Magistratura democratica
Magistratura e società

Il caso Moro. Per un'analisi delle sentenze (parte prima)

di Pino Narducci
presidente della sezione riesame del Tribunale di Perugia

Le indagini che si avviarono nel marzo ‘78, secondo un giudizio storico ormai consolidato, si svolsero all’insegna della più assoluta impreparazione. Nella capitale, forze di polizia e magistratura non possedevano alcuna conoscenza della struttura brigatista, del suo gruppo dirigente e del suo insediamento nel territorio urbano. Pur avendo tra le proprie mani le registrazioni di diverse telefonate fatte dai brigatisti durante il sequestro (tutti hanno in mente quella fatta da Mario Moretti, il 30 aprile, alla famiglia del prigioniero e quella del 9 maggio con la quale il dottor Nicolai, cioè Valerio Morucci, comunicava al prof. Franco Tritto che il cadavere di Moro si trovava in via Caetani), per lunghissimo tempo gli inquirenti non riuscirono a stabilire a quale volto appartenessero quelle voci ed attribuirono quelle telefonate, di volta in volta, a persone che, in realtà, non c’entravano nulla con il sequestro Moro[1]

Non avendo alcuna idea sulla composizione del nucleo che aveva agito in via Fani, gli investigatori romani controllarono la possibile presenza a Roma, sia il 16 marzo che il 9 maggio, di decine di aderenti o simpatizzanti di formazioni della sinistra extraparlamentare di varie città italiane («sospettabili di vicinanza alle BR»), accertamento che, ovviamente, non poteva produrre alcun risultato. 

Quanto al luogo di prigionia di Moro, solo nel 1985 gli inquirenti stabilirono, in maniera definitiva, che il presidente della Democrazia cristiana era sempre stato, per l’intera durata del rapimento, in un appartamento situato al primo piano di un edificio che si trovava in via Montalcini 8[2].

Patrizio Peci aveva iniziato a collaborare nell’aprile ’80 e, nel gennaio ’81, il giudice istruttore romano Ernesto Cudillo fece un primo bilancio delle indagini. Dispose il rinvio a giudizio di molte persone ritenute responsabili della vicenda Moro, ma dovette anche emettere una sentenza con la quale riconoscere che diverse altre – colpite da mandati di cattura che contestavano il reato di partecipazione alla banda armata Brigate Rosse e quello di partecipazione ai fatti del 16 marzo e 9 maggio ’78 – erano estranee a quei fatti. Cudillo prosciolse dalle accuse principali Corrado Alunni, Maria Fiore Pizzi Ardizzone, Enrico Bianco, Giovanni Lugnini, lo stesso Patrizio Peci, Franco Pinna, Oriana Marchionni, Susanna Ronconi, Giustino De Vuono e Antonio Negri[3]

Peci, tuttavia, non aveva partecipato alla azione di via Fani e, nel ’78, non era ancora diventato responsabile della colonna torinese. Le sue informazioni sulla operazione Moro erano scarne ed imprecise, per lo più frutto di alcune notizie fornite da Raffaele Fiore. Negli anni successivi si aggiunsero altre testimonianze, ben più importanti, provenienti da brigatisti appartenenti alla colonna romana, perché solo i romani potevano raccontare quello che era realmente accaduto. Le informazioni di Antonio Savasta ed Emilia Libéra, ma, soprattutto, quelle di Valerio Morucci e Adriana Faranda (ciascuno sempre tenacemente geloso della definizione, dai confini in verità assai labili, che riservava per sé: Morucci e Faranda imputati dissociati, Savasta e Libéra collaboratori di giustizia) saranno i pilastri su cui i giudici scriveranno le sentenze emesse dalla Corte di Assise di Roma, negli anni ’80 e 90, al termine di ben cinque processi: Moro uno/bis, Moro ter, Moro quater, Moro quinquies e cd. processo Metropoli. 

Se la ossessiva tentazione di rincorrere zone d’ombra per svelare i presunti misteri del caso Moro rischia di trasformare in farsa una delle maggiori tragedie della nostra storia, come sostiene lo storico Marco Clementi[4], appare allora molto più utile fermarsi a valutare i documenti di quei processi per comprendere se, ormai giunti a quasi 50 anni dal 16 marzo ‘78, la verità giudiziaria resista, ed in quale misura, alla straordinaria forza della verità storica. 

Dunque, valutare i fatti descritti nei provvedimenti giudiziari non per scovare vuoti narrativi da riempire con ipotesi alternative - come suggeriscono quelli che sostengono che ogni avvenimento di quella primavera è frutto di cospirazioni ordite da forze inafferrabili - ma per trovare soluzioni ad alcune domande in ordine alle quali le sentenze non sempre hanno fornito risposte convincenti.  

Quanti furono i brigatisti coinvolti, complessivamente, nella “operazione Fritz”[5]? Quanti sono stati individuati e processati? Manca ancora qualcuno all’appello? O, forse, il numero degli inquisiti e dei condannati, al contrario, è più che esaustivo ed anzi si rivela eccessivo rispetto alle reali forze messe in campo dalle Brigate Rosse nella primavera ‘78? 

Anzitutto, se aggiungiamo all’elenco dei condannati quello degli imputati prosciolti in istruttoria o assolti nei processi, scopriamo che la magistratura ha complessivamente inquisito oltre 50 persone, forse anche più. Una cifra decisamente spropositata. 

