Nel maggio ’87, la Corte di Assise di Roma, nel cd. processo Metropoli, stabilì che Lanfranco Pace e Franco Piperno erano estranei a tutti i reati connessi alla vicenda Moro.
Al termine del processo Moro ter di primo grado, nell’ottobre ’88, i giudici romani assolsero Rita Algranati, Marcello Capuano, Cecilia Massara, Luigi Novelli, Marina Petrella e Stefano Petrella e condannarono, invece, Alessio Casimirri per tutti i fatti di via Fani e via Montalcini. Giulio Baciocchi, Walter Di Cera, Giuseppe Palamà e Odorisio Perrotta, militanti della colonna romana, a differenza di Casimirri, furono condannati solo per il sequestro e l’omicidio del presidente della DC.
Nel processo Moro quater di primo grado, che si celebrò nel ‘94, Alvaro Lojacono venne ritenuto responsabile di tutti i fatti avvenuti tra il 16 marzo e il 9 maggio ‘78.
Infine, nel processo Moro quinquies, nel 1996, i giudici affermarono la responsabilità di Germano Maccari, il falso marito di Anna Laura Braghetti, e di Raimondo Etro che aveva collaborato ad alcune fasi della inchiesta su Moro prima del sequestro. Questa volta però, Maccari ed Etro, riconosciuti colpevoli della uccisione della scorta e del sequestro e della morte del presidente DC, per scelta fatta dalla Procura romana al momento del rinvio a giudizio, non furono processati anche per il tentato omicidio di Alessandro Marini. [17]
Nel corso della lunga vicenda processuale, Anna Laura Braghetti (v. interrogatorio sostenuto nel processo di primo grado Moro quater alla udienza del 24 novembre 1993) e Germano Maccari (v. la drammatica confessione resa nel processo Moro quinquies alla udienza del 19 giugno 1996) ammisero le proprie responsabilità e raccontarono cosa era accaduto nella primavera ‘78.
Anche altri protagonisti della vicenda (Mario Moretti, Prospero Gallinari, Raffaele Fiore, Barbara Balzerani e Bruno Seghetti), a partire dagli anni ’90, in luoghi diversi dalle aule giudiziarie (la Balzerani rese tuttavia dichiarazioni alla udienza del 2 dicembre 1993 del cd. Moro quater), hanno raccontato la storia di cui ci stiamo occupando. [18]
Le versioni provenienti dagli imputati dissociati/collaboratori di giustizia e dagli imputati che fecero scelte processuali opposte alla dissociazione/collaborazione sono, per larga parte, coincidenti. Inoltre, recenti accertamenti di natura tecnica o scientifica – sulla dinamica della azione a via Fani, sulla base di via Gradoli e sulla uccisione di Moro in via Montalcini – hanno definitivamente smontato le teorie complottiste, accreditando come sostanzialmente veritiera la ricostruzione della vicenda fornita dai responsabili del sequestro e della uccisione di Aldo Moro. [19]
Esiste, quindi, oggi, un solido patrimonio di conoscenze da cui partire per valutare i fatti accertati dalle sentenze.
Sono chiare ed ampiamente provate le responsabilità dei componenti del Comitato esecutivo, della direzione della colonna romana e di coloro che presero parte, direttamente e in prima persona, alla operazione di via Fani e al sequestro protrattosi in via Montalcini.
Meno evidenti sono quelle di altri condannati nei processi Moro uno/bis e ter e, per alcuni di essi, gli elementi di prova presentano profili decisamente problematici.
Se quasi tutti ricordano i fatti salienti che avvennero la mattina del 16 marzo ’78, quasi nessuno ha memoria dell’episodio meno noto tra quelli che accaddero a via Fani: il tentato omicidio dell’ingegnere Alessandro Marini.
Era veramente arduo riporre fiducia nella credibilità del teste Marini che, nella fase iniziale della indagine, dopo aver visto alcune fotografie ed aver fatto anche una ricognizione personale, sostenne di essere assolutamente sicuro che uno dei brigatisti da lui visti la mattina del 16 marzo era Corrado Alunni, che però nulla c’entrava con via Fani ed aveva abbandonato le BR già da molto tempo. [20]
Ma questo scivolone non impedì a Marini di diventare il più importante testimone del caso Moro e di ripetere mille volte, cambiando però mille volte la sua versione, che, essendosi trovato casualmente all’angolo tra via Stresa e via Fani, aveva incrociato due brigatisti che viaggiavano su una moto Honda. Il passeggero della moto aveva sparato contro di lui una raffica di mitra che aveva mandato in frantumi il parabrezza in plastica del suo ciclomotore Boxer. Marini si era salvato solo perché si era istintivamente abbassato.
Il testimone, quindi, convinse inquirenti e giudici di essere stato vittima di un tentativo di omicidio, commesso da due brigatisti, che però non saranno mai identificati, a bordo di una moto Honda, un mezzo che, tuttavia, nessuna indagine o processo ha mai dimostrato essere stato utilizzato dalle BR la mattina del 16 marzo.
A 25 persone è stata inflitta una pena definitiva anche per questo delitto.
Poi, in anni più recenti, fu la versione del testimone ad andare in frantumi.
