Magistratura democratica
Leggi e istituzioni

I motivi per un No

di Riccardo De Vito
giudice del Tribunale di Nuoro

La revisione che ci apprestiamo a votare finisce per sfibrare  la rappresentanza parlamentare, con il pericolo che in futuro se ne possa predicare in maniera definitiva l’ irrilevanza

Quale sia lo stato della competizione politico-istituzionale nel nostro Paese  è sotto gli occhi di tutti: esasperazione del confronto tra leadership blindate; iperboli propagandistiche da rincorsa al sondaggio; prevalenza della tattica sulle visioni – sempre più scolorite e standardizzate – dei rapporti umani e sociali; lontananza dai bisogni delle persone, non più “incorporati” da partiti popolari, ma rappresentati in maniera caricaturale e inasprita dai nuovi fronti del populismo.

In questo contesto – che come ovvio ha le dovute eccezioni – la riforma costituzionale tesa alla riduzione del numero dei parlamentari, pure mascherata da innovazione, costituisce un’ulteriore regressione istituzionale.  Conveniente all’establishment, ma di certo non ai rappresentati.

Lo ha scritto, con spiccata efficacia persuasiva, Felice Besostri: «C’è chi crede che votando Sì al referendum si puniscano le oligarchie politiche. Mentre è vero il contrario. Esse continuerebbero a nominare, e dunque controllare, i candidati e anzi avrebbero un rischio inferiore di ritrovarsi tra le mani parlamentari infedeli».

A legislazione elettorale invariata – l’intenzione di modificarla è allo stato una promessa priva di una direzione chiara, in cambio della quale si baratta un pezzetto di Costituzione – l’accoppiata tra riduzione dei parlamentari e legge elettorale maggioritaria a liste bloccate e “nominate” rischia di completare il processo di trasformazione del Parlamento in corte di osservanti, a tutto vantaggio di un potere esecutivo sempre più tracimante e di quelle oligarchie che gli spiriti di un’antipolitica demagogica e iperfasica vorrebbero combattere. Eterogenesi dei fini, dunque.

Sia chiaro: non ci si propone qui di difendere le attuali condizioni di salute delle assemblee rappresentative. Opzione indigeribile, a meno di non voler leggere a tutti i costi nella realtà italiana una “democrazia immaginaria”. Una serie di prassi consolidate, molte delle quali nate da forzature dei regolamenti parlamentari, hanno man mano svilito la centralità e l’autonomia delle Camere, con frequente degradazione del Parlamento a passacarte del Governo e alterazione fattuale della forma di governo. 

A venire in gioco, lungo questa traiettoria, non è soltanto l’assoluta prevalenza del decreto-legge nel campo delle fonti di produzione, ma tutta una “strumentistica” strategicamente tesa a imbrigliare il libero svolgimento della funzione rappresentativa: “canguri” parlamentari, maxiemendamenti, questioni di fiducia, rigido controllo dei gruppi sui singoli parlamentari e dei vertici di partito sui gruppi. 

Se questo è lo stato dell’arte perché, allora, non accettare la scommessa del cambiamento e della riduzione di assemblee sovrabbondanti? 

Per un motivo, prima di tutto. La sola riforma costituzionale avrebbe l’effetto di congelare la situazione esistente, per alcuni versi rendendola fisiologica e per altri versi amplificandola: controllare pochi è più facile e meno rischioso che controllare molti. 

La revisione, dunque, agirebbe in modo da far metabolizzare alla democrazia italiana quegli elementi di verticalizzazione – di “caporalismo” – che ne stanno già corrodendo il cuore parlamentare. 

In questo senso, pur suscitando minor allarme per il ridotto profilo sistematico, questa proposta di riforma si colloca nella medesima scia della riforma Boschi-Renzi, respinta dagli elettori nel referendum del 4 dicembre 2016. 

Di ben altro respiro avrebbe bisogno la democrazia del nostro Paese, a partire dalla rivitalizzazione della rappresentanza e dalla riapertura di efficaci canali di collegamento tra istanze sociali e luoghi della decisione. Sono obiettivi perseguibili con leggi ordinarie (elettorali) e, soprattutto, mediante culture e prassi partecipative, che riattivino il circuito società/partiti/istituzioni. 

