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Il ruolo delle Procure della Repubblica di fronte alla nuova normativa sulla Procura Europea *

di Giovanni Melillo
procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo

Per affrontare le complesse e importanti sfide poste dall’ avvio della Procura Europea, occorre collocare il rapporto di collaborazione reciproca con le Procure nazionali in una prospettiva di mutua cooperazione, istituzionale ed operativa, quotidianamente proiettata verso la condivisione delle analisi dei fenomeni criminali, la definizione di comuni strategie operative e la razionale gestione delle risorse disponibili. 

1. L’imminente avvio dell’operatività nella concreta esperienza giudiziaria italiana dell’ufficio del Procuratore Europeo, secondo uno statuto di piena indipendenza ed una visione alta della sua funzione che l’Italia ha non poco contribuito a definire  nel corso di lunghe e faticose negoziazioni, costituisce un evento memorabile per quanti hanno sempre condiviso l’idea che, da un certo punto in poi del processo di costruzione europea, non sarebbe stato più soltanto lo sforzo di armonizzazione delle leggi nazionali a guidare la realizzazione dello spazio giudiziario europeo, ma sarebbe stata l’integrazione delle strutture e degli apparati ad imporre regole giuridiche tendenzialmente uniformi, anche di rango o di incidenza costituzionale, nei singoli sistemi nazionali.

Questa pregiudiziale dichiarazione di fiduciosa condivisione della prospettiva nella quale si svolgerà il cammino appena intrapreso dalla Procura Europea, naturalmente nulla toglie alla consapevolezza della complessità e della serietà dei non pochi nodi interpretativi e di non minori criticità organizzative.

Si tratta, tuttavia, di asperità concettuali e pratico-applicative inevitabili, tutte inscritte nella assoluta originalità della prospettiva, ormai divenuta realtà, del passaggio a forme di cooperazione verticale coraggiose quanto necessarie, che di per sé comportano l’abbandono o la sostituzione di veri e propri architravi dei singoli sistemi nazionali[1].

Dal punto di vista del pubblico ministero nazionale, le une e le altre esigono, per essere affrontate adeguatamente, la pregiudiziale rinuncia a guardare ad EPPO come soggetto processuale in minacciosa competizione, nello spazio fin qui monopolistico delle procure della Repubblica, dell’esercizio dell’azione penale e delle funzioni di direzione della polizia giudiziaria, imponendosi invece la visione di una nuova e più ardita architettura delle relazioni processuali, all’interno della quale le prerogative dell’uno e delle altre si integrano e si arricchiscono reciprocamente.

L’assenza di note dolenti o nostalgiche nulla toglie alla necessità di indicare alcuni profili potenzialmente critici del rapporto con la Procura Europea che, inevitabilmente, nasceranno, innanzitutto, sul delicato terreno della percezione nel nostro sistema del significato e del valore delle straordinarie novità che abbiamo di fronte.

Non ci si riferisce tanto al pur serio problema della perdurante, ridottissima diffusione della conoscenza della nuova disciplina e della conseguente capacità di molti di semplicemente immaginare il suo reale impatto, quanto all’inevitabile difficoltà di approccio con alcune, obiettive e mai sperimentate novità.

In primo luogo, banalmente, pubblici ministeri, giudici e avvocati italiani dovranno misurarsi presto con un soggetto titolare in via esclusiva dell’azione penale, che programmaticamente seleziona gli affari da trattare e come tale concentra su un numero ridotto e qualificato di casi risorse delle quali vi è ordinaria penuria in ambito nazionale, ciò che comporta il rischio del maturare di percezioni negative della necessità di un rapporto di collaborazione con il sistema nazionale che deve invece poter sempre nutrirsi di piena condivisione informativa e di tempestive concertazioni operative.

Analogamente, lo stesso sforzo di adattamento, psicologico prima ancora che dei comportamenti e della prassi, richiederà il fatto che la Procura Europea, per quanto potrà modulare i propri orientamenti in dipendenza delle caratteristiche dei 22 diversi sistemi nazionali coinvolti in questo modello di cooperazione rafforzata, inevitabilmente si muoverà secondo policies, priorità e logiche organizzative necessariamente unitarie, ciò che, soprattutto nella fase iniziale, rischierà di essere percepito come fattore non necessario di rigidità delle scelte, anche pratiche, del Procuratore Europeo, con conseguente, analogo rischio di sensibile riduzione della fluidità dei circuiti informativi con le procure nazionali.

