Magistratura democratica
Diritti senza confini

Il diritto all’assistenza sociale dei rifugiati. Riflessioni a partire da Corte di giustizia, sentenza 21 novembre 2018 (C-713/17)

di Francesca Biondi Dal Monte
ricercatrice in diritto costituzionale, Scuola superiore di studi Universitari e di perfezionamento Sant'Anna
La Corte di giustizia afferma che l’art. 29 della “direttiva qualifiche” obbliga gli Stati membri a riconoscere la parità di trattamento dei beneficiari di protezione internazionale nell’accesso all’assistenza sociale ed è norma produttiva di effetti diretti

1. Premessa: cittadini, stranieri e accesso al welfare

Che l’accesso al welfare da parte degli stranieri sia al centro di accesi dibattiti è questione ormai nota. Molteplici sono le soluzioni sperimentate dagli Stati e a livello substatale, da Regioni o enti locali, per limitare la platea dei possibili destinatari delle prestazioni di natura sociale, talvolta legandole al possesso di un particolare tipo di permesso di soggiorno (come il permesso CE per soggiornanti di lungo periodo) o alla durata della residenza sul territorio nazionale. Tra le varie discipline si segnala quella austriaca che ha previsto alcune significative limitazioni nell’accesso alle prestazioni sociali anche per i titolari di protezione internazionale. In particolare, a seguito di una riforma della normativa nazionale avvenuta nel 2016, i rifugiati con diritto di soggiorno temporaneo, e cioè nei primi tre anni dall’ottenimento della protezione, sono assimilati, in materia di assistenza sociale, ai beneficiari dello status di protezione sussidiaria e possono percepire, conseguentemente, sussidi per un importo inferiore rispetto a quanto previsto per i rifugiati che beneficiano di un diritto di soggiorno permanente (status che ottengono a seguito del rinnovo del permesso dopo i primi tre anni di permanenza in Austria) [1].

La conformità di tale previsione al diritto dell’Unione europea, e in particolare alla direttiva 2011/95/UE (in tema di qualifiche e contenuto della protezione), è stata esaminata dalla Corte di giustizia nella sentenza 21 novembre 2018 (C-713/17). La decisione è meritevole di attenzione anche ai fini delle valutazioni che gli Stati membri dell’UE sono chiamati a compiere nella definizione dei requisiti di accesso alle prestazioni di natura sociale. Il tema è, come noto, assai attuale anche in Italia dove lo slogan “Prima gli italiani” sembra trovare terreno fertile proprio nell’ambito del godimento di prestazioni di natura sociale, come tali più costose e aventi un diretto impatto sui bilanci pubblici.

Per comprendere i motivi della decisione, occorre ripercorrere brevemente i fatti di causa, soffermandosi poi sulle due questioni pregiudiziali sottoposte alla Corte di giustizia.

2. Il caso e la normativa di riferimento

Il rinvio pregiudiziale muove dal caso di un cittadino straniero al quale è stato riconosciuto lo status di rifugiato nel 2016 per la durata di tre anni. Un anno dopo l’ottenimento dello status, lo straniero presenta una domanda di sussidio, al fine di provvedere alle proprie necessità e a quelle della sua famiglia in materia di sostentamento e di alloggio. Tuttavia, trattandosi di un rifugiato beneficiario di un permesso di soggiorno temporaneo in base alla normativa austriaca in tema di asilo, l’amministrazione ritiene che questi abbia diritto soltanto a prestazioni minime, al fine di garantire il soddisfacimento delle proprie necessità. Il cittadino straniero impugna dunque la decisione, assumendo che il trattamento sfavorevole riservato, da tale normativa, ai rifugiati che non beneficiano del diritto di soggiorno permanente sia incompatibile con il diritto dell’Unione. Nell’ambito di tale giudizio vengono dunque sottoposte alla Corte di giustizia due questioni pregiudiziali, essenzialmente fondate sull’interpretazione dell’art. 29 della direttiva 2011/95/UE e sulla sua diretta applicabilità.

