Magistratura democratica
Prassi e orientamenti

Per un modello leggero (ma non un “guscio vuoto”!) di ufficio per il processo

di Roberto Braccialini
Giudice del Tribunale di Genova
Giugno 2003. In coda ad un dibattito veramente intenso promosso dall’Associazione nazionale magistrati su protocolli, processo e organizzazione, sulla scia delle riflessioni maturate in quel contesto sul valore essenziale dell’organizzazione delle risorse a disposizione della giurisdizione per rendere effettivo il principio della ragionevole durata del processo, parte uno scambio di corrispondenza molto fitto su questi argomenti tra un giudice civile, un dirigente amministrativo ed un docente universitario che in capo a pochi mesi approda ad una felice formula organizzativa, la quale riassume in sé l’esigenza di coordinare le risorse esistenti in vista della migliore funzionalità per il processo

Il manifesto ideologico dell’ufficio per il processo è del dicembre 2003 e concepisce le risorse della giurisdizione (giudici professionali e onorari; dirigenti e personale amministrativo; stagisti e assistenti, oltre al “polo tecnologico” del Pct) come pilastri di uno stesso obiettivo condiviso.

La formula non viene brevettata e, siccome piace per la sua capacità evocativa di un mondo migliore, almeno dal punto di vista lavorativo, viene rapidamente saccheggiata da tutti, ed in modo particolare dalla politica, che la utilizza per scopi nobili (ad esempio nel 2007, per rimediare al ritardo accumulato nella riqualificazione del personale giudiziario) e meno nobili (lucrare rinvii ed attenuanti di fronte alle ripetute condanne europee e comunitarie per i ritardi nella definizione dei procedimenti).

Ad un certo punto, però, dopo oltre un decennio dall’uscita dal laboratorio, e dopo un primo tentativo abortito di traduzione in un corpus normativo (il d.d.l. Mastella nel febbraio 2007), la formula si trasforma realmente – attraverso un doppio passaggio – in articolato positivo di legge, nel quadro di un percorso legislativo concomitante che punta a rafforzare il ”pilastro tecnologico” dell’ufficio per il processo. Si sta parlando del momento di avvio del processo civile telematico, la cui effettiva funzionalità postula risorse stabili dedicate a funzioni di staff per l’assistenza agli utenti.

Il primo passaggio è la regolarizzazione con atto di normazione primaria dei tirocini formativi, che per molti anni erano stati l’unico effettivo momento di attuazione del complesso progetto di incremento delle risorse per la giurisdizione, in modo da fornire una cornice di riferimento per le esperienze gestite in forma via via meno artigianali da alcuni manipoli di volonterosi presso gli uffici giudiziari della penisola. Esperimenti che, sul corpo iniziale degli stage formativi previsti dalla legge di riforma delle scuole di specializzazione post-universitarie, si erano evoluti anticipando quel rapporto sinallagmatico di scambio tra apporto collaborativo dello stagista al lavoro giudiziario e integrazione della formazione teorica del tirocinante attraverso un “bagno nella concreta pratica giudiziaria quotidiana”, che costituisce il dato qualificante dell’art. 37 L. 111 del 2011 e soprattutto del successivo art. 73 del d.l. 69 del 2013.

Mentre la prima tipologia di tirocini sembra fondamentalmente delineare collaborazioni pensate in linea generale per rimpolpare le risorse amministrative delle cancellerie, non c’è dubbio che nelle intenzioni del legislatore (governativo) i tirocini formativi del 2013 siano invece stati concepiti come risorse aggiuntive date al singolo magistrato (togato), in un’ottica anticipatoria dell’”ufficio del giudice”, che da decenni costituiva una  richiesta inesaudita dell’associazionismo giudiziario. Basti dire che lo stagista viene in genere assegnato individualmente per l’intero dell’anno e mezzo di tirocinio a magistrati che ne abbiano fatto richiesta: questa sembra l’interpretazione che ha trovato maggiori conferme applicative nella gestione pratica degli stage.

Il secondo passaggio che qui interessa – o meglio la correzione di rotta rispetto al precedente modello “magistratocentrico” dello stage – è l’art. 50 del D.l. 90 del 2014, che definisce la nuova struttura organizzativa dell’ufficio per il processo. Nella nuova disposizione, i tirocinanti vengono intesi come “risorse aggiuntive” messe a disposizione di tali strutture e, nel successivo decreto attuativo dell’ottobre 2015, vengono messe a fuoco incombenze specifiche degli stagisti presso gli uffici per il processo, che ne comportano l’impegno nella costruzione delle banche date giurisprudenziali di merito. Uno spunto concreto, che viene ripreso anche nelle linee guida che sui tirocini impartiscono l’organo di autogoverno e la Scuola di Formazione dei magistrati.