Infine, appena più in là sullo sfondo dei problemi presto visibili a tutti, vi è tutta la delicatezza e la problematicità dell’inevitabile impatto di regole organizzative della Procura Europea finalizzate ad orientarne le prassi investigative e processuali che, inevitabilmente, finiranno per divenire abituali, incrociandosi e reciprocamente influenzandosi con criteri di priorità e prassi operative interne. Soprattutto la prima fase rischia di essere negativamente segnata dalla percezione delle notevoli differenze fra il modello di organizzazione interna dell’ufficio del pubblico ministero italiano e lo statuto interno di EPPO, connotato da procedure di adozione, monitoraggio e riesame interno delle determinazioni essenziali concernenti l’esercizio dell’azione penale e le principali scelte investigative, che ad un indubbio valore di gerarchizzazione interna associano anche un’originale ricerca delle garanzie di collegiale ponderazione e di uniforme trasparenza delle decisioni.

D’altro canto, inevitabilmente, alcuni nodi problematici, fin qui confinati in un sovente asfittico dibattito nazionale, poiché direttamente o indirettamente rilevanti per l’efficienza e la trasparenza della giurisdizione italiana (a partire dal cruciale tema della ragionevole durata dei processi), finiranno per essere attratti nell’orbita di considerazione della Procura Europea, divenendo, finalmente, questioni istituzionali e politiche europee.

Potrà essere, ad esempio, presto interessante notare l’effetto, nel sistema dell’Unione, della pratica constatazione della intrinseca debolezza dei modelli di incriminazione utili al controllo del rischio di abuso criminale dei finanziamenti del Recovery Fund offerti dalle attuali previsioni degli articoli 316-bis, 316-ter e 640-bis c.p.,  inutilmente fin qui denunciata nel dibattito nazionale.

Naturalmente non mancano né appaiono secondari i nodi problematici sul piano prettamente interpretativo, imponendosi una visione del contatto con la nuova normativa capace di prevenire ogni rischio di attrito e collisione.

 

2. Concentrando ogni osservazione sui temi direttamente incidenti sulle attribuzioni processuali delle Procure della Repubblica chiamate in causa dall’operatività di EPPO, si evidenzia  immediatamente  la necessità di dare subito senso e fluidità al dialogo fra Procura Europea e sistema requirente nazionale.

Tale esigenza riguarda due distinte ma convergenti aree tematiche.

Da un lato, quella precipuamente concernente le indagini e le determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale relative ai cd. reati PIF, in relazione alla quale il ruolo del pubblico ministero nazionale ha natura eventuale perché condizionato, sospensivamente o risolutivamente, al mancato esercizio dei poteri del Procuratore Europeo, rispettivamente di avvio e di avocazione delle indagini.

Dall’altro lato, viene invece in rilievo l’area problematica, a ben vedere di assai maggiore delicatezza, che concerne la necessaria dimensione di coordinamento delle indagini delle procure nazionali riferite a reati connessi o collegati con quelli oggetto delle indagini del Procuratore europeo delegato.

Tema, quest’ultimo,  destinato ad imporsi in misura inversamente proporzionale al self-restraint con il quale la Procura Europea orienterà, nei casi di maggior rilievo, le scelte di espansione del proprio ambito di intervento, da un lato verso le condotte di partecipazione ad organizzazioni criminose “incentrate” sulla commissione di reati che offendono gli interessi finanziari dell’Unione e, dall’altro lato, verso le condotte indissolubilmente collegate ai medesimi illeciti.

È evidente che l’ampiezza e la complessità di questa seconda area problematica risentiranno grandemente dell’impatto delle opzioni interpretative e delle prassi applicative che prevarranno nel riconoscimento delle condizioni di avvio e di avocazione delle indagini ad opera della Procura Europea collegate al ricorso a quelle due clausole di espansione della legittimazione investigativa esclusiva del Procuratore Europeo.

Nell’uno e nell’altro dei campi di confronto delle sfere di attribuzione processuale del Procuratore Europeo e delle Procure della Repubblica, in ogni caso, si impone una stringente logica di mutua cooperazione, istituzionale ed operativa, necessaria per controllare il rischio di reciproche chiusure informative e di unilaterali visioni di temi e prospettive di indagine che invece - sarà la regola nei casi appena complessi - esigono confronto e capacità di ascolto.

In buona sostanza, il rischio principale coincide con una sorta di unilateralismo degli approcci ai temi investigativi più delicati e complessi, ben possibile, da un lato, in una istituzione radicalmente nuova e come tale protesa ad affermarsi anche sul terreno della visibilità istituzionale (a maggior ragione nella stagione del Recovery Fund), e, dall’altro lato, in autorità nazionali che percepiscano quella Istituzione come soggetto da guardare con la diffidenza di chi teme di perdere centralità del proprio ruolo. 