In alcune fotografie scattate nella mattinata del 16 marzo ’78, si vede chiaramente un Boxer, parcheggiato su un marciapiede in via Fani, che ha il parabrezza in plastica tenuto insieme con una striscia di un vistoso scotch marrone, ma ancora tutto integro. Nessun colpo di arma da fuoco l’ha colpito. Quando venne convocato dalla Commissione di inchiesta sul caso Moro, Marini (che, in verità, lo aveva già detto al Pubblico Ministero nel ’94), per l’ennesima volta, fece marcia indietro e cambiò la sua versione dei fatti, cercando di adattarla alla nuova situazione: sì, era vero, il parabrezza si era rotto prima dei fatti di via Fani e lui, per tenerlo insieme, aveva applicato lo scotch. Solo dopo il 16 marzo, avendo notato un pezzo mancante, aveva creduto che il parabrezza fosse stato raggiunto da un proiettile. [21]
Un altro colpo durissimo alla credibilità del testimone lo diedero due testimonianze particolarmente qualificate.
Il Procuratore generale di Roma, Luigi Ciampoli, ricordò ai parlamentari che Marini aveva sostenuto di essere stato minacciato a causa delle sue dichiarazioni sull’agguato di via Fani e la Polizia aveva installato un apparecchio nella abitazione dell’ingegnere per registrare le telefonate che riceveva a casa. Quelle registrazioni, dimenticate per 36 anni, erano state recuperate e dimostravano che Marini era stato sì effettivamente minacciato, ma per vicende personali che nulla c’entravano con il caso Moro. [22]
Federico Boffi, dirigente del Servizio centrale della Polizia Scientifica (per incarico della Commissione parlamentare aveva analizzato la scena dell’agguato), spiegava che la versione del testimone non reggeva perché la analisi della dinamica della azione dimostrava che non erano stati esplosi colpi di arma da fuoco da un veicolo in movimento e che la traiettoria dei proiettili era opposta rispetto al luogo in cui Marini affermava di essersi trovato. [23]
Ha sostenuto lo storico Gianremo Armeni che «il tentato omicidio di Alessandro Marini non è un fatto acclarato dalla magistratura, è una circostanza scritta nella sentenza direttamente dal testimone» ed è difficile non condividere questa affermazione.
Non è, quindi, avventato concludere oggi, trascorsi 47 anni da quel giorno del marzo ’78, che uno dei fatti per i quali sono state inflitte molte condanne definitive non si è mai verificato.
Restano, però, gli altri gravissimi reati.
I componenti della brigata Università della colonna romana (Antonio Savasta, Emilia Libéra, Massimo Cianfanelli, Caterina Piunti e Teodoro Spadaccini) ammisero le proprie responsabilità ed anzi Savasta e Libéra divennero due tra i principali collaboratori di giustizia nella storia delle BR. I cinque imputati sono stati condannati per tutti i delitti connessi alla vicenda Moro.
Ma cosa fecero esattamente questi brigatisti che, ovviamente, non si trovavano a via Fani?
Secondo i giudici, la brigata universitaria era corresponsabile della “operazione Fritz” per tre essenziali ragioni: 1) al pari di tutte altre brigate, anche questa, nella imminenza del 16 marzo, aveva rubato auto poi utilizzate a via Fani; 2) aveva spiato i movimenti di Moro all’interno della facoltà di Scienze politiche; 3) aveva ricevuto la Renault 4 colore amaranto poi usata per trasportare il corpo di Moro sino a via Caetani.
Gli elementi di prova sembrano corposi, ma, se ci addentriamo nelle pieghe delle centinaia di pagine dei faldoni del processo, questo quadro offre minori certezze.
Un paio di mesi prima del 16 marzo, Savasta ricevette da Bruno Seghetti, cioè dalla direzione della colonna romana, l’incarico di osservare i movimenti di Moro all’interno della facoltà di Scienze politiche. Le regole della compartimentazione imponevano a Seghetti di non spiegare a cosa servisse questa inchiesta preliminare. Nel corso del processo, Savasta dichiarava di aver comunicato questa decisione a Libéra e Spadaccini, senza tuttavia aver fatto cenno al colloquio avuto con Seghetti. Dunque, per qualche giorno, i membri della brigata avevano spiato Moro e la sua scorta all’interno della facoltà. Infine, Savasta aveva comunicato a Seghetti che, dal suo punto di vista, era impossibile portare a termine qualsiasi azione in quel luogo perché il presidente DC era costantemente sorvegliato dalla scorta che, sicuramente, avrebbe aperto il fuoco.
Ma il racconto di Savasta diverge non poco da quello degli altri due militanti della brigata Università.
Spadaccini negava di aver spiato Moro e confessava solo di aver svolto una rapida inchiesta sul professore Franco Tritto perché volevano dar fuoco alla sua auto. Quando il Presidente della Corte di Assise chiese ad Emilia Libéra se aveva partecipato alla inchiesta sul presidente della DC insieme a Savasta, la donna replicava di non averlo mai fatto né di averlo mai saputo (Presidente: «Ma lei non seppe nulla di questa inchiesta?» Libéra: «No». Presidente: «Savasta non ebbe mai a parlarle, anche in seguito, di una inchiesta che aveva fatto su Moro?» Libéra: «No». Presidente: «Mai gliene parlò?» Libéra: «L’ho saputo adesso». Presidente: «Prima non l’ha mai saputo?» Libera: «No»).
Un mese prima del sequestro tutte le brigate ricevettero una lista di veicoli da rubare. Seghetti, responsabile politico della brigata Università, consegnò la lista a Libéra dicendo che le auto sarebbero state usate per una imminente, grande operazione. La brigata rubò un solo veicolo, ha sostenuto Savasta nel processo. Invece, secondo la versione processuale della Libéra, la brigata non riuscì a rubare nulla.