Non c’è bisogno, pertanto, di scomodare l’impianto costituzionale – nel caso di specie dovuto alla legge costituzionale n. 2 del 1963 – con un tentativo di riforma che, tra tanti motivi, deve essere respinto anche per una fondamentale questione di metodo.

Le questioni di metodo non sono meno importanti di quelle di merito quando a essere chiamata in causa è una modifica, quale che sia, dell’assetto costituzionale.

Con imperdonabile leggerezza, almeno da vent’anni a questa parte, ogni forza politica che abbia raggiunto le leve del governo ha provato a lasciare l’impronta del proprio progetto politico di parte sulla Carta costituzionale, al fine di catturare un consenso epocale. 

Pessimo servizio alla Repubblica. Così facendo si corre il rischio di rendere la Costituzione ostaggio dell’attualità politico-parlamentare e di consegnare, se non il potere, quanto meno lo spirito costituente alla maggioranza di turno. È una strada che, oltre a dare la stura ad avventure pericolose, finisce per indebolire, a livello culturale prima ancora che politico, la consapevolezza che il tessuto costituzionale è il pilastro della nostra convivenza civile, nel quale riconoscersi a prescindere dalle appartenenze e al quale mettere mano soltanto in caso di reale bisogno. 

È stato tramite il rifiuto – per scelta e necessità – della logica dei rapporti di forza elettorali e grazie all’adozione del criterio del “velo dell’ignoranza” che i Costituenti riuscirono a costruire quell’orologio perfetto di pesi e contrappesi che è la nostra Carta fondamentale. 

Purtroppo, anche la storia di questa proposta di riforma non è altro che il racconto di una deriva contraria a quel metodo.

Il testo votato dalla Camere, pur essendo il frutto dell’unificazione di più disegni di legge di iniziativa parlamentare, reca il sigillo del programma di una forza politica (il Movimento Cinque Stelle) e di un’alleanza di governo (quella c.d. giallo-verde, tra lo stesso Movimento e la Lega). La circostanza è resa evidente, oltre che dall’attuale campagna referendaria, dalla lettura della nota di aggiornamento al DEF 2018, nel quale il governo aveva indicato la riduzione dei parlamentari come linea portante di una serie di riforme istituzionali. 

Sin qui nulla di grave, se il successivo dibattito pubblico e parlamentare si fosse concentrato sul contenuto della riforma e sui suoi effetti, invece di piegarsi, da un certo punto in avanti, alle dinamiche maggioranza/opposizione e al loro mutamento. Solo ragioni di manovra politica, infatti, offrono spiegazione compiuta delle inedite caratteristiche delle quattro votazioni succedutesi tra Senato e Camera. 

Nella prima deliberazione, infatti, la proposta è stata approvata sia al Senato sia alla Camera – rispettivamente il 7 febbraio e il 9 maggio 2019 – a maggioranza assoluta dei parlamentari (più o meno coincidente con la maggioranza politica che l’aveva sostenuta) e con il voto contrario delle allora forze di opposizione, tra cui il Partito Democratico. 

Lo stesso canovaccio si è ripetuto in occasione del voto del Senato in seconda deliberazione, l’11 luglio 2019. È stato proprio il mancato raggiungimento della soglia dei due terzi dei componenti l’assemblea in questa votazione a consentire a un quinto dei senatori (settantuno) di chiedere l’indizione del referendum ai sensi dell’art. 138 Cost.

Lo scenario è mutato radicalmente nella seconda votazione della Camera dei Deputati, l’8 ottobre 2019: 553 voti a favore su 567 votanti. Come ha messo bene in evidenza Valerio Onida su queste pagine, l’87,7% dei deputati.

Cosa è cambiato per passare da una maggioranza assoluta a una sostanziale unanimità? Nulla dal punto di vista del contenuto della riforma costituzionale, tutto sotto il profilo degli equilibri politici. Il Partito Democratico e le altre forze del centrosinistra, infatti, hanno dato vita a un nuovo governo con il Movimento Cinque Stelle, che ha perso per strada l’alleato leghista. 