Le sentenze dedicate al caso Moro, accanto ad ampi ed innegabili punti fermi di verità, non sempre ci offrono una immagine nitida delle responsabilità personali benché, alla fine, il processo penale, anche quando si occupa di attività delittuose commesse da organizzazioni, abbia il compito di accertare e sanzionare le condotte degli individui. 

Così, leggendo, in particolare, i provvedimenti giudiziari dei processi Moro uno/bis e Moro ter, per alcuni imputati scorgiamo distintamente luci ed ombre mentre per altri l’immagine è così sfocata da rendere indistinguibili i contorni della responsabilità.      

I fatti storici, cioè gli accadimenti che nei processi diventarono i reati principali contestati a tutti gli imputati (fa eccezione, per un solo aspetto, il processo Moro quinquies), furono sempre quattro: il plurimo, premeditato omicidio degli uomini della scorta (il maresciallo Oreste Leonardi, l’appuntato Domenico Ricci e i poliziotti Francesco Zizzi, Giulio Rivera e Raffaele Iozzino); il sequestro a scopo di estorsione del presidente della Democrazia Cristiana, dal giorno del rapimento al 9 maggio; il tentato omicidio di Alessandro Marini, un cittadino romano che si trovava casualmente all’angolo tra via Stresa e Via Fani la mattina del 16 marzo e contro il quale venne esplosa una raffica di mitra; l’uccisione premeditata di Aldo Moro avvenuta il 9 maggio nella base di via Montalcini 8[6]

Se è ampiamente provato, sul piano storico e nei processi, che il piano (annientamento della scorta e rapimento in via Fani) venne messo a punto nel corso di circa due mesi e che i delitti del 16 marzo sono chiaramente premeditati, non è invece scontato definire il perimetro all’interno del quale collocare l’omicidio del 9 maggio, un confine temporale necessario per individuare le responsabilità per un delitto certamente premeditato che, però, non prese avvio il giorno del sequestro. 

Sappiamo che le Brigate Rosse non intendevano, sin dall’inizio, sopprimere la vita del presidente democristiano. 

«Non c’era nulla di programmato rispetto alla sorte di Moro, quindi neanche il tempo della sua detenzione. Si prevedeva che, avendo aperto una complessa campagna politico-militare di cui Moro era il perno politico, i tempi sarebbero stati necessariamente lunghi. C’era anche un altro tipo di operazione a pari livello nel mondo economico…a Milano era già pronto il sequestro di Leopoldo Pirelli», ha raccontato Lauro Azzolini, componente del comitato esecutivo delle BR nel ‘77’/’78[7]

Infatti, l’azione di via Fani fu costruita per rapire e processare il presidente della Democrazia Cristiana e la possibilità di liberazione del sequestrato, tra marzo ed aprile, fu sempre una opzione concreta e possibile, almeno sino ad un certo momento, opzione chiaramente ricercata ed auspicata dalle BR. Se il prigioniero fosse stato rilasciato a fine aprile in cambio della liberazione anche di una sola persona della lista che conteneva 13 nomi di detenuti o, quantomeno, del riconoscimento politico da parte della Democrazia Cristiana che, in Italia, esistevano prigionieri politici, le BR avrebbero ottenuto un innegabile successo. 

Questa fu la soluzione ricercata insistentemente, soprattutto per iniziativa di Mario Moretti, sino ai primi giorni di maggio, ma senza alcun esito. 

D’altronde, i brigatisti presenti in via Montalcini hanno sempre ricordato che il prigioniero ebbe rapporti con due sole persone (Moretti e Gallinari), che avevano sempre il volto coperto, e che Aldo Moro non si rese mai conto che, nell’appartamento, vivevano Anna Laura Braghetti e Germano Maccari. Queste scrupolose precauzioni furono adottate, appunto, per evitare che il sequestrato, tornato in libertà, potesse fornire informazioni sulla prigione del popolo. 

Sempre Lauro Azzolini ha sostenuto che le BR avevano deciso che, anche se la prigione di via Montalcini fosse stata accerchiata dalle forze di polizia, il prigioniero non doveva essere ucciso ed i brigatisti avrebbero dovuto avviare una trattativa: ottenere garanzie per la propria incolumità in cambio della salvezza del presidente della DC. 

La decisione di uccidere il prigioniero venne, quindi, adottata dal comitato esecutivo delle BR nel periodo successivo alla diffusione del comunicato n. 7 del 20 aprile («il rilascio del prigioniero Moro può essere preso in considerazione solo in relazione alla liberazione di prigionieri comunisti») e del comunicato n. 8 del 25 aprile con il quale si chiedeva la liberazione di 13 detenuti esattamente individuati, richiesta che non ottenne aperture nel mondo politico ed istituzionale e che indusse poi la organizzazione – soprattutto non avendo colto alcun segnale di possibile dialogo dopo la telefonata di Mario Moretti del 30 aprile - ad annunciare, nel comunicato n. 9 del 6 maggio, che le BR si apprestavano ad eseguire la sentenza cui il presidente della DC era stato condannato. Il periodo in cui matura la decisione di uccidere Aldo Moro è dunque, all’incirca, quello che va dagli ultimi giorni di aprile al 9 maggio. Nelle pagine che seguono è possibile comprendere perché questa precisazione, opportuna dal punto di vista storico, è utile anche sul piano giuridico.

