del pubblico ministero, al medesimo ordine giudiziario del magistrato giudicante, limita il rischio dello strapotere investigativo del primo: lo protegge dal vulnus della sua – per così dire – retrocessione amministrativistica, a mero organo di vertice della polizia giudiziaria. Questa idea di pubblico ministero, a ben vedere, offre molte meno garanzie per la tutela dei protagonisti del processo, rispetto all’attuale standard del suo ruolo giurisdizionale, e potrebbe incidere sulle libertà e sui diritti degli individui in modo particolarmente significativo.

Sul tema delle indagini e segnatamente delle intercettazioni, non si può non riconoscere come le insidie delle nuove tecnologie digitali, che penetrano nei segmenti e nei luoghi più riservati della vita degli individui, rendono potenzialmente pubbliche informazioni rigorosamente private. S’impone, dunque, massimo rigore nell’esercizio dei pubblici poteri che possano incidere sui più importanti presidi di salvaguardia delle libertà fondamentali.

Tuttavia, è incontestabile che la penetrazione della criminalità organizzata nel tessuto economico-produttivo del Paese, così come la portata spesso epidemica del virus corruttivo nella pubblica amministrazione – e in certi contesti territoriali i due fenomeni sono spesso inscindibili –, esigono l’utilizzo di strumenti investigativi adeguati, rispetto alla portata cronica di tali fenomeni delittuosi.

Senza volersi sottrarre alla presa di posizione su tematiche tanto significative, sembra opportuno individuare un approccio metodologico, che si caratterizzi per una (previa) analisi profonda dello stato dell’arte del diritto vigente nelle predette materie. Con l’obiettivo di comprendere, pur al cospetto di un’apprezzabile spinta riformatrice della politica, se davvero sussista l’urgenza di una nuova modifica normativa (anche di carattere costituzionale), oppure se sia opportuna una “pausa di applicazione”, finalizzata all’adeguata verifica dell’impatto delle riforme già adottate, alcune di esse, peraltro, di recentissima introduzione.

La ricognizione dello stato dell’arte normativo, in altre parole, appare un necessario antecedente logico e tecnico, soprattutto lì dove esso sia stato oggetto di innovazioni, la cui capacità operativa sia ancora tutta da testare.

In assenza di questa cautela, infatti, esiziale diviene il rischio d’incrementare in modo affastellato il sistema normativo, già di per sé ipertrofico, destabilizzando l’ordinamento e pregiudicando la sua conoscenza e accessibilità; finendo oltretutto per avallare un meccanismo, non sempre necessario, di delegittimazione della politica precedente del Paese.

Notoriamente, è buona regola, prima di accingersi a trasformare l’esistente, confrontarsi con le esigenze di fondo del sistema, cercando di far funzionare quanto già c’è. Diversamente opinando, si rischia la cancellazione fine a sé stessa del passato, che non è necessariamente desueto e senza la cui valorizzazione non pare esserci virtuosa costruzione del futuro. 

Entrando, dunque, nel merito delle questioni problematiche appena richiamate, dev’essere ricordato come, a ben vedere, tutti e tre gli ambiti di attuale discussione vedono la vigenza di riforme di sistema recentissime e, in quanto tali, fisiologicamente prive di riscontro empirico sulla loro concreta operatività.

In materia di obbligatorietà dell’azione penale, l’innovazione normativa è leggibile all’art. 1, comma 9, lett. i), dalla legge delega 27.09.2021, n. 134. 

L’indicazione del legislatore delegato è stata molto chiara: dev’essere previsto «che gli uffici del pubblico ministero, per garantire l’efficace e uniforme esercizio dell’azione penale, nell’ambito dei criteri generali indicati dal Parlamento con legge, individuino criteri di priorità trasparenti e predeterminati, da indicare nei progetti organizzativi delle procure della Repubblica, al fine di selezionare le notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre».

