Magistratura democratica
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Brevi note sulle possibili linee di una riforma della legge elettorale del CSM *

di Enrico Grosso
professore ordinario di diritto costituzionale nell'Università di Torino

Il contributo del Prof. Enrico Grosso all'attuale dibattito sulle possibili riforme del Consiglio superiore della magistratura e della sua legge elettorale in particolare

1. Qualche premessa di ordine generale

Le recenti vicende che hanno portato alla ribalta rilevanti e reiterati episodi di malgoverno nell’esercizio dei poteri costituzionalmente assegnati al Consiglio Superiore della Magistratura hanno improvvisamente riacceso un dibattito pubblico, in realtà mai completamente sopito, sull’urgenza di mettere mano a una riforma complessiva del funzionamento dell’organo. Tale discussione ha investito anche, ma non soltanto, il tema della legge per l’elezione dei componenti togati del Consiglio.

La questione della riforma elettorale, in buona sostanza, tende ad essere collegata alla (più generale) questione della riforma del funzionamento del CSM, e quest’ultima, a sua volta, viene evocata nella speranza che, a partire da una modifica delle regole, si realizzino le condizioni materiali affinché non si ripropongano in futuro i gravissimi episodi di vera e propria “spartizione delle cariche”, soprattutto nelle assegnazioni degli incarichi direttivi, che le indagini giudiziarie della Procura della Repubblica di Perugia hanno fatto emergere.

Ora, è fuor di dubbio che il grave scandalo che ha investito il modo in cui taluni componenti del Consiglio Superiore hanno preteso di interpretare il loro altissimo ruolo di garanzia dell’indipendenza della magistratura desti preoccupazione, per gli inquietanti risvolti che esso rivela con riferimento alla concezione che molti magistrati hanno mostrato di nutrire circa la natura e il ruolo dell’organo di autogoverno e il modo di relazionarsi con esso. È altrettanto evidente che le modalità con cui sembrano essersi svolte molte trattative aventi ad oggetto il conferimento di funzioni direttive appaia gravemente lesivo della stessa idea costituzionale di autonomia e indipendenza. Ciò che invece non è, di per sé, auto-evidente, è se ad una reale e netta inversione di tendenza rispetto a tali gravi episodi di malcostume, che talvolta sembrano aver addirittura integrato fatti penalmente rilevanti, possa realmente ed efficacemente contribuire un ennesimo “intervento sulle regole”, un’altra “riforma” ordinamentale. E soprattutto, a fortiori, se la parte più urgentemente bisognosa di interventi riformatori sia proprio quella relativa alla disciplina delle elezioni.

Che vi sia un diretto e immediato collegamento tra legge elettorale e malfunzionamento dell’organo, in altre parole, non è da ritenere di per sé scontato. Tanto meno appare scontato che la modifica del sistema elettorale della componente togata del Consiglio costituisca, a tal fine, un rimedio sicuro, rapido ed efficace.

Confesso di appartenere, sul punto, al partito dei perplessi (se non degli scettici). Non credo affatto che la modifica del sistema elettorale per la composizione della componente togata del CSM sia davvero in grado di incidere sugli attuali problemi dell’autogoverno della magistratura. Il che non significa peraltro che la vigente, pessima, legge elettorale non meriti di essere modificata. Al contrario, per le ragioni che proverò brevemente ad illustrare, penso che tale legge – di gran lunga la peggiore delle sette che si sono susseguite nel corso degli anni – sia stata una vera e propria “polpetta avvelenata” che ha contribuito ad intossicare dall’interno lo stato di salute dell’associazionismo giudiziario. Le ragioni della mia perplessità sono più profonde e radicali.

Nutro seri dubbi, in generale, in merito alla autonoma capacità conformativa delle regole. A partire dalle regole costituzionali. Fare affidamento solo ed esclusivamente sulla modifica ordinamentale per promuovere un mutamento incisivo di prassi comportamentali che quelle regole hanno reso possibili è, nella migliore delle ipotesi, illusorio. Nella peggiore è mistificatorio. Ho sempre diffidato di quell’illusione costruttivistica che assegna alle norme il compito esclusivo di modificare gli assetti politici, gli equilibri di potere, le modalità concrete con cui esso si manifesta nella prassi. Continuo a ritenere che tali assetti, equilibri e prassi si formino, in larga parte nonostante e non certo per effetto di quelle regole.

Per essere ancor più chiaro, ritengo davvero mistificatorio l’atteggiamento di chi prova a convincerci che siano le norme (a cominciare da quelle costituzionali, per proseguire con quelle che condizionano i modi di composizione degli organi elettivi) a determinare meccanicamente il funzionamento di questi ultimi, e che dunque basti cambiare le norme affinché si risolvano le difficoltà di funzionamento di quel sistema e ci siano regalate come d’incanto istituzioni più forti, più imparziali, più orientate al perseguimento dell’interesse generale, e così via. La grave malattia che ha colpito il sistema complessivo dei pubblici poteri e, per quello che qui interessa, l’autogoverno del potere giudiziario, dipende dalla progressiva dissoluzione di un tessuto sufficientemente condiviso di valori costituzionali, dal venir meno della solidarietà repubblicana, dall’afasia di fronte all’assalto dei micro-interessi corporativi, da una perdita, mi spiace dirlo, di quella larga e un tempo radicata convinzione circa il supremo valore costituzionale dell’autonomia e dell’indipendenza del potere giudiziario che una volta accomunava, pur nelle diverse sensibilità ideologiche, la maggior parte dei magistrati. 

Il Consiglio Superiore della Magistratura non è un semplice organo amministrativo (sia pure, come taluno afferma, di “alta amministrazione”) chiamato a gestire l’organizzazione di un corpo burocratico come altri. È l’organo di alto rilievo costituzionale, cui la Costituzione assegna il delicatissimo compito di contribuire a produrre le forme e le condizioni della separazione dei poteri, ossia del complesso equilibrio tra la sovranità della politica e l’autonomia della giurisdizione. Tale autonomia è intesa quindi, essenzialmente, proprio come autonomia dalla politica, e si manifesta nella pretesa costituzionale che tutte le scelte più significative riguardanti lo status giuridico e la carriera dei magistrati siano operate all’interno di un organo che sia fisicamente lontano dal potere politico e che tale lontananza quotidianamente dimostri e manifesti. 

