Magistratura democratica
Magistratura e società

"Future. Il domani narrato dalle voci di oggi"

di Lia Bruna
PhD in Social and Political Change

La recensione al volume curato da Igiaba Scego e edito da effequ (Firenze, 2019)

Dal naufragio di Lampedusa nel 2013, che ha visto la morte di 368 persone, il 3 ottobre è occasione di cordoglio, riflessione e mobilitazione intorno alle istanze di giustizia razziale nel nostro Paese. Quest’anno, dopo mesi di proteste transnazionali all’insegna del principio che black lives matter, la piazza dell’anniversario chiedeva la sospensione degli accordi con la Libia, l’abrogazione dei decreti sicurezza e la riforma della legge del 1992 sulla cittadinanza. 

Nella nota introduttiva al libro Future, Scego ricostruisce proprio la vicenda delle rivendicazioni sull’accesso alla cittadinanza italiana e parla apertamente di «tradimento» (p. 13): l’intento del libro è di tracciare un bilancio rispetto agli anni Novanta, quando – almeno nella cultura, e in particolare nell’editoria – nuove voci trovavano uno spazio di espressione. Ora che «l’Italia [è] in colpevole ritardo mentre la società le [è cambiata] sotto il naso», questo spazio viene programmaticamente messo a disposizione di undici scrittrici italiane afrodiscendenti, «per capire con loro a che punto siamo e dove vogliamo arrivare». La raccolta di racconti è incorniciata da due saggi, che portano il totale delle voci di questo coro femminile a tredici, oltre a quella della curatrice.

La metafora musicale serve a dare l’idea dello sforzo di elaborazione collettiva, in un’unità organica fatta di risonanze, echi e riprese di frase che comunque valorizzano l’unicità e il timbro di ciascuna autrice, perché «non esiste una singola afroitalianità, ma una molteplicità di esperienze che convergono intorno a una serie di soggettività e di lotte condivise» (Hawthorne, p. 27). I temi principali sono due: la ricerca delle radici e – dato il proposito di «narrare il futuro», come richiesto dal titolo – l’esigenza di nominare una diversa percezione del tempo. La rappresentazione grafica di questa coppia concettuale si trova nella pagina dell’indice, che ha per sfondo un albero: i racconti e i nomi delle rispettive autrici sono sulla punta dei rami, e le radici sono in basso, fuori dalla pagina. 

Il senso di sradicamento – a cui la riflessione secolare dei neri sulla propria subalternità ha dato il nome di «doppia coscienza», e che inevitabilmente in Europa è anche «coscienza del confine» (p. 28) – trova espressione nelle metafore sull’instabilità della terra presenti nei testi di Moïse, Kan, Ouedraogo (il terremoto, le sabbie mobili) e, soprattutto, nell’allegoria dell’acqua: acqua è quella del Mediterraneo, con tutto ciò che questo significa, come scrivono El Houssi e Wii; acqua è quella delle conversioni forzate dei colonizzati, con l’imposizione di un nome della tradizione biblica; acqua è quella del fiume da cui viene salvato Mosè, e che – come nel titolo del primo racconto – porta in sé pianto e risa insieme, là dove il rifiuto della «normalità» contiene la possibilità dell’emancipazione, e la nostalgia come «dolore di un viaggio mai fatto» implica la scoperta di una storia di resistenza (Moïse, pp. 37, 41).

È dunque chiaro che il discorso sulla ricerca delle radici è inscindibile dalla questione del nome, che è esplicita nei racconti di Kan, Herero e Tesfamariam: se si vuole un nome, ce lo si deve dare da sé, spesso lasciando quell’Italia che era stata terra di arrivo per la generazione precedente. Altrettanto chiara è la contraddizione tra la continua richiesta esterna di giustificare la propria esistenza e l’impossibilità di raccontarla: mancano «la lingua per darle voce, i concetti per comprenderla» (Moïse, p. 37), laddove invece «le parole [dei bianchi] creano mondi insopportabili e pieni di insidie» (Kan, p. 63). Dai racconti di Mbaye, Ghebreghiorges ed El Houssi, si intuisce che la parola consentirebbe l’accesso alla «complessità del tempo», a cui si contrappone il «presente dell’emergenza» (Ouedraogo, p. 100), sofferto fino alla scelta di «disintossicarsi [dalla] mania di programmare futuri lineari» (Wii, p. 178). 

Quest’ultima frase – nell’epoca della precarietà strutturale, in cui la costruzione di un’identità sociale è sempre più difficile e la convivenza con la colpa del fallimento è quotidiana – è carica di significato anche attraverso la linea del colore: è il senso di inadeguatezza di fronte a una normalità anormale, a una condizione che ci viene presentata come naturale e inevitabile, benché sia il prodotto di processi storici, scelte politiche e conflitti sociali. È uno scacco di cui facciamo esperienza tutti e, proprio per questo, lo scacco di ciascuno deve interessare a tutti: a partire da questo libro, dobbiamo riconoscere che la condizione di sradicamento e sfruttamento portata dalla precarietà non è uniforme, perché qualcuno è materialmente più esposto di altri. Se ciò accade, è anche in ragione del nostro ordinamento, e in particolare della legge Bossi-Fini e dei decreti sicurezza: oggi in Italia una fetta di popolazione è privata dei diritti politici e civili, e non pare particolarmente sensato vincolarne il riconoscimento a fattori morali o culturali come il completamento di un ciclo scolastico.

La riflessione che dobbiamo fare come bianchi – o meglio, come prodotto di un processo che gli storici chiamano di «sbiancamento», data l’incertezza sullo statuto razziale degli italiani attestata tanto nella storia dell’emigrazione in America, quanto in quella delle migrazioni interne verso il Triangolo industriale – serve ad aggiustare un «errore di prospettiva storica» (Wii, p. 173): è giunto il momento di scoprire che nella storia d’Italia sono stati determinanti gruppi e persone il cui orizzonte di appartenenza viene erroneamente percepito come alternativo a quello italiano. Persone come Andrea Aguyar, morto in difesa della Repubblica romana nel 1849, o Giorgio Marincola, partigiano ucciso dai tedeschi in ritirata nel maggio del 1945, fino alle migliaia di senza nome che raccolgono la nostra frutta o badano ai nostri vecchi.

Per far questo, fin dalla discussione sullo jus sanguinis, occorre ammettere l’inestricabilità di colonialismo e fascismo nella storia italiana, per poterne riconoscere la permanenza nel nostro presente: è utile cominciare a pensare che la seconda guerra mondiale sia iniziata nel 1935, con l’attacco italiano all’Etiopia, e che (secondo la lezione di Aimé Césaire) sia stata l’occasione perché la violenza del dominio coloniale – la separazione delle famiglie, i campi di concentramento, i gas – entrasse all’interno dei confini europei. In questo senso, il racconto di Pesarini e l’ultimo della raccolta, quello di Hakuzwimana Ripanti, sono più un grido di guerra che una semplice denuncia, nell’idea che alla permanenza dell’oppressione si accompagni inevitabilmente la permanenza del conflitto.

17/10/2020
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