A tale proposito, l’art. 41, comma 1, lett. a), d.lgs. 10.10.2022, n. 150, ha coniato il nuovo art. 3 bis disp. att. c.p.p., il quale ha prescritto che «nella trattazione delle notizie di reato e nell’esercizio dell’azione penale il pubblico ministero si conforma ai criteri di priorità contenuti nel progetto organizzativo dell’ufficio».

Al contempo, inoltre, atteso che l’attuazione della citata lett. i) della legge delega esigeva, sotto il profilo ordinamentale, di mettere mano alla previsione dell’art. 1, d.lgs. 20.02.2006, n. 106, in relazione alla materia dell’organizzazione dell’ufficio del pubblico ministero, l’art. 13, comma 1, d.lgs. 17.06.2022, n. 71 – recante, tra le altre, la delega al governo per la riforma dell’ordinamento giudiziario e disposizioni in materia organizzativa dei magistrati – è intervenuto a modificare i commi 6 e 7 del citato art. 1.

È stata prevista, quale contenuto necessario di ogni progetto organizzativo degli Uffici di Procura, la fissazione di «criteri di priorità finalizzati a trattare le notizie di reato con precedenza rispetto alle altre, e definiti nell’ambito dei criteri generali indicati dal Parlamento con legge, tenendo conto del numero degli affari da trattare, della specifica realtà criminale e territoriale e dell’utilizzo efficiente delle risorse tecnologiche, umane e finanziarie disponibili».

Questo è il contesto normativo che offre il diritto vigente in materia di obbligatorietà dell’azione penale.

In esso è certamente leggibile una soluzione di continuità rispetto alla previgente disciplina sui criteri di priorità di trattazione dei fascicoli, essendo definitivamente superata la criticità della prevalenza delle circolari organizzative degli Uffici di Procura, sulle indicazioni del legislatore.

Peraltro, anche il limite regolatorio dell’art. 132 bis disp. att. c.p.p., con il quale erano stati fissati i criteri normativi di priorità solo in relazione alle fasi di formazione dei ruoli d’udienza e di trattazione dei processi, appartiene al passato.

L’art. 3 bis disp. att. c.p.p. vale oggi come disposto normativo di portata generale, inserito in apertura al capo dedicato al pubblico ministero, che vincolerà il medesimo al rispetto dei criteri di priorità indicati dai progetti organizzativi degli Uffici, sia nella fase delle indagini, sia poi in quella, conseguente, dell’eventuale esercizio dell’azione penale.

Tali criteri sono stati pensati dal legislatore come un prodotto di sintesi, da un lato tra la sovranità esclusiva del Parlamento (con la garanzia della riserva di legge) nell’individuazione della politica di repressione criminale del Paese, dall’altro lato in uno con le specifiche sensibilità territoriali locali e la valorizzazione delle risorse effettivamente disponibili presso ciascuna Procura.

In definitiva, il diritto vigente prevede già, in modo trasparente, il meccanismo di determinazione e programmazione delle priorità investigative e di esercizio dell’azione penale da realizzarsi di fonte politica; tutto ciò mantenendo inalterata la cornice istituzionale dell’obbligatorietà di essa, quale garanzia individuale dei cittadini, rispetto al rischio di indebiti ed arbitrari trattamenti di sfavore ad personam.

Il tempo ci saprà dire se la sintesi tra tali opposte esigenze potrà risultare ottimale, ovvero se saranno necessari ulteriori interventi. Sin d’ora, peraltro, si può affermare che il delicato tema sia stato affrontato in profondità dal legislatore.  

La l. 17.06.2022, n. 71, inoltre, contiene la delega al governo al riordino anche della disciplina «in materia di accesso in magistratura e di funzioni dei magistrati».

Quella da ultimo citata, infatti, è la rubrica dell’art. 12 del corpo normativo appena richiamato, con il quale è stato modificato l’art. 13 del d.lgs. 05.04.2006, n. 160, che oggi disciplina ex novo, in modo assolutamente restrittivo e rigoroso, la possibilità, per i magistrati della Repubblica, del transito dalle funzioni giudicanti penali a quelle requirenti, e viceversa.