Il che però significa, date le pessime prestazioni che il CSM ha purtroppo dimostrato di fornire sotto tale profilo nell’ultimo periodo, che a dover subire un radicale processo di trasformazione è, in primo luogo, l’attitudine mentale di coloro cui sarà affidata, d’ora in poi, la rappresentanza delle diverse categorie di magistrati nell’organo di autogoverno, e il loro modo di concepire il senso e il valore dei compiti di alto e delicato profilo costituzionale cui sono chiamati. Nonché, in secondo luogo e soprattutto, la sensibilità e la consapevolezza della propria funzione da parte di tutti coloro che all’elezione di quell’organo concorrono, ossia di ogni singolo protagonista di quel “potere diffuso” che di tale «autonomia e indipendenza» quotidianamente beneficia.

Per concludere sul punto: nessuna riforma delle regole funzionerà mai se non è preceduta, accompagnata e seguita da una profonda riforma delle teste. In assenza di un radicale e decisivo cambio di mentalità, al quale si accompagni una rinnovata assunzione di consapevolezza circa il ruolo cui la Costituzione chiama il potere giudiziario, nessuna modifica della legge elettorale potrà servire. Anzi, rischierà di essere addirittura dannosa, se è vero, come insegnano da decenni i politologi, che le regole elettorali tendono sempre a indurre spontaneamente comportamenti adattativi e strategicamente “razionali rispetto allo scopo”, in una irresistibile e tendenzialmente inarrestabile tendenza all’approccio utilitaristico (e quindi all’eterogenesi dei fini). Sviluppare una riflessione su questo punto rientra a mio giudizio tra i compiti principali della magistratura associata, in tutte le sue articolazioni.

 

2. Una riforma utile, ma a condizione che non resti isolata

Tutto ciò non significa, come si diceva, che una riflessione sulla riforma dell’attuale legge per l’elezione della componente togata del Consiglio Superiore della Magistratura sia inutile o superflua. Al contrario. Se nessuna pur “ottima” formula elettorale, da sola, è in grado di garantire le prestazioni (in termini di qualità morali e doti intellettuali individuali, di imparzialità, di senso di responsabilità nei confronti della funzione esercitata, ecc.) cui la Costituzione chiama coloro che sono designati a rappresentare l’intero ordine giudiziario nell’organo di autogoverno, è invece piuttosto evidente che una “pessima” formula elettorale può contribuire in modo esiziale ad aggravarne i difetti di funzionamento e ad enfatizzarne le degenerazioni. A cominciare dalla c.d. “degenerazione correntizia”, formula tanto declamata da essere divenuta ormai un vero e proprio “luogo comune”. Sotto questo profilo, ritengo che debba essere assegnato alla riforma della legge elettorale un compito non irrilevante: quello di aiutare la magistratura associata a riorganizzare sé stessa, a ripensare al proprio ruolo e al proprio rapporto con la base nel momento della competizione per l’elezione del CSM; nonché, viceversa, quello di promuovere, nei singoli magistrati, una spinta ad immaginare, a loro volta, in modo diverso il proprio rapporto con la realtà associativa nel momento dell’espressione di quel voto.

Anche qui, peraltro, mi pare che qualsiasi riflessione finirebbe per restare sterile e priva di costrutto se non accompagnata da un’ulteriore, e finale, avvertenza. Quando si argomentano le buone ragioni che suggeriscono di porre mano alla riforma del sistema di elezione del CSM, si tende inspiegabilmente a concentrarsi solo sugli attuali problemi della componente togata e sulle degenerazioni che l’hanno coinvolta. È bene tuttavia non dimenticare che la componente laica non costituisce affatto una variabile indipendente rispetto all’esigenza di un funzionamento ordinato del Consiglio Superiore. Anzi, proprio alla componente laica la Costituzione assegna un ruolo essenziale nell’assicurare la presenza di un contrappeso, diretto ad evitare che una rappresentanza soltanto “corporativa” trasformi la magistratura in una sorta di circolo esclusivo e impermeabile, e alimenti così una gestione autoreferenziale dell’autogoverno, ripiegato su sé stesso e specchio di un ordine giudiziario che a sua volta si autorappresenti come un corpo separato (come precisato dalla Corte costituzionale sin dalla lontana sentenza n. 142/1973).

Paradossalmente, sono proprio i laici i garanti del buon funzionamento del Consiglio. A loro la Costituzione si affida per temperare i rischi di autoreferenzialità dell’ordine giudiziario. I laici hanno, tra l’altro, il compito di contrastare ogni tentazione di lottizzazione delle cariche, di scongiurare il rischio di formazione di clientele, di smontare le eventuali pretese di una gestione opaca o disinvolta delle assegnazioni agli uffici direttivi, e così via. Se oggi il sistema dell’autogoverno non funziona in maniera corretta, o comunque non garantisce quelle prestazioni cui si faceva cenno, la responsabilità sarà certo in parte attribuibile al modo in cui si sono assestati i rapporti all’interno della componente togata, nelle sue articolazioni associative e nelle relazioni tra queste e i singoli magistrati-elettori. Tuttavia, a tale stato di cose ha altresì contribuito la circostanza obiettiva ed evidente che la componente laica non è riuscita a svolgere appieno il delicato compito che la Costituzione le aveva assegnato. Sotto questo profilo, quella medesima classe politica che oggi, giustificatamente, si indigna di ciò che emerge dalle conversazioni intercettate in merito ai rapporti opachi fra taluni componenti togati e taluni magistrati con cui erano in costante contatto (oltre che con vari esponenti dello stesso mondo politico), e di conseguenza propone revisioni più o meno “punitive” dei modi di selezione di quella componente con l’obiettivo di «spezzare la degenerazione correntizia», farebbe forse bene a riflettere sull’opportunità di rivedere anche le assai discutibili modalità di scelta della componente non togata, la quale – per parte sua – non pare certo meno lottizzata dell’altra, è sempre più spesso diretta espressione dei partiti, segue a sua volta rigide logiche di schieramento e collateralismo che producono talvolta risultati davvero deludenti in termini di attitudini e qualità individuali dei prescelti. Il che provoca effetti speculari, se non ugualmente dannosi, rispetto alla lamentata spartizione correntizia. Tale questione non pare essere stata adeguatamente affrontata, e tanto meno risolta, dal disegno di legge di riforma recentemente presentato dal ministro della giustizia, il quale si limita a richiedere che i laici non siano o non siano stati nell’ultimo quinquennio parlamentari, consiglieri regionali, assessori. Il problema, tuttavia, non è certo costituito dalle cariche politiche attualmente ricoperte da coloro che aspirano alla designazione quali componenti laici del Consiglio. Il problema è creare meccanismi in grado di promuovere una selezione fondata sulla statura accademica o professionale dei candidati, sulla loro effettiva indipendenza dalla politica, sulla capacità di esercitare fino in fondo quel delicato compito di contrappeso cui la Costituzione li ha chiamati.