Nello scenario italiano, la prevenzione di quei rischi sarà obiettivamente agevolata, oltre che dalla condivisione di un comune statuto di indipendenza, da alcuni fattori ambientali favorevoli, costituiti, da un lato, dalla diffusione della cultura del coordinamento investigativo nel sistema requirente italiano e, dall’altro lato, dalla sperimentata ed ormai consolidata efficacia dell’agire del pubblico ministero italiano sul terreno delle indagini in materia di criminalità organizzata, ma anche di corruzione e, più in generale, di criminalità economica: l’uno e l’altro elemento potranno contribuire a rendere il pubblico ministero italiano un naturale ed affidabile partner del Procuratore Europeo nei contesti investigativi più complessi che la nuova istituzione sarà chiamata ad esplorare.

Ma, a ben vedere, la chiave di volta per prevenire ogni rischio riposa nello stesso Regolamento del 12 ottobre 2017 istitutivo di EPPO.

Il Regolamento, infatti, detta molteplici disposizioni ruotanti attorno all’idea che soltanto un rapido e continuo scambio informativo con le autorità nazionali può garantire la funzionalità dell’intera costruzione della Procura Europea e della cooperazione rafforzata che attraverso essa è chiamata a realizzarsi.

Occorre, tuttavia, immediatamente riconoscere anche che quell’idea di rapporto di scambio informativo ha bisogno di essere intesa e praticata in una dimensione alta e originale, in grado di riflettere la peculiare architettura del sistema processuale italiano e per tale via valorizzare la compresenza di due centri di titolarità dell’azione penale.

Un esempio rende immediatamente percepibile la concretezza del rischio di pericolose sottovalutazioni di tale necessità.

Nel Regolamento ricorre continuamente, riferita alla necessità di interlocuzione con la Procura Europea, la nozione di autorità nazionale competente («competent national authority»). 

Un nutrito numero di disposizioni espressamente si riferisce a comunicazioni dovute dalle autorità nazionali o ad esse destinate dal Procuratore Europeo, divenendo riferimenti normativi essenziali alla reale declinazione delle attribuzioni della nuova procura europea.

Chiunque può immediatamente misurare l’intrinseca difficoltà di immediata e stabile individuazione della «autorità nazionale competente» in un sistema processuale, come quello italiano, nel quale la nozione di competenza (che ordinariamente individua anche la legittimazione processuale del pubblico ministero) si definisce concretamente in corrispondenza di elementi fattuali assai variabili e mutevoli, quali quelli corrispondenti ai casi di connessione di cui all’art. 12 c.p.p.

Il tema è reso ancor più instabile e non immediatamente riconoscibile allorquando vengano in rilievo le tipologie delittuose riservate alle indagini delle procure distrettuali, e, fra esse, in particolare, oltre a quelle che coincidono con le fattispecie associative considerate dall’art. 51, comma 3-bis, c.p.p. (ad eccezione dell’associazione contrabbandiera di t.l.e., ormai assegnata in linea immediata e diretta alla competenza della PE), altresì di quelle tali perché connotate dalla speciale aggravante di cui all’art. 416-bis.1 c.p. cui, a ben vedere, corrisponde, trattandosi dell’ipotesi del metodo mafioso, un peculiare caso di riconoscimento legislativo della idoneità di tale speciale ipotesi di connessione probatoria a concorrere alla determinazione del giudice competente ex art. 328, comma 1-bis, c.p.p.

In un sistema del genere, ben si comprende il valore dell’apparente contraddizione fra l’idea che la connessione concorre originariamente alla determinazione della competenza, a tal fine operando già nella fase delle indagini preliminari, e la realtà fenomenologica dell’agire del pubblico ministero, ogni giorno chiamato a contemperare le esigenze di trattazione unitaria dei procedimenti connessi con le ragioni di duttilità e proficuità proprie di una fase pre-processuale.

In questa dimensione, procedendosi dunque per reati connessi, i pubblici ministeri nazionali possono optare per la concentrazione dei procedimenti, d’intesa fra loro ovvero promuovendo un contrasto positivo, ma possono anche promuovere il coordinamento investigativo.

Il p.m., in altri termini, può decidere di coordinarsi anziché rivendicare o disputare la titolarità delle indagini e la relativa opzione è ordinariamente espressa sulla base delle ragioni più varie: di regola, a giustificare il coordinamento sarà la cautela nel giudicare immediatamente dell’esistenza di un legame fra i reati che giustifichi la concentrazione investigativa, ma potrà aversi riguardo anche alla razionalità di una divisione del lavoro che valga ad utilizzare convenientemente le risorse disponibili e le conoscenze già formate (si pensi al caso di un’associazione criminale operante in più distretti, almeno attraverso articolazioni secondarie: le indagini relative potrebbero concentrarsi in capo ad unico p.m., ma anche proseguire solo promuovendo il coordinamento). 

L’area degli elementi utili per orientare le scelte dell’organo inquirente rimane amplissima e difficilmente definibile a priori, potendo nelle valutazioni del p.m. convergere i motivi più disparati, in dipendenza della possibilità di un migliore impiego della polizia giudiziaria, dello stato delle attività d’indagine, delle modalità e delle fasi delle attività delittuose, delle capacità di investimento di specifiche risorse dei singoli uffici, della immediatezza del coordinamento informativo derivante dalla contestuale pendenza presso l’uno od entrambi gli uffici di ulteriori indagini in collegamento fra loro.

