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«Ciò che è nella voce». Gli Osservatori sulla giustizia civile alla volta dei trent’anni *

di Remo Caponi
Consigliere della Corte di Cassazione

1. Le parole scritte in una Gazzetta Ufficiale dell’autunno scorso (il d.lgs. 149/2022) hanno avuto la forza di farci riunire oggi. 

Donde hanno tratto questa virtù? La forza normativa di quelle parole sta certamente nel rilievo istituzionale del foglio sul quale sono state scritte, che rinvia ad un universo di significati a noi giuristi molto noto. Se fossero state scritte su un altro foglio, probabilmente non saremmo qui. Tuttavia, come vedremo più avanti, la loro energia non risiede solo nel supporto che le reca.

Molti negano con buoni argomenti che quelle parole serviranno a migliorare nel complesso le sorti della giustizia civile ed auspicano che quanto meno non le peggiorino. Si lamentano che la giustizia sia da decenni ostaggio degli umori quotidiani della politica: e così, di volta in volta, delle sue disattenzioni, delle sue inettitudini o dei suoi astratti furori efficientistici. Qualcuno predica un ritorno al passato, magari ad una specie di paradiso incontaminato in cui la giustizia è dominio riservato ai giuristi, ai giudici e agli avvocati. 

Mi domando se riflettiamo abbastanza su queste opinioni, che pur raccolgono un vasto consenso. Mi domando se molti di coloro che le esprimono avrebbero avuto la possibilità di entrare in questo mondo e di manifestare queste critiche, se nell’evo moderno il mondo del diritto non fosse entrato decisamente nella sfera di influenza di quel sottosistema della società permanentemente attivo nella produzione di decisioni collettivamente vincolanti: la politica, per l’appunto, con la sua forza trasformatrice dei rapporti sociali ed economici. Dobbiamo sempre sforzarci di cogliere i fatti che ci circondano da una prospettiva molto lunga, per evitare per quanto è possibile che i nostri giudizi siano frutto di un appiattimento sul presente.

Estendere la prospettiva temporale di ogni analisi critica, serve anche ad articolare la speranza, non come puro e semplice vagheggiamento soggettivo, ma come idea regolativa che ripone fiducia nella potenza trasformatrice della volontà umana, specialmente quando si tratti di un volere collettivo.

 

2. Indubbiamente, quelle parole scritte sulla Gazzetta Ufficiale sono affette da incoerenze, soffrono smagliature. Le abbiamo subite. Le hanno subite anche coloro che hanno contribuito a scriverle nei gruppi di lavoro e che molto spesso hanno visto uscire un testo diverso, di regola non migliore, di quello che avevano consegnato. Dunque, quelle parole ci sono venute addosso. 

Tuttavia, domandiamoci: non è sempre così nella vita di noi esseri umani? Non siamo sempre chiamati a fronteggiare cose che ci vengono addosso? Non siamo continuamente chiamati a fare di necessità virtù? Se è vero, come ha scritto Gadamer, che il diritto si invera nell'applicazione, possiamo evitare di sentirci dei burattini i cui fili sono tirati da quelle parole ottobrine. Siamo noi chiamati ad infonder loro vita. 

Corrono o non corrono i termini per le memorie se il giudice non conferma espressamente la data della prima udienza così come indicata dall’attore nell’atto di citazione? Difficile che la risposta sgorghi spontaneamente dall’art. 171bis, co. 3 c.p.c. come l’acqua sgorga spontaneamente da una sorgente di montagna. Finanche qualche sgangheratezza espressiva - della quale beninteso avremmo fatto volentieri a meno - come quella di cui è caduto vittima l’art. 281decies c.p.c. nel delineare l’ambito di applicazione del procedimento semplificato di cognizione, può essere convertita in occasione per rimeditare problemi fondamentali, per inserire il punto corrente nella linea di sviluppo storico del nostro modo di fare e di vivere il processo civile. Così, possiamo fondatamente chiederci se l’ordinario processo di cognizione, il processo di default per la risoluzione delle controversie civili, non sia diventato oggi il procedimento semplificato di cognizione. Possiamo anche chiederci se abbia senso parlare ancora di due riti diversi, se non sia più sensato vedere due modelli di trattazione che possono avvicendarsi all’interno di una sequenza procedimentale ormai unitaria.