Le sentenze dei giudici romani, tutte definitive da moltissimi anni, hanno stabilito che 31 persone sono responsabili per i reati della vicenda Moro. Ma se 27 imputati sono stati condannati sia per fatti di via Fani (uccisione della scorta, tentato omicidio di Alessandro Marini e sequestro di Aldo Moro) che per l’omicidio in via Montalcini, quattro brigatisti sono stati riconosciuti responsabili solo per due dei quattro delitti principali.

In realtà, a contar bene, i condannati dovrebbero essere 32, ma si è determinata una situazione singolare perché la brigatista Rita Algranati, militante irregolare della colonna romana e componente del nucleo che portò a termine l’azione in via Fani, è stata assolta in via definitiva perché, quando venne processata, non era ancora emersa la sua presenza la mattina del 16 marzo né il ruolo che aveva svolto nella preparazione del sequestro.

Per valutare le sentenze non possiamo non partire dalla storia, quella che avviene ben prima che comincino i processi. Dobbiamo tornare al 1977.   

Hanno già studiato alcuni sui movimenti un anno prima, in una sorta di pre-inchiesta, ma, solo alla fine della estate ’77, le Brigate Rosse, scartate definitivamente le iniziali opzioni Giulio Andreotti e Amintore Fanfani, decidono di avviare la complessa operazione che, alcuni mesi dopo, conduce al sequestro di Aldo Moro. Mario Moretti, il membro più autorevole del Comitato esecutivo (formato anche da Rocco Micaletto, Franco Bonisoli e Lauro Azzolini), negli ultimi giorni di settembre/primi giorni di ottobre, incontra la Direzione della colonna romana (composta da Bruno Seghetti, Barbara Balzerani, Prospero Gallinari, Valerio Morucci e Adriana Faranda) in un villino a Velletri, da poco adibito a base del gruppo dirigente brigatista della capitale. Moretti comunica che l’attacco alla Democrazia cristiana avverrà al più alto livello politico possibile, mediante il sequestro del suo Presidente, ed affida alla dirigenza della colonna la elaborazione del piano: osservare i movimenti di Moro e della scorta, scegliere il luogo in cui sequestrarlo e studiare con scrupolo anche il non meno importante percorso al termine del quale il rapito dovrà arrivare nella prigione del popolo. L’unico compito che non viene affidato alla colonna romana è quello della individuazione della abitazione in cui il rapito sarà tenuto prigioniero, aspetto di cui si occuperà personalmente Mario Moretti. 

Le Brigate Rosse romane hanno assunto una completa fisionomia solo nel corso del ‘77, grazie all’iniziale dinamismo di Moretti e dei milanesi Bonisoli e Carla Brioschi, tutti giunti nella capitale, tra fine del ’75 e gli inizi del ’76, per creare una struttura della organizzazione nella città al di fuori della quale è impensabile portare l’attacco al cuore dello stato, cioè, nella visione delle BR, al partito-regime che con lo stato si identifica, la Democrazia Cristiana. Il reclutamento a Roma è stato notevole e nelle BR sono entrati molti giovani con esperienze di lavoro illegale e di azioni armate maturate in altre formazioni della multiforme galassia della sinistra estrema. 

L’obiettivo della azione che prende forma a Velletri è un esponente politico e, quindi, secondo le regole della organizzazione, lo studio del piano richiede il coinvolgimento dei brigatisti che integrano il settore romano della lotta alla controrivoluzione: con Gallinari e Faranda ne fanno parte anche i militanti irregolari Rita Algranati, Alvaro Lojacono, Alessio Casimirri e Raimondo Etro. 

Le BR devono reperire una abitazione sicura che sarà destinata a luogo di prigionia di Moro. Serve, quindi, un prestanome che non attiri sospetti e che non sia conosciuto dalle forze di polizia. Bruno Seghetti presenta a Moretti la sua compagna, Anna Laura Braghetti, che accetta la proposta del dirigente BR di acquistare un appartamento che - questo solo comunica Moretti alla Braghetti - sarà utilizzato per una importante azione delle BR. La donna deve trovarlo nella zona dei Colli Portuensi e, quindi, nel giugno ’77, acquista un appartamento situato al primo piano di un condominio di via Montalcini 8 per una somma di 45 milioni di lire in contanti, denaro proveniente dal sequestro Costa. L’edificio si trova in un quartiere di media borghesia e, ad agosto ’77, Braghetti inizia ad abitare l’appartamento ed a socializzare con gli altri condomini. Quello che presenta come marito, l’ingegnere Luigi Altobelli, è in realtà Germano Maccari, anche lui da poco reclutato nella colonna romana. Braghetti e Maccari non devono svolgere nessun compito particolare, se non quello di abitare la casa ove Moro sarà tenuto prigioniero. Se non è conosciuta dalle forze di polizia, nemmeno i brigatisti romani (con la eccezione di alcuni militanti dell’area Centocelle-Torre Spaccata) conoscono Anna Laura Braghetti e, certamente, non sanno che lei è la proprietaria dell’appartamento che sarà la prigione di Moro.

Pur consapevole che Braghetti è la prestanome scelta dalla organizzazione, anche Bruno Seghetti ignora dove si trovi la abitazione acquistata dalla sua compagna.   