Nella pratica può dirsi persino che il favore per il coordinamento anziché per la ricerca dell’accentramento deriva anche dalla proficuità delle forme di collaborazione già sperimentate e dal clima di fiducia consolidatosi nei reciproci rapporti.

In ogni caso, le ragioni prescelte potranno modificarsi nel tempo ed essere soggette a rivisitazione: il p.m. che ritenga la propria legittimazione a procedere per tutti i reati potrà, ad esempio, prendendo atto dell’esito insoddisfacente del coordinamento investigativo, rivendicare la trasmissione degli atti relativi al procedimento connesso e, in caso di rifiuto, promuovere la soluzione autoritativa del contrasto positivo ormai insorto.

Con questa realtà originale e complessivamente equilibrata (tanto più considerando la facoltà difensiva di contestare la legittimazione investigativa del p.m. e di promuovere contrasto) dovrà necessariamente misurarsi anche la Procura Europea,  auspicabilmente partecipando alla costruzione di un più ampio e complesso sistema di cooperazione che si nutra più della fiducia nel coordinamento investigativo con le procure nazionali che del continuo e rigido ricorso alla rivendicazione della forza espansiva della clausole regolamentari in materia di competenza per i reati di partecipazione ad un’organizzazione criminale e di reati «indissolubilmente legati» alle condotte rilevanti per la Direttiva PIF.

Nel già richiamato Regolamento Interno dell’EPPO, a ben vedere, si coglie chiara la consapevolezza di ciò, allorquando, fra i criteri di ingaggio viene indicata, in uno alla maturità dell’indagine o i suoi aspetti transfrontalieri, la «sussistenza di qualsiasi altro motivo specifico che lasci intendere che la PE si trovi in una posizione migliore per proseguire l’indagine».

Una formula che naturalmente esige, per essere coerentemente declinata, il ripudio di visioni unilaterali in favore della ricerca di una piena e tempestiva condivisione del complesso degli elementi fattuali rilevanti.

In altri termini, solo la compiuta condivisione delle informazioni disponibili e il confronto sulle prospettive di lavoro proprie anche delle autorità nazionali potrà disinnescare il pericolo di incomprensioni e contrasti tanto più gravi ove se ne consideri l’impatto negativo sull’impiego razionale dei servizi di polizia giudiziaria e sull’efficacia delle rispettive iniziative.

Nella completezza e nella tempestività dei mutui flussi informativi soltanto si ritroverà la soluzione dei mille problemi della pratica integrazione dei due sistemi di direzione delle indagini e di esercizio dell’azione penale.

Può dirsi, anzi, che, per tale via possa determinarsi anche la pratica sdrammatizzazione delle investibili tensioni correlate a nozioni, quale quella del legame di indissolubilità, che, se pure appartengono esclusivamente al diritto dell’Unione e al relativo monopolio interpretativo della Corte di Giustizia, in fatto abbisognano di concreto riconoscimento in quadri circostanziali variegati e complessi e continuamente in divenire.

Il problema ha, naturalmente, una speciale concretezza ed intrinseca delicatezza sul versante delle indagini in materia di delitti di criminalità organizzata.

Oggi la leadership di molte delle principali organizzazioni mafiose coincide largamente con le strutture di gestione di reti di impresa e circuiti corruttivi che ordinariamente incrociano e minacciano la tutela degli interessi finanziari dell’Unione.

Casi recenti confermano come su questo terreno si assista alla progressiva integrazione delle strutture e delle pianificazioni criminose delle mafie, superando ogni confine di insediamento originario. 

È del tutto evidente, dunque, che la nozione, fondante la “competenza” EPPO, di reato di partecipazione ad un’organizzazione criminale incentrata sulla commissione di frodi e di altri reati previsti dalla Direttiva PIF, sia destinata ad attraversare ambiti cruciali del più complesso sistema di investigazioni mirato alla ricostruzione della struttura e delle attività complessive di un’organizzazione mafiosa, per tale via rivelandosi che le indagini del Procuratore Europeo, anche in caso di avocazione esercitata secondo la più ampia latitudine, verrebbero comunque condizionate nel loro sviluppo e nel loro esito dalla sorte di quelle complessivamente riferite al sodalizio mafioso interessato, così come che quest’ultime, a loro volta, non potrebbero prescindere dalla considerazione dei profili oggettivi collegati alla commissione di reati PIF.

Una materia delicata, non regolabile mediante il ricorso a pur puntuali comunicazioni formali, che invece esige inquadramento e soluzioni possibili soltanto in un quadro di condivisione degli obiettivi e dei programmi investigativi.

