Magistratura democratica
Spilli

Quali confini per i poteri dei Servizi? A margine del decreto Sicurezza e del caso Paragon Graphite

Gli spilli possono servire a molte cose.

A fissare una foto o un foglietto di appunti su di una bacheca.

A tenere provvisoriamente insieme due lembi di stoffa in attesa di un più duraturo rammendo. 

A infliggere una piccola puntura, solo leggermente dolorosa, a qualcuno che forse l’ha meritata.

Lo spillo di oggi, più lungo del solito, è dedicato a due casi e ad un unico interrogativo:

 

Quali confini per i poteri dei Servizi?

A margine del decreto Sicurezza e del caso Paragon Graphite

 

Sono stati in pochi ad accorgersene nel dibattito pubblico ed a lanciare un avviso ai naviganti per possibili venti di burrasca su di una costa insidiosa.  

Lo ha fatto, opportunamente, l’opposizione parlamentare nel dibattito in Senato sulla conversione in legge del decreto sicurezza che purtroppo non ha avuto un’eco adeguata nella più larga opinione pubblica. 

E sul tema è ritornato l’avv. Gian Domenico Caiazza nella sua rubrica settimanale su Radio radicale, Il rovescio del diritto

Parliamo del fatto che il discusso decreto legge Sicurezza, ora convertito nella legge 9 giugno 2025 n. 80, ha dilatato (a dismisura?) le c.d. garanzie funzionali degli operatori degli apparati di sicurezza ossia la loro facoltà di commettere reati per esigenze di servizio con la previa autorizzazione del Presidente del Consiglio o dell’Autorità da questi delegata. 

La nuova norma, passata quasi sotto silenzio (l’art. 31, quarto comma, della legge n.80 del 2025) è scritta con una tecnica dissimulatoria - spesso usata per mascherare norme discutibili - intessuta di “negazioni” che affermano e di “eccezioni” che contengono in realtà le nuove regole. 

Una volta depurata dagli artifici lessicali la disposizione dice che, nell’ambito dell’attività dei Servizi di sicurezza, potranno essere autorizzati dal Presidente del Consiglio o dall’Autorità delegata una lunga serie di delitti contro la personalità dello Stato, contro l’ordine pubblico e contro l’incolumità pubblica. 

L’elencazione di ciò che potrà essere consentito – qui limitato alle fattispecie più eclatanti – è francamente impressionante giacché spazia dalla “direzione” e “organizzazione” di associazioni con finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico all’arruolamento con finalità di terrorismo, anche internazionale; dall’organizzazione di viaggi di trasferimento per finalità di terrorismo all’addestramento ed al finanziamento di attività terroristiche; dalla partecipazione alle associazioni mafiose alla fabbricazione e detenzione di materie esplodenti. Sino all’istigazione a commettere gravi delitti contro la personalità dello Stato. 

Tra le molte attività illecite “autorizzabili” spiccano dunque condotte criminose che vanno ben oltre l’infiltrazione in gruppi terroristici e prefigurano invece l’assunzione di ruoli preminenti ed attivi (non di promozione ma comunque) di direzione, di organizzazione, di finanziamento, di addestramento, di propaganda ed istigazione ai crimini, “in teoria” più consoni alle attività di agenti provocatori che di servizi di intelligence. 

Diciamo “in teoria”, perché qui ed ora - e nell’immediato futuro - la professionalità, la correttezza e la lealtà istituzionale dei dirigenti dei Servizi di sicurezza rappresentano una garanzia rispetto ai rischi connessi alle nuove norme. 

Ma il futuro più lontano è nel grembo di Giove ed il passato ha conosciuto torsioni e deviazioni delle agenzie preposte alla sicurezza interna ed internazionale. 

E’ alle norme, dunque, che restano affidate le più salde garanzie sul rispetto dei limiti propri delle attività dei Servizi. 