Nella preparazione della “operazione Fritz” le Brigate Rosse mettono in pratica un doppio livello di compartimentazione. Anzitutto, nessun brigatista diverso da quelli che pianificano ed attueranno il piano militare deve sapere cosa avverrà il 16 marzo. Il secondo livello prevede che l’abitazione che diventerà prigione del popolo sia sconosciuta anche ai brigatisti che sequestreranno Moro, fatta eccezione per Moretti e Gallinari. 

Le BR hanno anche un piano di riserva pronto a scattare in caso di emergenza. Se, il giorno scelto per la operazione, le cose si metteranno male (ad esempio, con la uccisione o il ferimento di Moretti e Gallinari), Seghetti cercherà la Braghetti presso il luogo di lavoro della donna ed Aldo Moro, provvisoriamente collocato nella base di via Chiabrera 74, sarà poi subito trasportato a via Montalcini[8].      

Mentre la Braghetti cerca la casa ai Colli Portuensi, si dipanano altre due vicende che con la storia del sequestro, in realtà, non c’entrano nulla, ma che si intrecceranno a questa, a partire da maggio, nel corso delle indagini e del processo. 

Enrico Triaca, divenuto militante irregolare brigatista nel ’76, fitta un locale su indicazione di Mario Moretti e, nel marzo ’77, apre una tipografia in via Pio Foà 31 che servirà per la stampa del materiale della organizzazione[9]. In questo compito lo aiuta Antonio Marini, altro militante irregolare. 

La compagna di Marini, Gabriella Mariani, nel luglio ’77, sempre per incarico di Moretti, acquista, con i soldi del sequestro Costa, una abitazione in via Palombini 19 nella quale vive insieme al compagno. L’appartamento costituisce la base di quello che le BR immaginano possa diventare, nel tempo, un robusto settore della stampa e propaganda.           

I componenti della direzione di colonna studiano i movimenti di Moro e verificano che, spesso, la mattina, si ferma nella chiesa di Santa Chiara in piazza dei Giochi Delfici[10]. In quel momento, le BR ritengono ancora di poter realizzare il sequestro senza uccidere gli uomini della scorta, ma la scelta del rapimento all’interno della chiesa non solo comporta il rischio altissimo del conflitto a fuoco, ma anche quello del coinvolgimento di estranei perché nelle vicinanze esiste una scuola elementare. Circa due mesi prima del 16 marzo, Bruno Seghetti incarica Antonio Savasta, componente della brigata Università, di osservare i movimenti di Moro quando si reca nella facoltà di Scienze Politiche nella quale insegna «Istituzioni di diritto e procedura penale». Tuttavia, la facoltà non è un luogo adatto per una azione armata. Savasta comunica la sua valutazione negativa a Seghetti che, però, decide di compiere personalmente una ulteriore perlustrazione. Poi si arrende alla evidenza. Savasta ha ragione. 

Dopo ulteriori ricognizioni (le svolgono sul campo i dirigenti della colonna), si decide che il rapimento avverrà nella zona di Roma nord, lungo il percorso che Aldo Moro compie abitualmente partendo dalla sua abitazione di via Forte Trionfale. All’angolo tra via Fani e via Stresa, un’auto guidata da Moretti bloccherà la marcia dei due veicoli sui quali viaggiano Moro e gli uomini della scorta. Dopo aver ucciso i poliziotti e i carabinieri, il Presidente della DC sarà condotto a via Montalcini. 

Anche il piano di fuga viene meticolosamente studiato dalla colonna romana, in particolare da Morucci e Seghetti. I brigatisti devono sequestrare un Moro incolume e condurlo sino alla prigione del popolo per processarlo. Un percorso di circa 12 km., dalla Balduina a Roma sud-ovest. E’, quindi, necessario pianificare un tragitto che garantisca le migliori probabilità di successo. Per realizzare l’obiettivo, i brigatisti devono mimetizzarsi durante la fuga, evitando le arterie principali e scegliendo strade secondarie, anche private, per non incrociare auto delle forze di polizia che accorreranno in massa nella zona del sequestro. Inoltre, la mimetizzazione attuata attraverso il cambio dei veicoli, collocati in precedenza lungo il percorso di fuga, serve ad evitare che possibili testimoni possano segnalare il tragitto alle forze di polizia e condurle alla zona ove si trova la prigione del popolo. 

A febbraio, quando la Direzione strategica si riunisce nel villino di Velletri, il piano è stato definito ed è già stato deciso che l’azione avverrà a via Fani. Infatti, i membri della dirigenza nazionale, come ricorda Adriana Faranda che a quella riunione partecipa, discutono, in termini politici, della campagna di primavera ed approvano la risoluzione che sarà poi divulgata nel corso del sequestro. Ma, in quell’incontro, non si discute di ciò che avverrà solo un mese dopo[11].

Alla vigilia della operazione, le brigate della colonna romana (Torre Spaccata, Centocelle, Università, Servizi e Primavalle) ricevono l’indicazione di rubare alcuni modelli di macchine e furgoni. Saranno i mezzi da utilizzare nella azione di via Fani e lungo il percorso della fuga. Alla fine, la maggior parte dei veicoli viene rubata da Seghetti e da altri brigatisti in un megaparcheggio situato sul lungotevere, dietro il mausoleo di Augusto.