A tal proposito si ricorda che la direttiva 2011/95/UE detta la disciplina in tema di qualifiche e contenuto della protezione internazionale. Il suo art. 29, in materia di assistenza sociale, afferma che «gli Stati membri provvedono affinché i beneficiari di protezione internazionale ricevano, nello Stato membro che ha concesso tale protezione, adeguata assistenza sociale, alla stregua dei cittadini dello Stato membro in questione» (§ 1). È ammessa una deroga a tale regola generale, per cui per i beneficiari dello status di protezione sussidiaria l’assistenza sociale può essere limitata alle «prestazioni essenziali» (§ 2).

3. L’interpretazione dell’art. 29 della direttiva 2011/95/UE

Il primo profilo che la Corte di giustizia va ad analizzare concerne la compatibilità con l’art. 29 della direttiva 2011/95/UE della disposizione nazionale (nella specie austriaca) che «concede soltanto ai beneficiari del diritto d’asilo con permesso di soggiorno permanente l’assistenza sociale sotto forma di garanzie minime complete in funzione dei relativi bisogni della persona e, quindi, in misura pari ai cittadini dello Stato membro, prevedendo invece una decurtazione dell’assistenza erogata in base a tali garanzie per quei beneficiari del diritto d’asilo cui sia stato concesso soltanto un permesso di soggiorno temporaneo parificandoli dunque, sotto il profilo della portata dell’assistenza sociale, a beneficiari di protezione sussidiaria».

Con riferimento alla portata di tale previsione, la Corte ne chiarisce l’interpretazione soffermandosi in particolare sul concetto di «adeguata assistenza sociale», ritenendo che esso non possa abilitare gli Stati membri a concedere ai rifugiati prestazioni sociali per un importo che essi ritengano sufficiente per soddisfare le proprie necessità, ma che sia inferiore a quello delle prestazioni sociali riconosciute ai propri cittadini. La Corte ritiene infatti che il riferimento ad un livello adeguato di assistenza sia da mettersi in contrapposizione alla possibilità, ammessa dalla stessa disposizione, di limitare per i titolari di protezione sussidiaria l’assistenza sociale alle sole prestazioni essenziali (§ 2). Del resto la previsione di una tale facoltà non avrebbe ragion d’essere se gli Stati potessero liberamente fissare i confini «dell’adeguata assistenza sociale» da garantire a tutti titolari di protezione internazionale (non solo ai beneficiari di protezione sussidiaria, ma anche ai rifugiati) [2].

Sul punto, la Corte di giustizia richiama espressamente anche l’art. 23 della Convenzione di Ginevra, ove si afferma che gli Stati contraenti devono garantire ai rifugiati che risiedono regolarmente sul loro territorio lo stesso trattamento concesso ai loro cittadini per ciò che concerne l’assistenza pubblica, variamente riferita al settore lavorativo e a quello della sicurezza sociale. Pertanto il livello delle prestazioni sociali che gli Stati membri sono chiamati ad accordare ai rifugiati deve essere lo stesso di quello offerto ai propri cittadini, restando a tal fine ininfluente la durata del permesso di soggiorno a questi riconosciuta. Peraltro il fatto che la stessa direttiva 2011/95/UE ammetta il rilascio di un titolo di soggiorno di durata temporanea anche ai rifugiati [3] (pari inizialmente a tre anni) non ha alcuna incidenza sul conseguente trattamento, che, a parere della Corte, deve appunto essere parificato a quello dei cittadini dello Stato membro, trattandosi di due aspetti – quello della durata del permesso di soggiorno e quello dei diritti riconosciuti – distinti e autonomi l’uno dall’altro.