Si tratta di fatti noti, messi qui in risalto soltanto per evidenziare come l’iter di riforma costituzionale abbia risentito, ben oltre i limiti fisiologici, delle esigenze di consolidamento delle maggioranze elettorali e della stabilizzazione dei governi, tuttora evidenti anche nella campagna referendaria. 

La subordinazione dell’assetto costituzionale alla quotidianità politica colpisce soprattutto nell’atteggiamento di quelle forze politiche che si sono decise al voto favorevole alla riforma soltanto all’ultimo round, senza  ottenere alcuno di quei correttivi – legge elettorale proporzionale e con preferenze, riforma dei regolamenti parlamentari – che per tre volte avevano indotto al voto contrario.

La raggiunta unanimità, pertanto, più che essere il portato di un confronto alto sui principi, appare il frutto di calcolo politico. 

Questa logica di piccolo cabotaggio ha fagocitato anche la tornata elettorale, dal momento che la legge 19 marzo 2020, n. 59, ha disposto la concentrazione delle scadenze elettorali (c.d. election-day), sommando alle elezioni suppletive, amministrative e regionali anche il voto nel referendum “oppositivo” promosso ai sensi dell’art. 138 Cost. 

Il risultato oggettivo è quello di piegare anche il referendum (campagna e voto) lungo l’asse del conflitto maggioranza/opposizione. 

Ciò detto, il No al referendum può essere, anche solo in parte, legittimato da quella che si è definita una questione di metodo? 

Risponderei convintamente in maniera positiva, per almeno due ragioni: quanto si è detto sin qui dimostra che quel metodo di mettere le mani sulla Costituzione va allontanato una volta per tutte dal panorama della politica nostrana; sotto altro profilo, forse più importante, si può dire che a metodo non corretto corrispondono, in genere, risultati pessimi. E così pare anche stavolta. 

Massimo Luciani lo ha scritto a chiare lettere: «Delle due l’una: o la riforma serve a tagliare i costi, e allora è davvero poca cosa, oppure intende sottolineare una sorta di inutilità del Parlamento. E allora è pericolosa». 

Sotto l’aspetto dell’impegno per le casse dello Stato, nessuno ha messo in discussione che il taglio lineare di deputati e senatori vale soltanto l’0,007% della spesa pubblica e il 2,5% delle spese annuali di Camera e Senato. 
La riduzione di 345 parlamentari, dunque, comporta un risparmio irrisorio. 

In compenso, lungi dall’«aumentare l’efficienza e la produttività delle Camere» (così la relazione di accompagnamento), determina il concreto pericolo di ulteriore rallentamento, se non di paralisi, delle attività parlamentari. O almeno di quelle che, in un’ottica che sacrifica la rappresentanza in nome della governabilità celere, potrebbero tranquillamente essere accantonate come superflue: attività delle Commissioni e degli organismi di controllo; discussioni approfondite sui disegni di legge; procedimento legislativo ordinario. 

Si è già parlato della attuale marginalizzazione del Parlamento nel procedimento di produzione legislativa. Un esempio plastico di tale confinamento in un ruolo secondario rispetto a quello dell’esecutivo è costituito dalla strumentalizzazione di un istituto come la riserva di assemblea (art. 72, co. 4., Cost.), pensato dai Costituenti per rafforzare la centralità e l’iniziativa del Parlamento – dunque della volontà popolare – in materie decisive per la vita dello Stato (disegni di legge in materia costituzionale ed elettorale, di delegazione legislativa, di autorizzazione alla ratifica di trattati internazionali, di approvazione di bilanci e consuntivi).

L’istituto, sotto la spinta di forzature soppressive del dibattito in aula – maxiemendamenti abbinati a continue questioni di fiducia –, si è risolto nel suo contrario, finendo per favorire prassi tese a scegliere la finzione di discussione in assemblea pur di elidere il dibattito tecnico-politico nelle Commissioni e a garantire, in tal modo, la “sottomissione” della rappresentanza alle ragioni dell’esecutivo e dei suoi vertici (Presidenza del Consiglio e suoi uffici).