Circa dieci giorni prima del 9 maggio, Seghetti affidò a Savasta, Libéra e Spadaccini l’auto Renault 4 di colore amaranto per “gestirla”, cioè cambiare le targhe, eliminare qualsiasi contrassegno del veicolo e lavarla. I tre della brigata università svolsero questi compiti. Poi, qualche giorno dopo, Libéra e Spadaccini portarono il veicolo a Piazza Albania e lo riconsegnarono a Seghetti. Per i tre militanti della brigata si trattava di una operazione di ruotine, eguale a tante altre, e, solo dopo la conclusione della vicenda, Savasta comprese che sulla Renault 4 era stato trasportato il cadavere di Moro.
In definitiva, l’inchiesta nella facoltà di Scienze politiche, quasi certamente, non venne, quindi, svolta dalla brigata Università, ma dal solo Savasta ed i brigatisti Libéra e Spadaccini non seppero che i compiti che svolgevano erano connessi alla vicenda Moro: né la ricerca di auto prima del 16 marzo, né la custodia della Renault 4 amaranto.
Inoltre, nel processo emerse che Teodoro Spadaccini era stato sospeso dalla organizzazione prima del sequestro ed era stato riammesso, “scongelato”, alla metà di aprile ’78, quando cioè la vicenda stava per avviarsi a conclusione.
Tuttavia, il forzato allontanamento del brigatista dalla vita della organizzazione non suscitò nei giudici l’interrogativo che la sua partecipazione, quantomeno ai delitti avvenuti la mattina del 16 marzo, esattamente come per Emilia Libéra, non era dimostrata al di là di ogni ragionevole dubbio.
Caterina Piunti, reclutata nella brigata nell’autunno ’77, ammise di essere stata militante della colonna romana e di aver diffuso i comunicati delle BR durante il periodo del sequestro. Massimo Cianfanelli, alla udienza del 19 maggio ‘82, sostenne di essere entrato nella brigata solo dopo i fatti di via Fani, a fine aprile ’78, e di essersi limitato a fare volantinaggio.
Piunti e Cianfanelli non vennero mai coinvolti nelle attività degli altri membri della brigata e Savasta e Libéra non smentirono la versione dei due imputati. Per i giudici, tuttavia, anche l’attività di diffusione dei comunicati aveva contribuito a rafforzare la prosecuzione del sequestro, anche se è difficile comprendere, allora, perché Piunti e Cianfanelli, se avevano assolto ad alcuni compiti solo dopo che Moro era già stato portato a via Montalcini, vennero condannati anche per i fatti avvenuti la mattina del 16 marzo. In termini più chiari: come può una attività di propaganda fatta durante il sequestro aver contribuito a realizzare delitti avvenuti prima, cioè uccidere la scorta di Moro e tentare di uccidere il teste Marini?
Le sentenze del processo Moro uno/bis sancirono la colpevolezza anche di Luca Nicolotti, dirigente della colonna genovese, e Cristoforo Piancone, dirigente della colonna torinese.
Secondo i giudici, che ricevettero questa informazione da Patrizio Peci, i due imputati, già prima del 16 marzo, erano componenti del fronte della lotta alla controrivoluzione insieme a Rocco Micaletto, Franco Bonisoli e Prospero Gallinari. Le sentenze, nel primo come nel secondo grado, non spesero molte parole per dimostrare la responsabilità dei due brigatisti: avevano sicuramente partecipato ai delitti connessi alla vicenda Moro perché rivestivano posizioni di vertice ed il fronte nazionale della contro aveva deciso il sequestro insieme al comitato esecutivo.
I fatti storici appaiono, però, molto più complessi.
Se Peci aveva sostenuto che Nicolotti era inserito nel fronte della lotta alla controrivoluzione[24], Valerio Morucci e Adriana Faranda possedevano informazioni diverse.
Quando i due ex brigatisti, alla fine degli anni ‘80, scrissero un corposo memoriale sul caso Moro, compilarono anche un foglio che conteneva il completo organigramma degli organismi dirigenti nazionali e locali delle BR durante il sequestro. Secondo Morucci (nel ’78 membro del fronte nazionale della logistica) e Faranda (nel ’78 membro della Direzione strategica), il fronte della lotta alla controrivoluzione era composto da Bonisoli e Brioschi per Milano, Micaletto per Torino e Genova, Gallinari per Roma e Piancone per Torino, mentre Luca Nicolotti era solo membro della direzione della colonna genovese. [25]
I giudici di secondo grado del processo Moro uno/bis scrissero nella sentenza che l’inserimento di Nicolotti nel fronte di lotta alla controrivoluzione era «comprovato dalle concordanti, precise dichiarazioni degli imputati Peci, Savasta e Fenzi i quali, fra l’altro, parteciparono insieme con il Nicolotti alla riunione della Direzione strategica dell’organizzazione svoltasi a Genova nel dicembre 1979».
In realtà, Fenzi non era presente alla riunione che si tenne a Genova, in via Fracchia, nel dicembre ‘79 e, in ogni caso, la partecipazione di Nicolotti ad una riunione di un organismo dirigente, la Direzione strategica, a fine ’79, cioè trascorso oltre un anno dai fatti di via Fani, non dimostrava, ovviamente, che l’imputato fosse stato membro di uno dei fronti nazionali delle BR. [26]
In definitiva, Nicolotti e Piancone furono condannati perché Adriana Faranda, durante il processo di secondo grado, aveva confermato che «le azioni delle colonne dovevano essere preventivamente decise dai responsabili dei fronti; tutto ciò per rispondere a quella centralizzazione del dibattito politico che precedeva sempre e concludeva poi la esecuzione di tutte le azioni delle BR che si muovevano unitariamente su tutto il territorio nazionale».