L’operazione politico-militare più importante nella storia delle Brigate Rosse sarà portata a termine da Mario Moretti e dai componenti della colonna romana ai quali si affiancheranno Raffaele Fiore, responsabile della colonna torinese, e il milanese Franco Bonisoli, membro del comitato esecutivo. A poche ore dalla operazione che sta per iniziare, il piano che conduce al sequestro di Aldo Moro è conosciuto solo dai componenti del comitato esecutivo e della direzione della colonna romana, dai tre militanti irregolari romani che si troveranno in via Fani, da Raffaele Fiore, dalla coppia Braghetti-Maccari che attende l’arrivo del prigioniero a via Montalcini e, probabilmente, da Raimondo Etro, che sosterrà, molti anni dopo, di aver saputo della operazione da Alessio Casimirri, il 14 marzo. 

In tutto, quindici/sedici persone. Nessun altro brigatista, membro delle strutture nazionali della organizzazione o componente delle brigate romane, conosce in anticipo quello che sta per accadere. 

La mattina del 16 marzo ’78, l’azione militare a via Fani viene portata a termine da 10 persone che svolgono compiti diversi: Rita Algranati, Mario Moretti, Bruno Seghetti, Prospero Gallinari, Raffaele Fiore, Franco Bonisoli, Barbara Balzerani, Valerio Morucci, Alessio Casimirri ed Alvaro Lojacono. Uccisi gli uomini della scorta e caricato Moro sulla 132 guidata da Seghetti, il convoglio brigatista attraversa la città. Nel parcheggio sotterraneo della Standa in via Isacco Newton, la cassa in cui è nascosto il prigioniero viene presa in consegna da Moretti e Maccari che conducono, infine, il rapito nella abitazione ai Colli Portuensi, ove resterà sino alla mattina del 9 maggio. Solo Moretti, Maccari, Braghetti e Gallinari conoscono la prigione del popolo. 

Durante i giorni del sequestro, il compito di recapitare i comunicati e le lettere di Moro è affidato esclusivamente alla coppia Morucci-Faranda, che vive nella base di via Chiabrera 74 (i brigatisti romani che la conoscono la chiamano “l’ufficio”), e a Bruno Seghetti. 

Ricevono i documenti dalle mani di Mario Moretti che ha il compito di interrogare il sequestrato e di tenere i rapporti con gli altri membri del comitato esecutivo che incontra, in una prima fase, a Firenze e, poi, in un secondo momento, in una base a Rapallo. Morucci e Seghetti sono i brigatisti che, usando cabine pubbliche, telefonano alle redazioni dei giornali, alle radio libere e alle agenzie di stampa per far trovare i comunicati oppure comunicano con i familiari o con alcuni amici intimi del prigioniero. 

Il 1° marzo ’78, Bruno Seghetti ruba un’auto Renault 4 amaranto nella zona di Piazza Cavour. In quel momento, il veicolo è solo uno dei molti mezzi nella disponibilità della colonna romana, tanto da essere utilizzato, il 19 aprile, per compiere un attentato alla caserma Talamo che ospita l’VIII Battaglione Carabinieri in via Ponte Salaria e che, qualche volta, viene utilizzata come base di lavoro dal generale Carlo Alberto dalla Chiesa quando si trova nella capitale.

Il 3 aprile ’78, una gigantesca “retata” rischia di cambiare il corso del sequestro. La Questura di Roma stila un lunghissimo elenco di perquisizioni da compiere nelle abitazioni di ex militanti di Potere operaio e di persone che gravitano nell’area della Autonomia. Alcuni nomi risultano da un vecchio controllo, che risale al ’75, di giovani presenti ad una riunione che si era svolta a via dei Volsci. I carabinieri della Compagnia San Pietro suonano al campanello della abitazione dei genitori di Alessio Casimirri a via Germanico 42 ed il padre, Luciano, li conduce nell’appartamento di via del Cenacolo 56 dove il figlio vive con Rita Algranati. La perquisizione non ha un esito positivo, ma l’organizzazione, per sicurezza, “congela” i due membri del fronte di lotta alla controrivoluzione. Nella stessa giornata, i poliziotti si presentano nella abitazione ove è residente Bruno Seghetti, nel quartiere Centocelle. Seghetti, militante regolare legale, vive, però, da un’altra parte, in un minuscolo appartamento della organizzazione situato a Borgo Pio, lo stesso dal quale, la mattina del 16 marzo, lui e Raffaele Fiore sono usciti per recarsi a via Fani. Se la polizia deciderà di continuare ad indagare sul suo conto, esiste il pericolo che gli inquirenti estendano le investigazioni alla compagna di Seghetti, Anna Laura Braghetti, ed arrivino a via Montalcini. Per questa ragione, il brigatista compie una mossa inaspettata e si presenta spontaneamente negli uffici della polizia poiché lui non ha nulla da nascondere e vuole sapere perché lo stanno cercando. La visita produce gli effetti sperati ed i poliziotti, a partire da quel momento, si disinteressano di Seghetti. Tuttavia, il brigatista è costretto a smantellare ed abbandonare la base di Borgo Vittorio 5[12]

Il 18 aprile, nello stesso giorno nel quale viene diffuso il falso comunicato sul corpo di Moro che si trova nel lago della Duchessa, viene scoperta la base di via Gradoli 96, abitata da Barbara Balzerani e, solo saltuariamente durante il sequestro, da Mario Moretti. La individuazione della base (contrariamente a quanto sostenuto da alcuni, l’appartamento non è mai stato «la centrale operativa del sequestro Moro»), tuttavia, non può imprimere una svolta alle indagini finalizzate a trovare la prigione del popolo.