Se questo è lo stato delle cose, va detto che la proposta di riforma, in assenza di modifica dei regolamenti parlamentari e della legge elettorale, finisce per ingessarlo e, per così dire, istituzionalizzarlo, impedendo definitivamente il doveroso funzionamento delle commissioni.

È sufficiente porre mente al fatto che le Commissioni del Senato, attualmente, sono in media composte da 21-26 persone. 

Pensare che tutte, con la riduzione dei senatori a duecento, continuino con la stessa composizione numerica è impossibile. Diminuirne i componenti, tuttavia, significa immaginare Commissioni che per funzionare, sia in funzione referente sia in funzione deliberante,  si reggano sul voto di poche persone. La situazione non cambia di molto alla Camera, che passerebbe dagli attuali seicentotrenta deputati a quattrocento.

Entrambe le opzioni, comunque, finirebbero per dare cornice istituzionale alla situazione esistente di superamento nei fatti delle Commissioni, formalizzando così la scelta per i procedimenti legislativi pilotati per intero dall’esecutivo. 

Va poi rimarcato che, in assenza di riforma del bicameralismo perfetto, i motivi principali di rallentamento dei procedimenti di formazione della legge non vengono scalfiti.

Accanto ai guasti appena accennati, la riduzione del numero dei parlamentari – anticipata rispetto a una riforma elettorale che si annuncia ancora incerta nei tempi e nei contenuti – incide in maniera pesante sulla rappresentanza, lasciandone senza dubbio prive le periferie territoriali, sociali e politiche. 

Anche in questo caso i numeri dicono molto, se non tutto. 

La riduzione percentuale media del tasso di rappresentanza al Senato è del 36,5%. Alcune regioni, tuttavia, passando dalla possibilità di vedere eletti sette senatori (il limite minino previsto dalla legge attuale, fatta eccezione per Valle d’Aosta e Molise) a quella di tre senatori soltanto, subiscono una riduzione della rappresentanza pari al 57,1%. Allo stesso modo, la Calabria, con i suoi circa due milioni di abitanti, andrebbe ad eleggere lo stesso numero di senatori del Trentino, popolato da poco più di un milione di abitanti. Ovvio che il voto degli elettori di quest’ultima regione valga la metà di quello di un residente nella prima. 

Anche ammettendo che la rappresentanza è comunque espressa da programmi nazionali dei partiti e delle organizzazioni politiche, ai quali i candidati si riportano fedelmente, tali squilibri non sembrano accettabili. 

A ciò si aggiunga che la competizione elettorale avverrà in collegi che consentiranno l’individuazione di pochi eletti. 

Inevitabilmente ciò determinerà soglie “naturali” di sbarramento alte, ben oltre quel 5% sul quale le forze politiche stanno discutendo in sede di modifica della legge elettorale. C’è chi le calcola in una percentuale compresa tra il 12% e il 20%, ma, indipendentemente dalla precisione aritmetica, è gioco forza che la riduzione dei parlamentari, a ordinamento elettorale invariato, comporterà il rafforzamento delle forze politiche maggiori, con buona pace delle minoranze politico-sociali e della possibilità di incalzare le grandi organizzazioni lungo la strada del cambiamento e dell’ascolto.    

La conclusione appena esposta diventa ancor più evidente se si pensa che, a sistema di attribuzione dei seggi invariato – maggioritario con liste bloccate – ci troveremo di fronte a macro-collegi nei quali i candidati dovranno confrontarsi con grandi porzioni di territorio e con un grande numero di elettori. Più concretamente, significa che a correre con probabilità di successo potranno essere solo due tipologie di candidati: quelli dotati di un patrimonio misurabile in cospicue risorse economiche e quelli muniti di un altro tipo di patrimonio, apprezzabile in termini di “potere” nell’organizzazione di appartenenza, conformismo alle decisioni del capo, attitudine alla disciplina di partito.  L’optimum per avere chances sarebbe sommare le due ricchezze. 