 

3. Le caratteristiche che deve possedere una buona legge elettorale del CSM

La prima banale considerazione che emerge dall’analisi dei diversi sistemi elettorali che si sono susseguiti nel tempo, e soprattutto degli ultimi due (quello introdotto nel 1990 e quello sperimentato a partire dal 2002), è che ai molti cambiamenti introdotti non sembra essere conseguito l’obiettivo che, di volta in volta, i solerti riformatori si prefiggevano. Molte volte la riforma del sistema elettorale è stata giustificata con l’obiettivo di «spezzare la logica delle correnti» nell’elezione della componente togata e di conseguenza, a cascata, nelle modalità di funzionamento dell’organo. L’ultima revisione, in particolare, aveva proprio questo dichiarato obiettivo. A giudicare dai risultati, si può quantomeno convenire che non vi sia riuscita, ottenendo paradossalmente l’opposto effetto di aumentare patologicamente l’incidenza delle singole articolazioni della magistratura associata su ogni aspetto dell’attività del Consiglio.

Occorre, in proposito, prestare la massima attenzione. È frequente, non certo soltanto in quest’ambito, che un sistema elettorale approvato in funzione della realizzazione di un certo obiettivo abbia prodotto, in concreto, effetti opposti a quelli attesi. Anche in questo caso non può che ribadirsi che nessun intervento ingegneristico sarà mai da solo in grado di condizionare il modo in cui le persone distribuiscono le proprie individuali preferenze politiche. Sono i contesti reali entro i quali si sviluppa la competizione elettorale a determinarne gli esiti. Esiti che molto spesso sovvertono completamente le previsioni di quegli illuminati “ingegneri” ai quali si era affidato il compito di realizzare il presunto “fine” cui il sistema elettorale avrebbe dovuto tendere. Lo abbiamo visto tante volte nelle previsioni puntualmente smentite sul funzionamento delle (troppe) leggi per l’elezione del Parlamento che si si sono susseguite nell’ultimo quarto di secolo. Ma il discorso vale a fortiori per la legge elettorale del CSM. Si pensi, per fare un solo esempio, al voto di preferenza. Talvolta l’introduzione delle preferenze è stata presentata come il toccasana per spezzare logiche notabilari. Talaltra l’abolizione delle preferenze è stata individuata come lo strumento che avrebbe allontanato dal voto ogni fonte di inquinamento dello stesso. Il più delle volte, la riforma e la sua successiva contro-riforma non hanno prodotto né l’uno né l’altro dei risultati attesi. Il fatto è che le questioni sono assai più complesse. La legge elettorale per la designazione della componente togata del CSM ha infatti una triplice funzione.

Si tratta, in primo luogo, di rappresentare adeguatamente il pluralismo culturale (e anche, perché no, ideologico) presente all’interno della magistratura, che non solo non va negato, ma va al contrario favorito e valorizzato, in quanto manifestazione di un’esigenza a sua volta costituzionalmente rilevante, di adeguata rappresentazione, in ogni contesto, del pluralismo sociale che la Costituzione presuppone e protegge.

Si tratta poi, in secondo luogo, di valorizzare, anche nel momento della costruzione della sua rappresentanza elettiva, la naturale configurazione del potere giudiziario come potere diffuso. Il principio costituzionale secondo cui i magistrati si distinguono solo per funzioni deve valere anche nel momento in cui essi sono chiamati ad esprimere la composizione dell’organo di autogoverno. La natura “diffusa” del potere giudiziario si manifesta nella sua complessità funzionale, territoriale, culturale, di sensibilità, di genere … È per questa ragione, ad esempio, che la Costituzione presuppone che l’elettorato passivo sia tendenzialmente riconosciuto a tutti coloro cui è assegnato l’elettorato attivo. Sotto questo profilo, sono assai perplesso di fronte alle proposte di coloro che vorrebbero limitare l’accesso al Consiglio soltanto a magistrati più anziani, quando non addirittura a magistrati già a riposo. Personalmente, trovo addirittura costituzionalmente discutibile la norma, contenuta nell’attuale disegno di legge di riforma di origine governativa, che parrebbe limitare l’elettorato passivo ai soli magistrati in possesso della terza valutazione di professionalità.

Si tratta infine, in terzo luogo, di favorire una selezione che promuova i candidati sulla base delle loro specifiche qualità personali (di ordine intellettuale, professionale, morale), in modo tale da rendere più probabile che l’organo nel suo complesso saprà esercitare adeguatamente la delicata funzione costituzionale cui è chiamato. Un buon sistema elettorale dovrebbe facilitare la selezione di consiglieri in grado di salvaguardare la propria indipendenza, e in tal modo l’indipendenza dell’intero ordine che rappresentano, anche nei confronti delle associazioni che li hanno candidati o comunque alle quali fanno riferimento.

Su quest’ultimo punto è bene essere chiari. Il problema non è difendere il CSM dal rischio di “politicizzazione”. Anzi, quello della politicizzazione del CSM è un falso problema: è ovvio che il ruolo dei giudici indipendenti nello Stato costituzionale è anche un ruolo politico. Come scriveva già quarant’anni fa Alessandro Pizzorusso, i giudici sono un corpo di tecnici che non solo leggono e interpretano norme, ma colgono e perseguono i valori di base (pluralistici) dell’ordinamento costituzionale. Se il CSM fosse solo un organo amministrativo “neutro”, che senso avrebbe la presenza addirittura di membri eletti dal parlamento in seduta comune e presieduto niente meno che dal Capo dello Stato? E che senso avrebbe la previsione da parte della legge di competenze quali la formulazione di pareri «sui disegni di legge concernenti l'ordinamento giudiziario, l'amministrazione della giustizia e su ogni altro oggetto comunque attinente alle predette materie», ovvero la – peraltro da taluni commentatori contestata – attribuzione in merito alle c.d. «pratiche a tutela»? La politicità, nel senso alto e nobile della pacifica compresenza di diverse opzioni ideali, valoriali, culturali, è un dato ineliminabile e fecondo della società pluralista, che alimenta e arricchisce il dibattito pubblico e contribuisce al progresso complessivo della società. Sotto questo profilo, che i magistrati possano essere “politicizzati”, possano cioè “avere un’opinione politica” nel senso sopra specificato non è di per sé affatto contrario al principio di imparzialità del giudice. E dunque non è affatto contrario a tale principio che i magistrati possano associarsi liberamente al fine di promuovere e diffondere la propria declinazione di quei valori di riferimento, nella cui cornice si manifesta il ruolo costituzionale del giudice nell’ordinamento.

