Magistratura democratica
Prassi e orientamenti

Per una riforma del processo penale all'insegna di una comune cultura della giurisdizione

di Paolo Borgna
procuratore vicario presso la Procura della Repubblica di Torino
La giustizia ha bisogno di un organico intervento riformatore, preparato da un movimento culturale ampio e profondo, sostenuto da quella cultura della giurisdizione che accomuna avvocati e magistrati

Quando, nella sua relazione introduttiva, Lorenzo Zilletti ci ha parlato del lungo ritardo con cui, nei primi decenni della Repubblica, si sono realizzati i principi della Costituzione del 1948, ed in particolare l’articolo 27 della Costituzione; e quando lo stesso Zilletti individuava, come causa principale di questo ritardo, «l’inquisitorio inconscio» che covava nella predominante cultura dei giuristi degli anni ’40 e ’50, mi veniva da pensare che quei giuristi erano stati educati in un orizzonte culturale per cui le garanzie individuali e il processo dialettico non sono altro – per usare un concetto caro al Guardasigilli Alfredo Rocco – che un’idea sciagurata delle «dottrine demo-liberali» e per cui lo Stato non è altro che un insieme di rapporti gerarchici rigorosamente fondati sul principio di autorità. E mi tornavano in mente le parole con cui proprio Alfredo Rocco definiva la presunzione di innocenza come il prodotto malsano di quella «generica tendenza favorevole ai delinquenti, frutto di un sentimentalismo aberrante e morboso, che ha tanto indebolito la repressione e favorito il dilagare della criminalità» [1]. A ben pensare, sul punto di fondo Rocco aveva ragione: le garanzie processuali sono un corollario della cultura liberal-democratica.

Questo era l’impianto filosofico che sorreggeva il codice che, nel 1946, l’Italia repubblicana ereditò dal regime fascista [2]. Un codice che, nel 1930, aveva escluso la presenza del difensore da tutti gli atti istruttori: ristabilendo la disciplina del primo codice di rito dell’Italia unita (quello del 1865) e cancellando le timide aperture del codice liberale del 1913 (che prevedeva l’assistenza dell’avvocato ad alcuni atti della fase di indagine: esperimenti giudiziari, perizie, perquisizioni domiciliari, ricognizioni). È bene – spiegava Rocco – escludere la presenza della difesa perché «lo zelo invadente» degli avvocati, tanto più se «coscienziosi ed alacri» è, «molto pericoloso nell’istruzione» e, mettendo in discussione la fiducia verso l’autorità del magistrato, «contrasta con i principi fondamentali del Regime». Dunque: istruttoria completamente segreta. L’avvocato non può presenziare né alle perquisizioni né tantomeno all’interrogatorio: che dovrà essere una partita a due tra magistrato inquirente ed accusato, come il confronto del gatto che gioca con il topo. I colloqui tra difensore ed imputato detenuto sono possibili soltanto «quando sono terminati gli interrogatori». E l’avvocato potrà conoscere gli atti dell’indagine soltanto dopo la requisitoria scritta finale del pubblico ministero.

Pensavo pure – sentendo, oltre a Lorenzo Zilletti anche Oliviero Mazza – che ci vollero dieci anni dalla Liberazione per intaccare questo monolite autoritario. La prima breccia viene aperta con la riforma del 18 giugno 1955, n. 517 [3]: che, con l’art. 304-bis cpp, ristabilendo quanto previsto nel codice del 1913, prevede il diritto dell’avvocato ad assistere agli esperimenti giudiziari, alle perizie, alle perquisizioni domiciliari e alle ricognizioni (e con i collegati nuovi articoli 304-ter e quater impone al giudice istruttore l’avviso all’avvocato e poi il deposito dei verbali relativi a tali atti). Il difensore non è ancora ammesso all’interrogatorio dell’imputato, ma la strada è ormai tracciata. Sono trascorsi nove anni dall’elezione dell’Assemblea costituente, otto dall’entrata in vigore della Costituzione. E finalmente la Costituzione si muove: il suo articolo 24 non rimane scritto solo sulla carta ma comincia a realizzarsi. Gli anni successivi costituiranno una costante espansione delle garanzie, che corrisponde alla stagione più feconda ed ottimista della storia repubblicana. Quella lenta affermazione di nuovi diritti − resa possibile grazie alle battaglie dell’avvocatura ed alla semina culturale di minoranze intellettuali che, cogliendo con qualche anno di anticipo un mutamento delle coscienze in atto, prepararono il terreno al cambiamento – ci ricorda, ancora oggi, che le battaglie civili, se ancorate a solidi valori e sorrette da un respiro profondo, non sono mai combattute del tutto invano. Non fu una marcia incontrastata. Eppure, negli stessi anni in cui si videro il procedimento disciplinare a Dante Troisi, le manette ai polsi di Danilo Dolci davanti ai giudici di Palermo, il processo ad Aldo Braibanti, si attuò una sostanziale riscrittura del codice Rocco, che si accompagnò alla cancellazione delle fattispecie più vergognose del codice penale: il reato di adulterio (solo per la donna), l’omicidio per causa d’onore, il matrimonio «riparatore» come causa estintiva del «ratto a fine di matrimonio».