Circa dieci giorni prima dell’epilogo della vicenda, Seghetti affida la Renault 4 ad Antonio Savasta che ha il compito di “gestirla”. Poi Seghetti chiede di avere indietro l’auto nel cui bagagliaio, la mattina del 9 maggio, all’interno del box di via Montalcini, Moro viene ucciso da Mario Moretti, che ha al suo fianco Germano Maccari. Moretti e Maccari partono dai Colli Portuensi e, a piazza Monte Savello, vengono agganciati da Seghetti e Morucci insieme ai quali si recano in via Caetani ove l’auto, con dentro il corpo di Moro, viene abbandonata. Valerio Morucci telefona a Franco Tritto, assistente del presidente DC nella facoltà universitaria, per comunicargli il posto esatto ove ritrovare il corpo del presidente della DC. 

Il 17 maggio ‘78, la Polizia scopre la tipografia di via Pio Foà. Dopo essere stato torturato, Enrico Triaca conduce i poliziotti alla base di via Palombini in cui vengono arrestati Antonio Marini e Gabriella Mariani[13]

Anche Teodoro Spadaccini, membro della brigata Università, viene catturato. 

Anna Laura Braghetti, che diventa militante regolare e passa alla clandestinità nell’estate/autunno del 1978, viene arrestata il 27 maggio 1980, ma trascorre ancora molto tempo prima che si scopra il ruolo ricoperto dalla donna nel sequestro. Ancor più tempo occorre per scoprire chi si nasconda dietro il nome Luigi Altobelli. Negli anni ’90, la identificazione di Germano Maccari e la sua confessione chiudono la lunga fase della indagine sui responsabili della vicenda Moro[14].

Quando inizia il processo di primo grado nel 1982, molti responsabili dei fatti di via Fani (Moretti, Seghetti, Gallinari, Fiore, Bonisoli, Azzolini, Micaletto) sono già stati arrestati. Solo alcuni, come Barbara Balzerani, sono in fuga. Su altri (Algranati, Casimirri, Lojacono, Maccari, Etro) non esiste ancora alcun sospetto.

Anche gli accusatori si trovano in carcere.

Morucci e Faranda, dopo aver abbandonato le BR ed aver portato via armi e denaro della organizzazione, sono stati arrestati a Roma il 29 maggio ’79.

Savasta e Libéra, divenuti militanti della nuova formazione Brigate Rosse-Partito Comunista Combattente, vengono catturati a Padova, il 28 gennaio ’82, mentre, nella città veneta, è in corso il sequestro del generale statunitense James Lee Dozier. Torturati, con altri brigatisti, nelle stanze del reparto celere di Padova, decidono subito di collaborare[15]

Il patrimonio di conoscenze dei giudici del processo Moro uno/bis di primo grado, fondato essenzialmente sulle informazioni fornite da Peci, Savasta e Libéra, è ancora incompleto ed approssimativo e la sentenza ritiene che siano stati provati alcuni fatti, narrati dai collaboratori, che saranno, in seguito, seccamente smentiti da altre risultanze processuali ben più solide.

Ad esempio, illustrando la posizione di Lauro Azzolini, i magistrati scrivono che «Patrizio Peci e Antonio Savasta hanno inchiodato in maniera definitiva il prevenuto alle sue responsabilità sostenendo che costui…fu tra i componenti del commando che il 16 marzo 1978 portò a termine l’eccidio degli agenti di scorta ed il sequestro del parlamentare secondo un piano prefissato». Il processo di appello smentirà questa ricostruzione ed Azzolini, che non si trovava a via Fani, sarà condannato per la vicenda Moro solo in quanto membro del comitato esecutivo. 

Un’altra informazione completamente errata riguarda Faranda che «prese parte di persona alla tragica azione, seguendo i suoi complici sulla Fiat 128 con targa diplomatica che provocò il tamponamento con le vetture dell’On Aldo Moro e con l’Alfetta della Polizia» e Morucci che «secondo i pentiti, scese con Prospero Gallinari dalla Fiat 128 con targa diplomatica, si avvicinò all’autovettura del parlamentare e aprì il fuoco su Ricci Domenico e Oreste Leonardi». 

Saranno proprio i due protagonisti del racconto a chiarire che sulla Fiat 128 che si arrestò all’incrocio tra via Fani e via Stresa c’era solo Mario Moretti e che il brigatista non sparò durante l’azione; che Morucci, vestito da pilota Alitalia, non era sull’auto con Moretti, ma – con Gallinari, Bonisoli e Fiore - si trovava davanti al bar Olivetti e, soprattutto, che Adriana Faranda, la mattina del 16 marzo, si trovava nella base di via Chiabrera 74, in attesa della fine della operazione e del ritorno di Valerio Morucci.