Il problema è, invece, far sì che i componenti del Consiglio agiscano sempre, e indipendentemente dalle loro opzioni ideali, con indipendenza di giudizio e di azione di fronte alle pressioni clientelari, ai condizionamenti trasversali, alle spinte corporative, alle tentazioni ad adottare spartitorie pratiche di lottizzazione, che con la c.d. “politicizzazione” nulla hanno a che fare, ma che sono inevitabilmente presenti in tutte le organizzazioni che si trovano ad esercitare un “potere”. La “politica” e il “potere” non sono affatto la stessa cosa. È per questo che un buon sistema elettorale dovrebbe contribuire a favorire la selezione di personalità dotate di individuali qualità di autonomia e indipendenza che evitino o riducano il minimo il rischio che l’assunzione di decisioni delicate come quelle che hanno ad oggetto la carriera dei magistrati diventi puro e semplice esercizio di potere.

Orbene, di fronte a tali esigenze, non esiste un sistema elettorale ottimale. Anzi, l’ingegneria elettorale, con la sua inesauribile fantasia, è in grado di produrre infinite soluzioni, ciascuna delle quali, inevitabilmente, presenta pregi e criticità.  Né il problema può essere ridotto, come talvolta semplicisticamente ci si ostina a fare, alla falsa alternativa tra sistemi “proporzionali” e “maggioritari”. Da tempo è chiaro agli studiosi di sistemi elettorali che gli effetti (o, come dicono i politologi, i “rendimenti”) di ciascun sistema elettorale prescindono molto spesso dalla formula (astrattamente) maggioritaria o proporzionale che viene di volta in volta prevista. Inoltre, è assai frequente l’evenienza che un sistema elettorale pensato per avere un determinato effetto (proporzionale o maggioritario) produca, alla prova dei fatti, effetti diametralmente opposti a quelli attesi, proprio a causa del comportamento “naturalmente” strategico adottato dai diversi attori che a quell’elezione a vario titolo concorrono.

Una cosa, tuttavia, pare certa: se non esistono sistemi elettorali perfettamente adeguati a garantire ciascuna delle esigenze sopra evidenziate, di sicuro esistono sistemi elettorali che, in vista di tale scopo, risultano letteralmente esiziali. Lo dimostra il sistema adottato nel 2002 e attualmente vigente, il quale, come da più parti rilevato, si è dimostrato totalmente incapace non dico di perseguire gli obiettivi che si sono sopra delineati, ma neppure di realizzare quelli che il legislatore esplicitamente si prefiggeva. L’idea era apparentemente semplice, in realtà semplicistica. Si riteneva che, abolendo formalmente lo scrutinio di lista e promuovendo il c.d. “voto unico” a favore di candidature strettamente individuali, si sarebbe automaticamente promosso l’emergere di candidati indipendenti e sarebbero state simmetricamente penalizzate le componenti organizzate. Invece, com’era ampiamente prevedibile, le stesse componenti organizzate hanno presto compreso la necessità di realizzare una forte “organizzazione preventiva” del voto, affinché esso producesse, nella sostanza, risultati conformi alla forza reciproca, e alle corrispondenti aspettative, delle medesime componenti. Come si diceva, è un dato universalmente noto agli studiosi di sistemi elettorali che la legge elettorale induce, nelle forze organizzate che partecipano alla competizione, comportamenti strategici e adattativi. E dunque ci si deve attendere che una pessima legge elettorale induca in costoro pessimi comportamenti adattativi. Le vicende legate alla gestione delle “elezioni primarie”, alla scelta su quali e quanti candidati presentare, ai calcoli preventivi sulla “distribuzione attesa” dei consensi e alla conseguente centralizzazione e “cristallizzazione” a livello nazionale delle relative scelte è, a tal proposito, addirittura paradigmatica. La responsabilità, in massima parte, va ascritta alla stessa formulazione della legge elettorale, che – nel vano intento di «penalizzare le correnti» – pretende di mettere al centro della competizione singoli candidati, ai quali è precluso ogni formale “collegamento” con componenti organizzate, ma contemporaneamente li costringe ad una “impossibile” competizione su scala nazionale, che solo l’appoggio di una componente organizzata può garantire. Con il bel risultato che quelle componenti organizzate, le quali ovviamente continuano sostanzialmente ad esistere, si conformano al sistema e vi si adattano, arrivando al punto di organizzare “a tavolino” la distribuzione tra i propri aderenti delle singole preferenze da attribuire, in modo da evitare eccessive concentrazioni di voti su singoli candidati e conseguenti effetti penalizzanti sugli altri candidati appartenenti alla medesima componente.