Tali conclusioni non sono revocate in dubbio neppure dalla considerazione per la quale la previsione di un differente trattamento tra rifugiati entrati recentemente nel territorio e rifugiati già presenti da lungo periodo potrebbe giustificarsi dalle maggiori necessità di questi ultimi. Tale argomentazione andrebbe infatti a legittimare una distinzione interna alla categoria dei rifugiati che non trova alcuna ragionevole giustificazione e che non sembra neppure rispondere alle eventuali peculiarità che possono caratterizzare la situazione dei rifugiati entrati recentemente nel territorio di uno Stato membro. Sul punto la Corte sembra tuttavia ammettere una possibile declinazione di tale argomentazione, basata sulla difficoltà che i rifugiati entrati recentemente in Austria possono incontrare nell’accedere al libero mercato delle abitazioni. A tal proposito, si potrebbe forse ritenere «più opportuno mettere a disposizione di tali rifugiati, entro brevissimo tempo, posti in centri di accoglienza piuttosto che concedere loro un sussidio finanziario». Si tratta comunque di una argomentazione che non sembra aver fondato la scelta legislativa austriaca e che non è stata neppure spesa nel procedimento pregiudiziale.

Ciò che invece il Governo austriaco ha fatto presente è il gravoso onere derivante dal versamento delle prestazioni sociali ai rifugiati. Sul punto la Corte si limita però ad affermare che tale onere per le istituzioni è in qualche modo «connaturato» alla concessione di prestazioni di natura sociale, senza che rilevi la circostanza che il beneficiario sia cittadino o straniero. Non viene tuttavia chiarito se ed in che termine un tale onere si sarebbe potuto ripartire diversamente a favore delle due categorie di beneficiari, anche perché nel caso di specie non sarebbe stata comunque ammissibile alcuna differenza di trattamento, per le ragioni sopra evidenziate. In generale si evidenzia comunque come mere considerazioni di bilancio non possano fondare alcuna ragionevole distinzione tra le categorie dei possibili beneficiari, dovendo al contrario rintracciare elementi o argomentazioni che di fatto possano ammettere eventuali distinzioni nell’accesso a diritti e prestazioni [4].

Sul tema la Corte ha già avuto modo di precisare che «la concessione di prestazioni sociali ad una determinata persona implica, per l’istituzione chiamata a fornire tali prestazioni, degli oneri, indipendentemente dal fatto che detta persona sia un beneficiario dello status di protezione sussidiaria, un rifugiato, un cittadino di un Paese terzo […] oppure un cittadino». E a tal proposito l’ineguale distribuzione sul territorio dello Stato membro interessato delle varie categorie di soggetti beneficiari (cittadini o stranieri) delle suddette prestazioni potrebbe comportare «una ripartizione inadeguata degli oneri suddetti tra i diversi enti competenti in materia». Tuttavia, in riferimento ad una previsione tedesca che aveva imposto un obbligo di residenza per i soli titolari di protezione sussidiaria percettori di talune prestazioni sociali (e non anche a tutti i possibili beneficiari delle stesse), la Corte ha avuto modo di chiarire che essa contrasta con la parità di condizioni sancita nella direttiva 2011/95/UE [5].

4. La diretta applicabilità dell’art. 29 della direttiva 2011/95/UE

La seconda questione affrontata dalla Corte concerne sempre l’art. 29 della direttiva 2011/95 e in particolare se esso – nell’obbligare uno Stato membro a provvedere affinché i beneficiari di protezione internazionale ricevano, nello Stato membro che ha concesso tale protezione, adeguata assistenza sociale, alla stregua dei cittadini dello Stato membro medesimo – soddisfi i criteri dell’applicabilità diretta sviluppati nella giurisprudenza della Corte.

Ci si chiede in particolare se un rifugiato possa invocare, dinanzi ai giudici nazionali, l’incompatibilità con l’articolo 29, § 1, della direttiva 2011/95 di una normativa, come quella austriaca, affinché venga meno la restrizione dei suoi diritti derivante da tale normativa.

A tal proposito la Corte richiama la propria pregressa giurisprudenza in tema di diretta applicabilità, chiarendo che «in tutti i casi in cui le disposizioni di una direttiva appaiono, dal punto di vista sostanziale, incondizionate e sufficientemente precise, i singoli possono farle valere dinanzi ai giudici nazionali nei confronti dello Stato, vuoi qualora esso abbia omesso di trasporre la direttiva in diritto nazionale entro i termini, vuoi qualora l’abbia recepita in modo non corretto» [6]. In tali casi i giudici nazionali e gli organi dell’amministrazione, qualora non possano procedere ad un’interpretazione e ad un’applicazione della normativa nazionale conformi alle prescrizioni del diritto dell’Unione, «sono tenuti ad applicare integralmente il diritto dell’Unione e a tutelare i diritti che quest’ultimo attribuisce ai singoli, disapplicando, se necessario, qualsiasi disposizione contraria del diritto interno» [7].