Ritornano al centro dell’attenzione taluni problemi fondamentali: non solo del diritto processuale. Uno degli aspetti che rendono maggiormente attraenti la prassi giuridica, quella giudiziaria in particolare, è il fatto che la riflessione su dimensioni di contesto della vita umana può innestarsi quasi a ogni piè sospinto, sul tessuto capillare dell’esperienza quotidiana e quindi può aprirsi all’improvviso, non appena alziamo lo sguardo dalle vicende di vita sulle quali siamo ripiegati ogni giorno, sol che manteniamo una disposizione spirituale aperta a cogliere questo innesto. Così, in quell’alternativa tra il 127bis e il 127ter c.p.c., nell’alternativa tra l’udienza mediante collegamenti audiovisivi e le note scritte in sostituzione dell’udienza, ritorna a mostrarsi sotto profili nuovi il tema del rapporto tra l’oralità e la scrittura. È evidente però che un discorso, impostato in termini così generali, su oralità e scrittura della parola, non può essere restituito solo alle riflessioni di Giuseppe Chiovenda, da un lato, e di Ludovico Mortara, dall’altro, per quanto fondamentali siano state quelle pagine nello strutturare il nostro pensiero processuale. 

Così, nel primo trattato che nella cultura occidentale si è occupato del rapporto tra la voce e la scrittura, il Perì Hermeneias di Aristotele, si trova scritto in esordio, nel secondo capoverso: «ciò che è nella voce è simbolo delle affezioni che sono nell’anima». Oggi potremmo dire: ciò che è nella voce è simbolo dei nostri sentimenti e dei concetti della nostra mente. Aristotele soggiunge poi: «i segni scritti sono [simboli] di ciò che è nella voce». Molte traduzioni moderne compiono un’interpolazione, convertendo quel «ciò» iniziale in «suoni»: i suoni che sono nella voce sono simboli delle affezioni dell’anima. Aristotele scrive però: «ta en te phonè»: ciò che è nella voce. Cosicché altri si sono legittimamente interrogati se ciò che è nella voce e che è simbolo delle affezioni dell’anima non siano i suoni ma le lettere, le parole scritte (G. Agamben). Non per niente, mentre parlo dinanzi a voi, posso perfettamente rappresentarmi nella mia mente lo scorrere delle magiche lettere dell’alfabeto con le quali possiamo mettere per iscritto i nostri sentimenti. Cosicché si può sostenere che dallo VIII secolo avanti Cristo, da quando in Occidente abbiamo inventato la scrittura alfabetica, è proprio quest’ultima che dà forma e struttura alla nostra vita interiore, ai nostri sentimenti e alle nostre passioni, cosicché non possiamo chiamarci fuori rispetto all’alternativa tra oralità e scrittura, poiché siamo irrimediabilmente nel mondo della scrittura, con i suoi enormi vantaggi e svantaggi in termini di potenza trasformativa del mondo che ci circonda e di noi stessi come esseri umani (C. Sini). La scrittura dà forma alla vita. Pertanto - si potrebbe aggiungere - la vita è sempre una forma di vita, non è mai una nuda vita (R. Esposito).

 

3. Dunque, dobbiamo sempre tenere presente la potenza strutturante, conformativa e trasformativa della scrittura delle parole e della voce che così le articola. Ciò mi consente di ritornare all’inizio di questa riflessione per portarla ad un esito provvisorio. In quelle parole pubblicate nell’ottobre scorso c’è una forza normativa che non si ritrae dal foglio ufficiale sul quale sono state scritte. Vi è un’eccedenza di energia che origina dalle parole in sé stesse, in quanto capaci di generare una reazione comunitaria. Esse ci vengono addosso e provocano la nostra risposta. Da un lato, ci spingono a fare. Dall’altro lato, rimarrebbero segni inerti, quand’anche scritti in una Gazzetta Ufficiale, se non ci slanciassimo ad applicarle e non cercassimo il contraccambio del nostro slancio con la virtualità di riplasmarne il contenuto con le nostre risposte collettive. 