E così quella dissennata legge elettorale, nel più evidente esempio di eterogenesi dei fini, non soltanto non ha efficacemente combattuto il corporativismo giudiziario, ma ha finito per esaltarne i tratti più distorti, costringendo le singole articolazioni della magistratura associata a trasformarsi in vere e proprie “macchine di organizzazione del consenso”. Tutto ciò ha favorito un processo di allontanamento delle associazioni tra magistrati dalla loro più autentica vocazione. L’associazionismo giudiziario oscilla da sempre tra i contrapposti modelli, noti alla scienza politica, della “associazione di idee” e della “associazione di servizi”. È evidente, peraltro, che il primo modello è stato a lungo prevalente. Le c.d. “correnti” erano vissute, dai loro appartenenti, innanzi tutto come luoghi di discussione politica e di elaborazione intellettuale, cui si aderiva essenzialmente per motivazioni di tipo ideale. Il sistema elettorale adottato nel 2002 ha sicuramente contribuito ad accelerare un processo, che per la verità era già in atto da tempo, di progressivo allontanamento da quel modello, e di trasformazione del rapporto tra le componenti organizzate e i singoli magistrati-elettori. Certo è che il progressivo accentramento delle competizioni elettorali intorno alla capacità organizzativa delle correnti ha finito per esaltarne sempre di più il ruolo centrale sotto il profilo burocratico-organizzativo, a scapito della funzione rappresentativa del pluralismo culturale e ideale. Con un’aggravante: che lo stesso profilo burocratico-organizzativo non è più trasparente, ma asseconda una pericolosa torsione dello stesso significato dell’espressione “magistratura organizzata”. L’organizzazione rischia di essere sempre più funzionale, esclusivamente, alla “vittoria elettorale”, all’occupazione del potere che il CSM obiettivamente esprime, alla stipula di accordi occulti, o in ogni caso opachi, nei quali ogni originaria idealità o “politicità”, ogni pubblico confronto di idee e posizioni annega in un indistinto sottobosco di legami particolari, individuali promesse, indicibili scambi, entro i quali si alimenta un perverso meccanismo che consente di mantenere e consolidare nel tempo il vincolo con l’organizzazione e la fedeltà elettorale alla stessa. Per provare a spezzare tale legame, una modifica del sistema elettorale che più di tutti ha contribuito ad alimentarlo non pare affatto inutile.

 

4. Quali coordinate per una riforma?

Una riforma della legge per l’elezione della componente togata del CSM è dunque indispensabile. E lo è non tanto perché un diverso sistema sia in grado da solo di garantire ciò che finora non è stato, ossia un funzionamento migliore dell’organo di autogoverno e una conseguente rilegittimazione dell’intero ordine giudiziario, attualmente sottoposto a una pericolosa caduta di prestigio, ma perché l’attuale legge elettorale sembra essere di per sé perfettamente funzionale a perpetuare tale stato di cose. Se non esiste, in astratto, una legge elettorale migliore, sicuramente ne esiste, in concreto, una peggiore. L’attuale legge, sotto tale profilo, non appare più difendibile.

Il primo obiettivo che un nuovo sistema elettorale dovrebbe perseguire deriva proprio dalle considerazioni da ultimo sviluppate. Come evitare che le singole componenti della magistratura organizzata siano indotte o incentivate a trasformarsi in mere macchine elettorali alla ricerca di consenso a qualsiasi prezzo. Anche su questo punto occorre essere chiari. È inevitabile che, in una competizione elettorale, si formino aggregazioni che competono per il consenso. Ma le regole elettorali possono aiutare ad evitare che tale competizione finisca per snaturare il significato stesso dell’associazionismo della magistratura. Se allo scopo di aggiudicarsi un’elezione diventa indispensabile svolgere una capillare attività di campagna elettorale organizzata “dal centro” su tutto il Paese, è inevitabile che le stesse correnti finiscano per perdere ogni residuo ruolo (che dovrebbe essere loro proprio e fisiologico) di luoghi di riflessione e di elaborazione intellettuale e di produzione di pensiero critico, per trasformarsi in meri collettori di consenso e dunque, una volta “vinte” le elezioni, in meri gestori di potere, che restituiscono ciò che avevano “promesso”. Inoltre, una competizione di tipo fortemente accentrato, che costringe i candidati a ricercare il consenso su tutto il territorio nazionale, finisce per favorire la selezione sulla base di “qualità” che non dovrebbero avere nulla a che fare con l’elezione del CSM, quali la fama individuale, l’esposizione mediatica, le eventuali pregresse benemerenze conquistate nell’esercizio di cariche associative o negli organi centrali dell’ANM, e così via.

Non dobbiamo poi dimenticare un dato materiale che rende inevitabilmente diverso il meccanismo di funzionamento del sistema elettorale del CSM rispetto a quello che caratterizza le elezioni politiche. I magistrati sono complessivamente pochissimi. Stiamo parlando di un corpo elettorale che non supera, in tutto, il numero di elettori di una piccola cittadina. Il quale, tuttavia, è “disperso” su una superficie territoriale vastissima, ma contemporaneamente è distribuito su tale superficie in modo diseguale, con talune sacche di evidente concentrazione. Qualsiasi legge elettorale è costretta a fare i conti con questo complesso dato strutturale, che inevitabilmente condiziona l’idea stessa di “territorialità”.

Anche con riferimento a tale ultimo termine è bene fare chiarezza. L’esigenza, da più parti manifestata nel corso del dibattito di questi mesi, di “tornare al territorio”, ossia di prevedere un sistema elettorale che garantisca un più adeguato rapporto tra l’eletto e le singole realtà territoriali entro cui si articola l’organizzazione giudiziaria, ha sicuramente motivazioni comprensibili e condivisibili. Si tratta di spezzare le logiche di una rappresentanza nazionale che da un lato, come detto, rischia di esaltare le peggiori manifestazioni di un “correntismo senza qualità”, nel quale le componenti della magistratura associata si trasformano in mere cinghie di trasmissione di un consenso clientelare e di un potere opaco e incontrollato, e che dall’altro lato favorisce sempre e inevitabilmente l’egemonia di talune aree territoriali su altre, quelle ove si concentra il maggior numero di elettori e ove possono costruirsi con più facilità reti di consenso, scambi politici e conseguenti aree di sovra-rappresentazione.

D’altro canto, è altresì indispensabile che il vagheggiato “ritorno al territorio”, spesso presentato come il toccasana che guarirà ogni male del correntismo, non apra le porte ad un vizio ancor più temibile rispetto allo strapotere nazionale delle componenti organizzate: quello del localismo. Il localismo può produrre sacche di clientela ben più radicate e impermeabili di quelle che si possono formare con sistemi basati su circoscrizioni nazionali. Ricordo che il massimo della degenerazione notabilare, nelle elezioni politiche, lo si è sempre raggiunto nell’ambito dei sistemi organizzati intorno a collegi uninominali, soprattutto quando ciò si intrecciava con un numero molto basso di elettori. Si pensi, in particolare, ai sistemi elettorali vigenti negli Stati liberali del secondo Ottocento, quando proprio il collegio uninominale, coniugato con il suffragio ristretto, rappresentava la fonte più immediata e tangibile del clientelismo notabilare, radicato soprattutto nelle campagne, al quale soltanto assai lentamente e nel contesto dello sviluppo “urbano” della società industriale e dell’estensione progressiva del suffragio, si andò progressivamente sostituendo una nuova forma dell’azione politica basata sull’egemonia dei partiti di massa.