L’intenzione di valorizzare l’esperienza dei tirocini già maturata in diverse sedi ha però fatto perdere di vista la necessità di risorse stabili, mirate e adeguate, che la teorica dell’ufficio per il processo aveva messo in luce. Pare incredibile che, facendo una breve ricerca sull’ufficio del processo nel “mondo web”, compaiano solo spunti e contributi relativi all’organizzazione/gestione dei tirocini, quando l’ufficio per il processo presuppone un’analisi dei bisogni ed un censimento delle risorse in una prospettiva di competenze professionali stabili e apporti continuativi, che non possono richiedersi ai neolaureati ammessi agli stage.

Per questi ultimi, bisogna mettere in conto dai tre ai sei mesi di rodaggio perché possano essere realmente utili in affiancamento al magistrato affidatario, anche se il periodo di “primo impatto formativo” può essere ridotto da avvicendamenti tra vecchi e nuovi stagisti, realizzati con cadenze tali da consentire un efficace trapasso di nozioni e cognizioni elementari di base tra i tirocinanti.

Per queste ragioni, va colta ed apprezzata la novità che sta alla base della recente riforma della magistratura onoraria di cui alla L. 57 del 2016 la quale, innestando un pezzo di ufficio del processo nella non più dilazionabile modifica del giudice di pace e delle figure dei Vpo/Got, ha spezzato una chiara lancia a favore di risorse stabili e da subito operative per alcune delle attività che oggi sono svolte solo da stagisti. Si prevede infatti che i nuovi Gop operino per un biennio come assistenti del giudice professionale nelle attività di ricerca dei materiali giurisprudenziali e nella preparazione delle udienze [art. 2.5 lett. a) n. 1) della Legge 57 del 2016].

Passati due anni dalla fondamentale tappa dell’art. 50, mentre il Ministero ha fatto la sua parte finanziando gli stage e con il decreto attuativo dell’ottobre 2015, le realizzazioni pratiche di uffici per il processo nella realtà nazionale si contano in poche unità e si risolvono principalmente nella centralizzazione di servizi amministrativi condivisi pre e post-udienza.

Per il resto, si ha la sensazione che si parli ancora di un “guscio vuoto” perché, ad esempio, nell’elaborazione del Consiglio superiore l’ufficio del processo ha costituito solo oggetto di censimento per quanto riguarda le buone prassi, per la valutazione dei dirigenti e come argomento topico nella sede formativa della SSM; ma il recente riferimento che è stato fatto ad esso, nell’ultima circolare sulla formazione delle tabelle per il prossimo triennio 2017-2019, non va significativamente oltre la riproduzione dell’articolato normativo.

Segnali di rinnovato interesse si colgono nella recentissima circolare sulla protezione internazionale in cui, prendendo spunto anche da positive anticipazioni negli uffici – come quella estremamente interessante del Tribunale di Roma – si colgono precise indicazioni consiliari perché l’ufficio del processo sia incardinato dentro le sezioni, e non sopra.

Può essere che il silenzio che regnava nella normativa secondaria consiliare corrispondesse ad una politica di “liberi tutti” consistente nel riconoscere agli uffici giudiziari la più ampia facoltà di sperimentazione e adattamento “soggettivo”, prima di far calare dall’alto indicazioni che ingesserebbero spunti positivi della pratica, in una materia che esige adattamenti locali e mal si presta a linee guida indifferenziate? Ma allora l’esigenza di “far sapere”, che segue le fasi del “saper fare” e del “fare”, dovrebbe portare ad una più precisa rendicontazione delle esperienze diffuse sul territorio, che si stenta a credere limitate ai noti esempi milanese e torinese, attraverso sedi e momenti divulgativi adeguati quale potrebbero essere la previsione tabellare o il programma di gestione dell’art. 37 L. 111/2011.