Un complesso e faticoso intreccio di sentenze della Corte costituzionale e di riforme del Parlamento plasmano un nuovo rito: piena applicabilità di tutte le garanzie difensive previste dagli artt. 304-bis, ter e quater anche all’istruttoria sommaria condotta dal pubblico ministero (sentenza costituzionale n. 52 del 1965: resa necessaria in quanto per dieci anni la Cassazione pervicacemente si era opposta a tale estensione!); avviso di procedimento (poi chiamato comunicazione giudiziaria) da inviare alle parti private sin dal primo atto di istruzione (art. 304, come riformulato dalla legge 5 dicembre 1969 n. 932); estensione delle garanzie difensive previste per gli atti istruttori del giudice a tutti gli accertamenti e alle operazioni tecniche della polizia giudiziaria (sentenze costituzionali n. 86 del 1968 e n. 148 del 1969 e legge 5 dicembre 1969 n. 932); finalmente (sono trascorsi ventitré anni dall’entrata in vigore della Costituzione), ammissione della presenza dell’avvocato all’interrogatorio dell’imputato (sentenza costituzionale n. 190 del 1970 e legge 18 marzo 1971 n. 62); sua presenza anche alle ispezioni, alle perquisizioni personali, alla testimonianza e ai confronti a futura memoria (sentenze costituzionali n. 63 e n. 64 del 1972).

E così, dopo aver vissuto abusivamente per un quarto di secolo, l’impianto rigidamente inquisitorio del codice del 1930 è scardinato. Il rito con cui si istruiranno e celebreranno i grandi processi degli anni ’70, ’80 e ’90 in materia di terrorismo, mafia e criminalità economica non sarà quello concepito da Alfredo Rocco.

Il richiamo alla lezione di quei primi decenni della storia repubblicana è particolarmente importante: perché ci ricorda che le pronunce della Corte che gradualmente smantellarono le norme ereditate dal ventennio fascista furono rese possibili dal lavoro di tanti piccoli giudici che, sparsi nelle aule dei tribunali e delle preture di tutta Italia – incoraggiati, sostenuti, incalzati dalle istanze di tanti singoli avvocati e dal comune clima culturale che li affratellava – sollevarono alla Consulta i dubbi di costituzionalità su quei relitti del passato. Quel movimento culturale unitario seppe ottenere ciò che due intere legislature del Parlamento repubblicano non erano ancora riuscite a compiere: spingendo infine quello stesso Parlamento a legiferare in modo conforme alla Costituzione.

Quel clima culturale fondato sul dialogo tra avvocatura e magistratura si è spezzato a cominciare dagli anni ’80, per contingenze politiche che tutti conosciamo e non è qui il caso di ricordare. C’è un dato (per me disperante) che da solo ci testimonia la profondità di questa rottura: più volte, in questi ultimi anni, avvocati e magistrati sono scesi in sciopero. Lo hanno fatto, sempre, per motivi opposti: chiedendo modifiche a progetti di riforma che confliggevano tra loro. Il potere politico, già di per sé debole, ha spesso subito, con sbandamenti vistosi, il condizionamento di interessi corporativi o addirittura personali. Ne sono nate riforme stiracchiate, disorganiche, spesso mal scritte, frutto di mercanteggiamenti, contraddittorie, zeppe di emendamenti dell’ultima ora che le fanno pericolosamente pendere da una o dall’altra parte.