Sotto questo profilo, mi lascia assai perplesso la proposta, contenuta nel c.d. “progetto Bonafede”, di distribuire il già complessivamente esiguo numero degli elettori in ben 18 collegi uninominali territoriali (cui si aggiungono due ulteriori collegi “funzionali” di dimensioni analoghe). Ciò assegnerebbe di fatto la scelta di ciascun singolo componente togato del CSM a circa 450 persone, ossia a una platea estremamente ridotta di elettori perlopiù afferenti a uffici situati nel medesimo luogo o in luoghi vicini, con un evidente rischio di frammentazione della rappresentanza. La campagna elettorale finirebbe inevitabilmente per essere condizionata da questioni localistiche, con una maggiore difficoltà a ricondurre il dibattito alle grandi questioni di principio concernenti il ruolo della giurisdizione, le sue finalità, i criteri generali dell’organizzazione giudiziaria. Ma non basta. Lo stesso progetto, nel prevedere la possibilità di esprimere fino a tre preferenze (in ordine decrescente di importanza e con introduzione del voto “di genere”) nell’ambito di uno scrutinio maggioritario a doppio turno, aggiunge difetti ai difetti. In termini teorici la preferenza multipla associata allo scrutinio a doppio turno nell’ambito di un collegio uninominale è letteralmente un’assurdità, in quanto produce, come unico risultato, quello di esaltare il formarsi di “cordate” tra candidati appartenenti al medesimo gruppo, con l’obiettivo di portare al ballottaggio due candidati (verosimilmente appartenenti a generi diversi) della stessa componente organizzata, che così si garantirebbe la vittoria certa dell’elezione.

Il rischio di un sistema del genere è dunque duplice: da un lato di esaltare oltre misura i localismi, dall’altro di incentivare ulteriormente comportamenti strategici e voti di scambio. A ciò si aggiunga che, secondo lo stesso progetto, sarebbe il ministro della giustizia con suo decreto a decidere discrezionalmente, nei tre mesi precedenti la data delle elezioni, come i singoli collegi territoriali (a parte i due collegi “fissi” individuati per funzione) debbano essere disegnati. Il rischio, in tal caso, è che si realizzino – per mano del ministro – i ben noti fenomeni di “gerrymandering” nella determinazione dei collegi, con evidente pregiudizio per lo stesso principio costituzionale di autonomia e indipendenza della magistratura. Ricordo che, ai tempi in cui era previsto l’accorpamento di diversi distretti di Corte di Appello in circoscrizioni elettorali territoriali che venivano di volta in volta individuate ad ogni elezione, esso avveniva per sorteggio, e non certo per discrezionale decisione del ministro.

Altre proposte di riforma, tra le molte di cui in questo periodo si dibatte, appaiono più consone ad affrontare le criticità che sono state messe in evidenza, senza presentare gli evidenti difetti palesati dal progetto ministeriale. Nell’impossibilità di esaminarle tutte, mi limiterò ad alcune considerazioni di carattere generale.

Per evitare che l’elezione si esaurisca, collegio per collegio, in un muscolare “scontro maggioritario” tra i gruppi più forti, è stato proposto ad esempio di mantenere la base uninominale del suffragio, coniugandola però con una distribuzione proporzionale dei seggi. Non dobbiamo dimenticare, a tale proposito, che la vera giustificazione addotta dai fautori del sistema “plurality” o “majority” (ossia maggioritario a turno unico o a doppio turno nell’ambito di collegi uninominali) nelle elezioni di tipo politico sta nella sua asserita capacità di assicurare “stabili maggioranze di governo”. Orbene, al di là della plausibilità dell’assunto (assai spesso smentito dalla realtà dei risultati elettorali nei paesi in cui tale tipo di sistema è stato adottato), qui il punto cruciale è un altro. L’elezione dei componenti togati del CSM non è un’elezione politica, tra i cui obiettivi può essere assunto anche quello di precostituire una “maggioranza” e una “opposizione” in modo da assicurare la c.d. “governabilità”. Qui non vi è in realtà nulla da “governare”. Vi è tutt’al più da assicurare un funzionamento efficace e funzionale dell’organo, garantendo al contempo, al suo interno, la massima espressione del pluralismo ideale esistente all’interno dell’ordine giudiziario e la massima caratura individuale dei suoi rappresentanti. E cioè, come si diceva all’inizio, qualità e rappresentatività. Se da un lato, quindi, il principio maggioritario per l’attribuzione del singolo seggio non appare consono alla funzione ascritta all’organo, dall’altro lato la distribuzione degli eleggibili in circoscrizioni elettorali più ristrette può contribuire a favorire una più accurata selezione sul piano della qualità complessiva dei candidati.

È questo l’obiettivo perseguito, ad esempio, dal progetto di riforma proposto da Gaetano Silvestri, che coniuga appunto la distribuzione degli eleggibili sulla base di collegi uninominali con una assegnazione dei seggi su base proporzionale, ricalcando il sistema elettorale vigente fino al 1994 per l’elezione del Senato della Repubblica e fino al 2014 per l’elezione dei consigli provinciali. In ogni collegio uninominale verrebbero presentate candidature individuali, con la possibilità tuttavia, per ciascun candidato, di “collegarsi” ad altri candidati di sensibilità ideale affine presenti in altri collegi. La distribuzione dei seggi avverrebbe su base proporzionale tra i “gruppi” di candidati tra loro collegati, mediante l’utilizzo di uno qualunque dei diversi sistemi di riparto proporzionale esistenti (dal metodo del quoziente al metodo d’Hondt, a seconda della preferenza per un criterio che realizzi una minore o maggiore sovra-rappresentazione dei gruppi di candidati che hanno raccolto più voti). Tale sistema avrebbe l’indubbio effetto di creare un forte collegamento territoriale del singolo candidato con i suoi elettori, ma contemporaneamente di evitare che l’eletto sia solo ed esclusivamente espressione di un “fatto maggioritario” che si esaurisce nel collegio uninominale in una dialettica rozza e semplificata tra un “vincente” e uno o più “perdenti”. Il pluralismo sarebbe salvaguardato in quanto, a livello nazionale, si garantirebbe una distribuzione dei seggi sostanzialmente conforme al consenso complessivamente raccolto dai gruppi di candidati tra loro apparentati.