Certo è che va meglio organizzata la raccolta e l’interscambio delle sperimentazioni locali, che si potrebbe realizzare attraverso un preciso input del Csm affinché progetti di uffici per il processo siano acclusi alle tabelle giudiziarie o forse più propriamente ai progetti gestionali degli uffici; nonché mediante un sito, cogestito da Ministero e Consiglio Superiore, di catalogazione di tutti i progetti organizzativi che hanno voluto dare concretezza alla novità legislativa del 2014 ed all’inciso della L. 57/2016 sulla fase di esordio della magistratura onoraria. Perché, se è vero che la stessa norma istitutiva parla di direttive attuative circa l’ufficio per il processo che dovrebbero dare il Ministero ed il Csm «secondo le rispettive competenze», è mai immaginabile uno sviluppo di esso senza una “leale cooperazione” tra tali organi apicali, nel solco del disegno ordinamental/organizzativo di cui all’art. 110 della Costituzione?

Alla luce delle ancora scarne esperienze applicative, che portano più di un commentatore a parlare di “guscio vuoto”, viene spontanea una domanda: non è che il calo dell’attenzione sull’ufficio per il processo è dipeso anche da un difetto che sta nel manico, vale a dire la stessa definizione normativa dell’Upp come “sovrastruttura” che sembra trascurare – con la sua “specialità” – la normale articolazione in sezioni degli uffici giudiziari?

La definizione dell’art. 50 fa intravedere una struttura calata dall’alto all’interno dell’assetto organizzativo già esistente e questo lascia trasparire la necessità di risorse esogene, mentre bisogna forse agire prima dall’interno, con le risorse esistenti in un determinato ufficio giudiziario. Se fosse proprio questo richiamo esogeno a favorire quel diffuso atteggiamento scettico per cui nell’opinione di molti, con le attuali risorse disponibili, non è possibile alcun progetto innovativo sul terreno organizzativo?

Il modello “pesante” di ufficio del processo, quello che presuppone strutture organizzate distinte e sovrapposte rispetto al normale assetto organizzativo degli uffici giudiziari, rischia quindi di alimentare gli alibi per giustificare l’assenza di ogni progettualità. Si corre davvero il rischio di rinunciare preventivamente al percorso virtuoso che, partendo dal censimento delle risorse esistenti, analizzando i bisogni degli uffici, operando una ricognizione delle risorse, verifica nel concreto se ci sono spazi di lavoro recuperabili e modalità alternative di impiego più fruttuoso delle risorse disponibili.

Per questo, alla visione “pesante” di una sovrastruttura organizzativa, si dovrebbe contrapporre un “modello leggero di ufficio del processo”, una visione prima “relazionale“ (all’interno delle sezioni o delle articolazioni già esistenti degli uffici) e poi istituzionale (per le funzioni di staff: statistica, informatica applicata, uffici-copia) dei rapporti tra i noti e individuati “pilastri organizzativi”.

In questa logica, le sezioni giudicanti (nei tribunali divisi in sezioni) costituiscono il perno centrale dell’Upp. È possibile da subito prefigurare la trasformazione delle riunioni previste al loro interno dall’art. 47 quater oltre il solo compito di coordinamento giurisprudenziale, ma anche come luogo di analisi e proposta organizzativa: il che chiama in causa il ruolo e la responsabilità dei presidenti di sezione per una gestione discussa e condivisa delle risorse aggiuntive.

Proviamo a scendere dal piano della teoria alla pratica concreta con qualche progressivo “assaggio” del modello relazionale che abbiamo sperimentato nel nostro tribunale.

In un primo momento, si è messo mano a strutture condivise (con le risorse esistenti) realizzando una «commissione per l’innovazione», composta da magistrati e amministrativi, nata per semplificare il passaggio verso il processo telematico, che ha svolto una funzione traghettatrice in quel momento di svolta anche come interlocutore della rappresentanza forense (è stato così varato un protocollo per il Pct messo a punto di concerto).

Per coordinare i tirocini di cui alla vecchia convenzione con la Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali e quelli dell’art. 73 è stato creato un organo composto da cinque magistrati, tre per il civile e due per il penale, che può contare sul supporto della segreteria della presidenza per gli aspetti comunicativo-amministrativi.

Nell’ambito della riflessione sulla migliore utilizzazione delle cancellerie, è stato varato il documento organizzativo sulle cancellerie n. 111 del 2015, diretto alla riorganizzazione degli uffici amministrativi a servizio della giurisdizione in vista di una partenza operativa dell’ufficio per il processo, che merita attenzione per almeno tre buone ragioni.