Ciò accadde già trent’anni fa dopo l’approvazione della Novella del 1990 (l. 353/1990). Il primo Osservatorio sulla giustizia civile venne costituito a Milano nel 1993. Nel breve volgere di pochi anni si diffusero presso molti uffici giudiziari, coprendo un poco tutto il territorio nazionale. Come ci ha ricordato Luciana Breggia nel suo bellissimo intervento precedente, gli Osservatori sulla giustizia civile nacquero in virtù della passione, contemporaneamente strutturata e strutturante, di quei gruppi di magistrati, avvocati e personale giudiziario che si assunsero l’impegno di operare per migliorare la giustizia civile presso alcuni uffici giudiziari. Esattamente come stiamo facendo noi oggi. Accanto alla responsabilità imputabile individualmente, sulla base delle norme che definivano i loro ruoli professionali nell’organizzazione giudiziaria e nel processo, costoro si facevano liberamente carico di una responsabilità ulteriore, frutto di un’etica della corresponsabilità, che sgorgava dal riconoscimento di un comune interesse verso le sorti della giustizia civile. Ciò che colpiva maggiormente era lo slancio emotivo, la dimensione affettiva, che in un certo senso tenevano insieme e orientavano le altre dimensioni, razionali, di quell’agire sociale. Esattamente ciò che ci auguriamo possa essere di nuovo vivificato oggi, non solo a Firenze (dove gruppi sono già al lavoro da qualche settimana), ma anche in altre e nuove sedi.

 

4. Un fenomeno con tratti di novità – quello degli Osservatori - che però si inseriva e si inserisce in un movimento storico, poiché i contorni della giustizia civile non sono scritti nella natura delle cose, ma sono delineati - e continuamente spostati - da una moltitudine di individui che hanno contribuito a segnarli nell’arco del tempo con il loro lavoro diuturno, che ogni tanto conquista le luci di qualche ribalta, ma molto più frequentemente si sviluppa nella prassi quotidiana, più o meno oscura, a partire dagli individui che hanno bisogno di tutelare i loro diritti, si rivolgono a un avvocato e mettono così in moto una catena di eventi che, attraverso la formulazione di una domanda giudiziale, sfocia nella pronuncia di un giudice che attira l’attenzione degli uni e degli altri, avviandosi così un moto circolare in cui esperienze di vita vissuta e saperi si confrontano e reciprocamente si arricchiscono. La dimensione giudiziaria è un microcosmo. Accade nei processi ciò che accade nella vita. Sono percorsi che si snodano per tentativi ed errori, che non sono una tappa verso la verità, ma sono verità essi stessi nel loro dispiegarsi. Sono verità in cammino. Più prospettive si confrontano nel processo, entrambe vere fin dall’inizio nel loro farsi reali nella esperienza di chi le dice. Non meno vere della decisione finale del giudice, poiché ciascuna delle persone coinvolte vi ha investito energie vitali. 

 

5. Nel modo in cui il processo giurisdizionale si svolge e nell’assetto dell’amministrazione della giustizia, si colgono in modo migliore i riflessi dell’ambiente culturale circostante. Ciò suggerisce sempre più frequentemente agli studiosi del processo di gettare il loro sguardo al di là degli orizzonti tecnici normalmente segnati dalla tradizione degli studi. Da un lato, il processo riflette le conoscenze, i valori, le attitudini e i modi di comportamento della società in cui si inserisce. Dall’altro lato, il processo può a sua volta contribuire a costruire conoscenze, valori, attitudini e modi di comportamento che influenzano a loro volta la società (O. Chase). Processo civile e valori sentiti nella società sono collegati da un nesso di reciproco condizionamento, che astringe il modo di svolgimento del primo, prima che il suo risultato. La considerazione di questo nesso non può stingersi nel più generale rapporto tra diritto e società o nel carattere sociale del diritto. Il processo è un fenomeno sociale in modo più concreto, penetrante e assorbente di altre manifestazioni di applicazione pratica del diritto. Il processo è un luogo di incontro tra individui con culture, ruoli e tratti caratteriali diversi e frequentemente contrapposti, che si confrontano in costellazioni diverse, intrecciantesi tra di loro: innanzitutto tra giuristi (avvocati e giudice), da un lato, e gli individui coinvolti come parti, dall’altro lato; poi tra le parti e i terzi, in veste di testimoni o di consulenti; e, ancora, tra giuristi in posizioni di volta in volta paritaria o asimmetrica: tra avvocati difensori e tra questi ultimi e il giudice. 