La principale criticità di questo sistema risiede, a mio giudizio, nella eccessiva esiguità territoriale del singolo collegio. È il medesimo difetto già riscontrato nel progetto ministeriale. Distribuire i circa 9000 magistrati italiani all’interno di 18 o 20 collegi uninominali (nell’ipotesi in cui il numero totale dei componenti togati sia riportato a 20) significa creare collegi di 450 elettori al massimo. La campagna elettorale di ciascun candidato finirebbe in sostanza per esercitarsi nei confronti di un numero molto limitato di persone, con il rischio che i temi della competizione “scadano” a questioni di natura sempre più pericolosamente corporativa, quando non di mero interesse individuale.

È per ovviare a tale obiezione che è stata elaborata da taluno la proposta di prevedere, anziché 20 collegi uninominali, 10 collegi binominali, di dimensioni doppie, ovvero, in un’ipotesi più strutturata, 9 collegi binominali, cui aggiungere due ulteriori eletti risultanti dal ripescaggio dei due candidati (appartenenti al genere meno rappresentato) che abbiano conseguito il maggior numero di voti tra i non eletti nei 9 collegi (sul modello di un sistema elettorale sperimentato a livello politico per una breve stagione storica in Polonia e in Cile, nella fase di transizione alla democrazia). Nell’ambito di ciascun collegio l’elettore avrebbe a disposizione una (sola) preferenza, e l’elezione si svolgerebbe in un unico turno, con scrutinio maggioritario di tipo plurality. Tale sistema avrebbe l’effetto di mantenere, in capo alle componenti organizzate, un ruolo nella determinazione delle candidature, ma contemporaneamente di non impedire drasticamente la possibilità che un forte candidato indipendente dotato di un rilevante seguito personale in una specifica area territoriale riesca a prevalere nell’ambito di una competizione che mantiene comunque una sua dimensione locale, sebbene meno caratterizzata dalla micro-frammentazione rispetto a quella derivante dalla divisione del territorio in collegi uninominali.

Sebbene la proposta costituisca un indubbio passo avanti rispetto ai segnalati difetti del progetto ministeriale, mi pare peraltro che anche questo sistema non sia esente da criticità. La natura binominale del collegio, coniugata allo scrutinio maggioritario, produrrebbe una naturale tendenza alla bipolarizzazione dell’elezione, nell’ambito della quale vi sarebbe da aspettarsi una convergenza degli elettori sui due candidati espressivi delle componenti organizzate più forti (o comunque maggiormente dotate di capacità coalizionale). Forse, da questo punto di vista, potrebbe essere allora più interessante ragionare di una opportuna combinazione tra i due sistemi da ultimo descritti: una base binominale nella determinazione dei collegi, con una distribuzione dei seggi di tipo proporzionale attraverso il sopradescritto meccanismo del collegamento. In tal modo sarebbe salvaguardata, da un lato, l’esigenza che i candidati non siano la pura e semplice espressione di una scelta “nazionale” che cala dall’alto, ma dall’altro lato che la competizione elettorale non si risolva in una contrapposizione rigidamente bipolare che si esaurisce a livello del singolo collegio territoriale con la “vittoria” di un candidato e la “sconfitta” di tutti gli altri.

Lo si ripete: il CSM non è una sorta di “parlamento” della magistratura cui è assegnato il compito di esprimere una “maggioranza di governo”. L’esigenza è quella di garantire il più ampio spazio alle diverse sensibilità politico-ideali e alle diverse declinazioni e possibili interpretazioni del ruolo costituzionale del magistrato nella società pluralistica. In tutto ciò non vi può essere davvero nulla di “maggioritario”. Contemporaneamente, tuttavia, occorre anche immaginare un sistema che promuova la migliore selezione in base alle capacità individuali, alle attitudini personali, alla professionalità di ciascun eligendo (nella consapevolezza che, in assenza di una fattiva collaborazione da parte delle singole componenti della magistratura organizzata all’atto della selezione dei candidati, le regole elettorali da sole non saranno mai in grado di assicurare che tale obiettivo venga raggiunto). Un sistema che, d’altro canto, non produca l’egemonia dei distretti territoriali naturalmente più coesi e organizzati. Anche da questo punto di vista, la proposta di Gaetano Silvestri presenta indubbi vantaggi, dal momento che, dopo l’assegnazione dei seggi su base proporzionale, l’individuazione di ciascun eletto all’interno del singolo gruppo di candidati collegati non verrebbe effettuata in ragione dei voti assoluti raccolti da ognuno, bensì in base alla percentuale degli stessi rispetto a quelli complessivamente espressi (con un evidente effetto di riequilibrio a favore dei territori meno capaci di esprimere  un consenso fortemente strutturato a priori). Tale sistema, è stato osservato, produrrebbe il rischio che in certi collegi risulti più di un eletto, mentre altri collegi potrebbero restare del tutto privi di rappresentanza. Questo rischio, tuttavia, è insito in ogni competizione elettorale a base proporzionale. Inoltre, la circostanza che un collegio rimanga privo di rappresentanza non dipenderebbe dalla sua strutturale “debolezza organizzativa”, bensì da fattori non prevedibili a priori e in fin dei conti imponderabili. Il che, nuovamente, potrebbe addirittura rappresentare un vantaggio, nella logica di non assegnare un eccessivo potere “conformativo” alle componenti organizzate dal centro.

 

5. In conclusione: ma la dimensione territoriale è un valore in sé?

C’è però un’ulteriore questione su cui forse vale la pena di formulare qualche riflessione conclusiva.

Tutte le proposte che sono state avanzate in questi mesi sembrano dirette, pur con strumenti e soluzioni diverse, a spostare l’asse della campagna elettorale dall’attuale dimensione nazionale a una dimensione territoriale più contenuta. La principale criticità dell’attuale sistema viene giustamente individuata nella vastità della circoscrizione nazionale, che da un lato costringe i candidati a campagne elettorali molto faticose, e dall’altro trasforma, come si diceva, le componenti organizzate della magistratura in vere e proprie macchine elettorali, che agiscono con il fine di preordinare, e alla fin fine di sclerotizzare, il consenso. L’abolizione della circoscrizione unica viene quindi a buon diritto presentata come uno degli strumenti che dovrebbero contribuire, per dirla con uno slogan, a «salvare le correnti da sé stesse».