In primo luogo, è un provvedimento della “dirigenza integrata” emanato a doppia firma dal presidente del tribunale e dal dirigente amministrativo. Per quasi mezzo secolo, il tema della doppia dirigenza ha costituito terreno di scontro tra politica e giurisdizione assumendo toni talora da crociata ideologica e soprattutto facendo perdere di vista il fondamentale principio desumibile dal coordinamento tra l'articolo 101 e l'articolo 110 della Costituzione: la necessità di una leale collaborazione tra gli organi dello Stato per un funzionamento efficace della macchina della giustizia.

La riforma del 2006, con gli artt. 1, 2 e 3 del D. lgs. 240, ha messo un punto fermo di carattere positivo in tale disputa, con il quale occorre necessariamente fare i conti ed il cui senso è oggi abbastanza esplicito: difficile immaginare risultati positivi, per il “servizio giustizia”, se non vi è condivisione tra magistrati ed amministrativi di un medesimo disegno strategico costituzionale ispirato all’art. 111.

Chi voglia leggere tra le righe l'ordine di servizio genovese, ed abbia una qualche conoscenza dell'ufficio giudiziario da cui esso proviene, si renderà immediatamente conto che alla base di esso non vi è solo il comune intento delle due dirigenze di far funzionare le cose in termini di celerità dei tempi processuali. Vi è anche un’attenzione dedicata alle “aree critiche” della giurisdizione civile, i settori che si definiscono con terminologia ospedaliera o militare come “pronto soccorso” o “prima linea”, quelli che non possono mai rimanere sguarniti.

In secondo luogo, viene fatta una puntuale scelta di modello che presuppone non già la costituzione di un ufficio del processo “esterno”, separato dal resto della gestione complessiva delle cancellerie; né una semplice centralizzazione di alcune funzioni di staff di queste ultime, che pure sono alla base di qualunque progetto teorico di ufficio per il processo. Le funzioni centralizzate non sono contemplate in questo provvedimento perché in realtà questo genere di servizi sono già disciplinati da precedenti provvedimenti organizzativi che riguardano ad esempio il settore dell'innovazione, quello dell'assistenza informatica con la creazione di due “referenti amministrativi” e  si spera un giorno, quando vi saranno le risorse previste dal contratto collettivo  riguarderanno anche quello statistico. E qui ci sarebbe da esprimere più d’una perplessità sui servizi di assistenza informatica collocati esternamente agli uffici giudiziari, ma non mettiamo troppa carne al fuoco: ci basta rinviare alle conclusioni al riguardo delle ultime due Assemblee nazionale degli Osservatori civili, in cui si è parlato dei limiti di efficacia che nascono dalla collocazione delle strutture amministrative informatiche fuori dagli uffici giudiziari e sull’efficienza dell’assistenza tecnica in solo outsourcing.

La preoccupazione della dirigenza genovese è poi quella di incardinare il nuovo modello organizzativo presso le sezioni giudicanti, secondo l'unico schema possibile con l'attuale penuria delle risorse, le quali sono ben lontane dal consentire di attrezzare tanti uffici del giudice, quanti sono i magistrati giudicanti. In questo modo viene meno qualunque interesse alla corsa all'accaparramento del collaboratore (stagista, amministrativo o Got/Gop) che più aggrada al singolo giudice, ma si cerca invece di impostare un nuovo modo di ragionare tutti insieme, all'interno delle sezioni, su come utilizzare al meglio i mezzi esistenti e le risorse umane disponibili.

Dunque, l'ordine di servizio in esame presuppone che ci sia un tessuto organizzativo nelle sezioni giudicanti già rodato, nel quale esiste l'abitudine quotidiana al confronto (ex art. 47 quater Ordinamento giudiziario, e oltre) non solo sui temi strettamente giurisprudenziali, ma anche sul terreno organizzativo.

In questo modo perde consistenza anche qualunque remora o timore sul ruolo dei presidenti di sezione, i quali non diventano gli esclusivi amministratori per diritto proprio delle risorse disponibili, ma devono essere capaci di dibattere con i colleghi magistrati, con i dirigenti di cancelleria e con il personale addetto anche le questioni sulla distribuzione del lavoro per l'attività di preparazione-assistenza-post assistenza rispetto all'udienza. In altri termini, i presidenti di sezione nuovo look devono essere capaci di stimolare un “ragionamento condiviso” perché il buon funzionamento delle unità di base della giurisdizione, al tempo stesso “cellule nervose” e “fibra muscolare” nei nostri uffici giudiziari, presuppone anche al primo livello operativo una condivisione strategica degli obiettivi e quindi un confronto costante e a tutto campo su priorità, disponibilità, servizi resi e inadeguatezze riscontrate.