Ma la sintetica descrizione delle regole di funzionamento delle BR, contenuta nella sentenza, appare troppo schematica.
In generale, il compito del fronte nazionale della lotta alla controrivoluzione era quello di elaborare la “campagna politico-militare” all’interno della quale collocare gli obiettivi da colpire (i magistrati, gli esponenti politici ecc.), obiettivi concreti che, tuttavia, venivano individuati dalla colonna ed affidati, per la pianificazione della azione, al settore della contro locale.
Ma ciò che più importa è che la vicenda Moro, per la sua eccezionale importanza, rappresentò un unicum nella vita della organizzazione. Già a partire dalla fine del ’76, la scelta di colpire un esponente politico di altissimo livello della DC era attribuibile, per intero, al comitato esecutivo che, in quel periodo, peraltro, aveva due suoi componenti, Moretti e Bonisoli, impegnati proprio a Roma per costruire la colonna cittadina, operazione senza la quale non avrebbe potuto realizzarsi l’azione di attacco al cuore dello stato. Il compito della pianificazione dell’agguato, si è detto ampiamente nelle pagine precedenti, era affidato, in toto, alla direzione della colonna romana ed il fronte nazionale della controrivoluzione, di fatto, era stato esautorato.
Ha sostenuto Franco Bonisoli, deponendo nel corso del processo Metropoli nell’aprile 87, che la decisione del sequestro fu presa dal comitato esecutivo e che neppure la Direzione strategica entrò mai nel merito della azione che era in programma, «ciò non soltanto per un problema di compartimentazione, perché nella DS c’erano militanti che non sapevano dell’azione Moro, cioè non sapevano che l’obiettivo dell’azione che avevano ratificato fosse Moro. L’azione era estremamente compartimentata. Nella Direzione strategica del febbraio ’78 non si discusse dell’obiettivo dell’azione che era in corso, non venne fatto il nome di Moro».
Se la direzione strategica non partecipò alla ideazione e pianificazione del sequestro, come è possibile, allora, che lo abbiano fatto i membri del fronte della lotta alla controrivoluzione, struttura di rango politico inferiore alla Direzione strategica, oltre che al Comitato esecutivo?
Peraltro, le Brigate Rosse non avevano alcuna necessità di infrangere le rigide regole della compartimentazione, coinvolgendo tutti i componenti del fronte della lotta alla controrivoluzione, visto che tre membri di questa struttura (Bonisoli, Micaletto e Gallinari) erano già attivamente impegnati nella pianificazione della operazione.
La posizione di Cristoforo Piancone presenta poi alcuni aspetti di straordinaria singolarità. Il brigatista torinese, l’11 aprile ’78, a Torino, partecipò all’agguato mortale contro l’agente di custodia Lorenzo Cotugno. Piancone, ferito, venne arrestato. Il 25 aprile ’78, il suo nome comparve nel comunicato n. 8 con il quale le BR chiedevano la liberazione di 13 detenuti in cambio del rilascio di Moro. Nonostante fosse detenuto dall’11 aprile e nonostante Piancone fosse, oggettivamente, interessato, in quel momento, ad una conclusione positiva del sequestro e non certo alla soppressione del prigioniero, anche lui venne condannato quale corresponsabile della uccisione avvenuta in via Montalcini.
Giulio Cacciotti e Francesco Piccioni non erano dirigenti della colonna romana, ma semplici militanti. Il primo era membro della brigata Torre Spaccata, il secondo integrava il fronte logistico. Entrambi parteciparono a diverse azioni armate, in particolare Piccioni all’assalto alla caserma Talamo del 19 aprile ’78, azione nella quale venne utilizzata l’auto Renault 4 amaranto.
Ma Cacciotti e Piccioni, come tutti i militanti della colonna romana, non seppero mai nulla della operazione del 16 marzo e non svolsero nessun compito concreto che contribuì a mantenere Moro in prigionia.
Applicando singolari principi del concorso di persone nel reato, i giudici ritennero che l’adesione al programma politico-militare della “campagna di primavera” fosse elemento sufficiente per condannare i due brigatisti per tutti i reati contestati ai veri protagonisti della operazione di via Fani.
In altri termini, sembra che il ragionamento dei giudici sia stato quello secondo cui la militanza nelle BR, cioè la condotta di partecipazione alla banda armata prevista dal Codice penale, permetteva di addebitare al brigatista qualsiasi delitto commesso da altri membri della organizzazione, anche quelli che ignorava sarebbero avvenuti e rispetto ai quali, in ogni caso, non aveva fornito alcun aiuto o supporto.
Ancor più singolari appaiono le motivazioni che riguardano gli imputati Gabriella Mariani, Antonio Marini ed Enrico Triaca, individuati come militanti di rango elevato, organizzatori delle attività della colonna romana.
In realtà, nulla provava che i tre imputati avessero partecipato ad una qualsiasi fase della operazione del 16 marzo o della custodia del prigioniero a via Montalcini. Nemmeno gli intensi rapporti avuti con Mario Moretti e nemmeno il fatto che Gabriella Mariani aveva dattiloscritto la risoluzione della direzione strategica del febbraio ‘78 permettevano di giungere a questa conclusione. È indiscutibile che Moretti non abbia mai parlato con loro della “operazione Fritz” prima del 16 marzo né saltò fuori, durante il processo, che gli imputati erano stati sollecitati a svolgere attività particolari e diverse dopo i fatti di via Fani. Peraltro, i comunicati diffusi durante il sequestro non vennero realizzati o duplicati né a via Palombini né a via Foà.