Anche il professore Enrico Fenzi, dissociatosi dalle attività della colonna genovese, contribuì a creare un meccanismo di alterazione dei fatti storici perché, così testualmente si legge nella sentenza di primo grado, «ha attribuito al Nicolotti un ruolo ben più consistente, affermando senza mezzi termini, sulla base delle sue dirette cognizioni, che costui, unitamente a Riccardo Dura, fu inserito nel commando che il 16 marzo 1978 si parò in armi dinanzi alle autovetture su cui viaggiavano il presidente della Democrazia cristiana e gli uomini della scorta». In realtà, le “dirette cognizioni” di Fenzi non erano fondate sulla conoscenza degli avvenimenti perché, come riconoscerà lui stesso, si limitava a formulare delle ipotesi. Infatti, nessun militante della colonna genovese prese parte alla “operazione Fritz” ed i giudici del processo d’appello, dopo aver ascoltato il più credibile racconto di Morucci e Faranda, presero le distanze dai colleghi del primo grado condannando Nicolotti, ma non perché fosse presente a via Fani[16].

La sentenza di appello corresse, dunque, diverse informazioni errate, ma confermò le condanne inflitte in primo grado. Al termine dei tre gradi di giudizio, nel 1985, i brigatisti condannati in via definitiva furono 23: Mario Moretti, Prospero Gallinari, Lauro Azzolini, Franco Bonisoli, Rocco Micaletto, Raffaele Fiore, Luca Nicolotti, Cristoforo Piancone, Anna Laura Braghetti, Bruno Seghetti, Barbara Balzerani, Adriana Faranda, Valerio Morucci, Gabriella Mariani, Antonio Marini, Teodoro Spadaccini, Enrico Triaca, Francesco Piccioni, Antonio Savasta, Giulio Cacciotti, Emilia Libéra, Caterina Piunti e Massimo Cianfanelli. 

I giudici ritennero che i delitti di via Fani e via Montalcini fossero addebitabili non solo ai componenti del Comitato Esecutivo e della direzione della colonna romana, ma anche ai membri dei fronti nazionali della organizzazione, in particolare il fronte della lotta alla controrivoluzione, nonché ai militanti della colonna romana che avevano svolto funzioni di organizzazione importanti per la vita e il funzionamento della colonna oppure erano stati impegnati nella attività di propaganda durante il sequestro. 

(continua)

 

Nella foto lo schizzo della azione di via Fani disegnato da Mario Moretti e consegnato dallo storico Marco Clementi alla Commissione parlamentare di inchiesta sul caso Moro nella audizione del 17 giugno 2015  

 

[1] Prima che saltasse fuori che la voce era di Mario Moretti, la magistratura ritenne che l’autore della telefonata del 30 aprile ’78 alla famiglia Moro fosse il professor Toni Negri. Addirittura, per quella del 9 maggio ’78 al professor Franco Tritto, fatta da Valerio Morucci, la responsabilità ricadde sul giornalista veneto Giuseppe Nicotri, arrestato nell’ambito della cd. indagine 7 aprile e poi scarcerato dalla magistratura romana il 7 luglio ’79 e scagionato dalle accuse.   

[2] Quando il ruolo di Anna Laura Braghetti nella vicenda Moro era stato già quasi ampiamente disvelato, il 17 giugno 1985, i giudici istruttori romani Rosario Priore e Ferdinando Imposimato, con la presenza degli ex brigatisti Valerio Morucci e Adriana Faranda, ispezionarono l’appartamento. Morucci fece notare che, sul pavimento in parquet, esisteva una lunga striscia di colore più scuro rispetto a quello del legno residuo. Morucci non era mai stato prima in questa abitazione, ma riteneva che potesse trattarsi del luogo in cui era stato custodito Moro perché in quella stanza poteva essere stata ricavata una prigione larga m. 1,15 circa e lunga m. 4 circa, senza finestre. Inoltre, sosteneva Morucci, la costruzione di questa prigione non avrebbe comportato la eliminazione di un vano, cosa che invece sarebbe accaduta nella stanza attigua.

[3] v. Sentenza-Ordinanza del giudice istruttore Ernesto Cudillo del 15 gennaio 1981.     

[4] v. l’articolo a firma Marco Clementi Il rapimento di Aldo Moro è l’ossessione degli storici da bar sul quotidiano domani del 15 marzo 2024.

[5] Il nome scelto dai brigatisti per definire l’operazione di via Fani, “operazione Fritz”, è frutto della storpiatura della parola “frezza” che stava ad indicare il ciuffo di capelli bianchi presente sulla testa di Aldo Moro

[6] Quando avvennero i fatti di via Fani, il 16 marzo 1978, il codice penale contemplava una sola norma applicabile alla vicenda concreta, cioè al rapimento di Aldo Moro: il delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione previsto dall’art. 630 c.p., come modificato dalla legge 14 ottobre 1974 n. 497. La norma puniva il responsabile del reato con una pena massima di 25 anni di reclusione e, soprattutto, non prevedeva l’ipotesi che, durante il sequestro, avvenisse la morte del rapito, fatto questo che continuava ad essere punito dalla norma del codice penale sull’omicidio volontario (art. 575 c.p.). Pochi giorni i fatti di via Fani, il 21 marzo 1978, venne emanato il decreto-legge n. 59 (poi convertito, con modificazioni, nella L. 18 maggio 1978 n. 191) che modificava l’art. 630 Codice penale prevedendo, anzitutto, un aumento della pena sino a 30 anni di reclusione, e, soprattutto, l’ipotesi che, dal sequestro, derivasse la morte del rapito, quale conseguenza non voluta (anni 30 di reclusione) o voluta dal colpevole (ergastolo). Inoltre, con lo stesso decreto-legge, si introduceva nell’ordinamento il delitto di sequestro di persona a scopo di terrorismo o di eversione (art. 289 bis Codice penale) punito con le stesse pene previste per il delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione. 