 

3. Quanto accennato di per sé origina l’auspicio che sin dall’inizio prevalga un approccio dialogante e pragmatico del Procuratore Europeo sul tema dell’effettiva utilità, in concreto, dell’attrazione nella propria orbita decisionale delle condotte di «partecipazione» ad organizzazioni criminali incentrate sulla commissione di reati che offendono gli interessi finanziari dell’Unione e di quelle individuate attraverso la formula «indissolubile legame» con i reati PIF.

Astrattamente, infatti, potrebbe ritenersi «indissolubilmente legato» il reato di partecipazione del quadro associativo deputato alla pianificazione dei reati PIF al complesso delle altre condotte di promozione, direzione ed organizzazione dell’organizzazione mafiosa in rilievo, con intuibili rischi per la completezza e l’organicità dei relativi programmi investigativi, inevitabilmente privati della conoscenza della realtà complessiva dell’organizzazione criminosa ovvero esageratamente dilatati nel tentativo di abbracciarne la reale dimensione. 

Anche ciò conduce a dimostrare la necessità di visioni e approcci investigativi che privilegino, nelle scelte della Procura Europea mirate alla concentrazione delle indagini sulle posizioni collegate, una realistica considerazione delle effettive prospettive di efficacia di concezioni rigidamente esclusive delle indagini comunque connesse o collegate a quelle riservate ad EPPO e, per tale via, correlativamente, del valore generale di un forte e costante sviluppo dei rapporti di coordinamento investigativo con le autorità nazionali.

Il Regolamento al riguardo fornisce indici concettuali non del tutto omogenei, ma a ben vedere coerenti con l’idea di un rapporto dialogante. Ad esempio, se formalmente la competenza EPPO può esercitarsi per i reati indissolubilmente legati a quelli PIF senza alcuna preventiva interlocuzione (art. 22/3), non di meno il rischio di «disaccordo» è immediatamente contemplato, prevedendosi che sia un’autorità nazionale a decidere sulla attribuzione del caso. Non solo, ma appena più in là, considerando l’ipotesi di archiviazione del reato «inextricably linked» (art. 34/3), il Regolamento stabilisce che la decisione di archiviare non può essere assunta senza previa consultazione delle autorità nazionali, fra le quali sarebbe difficile non includere le procure nazionali con le quale si era determinato il contrasto.

In altri termini, è disegnata nel Regolamento una complessa trama di riferimenti normativi, l’assetto interpretativo dei quali è tutto ancora da definire, ma che complessivamente appare ruotare attorno all’idea della esistenza di un permanente obbligo di consultazione reciproca. 

Le Linee guida della Procura Europea che saranno presto adottate al riguardo andranno lette nella prospettiva della doverosa ricerca di un approccio unitario alla realtà dei diversi sistemi nazionali, ma è auspicabile che, nella specifica realtà italiana, le relative applicazioni siano assistite e guidate da una dose aggiuntiva di realismo, rifuggendo dagli automatismi espansivi astrattamente propri di formule interpretative che è stato opportuno definire con ampiezza ma che è assolutamente necessario vengano interpretate con grande prudenza e lungimiranza.

Se, dunque, appare ragionevole, quanto al tema cruciale del “legame indissolubile”, la valorizzazione - anche alla luce del richiamo espresso, nei considerando del Regolamento, alla giurisprudenza che, in materia di ne bis in idem, fa riferimento al concetto di identità del fatto materiale, intesa «come esistenza di un insieme di circostanze concrete inscindibilmente collegate tra loro nel tempo e nello spazio» - del nesso teleologico di cui alla lett. c) dell’art. 12 c.p.p., quale criterio attrattivo nella legittimazione investigativa della PE anche del più grave reato strumentale alla commissione dei reati PIF, maggiore perplessità desterebbero scelte che facciano leva - unilateralmente e rigidamente - su una maggiore efficacia della concentrazione in capo ad EPPO delle indagini e dell’azione penale per fatti semplicemente collegati fra loro, ritenuta pregiudizialmente ovvero comunque prescindendo dall’opportuno confronto con gli uffici del pubblico ministero interessati.

In ragione della varietà e complessità dei casi che emergeranno già nella prima fase dell’esperienza operativa della Procura Europea è facilmente prefigurabile, al pari, a mio avviso, la necessità di sviluppare da subito metodi di confronto e di approccio valutativo condivisi, come tali in grado di generare spinte collaborative e non reciproche diffidenze, oltre che, inevitabilmente, pratiche aporie e contraddizioni.

I pubblici ministeri italiani sono generalmente abituati a riconoscere e praticare coerentemente il valore cognitivo della tempestiva e compiuta condivisione delle informazioni nei rapporti di coordinamento investigativo ordinariamente praticati in ambito nazionale e internazionale.