I giudici fecero ricorso all’assunto apodittico della doppia negazione: in sostanza, gli imputati “non potevano non sapere”.
Così, per Gabriella Mariani «deve ritenersi per certo che fosse a conoscenza delle attività e dei programmi della organizzazione a Roma dall’inizio a sino all’arresto del 18 maggio ’78 e che abbia dato quindi…un contributo efficace alle attività delle BR e alla commissione di delitti, tra cui certamente la strage di via Fani, il sequestro e l’omicidio Moro» e per Triaca che «non può non aver partecipato alla operazione Moro ed a tutta la campagna di primavera». [27]
Le decisioni dei giudici del Moro uno/bis vennero sostanzialmente condivise dai magistrati del Moro ter, ma questi ultimi non seguirono sino in fondo la linea tracciata dai colleghi del primo processo. Anzi, nella parte della sentenza illustrativa della metodologia che i giudici avrebbero seguito, esplicitarono chiaramente un punto significativo di discontinuità con i provvedimenti giudiziari precedenti scrivendo: «…non possa estendersi automaticamente agli organizzatori della banda armata la responsabilità per i reati commessi da altri associati, quasi derivando dalla loro posizione ai vertici dell'organizzazione una generalizzata attribuibilità a titolo di concorso morale di tutte le attività dei compartecipi di grado subordinato. In altri termini, la sola appartenenza all'organizzazione, anche con ruolo dirigenziale, e la previsione del reato nel programma criminoso non sono da sole sufficienti per stabilire la responsabilità a titolo di compartecipazione del singolo associato rimasto estraneo alla ideazione ed all'esecuzione del reato-fine, occorrendo la prova di un consapevole apporto causale alla commissione del fatto sia pure nella forma dell’istigazione o dell’agevolazione».
Se nel processo del 1982/’83 condotto dal Presidente Severino Santiapichi, l’essere stato mobilitato per rubare auto poi usate il 16 marzo costituiva elemento di prova molto importante, quasi decisivo, per concludere che il militante brigatista aveva fornito un contributo alla realizzazione di tutti i delitti di via Fani (il plurimo omicidio degli uomini della scorta e il sequestro), i giudici del Moro ter pervennero ad una conclusione parzialmente diversa.
Giulio Baciocchi, Walter Di Cera e Odorisio Perrotta era stati militanti della brigata Centocelle ed anche questa aveva ricercato/procurato auto usate a via Fani.
Giuseppe Palamà, romano di Ostia, era entrato nella colonna romana nel marzo ’78 e, come Perrotta, aveva diffuso i comunicati BR durante il sequestro.
I giudici scrissero che «Di Cera ed Arreni rubano una Fiat 128 mentre Baciocchi e Savasta si impossessano di una Diane rossa. Entrambe le auto verranno utilizzate nell’iter criminis della strage di via Fani, del sequestro e dell’omicidio dell’On. Moro…l’autovettura dell’on. Moro viene bloccata da una Fiato 128 chiara rubata il 23 febbraio 1978 a Bosco Giuliano in Via Monte Brianzo, nei pressi immediati di Piazza Nicosia, come riferisce il Di Cera».
Le informazioni contenute in questo passaggio della sentenza non sono, tuttavia, corrette.
Infatti, l’auto che bloccò la macchina su cui viaggiava Moro non è quella indicata nella sentenza perché Moretti guidava una Fiat 128 familiare di colore chiaro (sulla quale venne apposta la targa CD 19707) rubata a Nando Miconi, l’8 marzo 1978, davanti al suo negozio in Via degli Scipioni 48. Questo veicolo venne abbandonato in via Fani. Invece, la Fiat 128 di colore chiaro di cui parlano i giudici, cioè quella rubata a Giuliano Bosco nei pressi di Piazza Nicosia, venne usata da Lojacono e Casimirri e, subito abbandonata in Via Licinio Calvo, venne trovata dagli inquirenti il 17 marzo 1978.
Quanto all’auto Citroën Dyane è vero che i brigatisti ne utilizzarono una, ma non può trattarsi di quella che i giudici sostengono, sulla base dell’accusa formulata da Walter Di Cera, essere stata rubata da Baciocchi e Savasta.
La macchina, infatti, (come ha sostenuto, senza essere mai smentito sul punto, Valerio Morucci nel suo memoriale) venne rubata il 6 marzo, era di colore azzurro e non è mai stata individuata dalle forze di polizia.
Quando terminò la fase dell’agguato a via Fani, il convoglio brigatista in fuga era composto dalla Fiat 132 guidata da Seghetti (con Moretti, Fiore e il sequestrato), da una Fiat 128 bianca condotta da Casimirri (con Gallinari e Lojacono) e da altra Fiat 128 blu guidata da Morucci (con Bonisoli e Balzerani). Dopo aver percorso piazza Monte Gaudio, via Trionfale sino a largo Cervinia, via Carlo Belli e via Casale De Bustis, il convoglio si immise in via dei Massimi. Superata via Bitossi, Seghetti lasciò la guida della Fiat 132 a Moretti, salì su una Citroën Dyane azzurra, lasciata in quel posto il giorno prima, e si mise al seguito della 132. In piazza Madonna del Cenacolo avvenne il trasbordo di Moro dalla 132 ad un furgone Fiat 850. Morucci salì sulla Dyane guidata da Seghetti che diventò la testa del convoglio. La Citroën Dyane seguì il furgoncino 850 (su cui si trovavano Moretti, Gallinari e Moro) sino a via Isacco Newton, al parcheggio coperto della Standa. Mentre la Dyane restò fuori, il furgoncino 850 entrò nel parcheggio e si accostò ad una Ami 8 Breck guidata da Germano Maccari. La cassa di legno con dentro Moro venne caricata nella Ami che partì con Moretti alla guida e Maccari accanto. Morucci si mise alla guida del furgoncino 850 e si allontanò insieme a Seghetti che conduceva la Dyane. Morucci e Seghetti arrivarono poi a piazza San Cosimato, luogo nel quale i due veicoli vennero abbandonati. [28]
I giudici del Moro ter condannarono Baciocchi e Di Cera perché «il rapporto di causalità materiale e psichica tra il furto delle auto ed il sequestro e l’omicidio dell’On. Moro è evidente», ma, contrariamente ai giudici del Moro uno/bis, l’affermazione della responsabilità non riguardò anche il plurimo omicidio degli uomini della scorta benché i fatti (eccidio della scorta e sequestro) fossero contestuali.