Il rafforzamento delle oligarchie – l’eterogenesi dei fini di cui si è detto – è  forse l’aspetto più imperdonabile della proposta di riforma, perché muove in direzione esattamente contraria rispetto ai bisogni attuali della Repubblica parlamentare. 

Viene da chiedersi che fine faranno, con questo aumento esponenziale del potere di scelta dei vertici di partito, quei formidabili dissenzienti e irregolari – Stefano Rodotà, Mario Gozzini, Franca Ongaro Basaglia, Adele Faccio, ma è solo un elenco sentimentale che ognuno può completare – che hanno popolato le aule parlamentari e che, nelle maglie di controlli comunque ferrei dei partiti di massa, riuscivano a esprimere istanze culturali e politiche avanzate e non subalterne, tali da rendere più civile e laico il tessuto legislativo del Paese. 

È paradossale come l’antipolitica nostrana non sappia concepire la politica in altro modo che come secca alternativa tra privilegio di casta e avventura dell’“uno vale uno”, dimenticando l’ingrediente fondamentale della lotta consapevole e collettiva per i diritti. Soltanto così, all’interno di questo bivio fasullo, è spiegabile la svendita della rappresentanza alla pancia delle persone. 

In conclusione, dunque, la ragione principale per respingere questa riforma costituzionale risiede nell’attitudine di quest’ultima a delegittimare e mortificare il Parlamento, più che a rafforzarlo e vivacizzarlo.

Si misura qui l’enorme distanza che separa la legge attuale dai disegni di legge progressisti di riduzione del numero dei Parlamentari avanzati negli anni Ottanta (a firma, tra gli altri, di Stefano Rodotà e Gianni Ferrara). Quei progetti avevano l’obiettivo dichiarato di avvicinare rappresentanti e rappresentati, di rendere più coesa e agile l’istituzione rappresentativa e di restituire competitività alla legge ordinaria quale fonte di produzione del diritto ordinaria. Non a caso, a queste proposte si accompagnava la previsione del monocameralismo o, comunque, una riforma “nel” bicameralismo. 

Al contrario, la revisione che ci apprestiamo a votare finisce per sfibrare  la rappresentanza parlamentare, con il pericolo che in futuro se ne possa predicare in maniera definitiva l’ irrilevanza. 

Avremmo bisogno di altre riforme, senza necessità di toccare la Costituzione: partire da una seria opera di igiene della grammatica parlamentare, effettuabile anche con semplici modifiche dei regolamenti, per terminare  con una legge elettorale che torni a mettere nelle mani degli elettori il potere di scelta. 

Soltanto così, verosimilmente, potranno essere rivitalizzate quelle formazioni politiche e quelle organizzazioni sociali che, ormai sclerotizzate, hanno smesso di catalizzare la partecipazione e di raccogliere i bisogni per trasformarli in diritti. 

 

Riferimenti bibliografici e citazioni

Le affermazioni di Felice Besostri sono contenute in Il Taglio dei Parlamentari è un regalo alla Casta, pubblicato in Left, 27 agosto 2020, mentre le parole di Massimo Luciani si trovano nell’intervista rilasciata a Repubblica, 21 agosto 2020: Referendum, Massimo Luciani: Con il sì al taglio dei parlamentari, le Camere non funzioneranno.

Le più chiare osservazioni in punto di matematica della rappresentanza sono in Perché No, a cura di Andrea Fabozzi, pubblicato su Il Manifesto, 20 agosto 2020, e in No al referendum sul taglio dei parlamentari, Le Talpe di Volerelaluna, n. 22-2020, reperibile su www.volerelaluna.it. Limpido come di consueto, sempre sul punto, Domenico Gallo, I numeri del referendum, pubblicato il 4 settembre 2020 sul Corriere dell’Irpinia e rinvenibile su www.domenicogallo.it. Il riferimento alla democrazia immaginaria è invece tratto da un articolo di Pierfranco Pellizzetti, sul blog di Micromega del 28 agosto 2020, dal titolo Sentitamente Sì.

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