Se si misurano le distanze rispetto ad un passato che della chiusura informativa e del conflitto fra uffici faceva nota distintiva abituale, non potrà che riconoscersi tutto il valore oggi disponibile per integrare pienamente ed immediatamente la Procura Europea nel sistema del coordinamento delle indagini preliminari relative ai più gravi fenomeni criminali, attraverso la leva della piena condivisione delle informazioni e della tempestiva concertazione delle iniziative di rispettiva competenza.

Ne ha assoluto bisogno il parallelo circuito di collaborazione che fa capo ai servizi di polizia giudiziaria, che pure dell’osmosi informativa fra reparti e articolazioni territoriali si nutre e che, sin da oggi, deve misurarsi con la duplicazione dei centri di direzione delle indagini.

Ne ha assoluto bisogno, soprattutto, la serietà del momento e la gravità delle sfide che nuove e vecchie istituzioni giudiziarie hanno di fronte. Soprattutto, nel contesto italiano, segnato dal radicamento esteso e profondo del crimine mafioso e da diffusi fenomeni di corruzione, nel quale la Procura Europea è chiamata ad agire per la protezione degli interessi finanziari dell’Unione.

Nella prospettiva della creazione di una sorta di ideale tavolo permanente per la migliore gestione degli scambi informativi di comune interesse, retto dalle gambe di appositi protocolli operativi fra il Procuratore Europeo e la rete italiana degli uffici del pubblico ministero, risulterà assai più agevole l’inquadramento e la soluzione dei tanti nodi problematici, anche pratico-organizzativi, legati all’imminente operatività della nuova istituzione e alla necessità che essa assuma immediatamente e compiutamente il fondamentale ruolo che il diritto dell’Unione le assegna.

La chiave di volta della nuova architettura non può che individuarsi, dunque, in una comune disponibilità a condividere in tempo reale le informazioni e le valutazioni, non meno che le analisi e le strategie investigative.

 

4. In una dimensione del genere, che avrà probabilmente bisogno, per diffondersi e stabilizzarsi, oltre che di protocolli ed approcci interpretativi convergenti, soprattutto di fiducia reciproca e di prassi operative coerenti, sarà agevole la semplificazione di ogni passaggio procedurale astrattamente suscettivo di corto circuito.

A cominciare dalla fase della instaurazione dei procedimenti. 

Il legislatore delegato ha già fatto alcuni passi importanti. Esattamente nella direzione auspicabile. Come quello di prevedere che la comunicazione della notizia di reato di competenza della Procura Europea venga inviata anche alla procura della Repubblica.

Una scelta che sarebbe sbagliato intendere, dal punto di vista del Procuratore europeo, come menomazione dell’esclusività delle attribuzioni processuali di EPPO, essendo invece semplicemente lo strumento di immediata posizione delle basi di una collaborazione informativa necessaria al pieno esercizio di quelle stesse prerogative.

Protocolli d’intesa o convergenti direttive ai servizi di polizia giudiziaria saranno anzi necessari per chiarire che quella comunicazione di reato dovrà poter essere trasmessa immediatamente dalla polizia giudiziaria non solo alla procura della Repubblica territorialmente competente per quel specifico reato, ma anche alle procure distrettuali, ogni qual volta il fatto riveli profili di collegamento con l’agire delle associazioni criminose di cui all’art. 51, comma 3-bis, c.p.p., esattamente come avviene nelle diffuse e virtuose prassi nel tempo consolidatesi in ambito nazionale.

Allo stesso modo, occorrerà che il sistema delle comunicazioni fra EPPO e «competent national authority» subito si adatti plasticamente a quella medesima complessità del sistema della legittimazione investigativa e della competenza del giudice delle indagini preliminari propria del teatro operativo italiano. 

In mancanza di ciò, le interlocuzioni necessarie alla completezza e alla tempestività delle rispettive investigazioni patirebbero gravi mutilazioni di ogni loro pretesa di efficacia e solidità.

In questa prospettiva, sulla polizia giudiziaria grava la responsabilità di fornire all’organo requirente che abbia delegato lo svolgimento di atti di indagine, di documentarne gli esiti, rappresentando tutti gli elementi fattuali rilevanti per il continuo aggiornamento delle valutazioni in tema di coordinamento delle procedure.

Ma, soprattutto, grava sugli uffici del pubblico ministero, innanzitutto nazionali, la responsabilità di aprirsi alla collaborazione, respingendo ogni tentazione di fare del segreto di indagine lo schermo dietro al quale celare atteggiamenti di chiusura e di resistenza alla logica della necessaria integrazione e del comune sviluppo dei concorrenti sistemi di attribuzione processuale del pubblico ministero nazionale e di quello europeo.