Alla stessa conclusione i magistrati giunsero per i brigatisti Palamà e Perrotta, responsabili di aver distribuito comunicati BR durante il sequestro. Avendo realizzato un «inserimento nella gestione del sequestro», erano corresponsabili del sequestro stesso e del successivo assassinio del presidente DC. [29]
In definitiva, identiche condotte illecite vennero valutate e sanzionate in maniera differente.
Nel Moro uno/bis, gli imputati accusati di aver procurato auto oppure di avere diffuso i comunicati della organizzazione durante il sequestro furono condannati per tutti i delitti principali della vicenda.
Invece, nel Moro ter, ai brigatisti accusati delle medesime condotte venne risparmiata la condanna per l’eccidio della scorta e il tentato omicidio Marini.
La scelta di applicare principi di “attribuzione automatica” della responsabilità penale produsse una ulteriore torsione dei criteri di valutazione della prova.
Gli imputati nella prima vicenda giudiziaria furono riconosciuti colpevoli, indistintamente, anche per tutti i delitti compiuti dalla colonna romana nella imminenza del sequestro e durante il suo protrarsi. Si trattava, in particolare, dell’omicidio del magistrato Riccardo Palma del 14 febbraio ’78, dell’incendio dell’auto del poliziotto Tinu del 7 aprile ’78, dell’attentato alla caserma Talamo dei carabinieri del 19 aprile ’78 e del ferimento del consigliere democristiano Girolamo Menchelli del 26 aprile ’78.
In realtà, durante il processo, Savasta e Libéra non avevano fornito molte informazioni su questi fatti, accusando Prospero Gallinari, per il delitto Palma, e Seghetti, Piccioni ed Arreni, per l’attentato alla caserma.
Ma i giudici decisero che «ne sono responsabili tutti gli imputati attesa la evidente connessione» con il sequestro di Aldo Moro, anche se per molti di essi (in particolare, Braghetti, Mariani, Marini, Spadaccini, Triaca, Savasta, Libèra, Cacciotti e Piunti), peraltro non inseriti in alcuna struttura dirigenziale nazionale o romana, non emergevano prove di una partecipazione, materiale o morale, ai fatti.
La torsione diventò ancor più stridente nel caso di Anna Laura Braghetti, la invisibile proprietaria della abitazione di via Montalcini che, sino al 9 maggio ’78, ovviamente, non poteva e non doveva avere alcun contatto con altri brigatisti, per non compromettere la sicurezza della prigione del popolo. La “invisibilità” della Braghetti (la vita della brigatista, durante il sequestro, era quotidianamente scandita dalla presenza sul luogo di lavoro e dall’immancabile rientro nella abitazione di via Montalcini) dimostrava che la donna ben difficilmente avrebbe potuto partecipare, anche solo come ideatrice, ad altre azioni armate. Eppure, anche la Braghetti venne condannata per gli altri delitti commessi dalla colonna romana tra il febbraio e il 9 maggio 1978. [30]
Germano Maccari, l’altro abitante di via Montalcini, aveva svolto un ruolo identico a quello della Braghetti. Ma, nel suo caso, i magistrati romani fecero scelte diverse da quelle compiute nei primi anni ’80. Si è già sottolineato che il brigatista non fu processato per il tentato omicidio di Alessandro Marini. Inoltre, nel Moro quinquies, Maccari fu giudicato solo per i reati strettamente connessi al sequestro ed alla uccisione di Moro e non per gli altri delitti compiuti dalla colonna romana nella “campagna di primavera”, quelli per i quali la Braghetti era stata condannata. Raimondo Etro, imputato nello stesso processo, fu giudicato e condannato per l’omicidio del magistrato Riccardo Palma perché aveva svolto un ruolo attivo nel delitto. [31]
La sentenza Maccari-Etro matura in un’epoca diversa, distante 18 anni dai fatti di via Fani e 12 anni dalla prima sentenza Moro. Sembra evidente che la magistratura, in una fase storica che progressivamente si allontana dalla cultura emergenziale che ha dominato la vita giudiziaria negli anni ’70 e ’80, muti il proprio atteggiamento e decida di applicare altri criteri di valutazione della prova ed altre regole in materia di concorso di persone nel reato.