Il terzo profilo di interesse e originalità, per il quale il provvedimento genovese merita di essere conosciuto oltre la stretta cerchia circondariale, è il censimento-analisi che compie circa i bisogni e le disponibilità: un'attività ricognitiva che può essere realizzata subito presso ogni ufficio giudiziario, prima ancora che il Ministero e il Csm realizzino le linee guida sull’ufficio del processo che sono previste dall'articolo 50 della legge istitutiva.

Dal punto di vista dei contenuti, il provvedimento è stato preceduto da un'analisi del mansionario caratteristico delle cancellerie, adeguato alle nuove esigenze che discendono dall'utilizzazione a regime del processo civile telematico: esigenze che richiederebbero di per sé un ufficio per il processo “al cubo”, come già diceva dalle prime pionieristiche analisi di oltre un decennio fa.

A queste attività di preparazione e assistenza, che riguardano la fase che precede l'udienza, la gestione dell'udienza civile e poi la messa in esecuzione dei provvedimenti, è quindi dedicata una specifica analisi, sezione per sezione, che si completa poi con l'indicazione nominativa del referente di cancelleria a cui vengono richiesti specifici incombenti; così si evita lo schema “tutti fanno tutto con il portiere volante”, che tante volte abbiamo conosciuto in passato.

Naturalmente, si coglie subito un aspetto paradossale e certamente provocatorio che ispira le griglie nominative dell’ordine di servizio, quelle in cui si definisce appunto “chi fa cosa”. Molte di queste recano l'indicazione “N.N.”, tanto per far capire esplicitamente all’interlocutore ministeriale che in questo momento non ci sono le risorse umane per svolgere una serie di attività di supporto e quindi si deve limitare l'assistenza delle cancellerie alla “porzione lavorativa indefettibile”.

È chiaro che questo chiama fortemente in causa le responsabilità della politica, perché non è con alchimie organizzative fatte con i fichi secchi che si possono colmare i vuoti di professionalità specifiche, che in questo modo sono state così analiticamente individuati nel provvedimento.

Ma, alla fine e in soldoni, con questo provvedimento che cosa ottengono i magistrati genovesi in più in termini di assistenza? È una montagna che partorisce il classico topolino? Il dubbio può venire considerando che, alla fine, l'unica novità rispetto alla precedente esperienza organizzativa è costituita dal fatto che viene messa a disposizione e garantita un'assistenza settimanale in più per una sola udienza. Può perciò lasciare un po' perplessi tutto questo gran lavoro ricognitorio e riorganizzativo, che all’esito produce “un assaggino un po’ misero” di ciò che in altri settori (la giustizia penale, la giustizia del lavoro) è una costante ancora oggi, malgrado i vuoti organici paurosi del personale amministrativo: l’assistenza in udienza al magistrato.

Certo, è poco, molto poco, ma è comunque un inizio, qualcosa che prima non c’era e ci abitua progressivamente ad un altro modo di pensare: a “ragionare insieme sugli assetti organizzativi”. Un approccio, che la chiara vocazione sperimentale dell’ordine di servizio genovese e la previsione di un ragionevole tempo di verifica sulle ricadute dovrebbe diventare sistematico.

Nel piccolo, questa prima opportunità è già stata colta a livello locale, tant'è vero che presso una sezione, per esempio, il presidente non ha deciso motu proprio come gestire questa possibilità in più: ne ha discusso con i colleghi nell'ambito di una riunione organizzativa mensile e alla fine si è deciso di dedicare questa risorsa aggiuntiva “liberata” dal nuovo riassetto organizzativo all'udienza collegiale di trattazione dei reclami cautelari, che prima veniva sistematicamente svolta lasciando la verbalizzazione ai giudici del collegio.

Un prossimo “assaggio” anticipatorio dovrebbe riguardare un più perfezionato documento organizzativo del Tribunale genovese sui tirocini formativi all’interno dell’ufficio del processo, nel quale cercare di razionalizzare le disposizioni succedutesi nel 2013 e 2014 sugli stage responsabilizzando il ruolo dei presidenti di sezione nella gestione di queste risorse aggiuntive.