Nel caso di specie si può rilevare come l’art. 29 della direttiva 2011/95/UE lasci in vero agli Stati membri un certo margine di discrezionalità, con particolare riferimento alla determinazione del livello di assistenza sociale che ritengano adeguato. Tuttavia, una volta definito tale livello, preciso e incondizionato è l’obbligo per gli Stati di garantire ad ogni rifugiato la stessa assistenza sociale prevista per i propri cittadini. Pertanto, a parere della Corte, i rifugiati possono invocare dinanzi ai giudici nazionali l’incompatibilità con l’articolo 29 (§ 1) della direttiva 2011/95/UE di una normativa di uno Stato membro che applichi loro condizioni differenti nell’accesso all’assistenza sociale rispetto a quanto previsto per i propri cittadini.

Tale conclusione si pone in linea anche con alcune precedenti decisioni della Corte di giustizia che, proprio in relazione alla natura delle previsioni che sanciscono un principio di parità di trattamento, ha avuto modo di chiarire che esse dettano «un obbligo di risultato preciso e, per sua stessa natura, può esser fatta valere da un amministrato dinanzi all’autorità giudiziaria nazionale affinché questa disapplichi le disposizioni discriminatorie di una normativa di uno Stato membro che assoggetti la concessione di un diritto ad una condizione non imposta nei confronti dei cittadini nazionali, senza che risulti necessaria a tal fine l'adozione di misure di applicazione integrative» [8].

5. Il diritto all’assistenza sociale dei rifugiati nell’ordinamento italiano

Per quanto concerne l’assistenza sociale dei rifugiati nell’ordinamento italiano, occorre richiamare il d.lgs 251/2007, di recepimento della prima versione della direttiva dell’Unione europea in tema di qualifiche (2004/83/CE) e poi più volte modificato, sia a seguito della rifusione della direttiva qualifiche, che in relazione ai numerosi “ritocchi” che la normativa ha subito dal 2007 ad oggi.

Con specifico riferimento al contenuto della protezione, l’art. 27 del citato decreto prevede che i titolari dello status di rifugiato e dello status di protezione sussidiaria hanno diritto al medesimo trattamento riconosciuto al cittadino italiano in materia di assistenza sociale e sanitaria. Tale equiparazione di trattamento, anche in relazione ai titolari di protezione sussidiaria, era stata già prevista in sede di recepimento della prima versione della direttiva qualifiche, non avvalendosi lo Stato italiano della facoltà di deroga prevista dalla normativa dell’Unione europea.

Benché la previsione sia chiara nella sua formulazione, si sono registrati alcuni problemi di coordinamento con le specifiche disposizioni istitutive delle varie prestazioni di assistenza sociale, laddove tra le condizioni di accesso non figurava espressamente anche l’essere titolari di protezione internazionale. Varie sono state dunque le circolari Inps intervenute a chiarire la spettanza anche ai rifugiati e ai titolari di protezione sussidiaria delle prestazioni di assistenza sociale previste dalla normativa nazionale a favore dei cittadini. Si può richiamare sul punto: la circolare 2 dicembre 2008, n. 105, in tema di assegno sociale; la circolare 22 gennaio 2010, n. 9, in tema di assegno per il nucleo familiare con almeno tre figli minori concesso dai Comuni; la circolare 8 maggio 2015, n. 93, in tema di assegno a sostegno della natalità previsto dalla legge di stabilità per l’anno 2015; la circolare 27 febbraio 2017, n. 39, in tema di premio per nascita o adozione previsto dalla legge di bilancio per il 2017; la circolare 22 maggio 2017, n. 88, in tema di bonus asili nido; la circolare 22 novembre 2017, n. 172, in tema di reddito di inclusione.