In passato, l’unità ordinamentale della magistratura e le sue irrinunziabili prerogative di autonomia e indipendenza, presidiate dall’art. 104 della Costituzione, avevano, come interfaccia normativa di rango ordinario nella materia in esame, l’art. 190 del r.d. 30.01.1941. n. 12, che non poneva alcun limite, né quantitativo, né qualitativo, al passaggio tra le funzioni giudicante e requirente, per il quale era necessario solamente l’accertamento, da parte del C.S.M. e previo parere del Consiglio giudiziario, della sussistenza delle attitudini alla nuova attività.

Ciò consentiva, evidentemente, mutamenti di funzione anche all’interno dello stesso circondario di Tribunale, legittimando così il sospetto di pregiudizio all’indipendenza di quei magistrati che venivano largamente autorizzati al cambiamento di ruolo: soprattutto dei pubblici ministeri, che potevano accedere, nello stesso contesto territoriale o in uno di prossimità, alla funzione giudicante.

Tale situazione legislativa era già profondamente cambiata con l’innovazione portata dagli artt. 13 e 14 del d.lgs. 05.04.2006, n. 160, che avevano introdotto prescrizioni decisamente più stringenti sul punto, poi ulteriormente modificate, soprattutto per effetto della l. 30.06.2007, n. 111.

In via di sintesi, era previsto un limite massimo soggettivo di quattro cambi di funzione nel corso della carriera, con un obbligo di permanenza minima di cinque anni in quella nuova, fermo restando il divieto di mutamento di ruolo all’interno dello stesso circondario, della medesima provincia e del distretto di Corte d’Appello individuato ai sensi dell’art. 11 c.p.p.; con la sola deroga a favore di chi, nell’ambito del medesimo distretto, transitasse dalle funzioni requirenti a quelle giudicanti civili o del lavoro, e viceversa.

Il nuovo art. 13 del d.lgs. 05.04.2006, n. 160, introdotto dall’art. 12 della l. 17.06.2022, n. 71, ha ristretto ulteriormente la breccia sulla linea di confine tra le funzioni, rendendola, di fatto, difficilmente e solo sporadicamente valicabile: ribaditi i divieti di natura territoriale già ricordati, oggi il passaggio può essere richiesto dall’interessato per non più di una volta nell’arco dell’intera carriera, entro nove anni dalla prima assegnazione delle funzioni; oltre tale termine è poi consentito, una tantum, il solo passaggio dalle funzioni requirenti a quelle giudicanti civili e del lavoro, e viceversa, oltre che esclusivamente previa partecipazione ad un corso di qualificazione professionale e giudizio d’idoneità del C.S.M. allo svolgimento delle nuove mansioni, acquisito il parere del Consiglio giudiziario.

La separazione tra le funzioni, dunque, è già di fatto particolarmente rigida, al punto da rendere per certi versi effimero il suo distinguo teorico rispetto a quella delle carriere. Essa finisce per disegnare – pur nell’ambito dell’appartenenza istituzionale ad un ordine giudiziario unitario, che ne garantisce autonomia e indipendenza – percorsi professionali, di magistrati giudicanti e requirenti, distinti e non comunicanti.

Si tratta, evidentemente, di un tentativo di bilanciamento, tra l’esigenza della concreta attuazione dell’art. 111, comma 3, della Costituzione, nella direzione di un sistema accusatorio “puro”, e quella del mantenimento del ruolo giurisdizionale del pubblico ministero all’interno del processo.

Certamente, anche in questo caso, il tempo potrà essere buon “giudice” dell’efficacia della riforma, peraltro prodotto dell’elaborazione tecnica di giuristi di indiscussa reputazione, trasversalmente provenienti dall’accademia, dall’avvocatura e dalla magistratura, oltreché il risultato di un’adesione politica condivisa.