Ed il fatto che le disposizioni sulle c.d. garanzie funzionali siano divenute così eccessive, sovradimensionate, debordanti non può lasciare tranquilli quanti hanno a cuore la legalità costituzionale. 

Non saranno poche, crediamo, le norme del decreto legge Sicurezza sulle quali verrà sollecitato lo scrutinio di legittimità costituzionale . 

Tra queste ben potrebbero figurare, ove di esse si giunga a discutere in un giudizio, le previsioni qui discusse per l’irragionevole ampiezza delle attività illecite in esse scriminate. 

Il tema, ora solo accennato, è comunque destinato ad essere ripreso in termini più ampi ed adeguati nel numero che la Trimestrale di Questione Giustizia dedicherà al diritto penale “prodotto” dal governo della destra nella prima parte della legislatura. 

 

C’è inoltre anche un’altra questione che riguarda i limiti dei poteri dei Servizi di sicurezza che è emersa in questi giorni a margine del caso Paragon Graphite, lo spyware di fabbricazione israeliana che sarebbe stato usato per intercettazioni nei confronti di giornalisti di Fanpage alle quali i Servizi si sono dichiarati del tutto estranei. 

La vicenda, come si addice alle spy story, è intricata e densa di interrogativi ancora senza risposta. 

In attesa che la nebbia si diradi, anche grazie alle indagini preliminari in corso, vale la pena di segnalare un punto di diritto affrontato nella Relazione sull’utilizzo dello spyware Graphite del COPASIR, che viene oggi integralmente pubblicata su questa Rivista. 

Dopo aver ripercorso i principali passaggi della vicenda Paragon, la Relazione sottolinea che l’art. 4 del DL n. 144 del 2005, convertito con modificazioni dalla legge n.155 del 2005, prevede che siano sottoposte all’autorizzazione del Procuratore generale presso la Corte di appello di Roma le “sole” intercettazioni preventive di conversazioni o comunicazioni effettuate anche in via telematica, oltre alle intercettazioni ambientali. 

Ma è noto che i captatori informatici consentono di acquisire non solo comunicazioni in itinere ma «anche i messaggi scambiati con le diverse applicazioni a disposizione ovvero ogni altro contenuto che sia presente sul dispositivo mobile infettato dal cosiddetto spyware». 

Attività di acquisizione, questa, per la quale è oggi prevista la sola autorizzazione del Presidente del Consiglio o dell’Autorità delegata, senza alcun intervento dell’autorità giudiziaria. 

Sino a quando la messaggistica archiviata negli smartphone e in analoghi dispositivi informatici è stata giuridicamente qualificata come “documentazione”, l’esclusione dell’autorità giudiziaria da ogni intervento nelle procedure di acquisizione dei messaggi poteva essere ritenuta accettabile. 

E però da tempo la Corte costituzionale, con la sentenza del 7 giugno 2023 n. 170, ha affermato che i messaggi archiviati nei device elettronici, che rivestano un interesse attuale per il proprietario, sono da ritenere a tutti gli effetti «corrispondenza» alla quale sono applicabili le garanzie di libertà e segretezza previste dall’art. 15 della Costituzione la cui limitazione può avvenire «soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria». 

Di qui l’opportunità, segnalata dal Comitato, di una revisione normativa che estenda l’autorizzazione del Procuratore generale presso la Corte di appello di Roma anche alla acquisizione di messaggi o altri dati informatici presenti nei dispositivi mobili acquisiti dai Servizi. 

Si è dunque di fronte ad una lacuna da colmare sia per rispettare il dettato costituzionale sia per ragioni di coerenza sistematica. 

Nel momento in cui, all’indomani della sentenza n. 170 del 2023 della Corte costituzionale, in giurisprudenza si discute se il provvedimento di sequestro di dispositivi informatici e la relativa analisi possano essere disposti dal pubblico ministro o se sia necessaria la preventiva autorizzazione di un giudice terzo rispetto all’organo che richiede l’accesso (in conformità alla giurisprudenza della Corte di giustizia europea - Grande Camera, 4 ottobre 2024, Causa C-548-21), sarebbe davvero singolare che attività dei Servizi di sicurezza estremamente invasive ed incidenti su beni costituzionalmente protetti come la segretezza della corrispondenza potessero continuare a svolgersi al di fuori di ogni vaglio preventivo dell’autorità giudiziaria a dispetto di quanto previsto dall’art. 15 della Costituzione. 