[7] Interrogatorio sostenuto da Lauro Azzolini, il 14 aprile 1987, innanzi alla Corte di Assise di Roma, Pres. Santiapichi, nel corso del cd. processo Metropoli.

[8] L’appartamento di via Chiabrera venne preso in fitto, nel settembre ’76, da Valerio Morucci che usava una falsa identità. Abitato in vari periodi, anche nel marzo ’78, da Morucci e Faranda, venne utilizzato come sede della direzione della colonna romana che, durante i giorni del sequestro Moro, vi svolse alcune riunioni. Nell’appartamento vennero ciclostilati tutti i comunicati diffusi durante il sequestro. La base di via Chiabrera venne abbandonata dopo la conclusione del sequestro Moro.    

[9] La prima tipografia delle BR a Roma era stata avviata da Stefano Ceriani Sebregondi e da Enrico Triaca, nel maggio ’76, in via Renato Fucini n. 2-4, all’interno di un locale preso in fitto da Sebregondi. In seguito, le BR decisero di trasferire la tipografia in un luogo, cioè via Pio Foà, più vicino alla base di via Palombini. Alcuni macchinari che esistevano in via Fucini (un bromografo e una stampatrice A.B. Dik) vennero rinvenuti e sequestrati nella tipografia gestita da Triaca e Marini.  

[10] Era stato Franco Bonisoli, nel ’76, quando abitava nella base di via Gradoli 96 (l’appartamento era stato preso in fitto, nel dicembre ’75, da Mario Moretti che usava il falso nome Mario Borghi), ad accorgersi, mentre rientrava a casa, che una scorta era posizionata davanti la chiesa. Si era avvicinato ed aveva visto che si trattava della scorta di Moro. 

[11] Secondo Bonisoli, che fornisce una ricostruzione dei fatti analoga a quelle della Faranda e di Azzolini, «Nella Direzione strategica del febbraio 1978 non si discusse dell’obiettivo della azione che era in corso, non venne fatto il nome di Moro. Si parlò dell’attacco che doveva avere al suo centro al Democrazia cristiana». La risoluzione della Direzione strategica del febbraio 78 venne diffusa durante il sequestro Moro insieme al comunicato n. 4 del 4 aprile ’78.

[12] La monocamera di Borgo Vittorio 5 era stata presa in fitto da Bruno Seghetti nel settembre ’77.

[13] Sulla vicenda giudiziaria di Enrico Triaca e sul processo di revisione della sentenza di condanna per il reato di calunnia v. dell’autore l’articolo I tormenti e la calunnia”, pubblicato in www.questionegiustizia.it il 12 luglio 2023.

[14] Nella sterminata “letteratura” sul caso Moro, si distinguono, sia per l’esplicito rigetto delle suggestioni dietrologiche che per il rigore metodologico nella indagine storica, alcune opere: Marco Clementi, Storia delle Brigate Rosse, Edizioni Odradek, 2007; Marco Clementi, Paolo Persichetti, Elisa Santalena, Brigate Rosse. Dalle fabbriche alla campagna di primavera, Vol. I, DeriveApprodi, 2017; Marco Clementi, La pazzia di Aldo Moro, Rizzoli 2006; Vladimiro Satta, Il caso Moro e i suoi falsi misteri, Rubettino, 20026; V. Satta, Odissea nel caso Moro, Edup, 2003; Nicola Lofoco, Il caso Moro. Misteri e segreti svelati, Gelsorosso, 2015; Nicola Lofoco, Le alterazioni del caso Moro, Les Flaneur Edizioni, 2017; Gianremo Armeni, Questi fantasmi. Il primo mistero del caso Moro, Tra le righe libri, 2015.

[15] Sulle indagini avviate dopo il sequestro Dozier e sull’uso diffuso della tortura nei confronti dei sospettati e degli arrestati nel periodo 1982/1983, v. dell’autore gli articoli Dovevamo arrestarci l’un con l’altro. Il sequestro Dozier ed altre storie, pubblicato su www.questionegiustizia.it, 29 gennaio 2024, e I cani d’Albania, pubblicato su www.questionegiustizia.it, 23 luglio 2024. 

[16] Enrico Fenzi, nel febbraio ‘85, scrisse una lettera ai giudici del processo d’appello Moro uno/bis. Il professore genovese precisava, quanto a Micaletto, Nicolotti e Dura da lui accusati nel processo di primo grado, che questa indicazione non aveva «alcun valore oggettivo» in quanto lui non sapeva «nulla sul numero dei brigatisti presenti sulla scena della azione» e che, alla domanda che gli aveva rivolto il Presidente Santiapichi, lui aveva risposto che «tra coloro che avevo conosciuto a Genova, avrebbero potuto esserci, per quanto sapevo del loro ruolo e della loro determinazione ad operare, appunto Micaletto, Nicolotti e Dura». In sintesi, Fenzi non sapeva nulla della operazione Moro ed aveva solo ipotizzato la presenza di brigatisti genovesi a via Fani.

25/06/2025
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