Resta ora da analizzare la materia delle intercettazioni telefoniche e ambientali, rispetto all’emergenza della tutela della riservatezza e della vita privata, insidiata dall’utilizzo investigativo delle nuove tecnologie informatiche e digitali.

La questione, quanto a tale ultimo specifico target, merita una premessa di carattere teorico: dev’essere evitata qualsiasi confusione valutativa tra la disciplina normativa di ammissibilità e del momento autorizzativo delle intercettazioni, rispetto a quella della legittimità della pubblicazione, a stampa o multimediale, del loro contenuto.

La rigidità legislativa, quanto ad ammissibilità ed autorizzazione delle intercettazioni, è nota: esistono limiti di materia e di metrica sanzionatoria e possono essere disposte solo su provvedimento motivato – autorizzativo o di convalida – del giudice, per ricercare elementi di prova in una fase successiva alla previa acquisizione di gravi indizi di reato; la legge processuale non consente che le stesse possano essere utilizzate quale strumento di ricerca della notizia di reato.

Dunque, di fronte a questo scenario codicistico, la questione non sembra essere quella della necessità di intervenire sulle norme sin qui analizzate; semmai, di dover arginare, anche con un rigoroso controllo in sede di legittimità, prassi applicative che svuotano la funzione di garanzia dei limiti legislativi appena ricordati.

Quanto, poi, al grave, indubitabile pregiudizio che possono subire gli interessati dalle intercettazioni a mezzo di captatore informatico, effettivamente in grado di registrare i momenti più sensibili della vita privata degli individui, il legislatore non ne consente di regola l’utilizzo all’interno delle abitazioni, degli altri luoghi di privata dimora o nelle appartenenze di essi, salvo che non vi sia fondato motivo di ritenere che ivi si stia svolgendo l’attività criminosa. Il provvedimento che le autorizza esige una motivazione rinforzata, che dia conto delle specifiche ragioni che rendono necessario l’utilizzo di questo strumento per lo svolgimento delle indagini; oltreché dei luoghi e del tempo, anche indirettamente determinati, in relazione ai quali è consentita l’attivazione del microfono.

Eccezione a tali regole stringenti è l’utilizzabilità del captatore informatico, previa indicazione delle ragioni che ne giustificano l’utilizzo nei suddetti luoghi, nell’ambito delle indagini di criminalità organizzata e in materia di reati contro la pubblica amministrazione.

La questione è oggettivamente molto delicata e la ricerca dell’equilibrio normativo tra esigenze contrapposte è complessa.

Gli ambiti investigativi che consentono la deroga alla disciplina ordinaria di garanzia costituiscono, come già ricordato, le spine nel fianco della legalità nel nostro ordinamento: sono quindi comprensibili le ragioni critiche di chi è contrario ad immaginare una deflessione degli strumenti d’indagine in materia.

Al contempo, l’invasività nella vita privata delle persone delle captazioni informatiche itineranti impone una seria riflessione, sulla necessità a che il diritto circoscriva in modo ancor più rigoroso l’utilizzabilità di tali strumenti, in assenza delle garanzie previste in via ordinaria per le intercettazioni ambientali, ai soli contesti criminali che le rendono effettivamente necessarie.

In ogni caso, altro e diverso tema è quello del pregiudizio alla riservatezza degli individui, che può essere gravemente compromessa dalla pubblicazione degli esiti delle intercettazioni; circostanza che generalmente è occasionata del venir meno del segreto istruttorio sulle stesse, per effetto dell’esecuzione di provvedimenti cautelari.

Su questo tema, la legge processuale è sufficientemente chiara nell’indicare, all’art. 114 c.p.p., l’impossibilità della confusione tra disciplina del segreto investigativo, che ha carattere endo-procedimentale ed è previsto a tutela dell’indagine, da quella del divieto di pubblicazione, che è extra-procedimentale ed è posto a presidio del giudice dal rischio del condizionamento esterno, ma soprattutto della riservatezza dei soggetti privati coinvolti dalle indagini. Simul stabunt, vel simul non cadent.