A prescindere da qualsiasi espresso riferimento alla categoria dei rifugiati e dei titolari di protezione sussidiaria nelle disposizioni istitutive (o in successive circolari interpretative dell’Inps) delle varie prestazioni sociali, queste ultime dovrebbero ritenersi estese anche ai titolari di protezione internazionale in forza della parità di trattamento sancita all’art. 27 del d.lgs 251/2007 (e nell’art. 29 della direttiva 2011/95/UE, direttamente applicabile). Particolarmente critico, ma superabile alla luce della previsione generale contenuta nella citata normativa, la non inclusione dei titolari di protezione internazionale nell’ambito dei beneficiari del “reddito di cittadinanza”, per come individuati all’art. 2 del dl 28 gennaio 2019, n. 4, recante Disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni, il quale si riferisce espressamente ai soggetti «in possesso della cittadinanza italiana o di Paesi facenti parte dell’Unione europea, ovvero suo familiare che sia titolare del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente, ovvero cittadino di Paesi terzi in possesso del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo», che devono altresì essere residenti in Italia «per almeno 10 anni, di cui gli ultimi due, considerati al momento della presentazione della domanda e per tutta la durata dell’erogazione del beneficio, in modo continuativo».

6. Rilievi conclusivi

La discrezionalità che il legislatore nazionale (statale e regionale) incontra nella definizione dei beneficiari delle prestazioni sociali risulta limitata dagli obblighi internazionali e dai vincoli derivanti dall’appartenenza all’Unione europea, come chiaramente indicato anche all’art. 117, comma 1, della Costituzione italiana.

Con particolare riferimento all’ambito dell’assistenza sociale, significative a tal proposito sono le clausole relative alla parità di trattamento che la normativa dell’Unione europea contempla in relazione ad alcune categorie di cittadini di Paesi terzi, tra i quali – come chiarito dalla Corte di giustizia nella sentenza in commento – i rifugiati. Gli Stati non sono pertanto liberi di fissare un livello di assistenza sociale differente per i rifugiati residenti sul proprio territorio rispetto a quello garantito ai propri cittadini. Significativa al riguardo anche la precisazione circa la diretta applicabilità di una tale tipologia di previsione, sufficientemente precisa e incondizionata da poter essere invocata dinanzi all’autorità giudiziaria nazionale affinché questa disapplichi le eventuali disposizioni dello Stato membro con essa contrastanti.

Il regime di favore nell’ambito dell’assistenza sociale riconosciuto ai rifugiati si pone in linea con altre previsioni, sempre contemplate dalla direttiva 2011/95/UE e recepite nella normativa nazionale, in tema di accesso all’occupazione, salute, alloggio, che espressamente richiamano la condizione di parità con i cittadini italiani.

È dunque evidente come la condizione giuridica di ogni straniero, e quindi il complesso dei diritti a questi riconosciuti, debba essere definita alla luce della tipologia di permesso di soggiorno posseduto e più in generale dal proprio status, disciplinato non solo dalla normativa nazionale, ma anche da quella dell’Unione europea, che talvolta richiama espressamente – come nel caso dei rifugiati – la parità di trattamento con i cittadini nazionali.



[1] In tema di diritto di asilo si veda l’art. 3, § 4, dell’Asylgesetz 2005 (legge sull’asilo n. 100/2005). Con riferimento all’accesso al welfare si veda l’art. 4 del Gesetz über die bedarfsorientierte Mindestsicherung in Oberösterreich (legge relativa alla garanzia di risorse minime dirette alla copertura delle necessità nell’Alta Austria n. 74/2011). Tale ultimo articolo è stato modificato dall’art. 1 della Oö. Mindestsicherungsgesetz-Novelle (legge n. 36/2016). Tutte le leggi sono disponibili on line al sito www.ris.bka.gv.at/default.aspx (Rechtsinformationssystem des Bundes).