E così è cresciuta un’intera generazione di giuristi che, nel corso di tutta la loro vita professionale, non hanno mai partecipato a una mobilitazione o a una battaglia comune tra avvocatura e magistratura. Pensiamo in quale diversa temperie culturale sono cresciuti magistrati che erano uditori ai tempi di uomini come Marco Ramat e Alessandro Criscuolo rispetto ai loro giovani colleghi di oggi. In questi anni noi stiamo pagando il prezzo della rottura di quel comune clima culturale: il cui frutto è la nostra attuale incapacità di proporre insieme (avvocati e magistrati) riforme che sappiano coniugare garanzie del cittadino imputato e ragionevole durata del processo.

E invece, la giustizia ha bisogno di un organico intervento riformatore, preparato da un movimento culturale ampio e profondo, sostenuto da quella cultura della giurisdizione che accomuna avvocati e magistrati. Ha bisogno della loro unitaria riflessione, alimentata dalla loro comune frequentazione delle aule giudiziarie, dal loro consueto confrontarsi con i problemi della giustizia del quotidiano. Da questi problemi reali si deve ripartire: comune formazione postuniversitaria dei futuri avvocati e magistrati; maggiore celerità dei processi; possibilità, per la magistratura, di attingere – secondo quanto promesso dall’art. 106 della Costituzione − alle più elevate professionalità degli avvocati; contributo dei consigli dell’ordine ad una più incisiva verifica della professionalità e laboriosità dei magistrati; trasparenza e responsabilità nelle scelte organizzative degli uffici e in quelle di politica giudiziaria, in un circuito di discussione che coinvolga, insieme agli avvocati, anche le espressioni democratiche delle comunità locali. Non bisogna però coltivare l’illusione che tutti i problemi della giustizia si possano risolvere con riforme ordinamentali. Queste ultime potranno contribuire ad avere magistrati più preparati e responsabili ma non potranno certo compiere il miracolo di una giustizia più veloce ed effettiva.

Gli avvocati, che quotidianamente frequentano le aule di giustizia, ne sono consapevoli. E penso che l’avvocatura associata abbia il dovere di maggiormente riflettere su questo punto: se la ricerca della verità nel singolo caso non è un cruccio che assilla il difensore (doverosamente comunque schierato dalla parte del suo assistito) il buon funzionamento dell’apparato giudiziario è invece questione che tocca anche la credibilità dell’avvocatura. Non si può certo pretendere che il singolo avvocato rinunci ad un’istanza processuale che potrebbe portare alla prescrizione del reato attribuito al suo cliente. Ma l’avvocatura in quanto tale, l’avvocatura come “intellettuale collettivo” non può sottrarsi al compito di contribuire ad individuare soluzioni che rendano i processi più brevi senza che siano meno garantiti.

L’intollerabile lunghezza del processo penale non viola soltanto il principio della ragionevole durata di cui al comma 2 dell’art. 111 Costituzione. Perché, se si assolve un innocente dopo un processo durato tanti anni, a ben vedere, si vanifica anche il principio del favor rei (per il motivo molto semplice che – come tutti noi operatori del diritto ben sappiamo – il processo è già di per sé una sanzione; e più dura il processo, più afflittiva è questa sanzione). Ma anche la giusta condanna di un colpevole, se interviene a molti anni di distanza dal fatto, viola i principi dell’art. 133 cp (nella parte in cui la norma dice che, nel determinare la pena, il giudice deve tener conto, tra gli altri fattori, del carattere del reo, della sua condotta antecedente, contemporanea o susseguente al reato, nonché delle sue condizioni di vita individuali, familiari e sociali). E tutto ciò costituisce una violazione dell’art. 27 della Costituzione.

Una discussione onesta sul tema della ragionevole durata del processo deve partire da un dato di fatto: un sistema che veda, insieme, obbligatorietà dell’azione penale, processo con tre gradi di giudizio normalmente percorsi senza filtri; impraticabilità politica di ogni amnistia, blocco del turn over per il personale amministrativo, è un sistema che non regge.

Non solo non regge in Italia, dove le risorse per la giustizia sono all’osso. Non reggerebbe in nessun altro Paese.

Un’illusione che, fino al 1992, si poteva far finta di coltivare grazie alle amnistie che, ogni tre o quattro anni, ripulivano gli armadi dei pretori da pile di fascicoli per reati minori.