Se le prime sentenze si erano pericolosamente allontanate dai canoni della responsabilità personale per condividere quelli della “responsabilità di posizione”, l’indagine ed il processo Maccari-Etro seguirono una linea giudiziaria diversa aprendo la strada ad un orientamento che, oggi, ispira i giudici nell’affermare principi costituzionalmente orientati, ad esempio quelli secondo i quali «il ruolo di partecipe di una organizzazione criminale non è sufficiente a far presumere la sua automatica responsabilità per ogni delitto compiuto da altri appartenenti al sodalizio…giacché dei reati-fine rispondono soltanto coloro che materialmente o moralmente hanno dato un effettivo contributo alla attuazione della singola condotta criminosa…essendo teoricamente esclusa dall’ordinamento vigente la configurazione di qualsiasi forma di anomala responsabilità di posizione o da riscontro di ambiente». [32]
nella foto di Roberto Koch, l’aula bunker del Foro Italico il 14 aprile 1982, giorno di apertura del processo Moro uno/bis
[17] Nel processo Moro uno/bis, la sentenza di primo grado viene emessa dalla Corte di Assise di Roma (Pres. Santiapiachi) il 24 gennaio 1983. Quella di secondo grado (Pres. De Nictolis) è emessa il 14 marzo 1985 e quella della Corte di cassazione (Pres. Carnevale) interviene il 14 novembre 1985. Nel cd. processo Metropoli, la sentenza di primo grado viene emessa il 16 maggio 1987 e quella d’appello il 19 maggio 1988. Nel processo Moro ter, la sentenza di primo grado (Pres. Sorichilli) è del 12 ottobre 1988. La sentenza d’appello è del 6 marzo 1992 e quella della Corte di cassazione (Pres. Valente) viene emessa il 10 maggio 1993. La sentenza di primo grado del processo Moro quater è del 1° dicembre 1994, quella di secondo grado del 3 giugno 1996 e quella della Corte di cassazione del 14 maggio 1997. Infine, nel processo Moro quinquies, la sentenza di primo grado viene emessa il 16 luglio 1996, quella della Corte di Assise di Appello il 19 giugno 1997 e, dopo due annullamenti disposti dalla Corte di cassazione, le condanne diventano definitive nel 1999. Tutti i provvedimenti giudiziari sul caso Moro, con i relativi incartamenti, sono custoditi presso l’Archivio di Stato di Roma.
[18] Per il racconto fornito da alcuni brigatisti che furono protagonisti della operazione Moro v. Mario Moretti (intervista a Rossana Rossanda e Carla Mosca), Brigate Rosse. Una storia italiana, Mondadori, 2017; Prospero Gallinari, Un contadino nella metropoli. Ricordi di un militante delle Brigate Rosse, PGreco, 2014; Anna Laura Braghetti e Paola Tavella, Il prigioniero, Feltrinelli, 2003; Aldo Grandi, L’ultimo brigatista, BUR, 2007; Barbara Balzerani, Compagna luna, DeriveApprodi, 2013.
[19] Per incarico della Commissione parlamentare di indagine sul caso Moro, il Reparto Investigazioni Scientifiche Carabinieri ha svolto accertamenti sulla vicenda Moro. Ha escluso che, nei reperti della base di via Gradoli, vi fossero tracce biologiche riconducibili ad Aldo Moro (dimostrando, in maniera inconfutabile, che Moro non è mai stato nell’appartamento) ed ha, invece, accertato la presenza di profili genetici riconducibili a 2 soggetti maschili ignoti e 2 soggetti femminili ignoti. Inoltre, il RIS accedeva, il 4 maggio 2017, in via Montalcini 8 per effettuare una sperimentazione all’interno del box auto che, nel ’78, apparteneva a Laura Braghetti. Secondo la relazione tecnica «si ritiene che non siano emersi elementi oggettivi tali da sconfessare un’azione di fuoco nel box in questione contro Aldo Moro…le prove reali e virtuali d’ingombro con la Renault4 consentono di non escludere che la vittima sia stata attinta nel bagagliaio mentre l’auto era parcheggiata a retromarcia nel box» (v. audizioni del Comandante RIS Roma, Luigi Ripani, nelle sedute del 30 settembre 2015, 23 febbraio 2017 e 2 marzo 2017 della Commissione Moro). Infine, gli accertamenti tecnici effettuati dalla Polizia Scientifica in via Fani-via Stresa (sul numero dei colpi esplosi, sulla traiettoria dei proiettili esplosi dalle armi usate dai brigatisti ecc.) smentivano sia la ipotesi di un “super sparatore” sia la tesi della presenza, in via Fani, durante l’azione, di persone diverse ed ulteriori rispetto a quelle che sono individuate e condannate dalla magistratura (v. audizione del Dirigente Servizio Centrale Polizia Scientifica nella seduta del 10 giugno 2015 della Commissione Moro).
[20] Sulla identificazione di Corrado Alunni da parte del teste Alessandro Marini v. l’audizione, del 25 marzo 2015, dell’ex giudice istruttore di Roma Ferdinando Imposimato davanti alla Commissione parlamentare di inchiesta sul caso Moro.
[21] Sulla tormentata testimonianza di Alessandro Marini e sul tema della moto Honda usata a via Fani v. Gianremo Armeni, Questi fantasmi. Il primo mistero del caso Moro, cit.; inoltre, v. dell’autore l’articolo, Il secolo breve del testimone di via Fani, in www.questionegiustizia.it, 9 giugno 2023.
[22] L’audizione del Procuratore Generale di Roma Luigi Ciampoli si è svolta nella seduta del 12 novembre 2014 della Commissione parlamentare di inchiesta sul caso Moro e può essere consultata accedendo al sito della Camera dei deputati alla voce Resoconti stenografici–audizioni.
[23] Il funzionario della Polizia di Stato Federico Boffi è stato ascoltato dalla Commissione parlamentare di inchiesta sul caso Moro nelle sedute del 10 giugno ed 8 luglio 2015.