Nella bozza del documento attualmente in gestazione ci si preoccupa di razionalizzare e conciliare logiche normative a tutta prima incompatibili (gli artt. 73 D.l. 69/2013 e 50 D.l. 90/2014). Le sezioni giudicanti devono partecipare – per chi ha avviato la riflessione in proposito – alla gestione del tirocinio non già concependolo quale semplice ausilio individuale per i magistrati, ma sulla base di una riflessione comune tra i magistrati sul significato, limiti, utilità e proficuità dello “scambio sinallagmatico” tra formazione e attività collaborativa, che sta alla base delle disposizioni che hanno introdotto i tirocini in esame.

Diventa così – ancora una volta – centrale il ruolo dei presidenti di sezione, che devono essere in grado di cogliere appieno le utilità che possono provenire dall’impiego di risorse aggiuntive fresche e motivate, incentivando le vocazioni dei colleghi formatori; programmando l’impiego degli stagisti a fini di utilità comune; fornendo utile resoconto sulle concrete utilità acquisite, come pure sulle criticità constatate.

Per i magistrati semidirettivi, la responsabilità per la (co)gestione dei tirocini non può essere concepita in termini puramente volontaristici, come per i magistrati formatori. Una volta assegnato lo stagista ad un magistrato della sezione, il relativo presidente deve intendersi “immediatamente responsabilizzato” sia per il completamento della formazione relativa alle materie e questioni trattate presso la sua sezione, sia per le possibilità di impiego dello stagista a supporto dell’intero gruppo di lavoro: il che comporta un dialogo periodico e costante con il collega affidatario su tali prospettive.

Concludiamo queste riflessioni, che speriamo dotate di “senso concreto” e non solo di generica progettualità, ben consci dei  limiti delle esperienze concretamente messe in campo nel nostro Tribunale e del molto altro che ci sarebbe da fare; senza alcuna supponenza o pretesa di indicare un modello unico da replicare in altre sedi, tanto più che in molteplici altre sedi giudiziarie saranno state avviate esperienze simili e anche più fruttuose: tutti “anticipi” più o meno consapevoli di ufficio per il processo.

Siamo i primi a renderci conto che si sta parlando di esperienze sempre necessariamente “in progress”, che non possono non risentire delle specificità dei diversi uffici e funzioni, come pure delle variabili esterne sulle dotazioni umane e finanziare messe a disposizione della giurisdizione. Esperienze tutte, che devono sempre fare i conti anche con mille mutevoli contingenze, come può essere la crescita esponenziale di certi flussi contenziosi, che richiedono le conseguenti immediate variazioni di assetto organizzativo. Si pensi a quello che è accaduto in molte sedi giudiziarie nell’ultimo triennio per le cause sul riconoscimento dello status di rifugiato ed il necessario adeguamento della risposta giudiziaria alla domanda di protezione dei diritti fondamentali.

Pur con tutte queste criticità, è nostra opinione che il modello “leggero” di ufficio per il processo si adatti a tutte le realtà giudiziarie e non abbia bisogno di contributi esterni per le sue prime realizzazioni, “assaggi o assaggini”, perché si tratta in sostanza di “un metodo” e non “un organo”, che si avvale in prima battuta dei “pilastri” organizzativi già disponibili per razionalizzare procedure e gestione di risorse. Poi, se nelle more aumentano gli investimenti in mezzi e personale (si pensi ai nuovi fondamentali reclutamenti di assistenti giudiziari) e si mette mano sul serio alla riorganizzazione della magistratura onoraria nel solco della legge 57/2016, tanto di guadagnato… .

L’espandersi di questo modello alternativo “leggero”, di cui dare conto nella sede tabellare o di organizzazione generale dell’ufficio, sezione per sezione, comporterebbe all’inizio un florilegio un po’ anarchico delle prime esperienze applicative, ma diventerebbe un arricchimento culturale notevole se diventasse uno strumento per “stanare” tutti i magistrati, costringendoli a confrontarsi sui modelli organizzativi e sull’impiego concreto delle risorse disponibili, rifuggendo da due errori di fondo: l’idea che nulla può essere fatto fin quando gli organici amministrativi e magistratuali non saranno completi e saturi; e quella, non meno infelice, che l’organizzazione dell’ufficio sia un “affare di altri” di cui si devono occupare solo i dirigenti o i semidirettivi.

La valenza un po’ provocatoria delle caselle contrassegnate come “N.N.” nel documento organizzativo genovese sulle cancellerie, di cui abbiamo appena parlato, ne è la riprova: anche nel vuoto o nell’insufficienza di risposte ministeriali o consiliari c’è modo di organizzare un servizio migliore.

O almeno, vale la pena provarci!

02/05/2017
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