Nel 1992, riformando l’articolo 79 della Costituzione, si previde che, per concedere un’amnistia, fosse necessaria la maggioranza dei due terzi del Parlamento. E così, essendo tale maggioranza politicamente irraggiungibile, non vi son più state amnistie.

Ma non è certo migliorata la capacità del sistema giudiziario di far fronte alla valanga di fascicoli che – a causa di una litigiosità sempre crescente e di una “panpenalizzazione” che per decenni ha caratterizzato il nostro sistema – ogni giorno si abbatte sulle procure.

Anzi, la situazione è peggiorata, per il cronico mancato rinnovo del personale amministrativo.

La conseguenza di questa nuova situazione è l’ingolfamento del sistema, con l’allungamento impressionante dei tempi del processo e l’estinzione per prescrizione di decine di migliaia di reati: non solo quelli “bagatellari”, che un tempo cadevano sotto il colpo di spugna di periodiche amnistie, ma anche delitti gravi, la cui cancellazione costituisce un’offesa inaccettabile per le vittime.

Per attenuare questo disastro, da quando le amnistie sono scomparse, i procuratori della Repubblica sono stati costretti a esercitare, nella trattazione dei fascicoli, una sorta di “triage” giudiziario: delle “scelte di priorità” che tentavano di ancorarsi a parametri di gravità del fatto, rintracciabili nei codici: in particolare, avendo come punto di riferimento l’art. 132-bis att. cpp che detta, per il giudice, criteri di priorità nella fissazione dei processi.

Negli ultimi due anni, questa situazione è in parte cambiata, grazie a due riforme.

Infatti, nel gennaio 2016, sono stati depenalizzati vari reati minori (per alcuni dei quali è ora prevista una sanzione amministrativa).

E prima ancora, nel marzo 2015, è stata introdotta una delle più significative riforme di questi anni: l’articolo 131-bis del codice penale. Che ha previsto la possibilità che, su richiesta del pubblico ministero, il giudice possa escludere la punibilità di alcuni fatti che, pur costituendo formalmente reato, siano «particolarmente tenui». Una tenuità che va verificata in concreto, tenendo conto della lievità del danno, delle modalità e della non abitualità della condotta, con una scelta di buon senso, da praticare caso per caso. Con un procedimento che chiama in causa, mettendoli nella possibilità di interloquire, sia l’imputato sia la vittima del reato.

Sono due riforme importanti, destinate a produrre nuova efficienza: lo sfoltimento di tanti processi inutili consentirà ai magistrati di procedere più celermente per i reati più gravi.

Bastano queste due riforme? No. Non bastano.

È necessaria, nella testa degli operatori di giustizia, una piccola rivoluzione culturale che interpreti l’articolo 112 della Costituzione non come principio secondo cui l’azione penale deve essere tempestivamente esercitata per tutti i reati (e che ogni procedimento debba andare avanti allo stesso modo), ma come affermazione secondo cui il pubblico ministero non può decidere di non esercitare o ritardare l’azione penale per ragioni di convenienza, in modo arbitrario. È, questa, un’interpretazione dell’articolo 112 che riprenderebbe lo spirito dell’originario articolo 8 formulato da Calamandrei che, nella seconda sottocommissione della Commissione redigente, aveva proposto questo testo: «L’azione penale è pubblica, e il Pubblico Ministero ha l’obbligo di esercitarla in conformità della legge, senza poterne sospendere e ritardare l’esercizio per ragioni di convenienza».

Il che significa che quando il mancato tempestivo esercizio dell’azione penale è dovuto al limite oggettivo della capacità di smaltimento non solo delle procure ma dell’organismo giudiziario nel suo complesso, l’articolo 112 è rispettato.

Non diciamo nulla di nuovo o di originale, se è vero che già nel 1979 Giovanni Conso scriveva che: «Di un’obbligatorietà nel senso pieno del termine non è possibile parlare in concreto […]. Ad essere obbligato, anche a causa della carenza dei mezzi, non è tanto l’esercizio dell’azione penale, quanto il compimento di scelte prioritarie, il cui prezzo è non di rado l’accantonamento di casi ritenuti non prioritari sul binario scontato della prescrizione» [4].

A ben pensare, l’irragionevole lunghezza dei processi è la madre di tutti i mali della nostra giustizia penale.