Il legislatore successivo, allorquando con il d.lgs. 29.12.2017, n. 216, ha inteso sottrarre l’ordinanza applicativa di una misura cautelare coercitiva, di cui all’art. 292 c.p.p., dal divieto di pubblicazione degli atti non più coperti da segreto (fino alla conclusione delle indagini o dell’udienza preliminare), è altresì intervenuto su quest’ultima previsione, inserendo il comma 2 quater, in forza del quale, «quando è necessario per l’esposizione delle esigenze cautelari e degli indizi, delle comunicazioni e conversazioni intercettate sono riprodotti soltanto i brani essenziali».

Poi, con il d.l. 30.12.2019, convertito con modificazioni in l. 28.02.2020, n. 7, l’art. 114 c.p.p. è stato emendato con il nuovo comma 2 bis, che contiene un divieto sistematico di pubblicazione, anche parziale, del contenuto delle intercettazioni non acquisite al procedimento. 

Ancora, per effetto delle due novelle legislative da ultimo citate, il vigente comma 2 bis dell’art. 268 c.p.p., che disciplina l’esecuzione delle intercettazioni, grava il pubblico ministero di una posizione di garanzia d’indirizzo e controllo sulla verbalizzazione delle operazioni compiute e la trascrizione del contenuto delle comunicazioni intercettate, affinché nei verbali non siano riportate espressioni lesive della reputazione delle persone o quelle che riguardano dati personali definiti sensibili dalla legge, salvo che risultino rilevanti ai fini delle indagini.

Sempre in forza delle surriferite innovazioni legislative, peraltro, anche a presidio della riservatezza e del divieto di divulgazione esterna delle intercettazioni, gli art. 269 c.p.p. e 89 bis disp. att. c.p.p. hanno costituito, in capo al Procuratore della Repubblica dell’Ufficio che ha richiesto ed eseguito le intercettazioni, la posizione di garanzia di direzione e sorveglianza dell’archivio nel quale sono custoditi i verbali, le registrazioni e ogni altro atto ad esso relativo, con specifica regolamentazione e tracciamento di tutti i soggetti abilitati ad accedere al medesimo.

Infine, la tutela della riservatezza dei dati personali attinti dal procedimento penale ha oggi un rinnovato presidio di protezione a posteriori, ogniqualvolta lo stesso si concluda con un provvedimento di archiviazione, una sentenza di assoluzione o di non luogo a procedere.

Infatti, in adempimento della delega prevista dal comma 25 dell’art. 1, l. 27.09.2021, n. 134, che onerava il legislatore delegato di disciplinare la facoltà di richiedere, in tali situazioni, la preclusione all’indicizzazione o la deindicizzazione dei dati personali nei suddetti procedimenti, con l’art. 41, comma 1, lett. h), d.lgs. 10.10.2022, n. 150, è stato introdotto il nuovo art. 64 ter disp. att. c.p.p.

Tale previsione disciplina il diritto della persona archiviata e assolta a richiedere che sia preclusa l’indicizzazione o che sia disposta la deindicizzazione, sulla rete internet, dei dati personali riportati nella sentenza o nel provvedimento, rispetto a ricerche condotte sul web a partire dal nominativo dell’istante. Analoga tutela è prevista per la sottrazione all’indicizzazione, da parte dei motori di ricerca generalisti, dei contenuti relativi al procedimento penale.

Volendo trarre una conclusione di sintesi di tutto quanto sin qui analizzato, può affermarsi che la realtà normativa vigente, così brevemente analizzata, se solo si considera la sua recente introduzione nell’ordinamento, sembra meritevole di un tempo di stabilità operativa, per poter essere testata nella (e dalla) prassi giudiziaria prossima futura. In assenza di una adeguata “pausa di applicazione”, appare concreto il rischio di una generale destabilizzazione del sistema giudiziario e di una compromissione del percorso di ricostruzione del rapporto di fiducia tra politica, magistratura e cittadini, quantomai necessario.