[24] Peci sostenne che Nicolotti, Micaletto, Gallinari, Faranda, Piancone e Bonisoli erano membri del fronte della lotta alla controrivoluzione durante l’interrogatorio reso alla udienza del 17 giugno ’82 nel processo di primo grado Moro uno/bis. Nel corso del processo Moro ter svoltosi innanzi la 2° Corte di Assise di Roma, alla udienza del 7 maggio ‘97, Morucci dichiarò che Luca Nicolotti non era membro del fronte della lotta alla controrivoluzione.
[25] Il memoriale Morucci-Faranda, redatto nella seconda parte degli anni ’80, è divenuto pubblico nel 1990 ed è allegato agli atti del processo di appello del Moro ter.
[26] Alla riunione della Direzione strategica svoltasi in via Fracchia a Genova, nell’appartamento di Anna Maria Ludmann, parteciparono Mario Moretti, Barbara Balzerani, Vincenzo Guagliardo, Nadia Ponti, Riccardo Dura, Luca Nicolotti, Francesco Lo Bianco, Bruno Seghetti, Francesco Piccioni, Renato Arreni, Maurizio Iannelli, Antonio Savasta, Rocco Micaletto, Patrizio Peci e Lorenzo Betassa.
[27] Nel processo Moro uno/bis, Antonio Savasta rese interrogatorio nelle udienze del 28 e 29 aprile, 3, 4, 5, 10, 12 e 17 maggio ’82; Emilia Libéra durante le udienze del 12, 17, 18 e 19 maggio ’82; Patrizio Peci alle udienze del 14, 15, 16 e 17 giugno ’82; Teodoro Spadaccini alle udienze del 2 e 3 giugno ’82; Massimo Cianfanelli nel corso delle udienze del 17, 20 e 24 maggio ’82.
[28] Un interessante e documentato reportage fotografico di tutti i luoghi del sequestro e della fuga verso via Montalcini è stato realizzato dal fotografo Luca Dammico. Il reportage Geografia del caso Moro è consultabile nel sito www.lucadammico.it. Inoltre, una meticolosa ricostruzione del percorso di fuga dei brigatisti da via Fani alla base di via Montalcini è contenuta nel libro di Marco Clementi-Paolo Persichetti-Elisa Santalena, Brigate Rosse. Dalle fabbriche alla campagna di primavera, Vol. I, cit.
[29] Nel gruppo dei condannati con la sentenza di primo grado del Moro ter, solo Perrotta era stato rinviato a giudizio per tutti i fatti principali (uccisione della scorta, tentato omicidio Marini, sequestro ed uccisione di Aldo Moro). A Baciocchi, Di Cera e Palamà i delitti vennero contestati nel corso del processo, ad eccezione di quelli riguardanti l’uccisione della scorta e il tentato omicidio Marini. La sentenza sancì un trattamento uniforme e Perrotta vene assolto per questi ultimi reati. Nel processo di appello, svoltosi nel 1992, Baciocchi, Di Cera e Palamà si avvalsero del nuovo istituto introdotto dall’art. 599 nuovo codice di procedura penale, entrato in vigore nell’ottobre 1989, e definirono la propria posizione in udienza camerale, senza affrontare il dibattimento.
[30] Nel processo d’appello del Moro uno/bis, Caterina Piunti venne assolta per l’omicidio Palma, avvenuto nel febbraio ’78, in quanto restava in dubbio che l’attività svolta dalla imputata nella brigata fosse «in nesso di causalità con la produzione della suddetta azione criminosa». La scelta, condivisibile, di assolvere la Piunti, perché non era dimostrato quale contributo avesse fornito alla consumazione del delitto Palma, non è però coerente con quella, di segno diametralmente opposto, seguita per gli altri imputati in riferimento ai delitti commessi a Roma dalle BR tra febbraio e maggio 1978. Sempre con riferimento all’omicidio del magistrato Riccardo Palma, i processi Moro quater e quinquies (sulla base delle dichiarazioni di Adriana Faranda, Valerio Morucci, Antonio Savasta, Emilia Libéra e Raimondo Etro) stabilirono che la uccisione di Palma, deliberata dal Comitato esecutivo e dalla Direzione della colonna romana, venne organizzata ed eseguita dai componenti del settore romano della lotta alla controrivoluzione: Faranda, Gallinari, Lojacono, Casimirri, Algranati ed Etro. È significativa l’ampia distanza che intercorre tra questo accertamento giudiziale e la decisione dei giudici del processo Moro uno/bis che, invece, condannarono per il delitto Palma anche militanti brigatisti che non integravano il settore della contro.
[31] Raimondo Etro era stato incaricato di svolgere una prima inchiesta preliminare sui movimenti di Moro e della scorta ed aveva disegnato la planimetria della zona della chiesa situata in piazza dei Giochi Delfici. Etro sarà poi estromesso dall’azione di via Fani per manifesta incapacità. Durante le fasi preparatorie della operazione, nella zona di via Trionfale-angolo via Fani, avrebbe dovuto controllare gli orari di passaggio della scorta e avvisare gli altri brigatisti con un walkie-talkie, ma non riuscì a farlo perché sopraffatto dalla paura. Una situazione analoga avvenne anche in occasione della uccisione del magistrato Riccardo Palma perché Etro, che era incaricato di sparare al magistrato, non ebbe il coraggio di farlo. Fu Prospero Gallinari ad intervenire, prendendo il posto di Etro ed ammazzando Palma.
[32] Il brano è tratto dalla sentenza emessa dalla VI Sezione Penale della Corte di cassazione, Pres. Ippolito, il 17 settembre 2014.