L’occasione del processo civile è un’emergenza: l’affermazione di una crisi di cooperazione tra gli individui nella realizzazione degli interessi meritevoli di tutela. Il processo è una risposta diretta a misurare questa emergenza, prendere le distanze da essa, costringere gli individui coinvolti a fermarsi, a restituire l’evento momentaneo alla linea di durata, cioè all’ordinamento, elaborando regole di condotta valevoli per il futuro sulla base della ricostruzione di un frammento del passato. Più che di diritto vivente, il processo è un fenomeno di diritto che gli individui vivono sulla propria pelle, un fenomeno di diritto immediatamente vissuto e combattuto, nel senso di un tentativo di attuazione del diritto in un ambiente sociale in cui le dimensioni individuale e collettiva si intrecciano nel profondo. Nel teatro di questo confronto, aspetti regionali e differenti tradizioni giocano un ruolo non secondario nello svolgimento del processo e maturazione della decisione. È evidente che la consapevolezza di questi limiti abbia dischiuso il processo, come campo di osservazione e di sperimentazione, ad altri saperi, i quali inevitabilmente aspirano a ridimensionare la pretesa di validità cognitiva delle scienze giuridiche e della dogmatica giuridica. 

Tale fenomeno è esploso - ma non è certo sorto per la prima volta - con la diffusione dei cosiddetti metodi di composizione delle controversie alternativi rispetto alla giustizia statale, laddove essi provino ad accreditarsi come strumenti migliori rispetto a quest’ultima, proprio in virtù di una loro maggiore capacità cognitiva del reale conflitto di interessi sottostante alla controversia, al di là della formulazione giuridica delle relative pretese.

 

6. Qual è dunque il tratto di novità degli Osservatori sulla giustizia civile rispetto a questo movimento storico? È forse l’intuizione vitale che era necessario strutturare un nuovo spazio collettivo, affinché la moltitudine delle risposte individuali di avvocati, magistrati, personale giudiziario ai problemi quotidiani della giustizia civile non fosse organizzata solo secondo una logica ispirata dagli interessi corporativi della rispettiva categoria professionale di appartenenza. È l’intuizione della necessità di creare, tra i gruppi professionali, interstizi capaci di generare risposte collettive dettate in vista della tutela degli interessi dei cittadini utenti del servizio giustizia. Avvocati, giudici e personale giudiziario cominciarono a riunirsi e a parlare del modo di fare i processi, al di là dei singoli processi in cui erano coinvolti. E poi cominciarono a mettere per iscritto le loro parole in protocolli che si rivolgevano ai loro destinatari con una garbata intenzionalità normativa, che si inseriva negli spazi bianchi tra l’una e l’altra lettera delle leggi. Quelle parole meritarono attenzione, indipendentemente dall’ufficialità del supporto sul quale erano scritte. 

Allora possiamo ritornare in conclusione su quell’esordio del Perì Hermeneias di Aristotele ed aggiungere la nostra interpolazione a quel «ciò che è nella voce». Una interpretazione che è tanto filologicamente fantasiosa, quanto è storicamente fondata: ciò che è nella voce è la forza del linguaggio umano, che istituisce costantemente forme di vita: una forza con la quale le stesse istituzioni che vantano legittimamente la forza di pubblicare parole sulle Gazzette Ufficiali, sui provvedimenti amministrativi e sulle sentenze sono chiamate continuamente a misurarsi, se vogliono mantenere il carattere vitale del loro esserci all’interno di una comunità.

[*]

Testo dell’intervento all’Incontro Riapre il cantiere dell’Osservatorio sulla giustizia civile del Tribunale di Firenze. Prime considerazioni sulle riforme processuali ed ordinamentali in vista dell’auspicata adozione di prassi condivise, Firenze, Auditorium del Palazzo di Giustizia, 31 marzo 2023. I lavori sono stati aperti dal Presidente della Corte di Appello Alessandro Nencini, dalla Presidente del Tribunale Marilena Rizzo, dal Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati, Sergio Paparo. Sono stati coordinati dal Dott. Luca Minniti, Giudice del Tribunale e dall’Avv. Jacopo de Fabritiis. Hanno visto l’intervento di apertura della Dott. Luciana Breggia, Coordinatrice nazionale degli Osservatori sulla giustizia civile. Hanno trovato il loro nucleo centrale nelle comunicazioni degli esiti provvisori dei lavori all’interno dei gruppi tematici, da parte dell’Avv. Michele Monnini sull’oralità e la trattazione scritta e da remoto, dell’Avv. Jacopo de Fabritiis (per impedimento del Dott. Umberto Castagnini) sulle verifiche preliminari e la prima udienza; dell’Avv. Laura Ristori sulle chiamate in causa; dell’Avv. Alessandra Semplici sul rito semplificato e la fase decisoria di primo grado; della Dott. Barbara Fabbrini sulla redazione degli atti del giudice e di parte e i problemi relativi a Sicid e alla consolle del magistrato. 

10/05/2023
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