10/01/2023
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A fronte dell’infinito confronto, esistenziale e filosofico, sui temi della libertà di vivere e della libertà di morire, è emersa in Europa una nuova domanda sociale: quella di una libertà del morire che sia tutelata dall’ordinamento giuridico non solo come “libertà da” e come espressione di autodeterminazione ma anche come un vero e proprio “diritto sociale” che assicuri l’assistenza di strutture pubbliche nel momento della morte volontaria. In questi ultimi anni, in alcuni Paesi europei sono stati compiuti significativi passi verso un nuovo regime del fine vita mentre in altri vi sono cantieri aperti ormai ad un passo dalla positiva chiusura dei lavori. Il Regno Unito sta approvando una nuova legge destinata a superare il Suicide Act del 1961. In Germania la Corte costituzionale, con una decisione del 2020, ha affermato che esiste un diritto all’autodeterminazione a morire ed a chiedere e ricevere aiuto da parte di terzi per l’attuazione del proposito suicidario. In Francia una nuova normativa, in corso di approvazione, è stata preceduta e preparata da un importante esperimento di democrazia deliberativa come l’istituzione di una Convention Citoyenne Cese sur la fin de vie, formata per sorteggio e chiamata a fornire un meditato e informato parere sul fine vita. La situazione del nostro Paese resta invece caratterizzata da una notevole dose di ipocrisia e da un altrettanto elevato tasso di confusione istituzionale. La radicale negazione dell’esistenza di un diritto a morire proveniente dalla maggioranza di governo coesiste infatti con il riconoscimento di diverse possibilità legittime di porre fine volontariamente alla propria vita in particolari situazioni: rifiuto delle cure, sedazione profonda, suicidio assistito in presenza delle condizioni previste dalle pronunce della Corte costituzionale. Dal canto suo il legislatore nazionale è stato sin qui paralizzato da veti e contrasti ed appare incapace di rispondere alla domanda, che sale con crescente intensità dalla società civile, di tutelare il diritto “doloroso” di porre fine ad una esistenza divenuta intollerabile. In questa situazione stagnante la domanda sociale di libertà del morire si è trovata di fronte solo l’arcigna disciplina del fine vita dettata dagli artt. 579 e 580 di un codice penale concepito in epoca fascista. Da questo impatto sono scaturite le forme di disobbedienza civile consistenti nel prestare aiuto, sfidando le norme penali, a chi in condizioni estreme aspirava ad una fine dignitosa. E, a seguire, i giudizi penali nei confronti dei disobbedienti e le questioni di legittimità costituzionale sollevate nel corso dei processi dai giudici che hanno innescato i numerosi interventi della Corte costituzionale, sinora decisivi nel disegnare la disciplina del fine vita. Da ultimo un tentativo di superare l’inerzia del parlamento è stato compiuto da due Regioni - Toscana e Sardegna - che hanno approvato leggi sul fine vita, individuando come requisiti per accedere all’assistenza al suicidio quelli previsti dalla sentenza della Corte costituzionale nella sentenza n. 242 del 2019 e disegnando procedure per ottenere la prestazione assistenziale richiesta. La reazione del governo è consistita nell’impugnare la legge regionale toscana ritenuta esorbitante dalle competenze regionali e lesiva di competenze esclusive dello Stato. Reazione non priva di qualche fondamento giacchè la prospettiva di regimi del fine vita differenziati su base regionale appare criticabile sotto il profilo giuridico e non certo desiderabile nella pratica, ma singolare quando provenga dal uno Stato che sinora si è dimostrato incapace di dettare una normativa rispondente alle istanze di riconoscimento di libertà e di diritti sul fine vita che provengono dalla società italiana. 

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