Chiunque dubiti di ciò o guardi con sufficienza e distacco all’importanza di una collaborazione che rifiuti di esaurirsi nella gestione di burocratici canali di formale comunicazione dovrebbe interrogarsi sugli effetti paralizzanti che avrebbe il prevalere di tali atteggiamenti.

Occorre invece collocare immediatamente il rapporto di collaborazione fra Procura Europea e Procure della Repubblica in una dimensione operativa quotidianamente proiettata verso la condivisione delle analisi dei fenomeni criminali, la definizione di comuni strategie operative, la formulazione di convergenti e sostenibili direttive generali ai servizi di polizia giudiziaria, la razionale gestione delle risorse disponibili, l’integrazione e l’implementazione dei rispettivi sistemi informatici.

E questo rapporto di collaborazione deve potersi sviluppare pienamente sin dalla fase genetica delle indagini, nevralgica per la concreta definizione delle strategie investigative e dell’orientamento degli sforzi necessari ad assicurare tempestività e completezza delle investigazioni di rispettivo interesse.

Questo è probabilmente il nucleo cruciale di una funzione di coordinamento che si proponga di prevenire difficoltà e conflitti e di razionalizzare l’agire investigativo. 

 

5. Naturalmente, un importante elemento di rafforzamento della semplicità del sistema degli scambi informativi potrebbe intervenire attraverso un mirato intervento legislativo in tema di criteri attributivi della legittimazione investigativa del pubblico ministero nazionale.

In particolare, credo che la realtà imporrà di valutare l’opportunità di semplificare il sistema di coordinamento informativo fra Procura Europea e Procure della Repubblica attraverso una mirata distrettualizzazione delle materie d’interesse della prima, perché ciò consentirebbe di dare più agevole soluzione a tanti problemi di pratica agibilità delle attività inquirenti e requirenti dei PED, a cominciare dalla conseguente semplificazione delle interlocuzioni proprie della fase delle indagini preliminari, che oggi è anche soltanto difficile immaginare che possano sempre agevolmente dispiegarsi nel rapporto con 140 tribunali e altrettante procure della Repubblica.

Una tale manovra potrebbe realizzarsi in modo ragionevole e praticamente sostenibile, tuttavia, solo se ragionevolmente limitata nella sua portata applicativa.

Riversare nella sfera di competenza distrettuale tutto il catalogo dei reati PIF appare, infatti, scarsamente compatibile con esigenze di razionale ripartizione dei carichi di lavoro all’interno dei distretti, sia sul versante giudicante, che su quello delle corrispondenti procure distrettuali (chiamate a sostenere il peso delle indagini e dell’esercizio dell’azione penale in tutti i correlativi casi di astensione del PED). 

Per quanto innegabili potrebbero essere i benefici in termini di razionalizzazione del rapporto fra giurisdizione nazionale e Procuratore Europeo, una scelta del genere determinerebbe movimentazioni cartacee e impegni gestionali dalla problematica compatibilità con le attuali previsioni di organico degli uffici giudiziari.

Astrattamente, un impatto più ragionevole deriverebbe dalla scelta di far coincidere la sfera di competenza del GIP distrettuale con quella definita dalla scelta del PED di esercitare le proprie attribuzioni processuali, avviando ovvero avocando le indagini, ma sarebbe difficile non scorgere i profili di collisione con il principio di predeterminazione del giudice naturale sottesi ad un criterio che di fatto farebbe dipendere la scelta del giudice da una discrezionale e, di regola, insindacabile scelta dell’organo requirente.

Potrebbe rappresentare un punto di maggiore equilibrio, invece, un criterio di distrettualizzazione confinato ai casi nei quali un’associazione per delinquere sia finalizzata alla commissione di reati PIF.

Sarebbe un criterio di ripartizione dalla pragmaticità già sperimentata (in materia di stupefacenti, contrabbando, immigrazione), che finirebbe per avere indirette ma rapide ricadute positive anche in termini di orientamento giurisprudenziale della definizione dei concetti di partecipazione ad organizzazione criminale e di indissolubile legame con i reati PIF considerati dal Regolamento EPPO.

Del resto, alcune ipotesi del genere sono già distrettualizzate (è il caso dell’associazione contrabbandiera di cui all’art. 291-quater d.P.R. 43/1973) e l’estensione di tale effetto varrebbe a stabilizzare l’inquadramento nei canoni di determinazione della competenza per effetto della connessione di associazioni, come quelle votate alle frodi IVA, sovente caratterizzate da obiettiva volatilità e multiforme e mutevole ancoraggio territoriale.

Ne risulterebbe grandemente agevolata anche la soluzione di quei mille problemi pratici che attengono all’attività operativa dei PED (a partire dalla riduzione delle sedi di giudizio dibattimentale e di definizioni semplificate e anticipata per giungere all’impiego degli Archivi delle Intercettazioni delle sole procure distrettuali e non anche di tutte le altre procure presenti nel medesimo distretto).