Quando, questa mattina, sentivo i nostri relatori elencare le aberrazioni dell’attuale processo penale e del clima che lo circonda – il «bisogno immediato della condanna», di cui ci parlava il professore Oliviero Mazza; l’utilizzo del processo come risposta demagogica all’allarme sociale e come anticipazione della pena; lo “spirito del popolo” che nella celebrazione del processo deve andare oltre la “Legge” (ci ricordava il professor Daniele Negri); il pauroso coniugarsi di populismo giudiziario e populismo politico (evocato dall’avvocato Lorenzo Zilletti) – pensavo che tutte queste malattie sono figlie dell’eccessiva durata del processo e della nostra incapacità di parlare la stessa lingua e di analizzare, studiare, proporre soluzioni comuni.

E, a proposito, di “populismo giudiziario”, mi sia consentita una breve divagazione. Sono totalmente d’accordo con Paolo Ferrua: l’interpretazione costituzionalmente orientata della norma anche alla luce delle convenzioni europee è sicuramente un nuovo compito oggi affidato al giudice. Ma questi giusti criteri di applicazione della legge sono soggetti a facili abusi. C’è sempre il rischio che essi degenerino. Del resto, la storia del ‘900 è piena di esempi di buoni principi poi degenerati. Basti pensare al rapporto tra l’amor di patria risorgimentale (che mosse gli interventisti democratici nella Prima guerra mondiale) e il nazionalismo che (attingendo alle stesse radici) si sviluppò nel primo dopoguerra.

Per quanto riguarda il nostro processo, il principio giusto è l’interpretazione della legge alla luce della Costituzione. E la sua degenerazione ha un nome preciso: trasformazione dell’interprete della “Legge” in creatore dei diritti (rischio ancor più forte quando si è in presenza di una sempre maggiore pluralità delle fonti, priva di alcuna gerarchia).

Ebbene: la giurisprudenza che tende a creare nuovi diritti (tendenza che negli anni ’70 fu salutata come progressiva) sarà il cavallo di Troia dell’impetuoso travolgimento della legge ad opera dello “spirito del popolo”. E guardate che questo vento ha appena cominciato a soffiare. L’Avvocatura, in questo clima, sarà un baluardo di resistenza culturale a tale degenerazione. Sono convinto che ci riuscirà se non sarà sola e – soprattutto – se sarà capace di farsi carico di inverare anche il principio della ragionevole durata del processo.

*Intervento tenuto al convegno dell’Unione camere penali e del Centro studi “Aldo Marongiu” del 28-29 settembre 2018: Nei limiti della Costituzione - Il codice repubblicano e il processo penale contemporaneo



[1] Progetto preliminare di un nuovo codice di procedura penale con la relazione del Guardasigilli on. Alfredo Rocco, citato in F. Cordero, Procedura penale, Giuffré, VIII ed. (1985), p. 17. e p. 1103. 

[2] Una prima significativa modifica del Codice Rocco si ebbe con il decreto Luogotenenziale del 14 settembre 1944 n. 288 che, modificando l’art. 74 del codice di procedura penale, cancellava la possibilità dell’«archiviazione interna» da parte del pm; prevedendo che, qualora non avesse ritenuto di promuovere l’azione penale, il pm dovesse richiedere al giudice istruttore il decreto di archiviazione. Ma, successivamente a questo decreto del ’44, la situazione fu congelata e non si ebbero, per più di dieci anni, modifiche che anche solo minimamente adeguassero l’ordinamento giudiziario e i codici alla nuova Costituzione.

[3] La riforma fu voluta dal ministro Michele De Pietro, avvocato leccese di formazione liberale e poi eletto in Parlamento nella Dc, per cui fu Guardasigilli nel Governo presieduto da Mario Scelba (dal 10 febbraio 1954 al 6 luglio 1955). De Pietro, inoltre, presentò il primo progetto della legge attuativa del nuovo Csm secondo i principi costituzionali (riforma poi varata nel 1958). E quando nel luglio ’59 fu costituito il primo Csm, De Pietro fu eletto membro laico e come tale ricoprì la carica di Vice-Presidente. Questo dato storico andrebbe più spesso ricordato: perché ci rammenta che la costruzione concreta dell’indipendenza della magistratura ha, alla base, l’attivismo culturale e politico dell’avvocatura.

[4] Cfr. G. Conso, Introduzione a AA.VV., Pubblico Ministero e Accusa Penale. Problemi e prospettive di riforma, Bologna, 1979, XVI.

18/02/2019
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