Nel condividere questa impostazione di fondo, rivolgo tuttavia una domanda con cui vorrei provare a fare un passo in più. Siamo sicuri che la più efficace risposta ai guasti della circoscrizione unica nazionale sia il puro e semplice ritorno ad una dimensione esclusivamente territoriale? Siamo sicuri che il miglior sistema elettorale sia quello in cui pochi elettori presenti su un territorio omogeneo (siano essi 450 o 900) si confrontano con il singolo candidato di ciascuna componente, in presenza – in qualche prevedibilmente rara occasione – di un singolo candidato indipendente che corre da “outsider” in quanto in possesso in talune specifiche realtà di un suo autonomo prestigio individuale? Il rischio è che la competizione per l’elezione finisca per esaltare nuovamente quegli esiziali difetti del sistema attuale che sono stati da tutti messi in evidenza. Che in altre parole continui a diffondersi e a perpetuarsi – soprattutto tra le più giovani generazioni, meno politicizzate o comunque meno legate da un solido vincolo ideale, e magari prive di salde e profonde convinzioni in merito al ruolo costituzionale della magistratura nella società – il messaggio secondo il quale l’elezione di un consigliere del CSM non sia altro che l’individuazione di un “referente”. Che ciascun elettore avrà sempre il “proprio” consigliere superiore, che tutelerà il suo individuale interesse alla carriera, o al quale potrà rivolgersi qualora si trovi di fronte a una questione disciplinare o a una qualunque individuale problematica legata al proprio status. E che si sentirà legittimato a farlo proprio perché ciò rappresenta esattamente la promessa che quel consigliere gli aveva rivolto in campagna elettorale.

Se così fosse, nessuno dei problemi da cui siamo partiti sarebbe risolto. E allora a nulla sarebbe valso lo sforzo. Da questo punto di vista, continuo a ritenere che la troppo stretta identificazione del singolo eletto con un territorio che lo abbia designato rischia di generare un improprio e micidiale rapporto di mandato, che reca con sé una serie di altrettanto improprie “aspettative”. Il Consiglio Superiore della Magistratura non dovrebbe mai funzionare sulla base della logica del mandato, che sarebbe in questo caso – mi si perdoni la provocazione – un mandato di sapore prettamente “Ancien Régime”, un mandato … imperativo (e corporativo), e non certo il mandato senza vincoli caratteristico della rappresentanza politica nazionale post-rivoluzionaria.

A ciò si aggiunga che il collegio territoriale fisso non stimola affatto, checché se ne pensi, le singole componenti della magistratura organizzata a sforzarsi per candidare sempre e in ogni caso coloro che sono in grado di garantire le più alte prestazioni sul piano morale e professionale. Ciò finisce per dipendere, in definitiva, dalle caratteristiche specifiche del singolo collegio territoriale nel quale si svolgerà la competizione. Caratteristiche che, in genere, sono ampiamente note in precedenza.

Se quindi, rispetto all’attuale sistema a base nazionale, è sicuramente da preferire qualsiasi formula che garantisca la distribuzione delle candidature in circoscrizioni elettorali più piccole secondo la logica di una più capillare ripartizione territoriale, forse varrebbe la pena di studiare un sistema in grado di ovviare anche alle evidenti criticità che un eccesso di localismo delle campagne elettorali rischia inevitabilmente di produrre. Mi chiedo in particolare se non sia possibile studiare una distribuzione degli elettori tra i diversi collegi (siano essi uninominali o binominali) non secondo criteri rigorosamente territoriali, bensì mischiando le carte, rovesciando la logica e assegnandoli a ciascuna circoscrizione sulla base di criteri diversi dal territorio, mettendo insieme magistrati che provengono da funzioni diverse, da luoghi diversi, da esperienze professionali diverse. Anche, al limite, attraverso una loro ripartizione puramente casuale. Questo, tra l’altro, costringerebbe i candidati a non concentrarsi esclusivamente sulle “esigenze del singolo territorio” nel quale devono conquistarsi i voti, con le inevitabili derive di cui abbiamo a lungo discorso, ma al contrario a presentare i profili di carattere generale dei propri programmi, senza essere “indotti in tentazione”.

Le soluzioni tecniche per realizzare collegi “misti”, privi di una rigida e predeterminata base territoriale, sono abbastanza semplici da trovare. Lo sforzo che, al di là del sistema che ciascuno di noi ritiene individualmente preferibile, deve essere compiuto è quello di realizzare una legge elettorale in grado di assecondare processi virtuosi di autoriforma. Nessun sistema elettorale, lo si diceva in esordio, può sperare di produrre, da solo, una radicale svolta rispetto ai gravissimi fatti che hanno colpito l’immagine e il prestigio dell’intero ordine giudiziario. A tale obiettivo non si perverrà mai in assenza di un profondo ripensamento delle prassi comportamentali e delle stesse attese che i singoli magistrati ripongono nel loro organo di autogoverno. In assenza, cioè, di quella auspicata “riforma delle teste” cui sopra si faceva cenno. La legge elettorale può al limite aiutare, accompagnandola, questa indispensabile e indifferibile attività di autoriforma (o di “autorigenerazione”). Per fare ciò, il nuovo sistema di elezione della componente togata del CSM, quale che sia la soluzione adottata in concreto, dovrà essere in grado di favorire, insieme alla più ampia rappresentatività di tutte le espressioni culturali (in assenza della quale interi settori della magistratura si sentirebbero esclusi dalla rappresentanza), una adeguata valorizzazione delle singole professionalità e delle singole qualità di autonomia e indipendenza. Un sistema che, in qualche modo, “costringa” la magistratura associata nel suo insieme a candidare i migliori esponenti di ciascuna componente, ma che contemporaneamente non produca un altrettanto drammatico scivolamento nel localismo.

La via è ardua, ma merita sicuramente di essere perseguita, nello sforzo di contribuire all’indispensabile rilegittimazione di un organo da cui dipende la tenuta stessa del modello costituzionale di organizzazione dell’ordine giudiziario, e di difesa della sua autonomia dalla politica.

[*]

Il presente scritto, destinato dall'Autore a Questione Giustizia in attesa della pubblicazione nel liber amicorum per Pasquale Costanzo, riproduce il testo dell'intervento dell'Autore al Convegno Voltare pagina. La riforma del sistema elettorale del CSM, promosso da Areadg e svoltosi a Roma il 23 giugno 2020. 

30/07/2020
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