[2] In riferimento alla portata dell’art. 29 della direttiva 2011/95/UE, può essere richiamata anche Corte di giustizia, sent. 1 marzo 2016 (causa C‑443/14 e C‑444/14), nell’ambito della quale la Corte ha chiarito che l’accesso di tali beneficiari all’assistenza sociale non deve essere subordinato al soddisfacimento di condizioni che non siano imposte ai cittadini dello Stato membro che ha concesso la protezione. Pertanto, anche in relazione alla possibilità di limitare l’assistenza sociale concessa ai beneficiari dello status di protezione sussidiaria alle prestazioni essenziali, gli Stati sono obbligati a riconoscere tali prestazioni essenziali alle stesse condizioni di ammissibilità previste per i cittadini dello Stato membro in questione (§§ 48 e 49).

[3] Si fa riferimento all’art. 24 della direttiva 2011/95/UE, che fissa a tre anni la durata minima del permesso di soggiorno che gli Stati membri possono rilasciare ai beneficiari dello status di rifugiato.

[4] A tal proposito può richiamarsi anche la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo in tema di violazione degli artt. 14 Cedu e art. 1, Prot. n. 1, Cedu, e cioè del divieto di discriminazione nell’accesso alle prestazioni sociali. In particolare non sono state accolte le argomentazioni avanzate del Governo francese nel caso Koua Poirrez c. Francia, Corte Edu, sent. 30 settembre 2003, § 43, fondate sulla necessità di equilibrare le spese di welfare con le risorse disponibili, restringendo conseguentemente la platea dei destinatari in ragione della cittadinanza. Nella giurisprudenza più recente la Corte Edu ha evidenziato un possibile legame tra la circostanza che la persona (esclusa da una prestazione) appartenga o meno alla categoria di coloro che, generalmente, non contribuiscono al finanziamento dei servizi pubblici e alle quali uno Stato può avere «motivi legittimi per limitare l’utilizzo di servizi pubblici costosi – come i programmi di previdenza sociale, di sussidi pubblici e di cura» (caso Dhahbi c. Italia, 8 aprile 2014, § 52). Sul punto si veda anche il caso Ponomaryovi c. Bulgaria, 21 giugno 2011 (§ 54), ove la Corte afferma che uno Stato potrebbe avere legittime ragioni per limitare l’uso dei «resource-hungry public services» – come i programmi di welfare, i benefici pubblici e la sanità – agli stranieri che risiedono per breve termine sul territorio o che non sono in regola con le norme sull’ingresso e soggiorno, i quali di regola, «non contribuiscono al loro finanziamento», così come operare delle distinzione a favore dei cittadini degli Stati membri dell’Unione europea. La conformità di tali eventuali previsioni al quadro normativo sovranazionale andrà valutata caso per caso, alla luce della tipologia di prestazione e dei destinatari della stessa. Sul tema dell’accesso degli stranieri alle prestazioni di assistenza sociale è intervenuta in più occasioni anche la Corte costituzionale italiana. In via generale sul tema si veda A. Guariso (a cura di), Stranieri e accesso alle prestazioni sociali, in www.asgi.it 

[5] Cfr. Corte di Giustizia, sent. 1 marzo 2016, cit., §§ 55 e 56.

[6] A tal proposito si può richiamare anche Corte di Giustizia, sentenza 24 gennaio 2012, C-282/10, § 33, e sent. 5 ottobre 2004, C‑397/01 e altri, §103. Nella giurisprudenza consolidata della Corte si vedano altresì i noti casi Francovich (sent. 19 novembre 1991, cause riunite C‑6/90 e C‑9/90, § 11); Marks & Spencer, sent. 11 luglio 2002, causa C‑62/00, § 25); Becker (sent. 19 gennaio 1982, §§ 24 e 25).

[7] Tra i vari precedenti si veda Corte di Giustizia, sent. 7 settembre 2017, C-174/16, § 70.

[8] Si veda in tal senso Corte di Giustizia, sent. 4.5.1999, C-262/96, § 63, relativa all’accordo di associazione CEE-Turchia e al principio di non discriminazione in base alla nazionalità in tema di sicurezza sociale. Con riferimento al settore lavorativo, si veda Corte di Giustizia sent. 22.12.2010, C-444/09 e C-456/09, § 78, e sent. 6.3.2014, C-595/12, §§ 48 e 50.

08/04/2019
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