                QG

 

16/06/2025
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Trojan horse: spiragli di retromarcia legislativa

Sulle riviste giuridiche, sui quotidiani, sulle mailing list dei magistrati è in corso un argomentato confronto sulle modalità e sui limiti di utilizzo del Trojan Horse come strumento di “intercettazione itinerante”, operante in una pluralità di luoghi di privata dimora indeterminabili a priori. Dibattito - è bene sottolinearlo - in larga misura diverso da quello in corso a livello politico che appare dominato, o meglio inquinato, dalle continue e confuse dichiarazioni del Ministro della Giustizia che, da un lato, sembra voler escludere tout court le intercettazioni dalle indagini per reati diversi da quelli di mafia e terrorismo e, dall’altro, manifesta una inquietante propensione verso le c.d. intercettazioni preventive. Nel confronto tecnico sul captatore informatico , che vogliamo aperto a tutti i differenti punti di vista, interviene il professor Luca Marafioti con un articolo che ripercorre attentamente la vicenda giurisprudenziale e normativa del Trojan, analizza le debolezze della sua attuale disciplina e auspica la formulazione di un nuovo apparato normativo dagli orizzonti più vasti, in grado di disciplinare i diversi versanti della materia e cioè sia l’uso del malware quale “microspia” 2.0., sia le altre forme di sorveglianza e controllo occulti esperibili attraverso virus.

24/01/2023
Trojan Horse: tornare alla riforma Orlando? Il difficile equilibrio nell’impiego del captatore informatico

Un disegno di legge del Senatore Zanettin - che propone di escludere l’impiego del captatore informatico nei procedimenti per delitti contro la pubblica amministrazione – sta suscitando discussioni e polemiche. Nel dibattito politico e giornalistico sulla giustizia penale - ormai dominato da un meccanico susseguirsi di azioni e reazioni che spesso prescindono dal merito delle questioni sul tappeto per privilegiare ragioni di schieramento – sono scattati riflessi condizionati pregiudizialmente “oppositivi” o giudizi sommari che non esitano a qualificare le intercettazioni (tutte le intercettazioni, con qualunque mezzo effettuate e per qualunque reato adottate) come uno strumento di oppressione. Così la proposta è stata immediatamente “bollata” dagli uni come espressione di volontà di disarmo nel contrasto alla corruzione e come un favore alle organizzazioni criminali (le cui attività delinquenziali non sono peraltro escluse dalla sfera di utilizzo del Trojan) ed “esaltata” dagli altri come uno strumento di liberazione dallo strapotere di pubblici ministeri e giudici che se ne servirebbero “normalmente” per prave finalità di potere, di pressione, di intimidazione e di controllo dei cittadini. Per sottrarsi a queste grottesche semplificazioni polemiche - che sembrano divenute la cifra obbligata del confronto pubblico sulla giustizia- vale la pena di ripercorrere le fasi della vicenda istituzionale del Trojan per trarne indicazioni utili a delimitare correttamente la “desiderabile” sfera di applicazione di questo mezzo di ricerca della prova, tanto efficace quanto insidioso. Non dimenticando che l’estensione dell’utilizzo del Trojan Horse ai procedimenti per reati contro la pubblica amministrazione - e dunque al di là dell’originario confine dei reati di criminalità organizzata fissato dalla elaborazione giurisprudenziale e dalla riforma Orlando - è stata realizzata da una legge, la c.d. Spazzacorrotti, che costituisce uno dei frutti più discutibili della stagione del governo dei due populismi di Cinque Stelle e della Lega. 

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