 

6. Terminali considerazioni vanno riservate al non secondario capitolo dell’impatto organizzativo dell’avvio dell’operatività di EPPO sulle Procure della Repubblica.

Il complesso degli obblighi informativi da assolvere nelle relazioni cooperative fra procure nazionali ed EPPO impone, innanzitutto, una capacità di dialogo dei rispettivi sistemi informativi. Ciò interroga le competenze ministeriali che, naturalmente,  non possono certo limitarsi alla istituzione del Registro delle notizie di reato corrispondenti ai casi di informativa di reato di «color che son sospesi» in attesa che il PED comunichi la decisione di esercitare la propria competenza (art. 24/1 Reg.).

Al momento può soltanto immaginarsi che tale registro sia in via di progettazione come costola del SICP e che possa essere utilizzato anche in corso d’opera, allorquando, come frequentemente avverrà, un reato PIF emerga nel corso delle investigazioni, così da consentire il ribaltamento automatico dei dati nel registro di cui all’art. 335 c.p.p. in caso di mancato esercizio dei poteri del PE ovvero il trasferimento nei sistemi informatici dell’organo europeo, senza necessità di defatiganti matching fra originarie informative di reato e successive comunicazioni del PED.

Ma, più in generale, siamo di fronte ad un problema non da poco, relativo alla armonizzazione dei linguaggi informatici e, anche per tale via, delle esigenze di raccolta informativa rilevanti sul piano nazionale e ai fini della Procura Europea.

Tali problemi esigono soluzione urgente, ma anche tempestiva informazione delle scelte da compiersi, al fine della migliore organizzazione degli scambi informativi e del coordinamento investigativo.

Non pochi problemi riguardano i nove procuratori della Repubblica delle sedi distrettuali prescelte quali snodi dell’articolazione territoriale di EPPO.

Essi devono essere sentiti dal Ministero al fine dell’adozione delle misure necessarie ad assicurare la disponibilità di locali e beni strumentali dei PED. 

Ma, soprattutto, sono chiamati quei medesimi Procuratori della Repubblica ad adottare «i provvedimenti organizzativi necessari a favorire la piena integrazione dei procuratori europei delegati nell’ambito dell’ufficio e a dotarli delle unità di personale amministrativo, dei locali e dei beni strumentali… assicurando in ogni caso l’eguaglianza di trattamento rispetto ai procuratori pubblici ministeri nazionali nelle condizioni generali di lavoro e nella fruizione dell’ambiente lavorativo».

Questa formula, così come la scelta di prevedere che l’organico dei PED debba determinare una corrispondente riduzione del ruolo organico della magistratura, sembra riflettere la tradizionale opzione per le riforme a costo zero che, forse, in questo caso non avrebbe trovato alcun ostacolo nelle condizioni della finanza pubblica, dal momento che un’autonoma dotazione di personale amministrativo e un contenutissimo aumento dell’organico della magistratura sarebbero stati salutati come doveroso tributo alla nuova istituzione.

Anche l’esperienza fatta nel 1991 con l’istituzione della Direzione nazionale antimafia avrebbe, forse, consigliato una scelta più netta e rigorosa, ma anche più coerente con la natura e lo statuto della nuova istituzione e con la scelta del carattere esclusivo delle funzioni europee attribuite ai PED, istituendo nuovi uffici con autonome dotazioni di personale, così evitando sovrapposizioni e rischi di interferenza, che, inesistenti sul piano dello statuto formale dei magistrati della nuova istituzione, potrebbero riemergere attraverso l’obiettivo effetto di condizionamento dell’attività dei PED che può derivare dall’esercizio delle funzioni direttive e organizzative riferite al personale amministrativo.

Ne risulta l’assoluta necessità per quei nove uffici requirenti distrettuali di aprirsi ad una fase creativa della propria organizzazione, da attraversare con senso di leale e generosa collaborazione. 

Ma accanto a questa dimensione pratica, vi è, per tutti gli uffici del pubblico ministero, la necessità di accompagnare l’avvio dell’operatività dei PED con provvedimenti organizzativi e direttive ai servizi di polizia giudiziari unitariamente protesi ad indirizzare verso il Procuratore Europeo i flussi informativi essenziali per il pieno ed agevole esercizio delle sue originali attribuzioni e, per tale via, per la costruzione dello spazio di giustizia europea che quell’istituzione sarà chiamata quotidianamente a rendere effettivo.

 
[1] Così, G.MELILLO-P.L.VIGNA-A.SPATARO, in Introduzione, pag. XVII, de Il Coordinamento delle indagini di criminalità organizzata, Milano, 2004.

[*]

Testo tratto dalla relazione tenuta nell’incontro di studio organizzato dalla Scuola Superiore della Magistratura su La nuova normativa sulla procura europea (Roma, 16 aprile 2021).

29/04/2021
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