La scelta espressiva di questo film danese è estrema: tutta la vicenda si svolge in un unico locale, il protagonista è un unico attore, il piano delle sequenze è sempre quello di riprendere il viso del protagonista da distanza ravvicinata. Si tratta di decisioni artistiche che trasmettono allo spettatore un senso di claustrofobia che sembra tipico delle pellicole di matrice nordeuropea.
Altri film infatti sono stati girati in un unico interno (fra tutti si ricordano Nodo alla gola di Alfred Hitchcock e Carnage di Roman Polanski) ma nessuno aveva sommato anche l’unicità dell’interprete.
Si potrebbe pensare che queste valutazioni estreme stanchino lo spettatore, ma non è così: la storia è narrata in un crescendo emotivo talmente forte che sedendosi davanti allo schermo si viene totalmente rapiti.
Ma veniamo alla trama dell’opera prima del trentenne Gustav Möller, vincitore di tre premi al 36° Torino Film Festival e del Premio del pubblico al Sundance Film Festival 2018.
Il protagonista è un poliziotto addetto a ricevere telefonate con richieste di soccorso da parte dei cittadini.
Il suo lavoro dovrebbe limitarsi a inviare burocraticamente sul posto segnalato una pattuglia e poco più.
Ma il nostro agente, di cui intuiamo subito di aver iniziato a svolgere solo da poco tempo quella mansione, non ci sta.
Riceve una richiesta di aiuto da una donna che dice di essere stata sequestrata da suo marito che la sta portando verso un luogo di prigionia e decide di voler risolvere il dramma.
Questa presa di posizione lo porterà a parlare anche con la piccola figlia della coppia rimasta a casa e a ricostruire la storia di quella famiglia, in cui domina la figura di un padre-marito violento.
Ma la realtà è ben più complessa di quella che appare e il protagonista dovrà fare i conti con i consigli sbagliati che ha dato alla donna e a sua figlia.
Il merito maggiore di questo film è proprio questo: avvertire lo spettatore che non tutto ciò che sembra è vero e che la realtà affidata a degli stereotipi è fallace.
Alla fine, la scoperta del colpevole sarà un evento inaspettato.
Lo stile espressivo dell’opera è – nella sua essenzialità – coinvolgente e drammatico.
Noi stessi ci sentiamo trasportati dall’impegno che il poliziotto dimostra, al di là del suo stesso dovere e dall’ansia di salvare la vita della donna, risultato che alla fine raggiungerà ma in modo ben diverso, distogliendo la donna da un proposito suicidario.
Intorno al nucleo narrativo si interseca quello personale del poliziotto.
Egli è sotto giudizio per aver ucciso una persona per asserita legittima difesa. Scoprire di aver sbagliato nell’interpretare la storia della donna e di suo marito lo porta a rivisitare la propria condizione, con una resa incondizionata alla verità dei fatti e con piena assunzione di responsabilità per quanto avvenuto.
Il film si chiude con una algida inquadratura della biancastra luce dell’alba. In quel chiarore il poliziotto si immerge per partecipare all’udienza che lo vede imputato.
Un film da non perdere. Difficile da dimenticare.