Magistratura democratica
Magistratura e società

Tirocinio ex art. 73 legge 98/2013: diciotto mesi dopo

di Beatrice Ciani , Rachele Giorgi
già tirocinanti ex art. 73 legge 98/2013

Il tirocinio ex art. 73 legge 98/2013 offre non solo la possibilità di comprendere la complessità della funzione del magistrato, ma anche quella di confrontarsi con la stesura di complessi provvedimenti che incidono concretamente sulla vita delle persone. Al termine di questi diciotto mesi, ci scopriamo più consapevoli su come affrontare lo studio che ci accompagnerà sino al concorso di magistratura, e più ricche, anche da un punto di vista prettamente personale.

Il tirocinio ex art. 73 legge 98/2013 è l’occasione di confrontarsi direttamente con il mondo della Magistratura e della giurisdizione fino a quel momento osservato soltanto dallo spioncino della porta. L’esperienza di toccare con mano l’attività del giudice e la possibilità di dare concretezza alla realtà processuale e procedimentale conosciuta solo sui libri è un unicum di inestimabile valore. Questo tirocinio, infatti, consente al neolaureato di avere un assaggio di quello che potrebbe essere il suo futuro lavorativo, per evitare che costui si addentri in un percorso di studio lungo e tortuoso senza avere contezza di quello che in concreto è quotidianamente affidato alla valutazione di un magistrato. Altresì, l’esperienza fornisce una visione d’insieme delle dinamiche e delle diverse mansioni interne a un Palazzo di Giustizia, dando la possibilità di entrare in contatto con le molteplici figure professionali coinvolte nel sistema giustizia.

Laureate a marzo del 2021, rispettivamente all’Università degli Studi di Milano e all’Alma Mater Studiorum – Università di Bologna, abbiamo iniziato i diciotto mesi di tirocinio presso l’Ufficio GIP del Tribunale di Milano. L’impatto è stato significativo, in quanto, sin dal primo giorno, abbiamo partecipato attivamente alla vita del giudice e dell’ufficio, che si estrinseca prevalentemente nello studio dei fascicoli, nello svolgimento delle udienze, nella scrittura dei provvedimenti e nella attività di confronto con i colleghi e con il personale amministrativo. In particolare, abbiamo preso parte alle numerose udienze e abbiamo avuto la fortuna di misurarci nella redazione di sentenze di rito abbreviato, incidenti di esecuzione e ordinanze di vario genere, dalle archiviazioni alle opposizioni al rigetto dell’istanza di ammissione al Patrocinio a spese dello Stato. Altrettanto variegate sono state le fattispecie di reato scandagliate, grazie alle quali abbiamo potuto approfondire la parte speciale del codice penale come mai prima.

Scrivere le bozze dei provvedimenti è stata la palestra migliore per sviluppare e affinare il nostro ragionamento giuridico. L’analisi del fatto storico da sussumere nella fattispecie di reato, della quale è necessario indagare non solo il dettato codicistico, ma anche e soprattutto l’evoluzione giurisprudenziale, è stata illuminante e dirompente: abituate a uno studio teorico e solo parzialmente concreto, abbiamo dovuto affrontare un importante salto qualitativo per riuscire nella scrittura di elaborati solidi e convincenti. Siamo state stimolate a fare ricerche, anche mediante l’utilizzo della piattaforma ItalgiureWeb (il cui accesso è garantito a tutti i tirocinanti), al fine di avvalorare con la giurisprudenza più recente la tesi argomentativa di volta in volta adottata. Nel corso dei diciotto mesi trascorsi in Tribunale, abbiamo così avuto modo di seguire l’evoluzione interpretativa di alcune disposizioni normative, osservando il costante divenire del diritto vivente. 

Il giudice affidatario ci ha educate a ponderare le pretese delle parti in causa, passando in rassegna e dando rilievo alle questioni sollevate tanto dalla Pubblica Accusa, quanto dalla difesa dell’indagato/imputato, e dalla parte civile, laddove costituita. Questo esercizio ci ha insegnato a sviluppare la bozza del provvedimento di volta in volta assegnatoci, nel modo più chiaro e completo possibile. In particolare, abbiamo trovato molto interessante riflettere sul perché una condotta antigiuridica integrasse il reato X piuttosto che il reato Y, nei casi in cui la tesi difensiva chiedeva la riqualificazione del fatto-reato in una disposizione diversa da quella indicata in imputazione. Riuscire a trasporre per iscritto ragionamenti complessi in modo logico e lineare si è rivelato più ostico di quanto si possa presumere. Abbiamo imparato inoltre che, nell’indicare puntualmente perché la tesi difensiva non debba essere accolta, il ragionamento seguito deve essere argomentato chiaramente, ovverosia senza dare per scontato alcun tipo di passaggio logico, lasciandolo in forma implicita. Persino la ricostruzione del fatto comporta un’inaspettata operazione di riordino e semplificazione della vicenda storica, la quale, talvolta, viene quasi oscurata dalle varie perizie, consulenze, dai numerosi verbali a s.i.t. e dal restante materiale probatorio prodotto.

Il lavoro svolto durante i mesi di tirocinio ci ha consentito, inoltre, di scoprire l’importanza della scelta del singolo termine da utilizzare, facendoci soffermare sulle implicazioni giuridiche delle quali ciascun vocabolo è portatore. Tale labor limae, del quale prima non percepivamo la necessità, si è rivelato fondamentale.

Dal punto di vista personale, inoltre, il costante confronto con le storie degli “altri”, tanto imputati quanto persone offese, ci ha fornito spaccati di vita molto diversi da quelli all’interno dei quali siamo solitamente collocate, rendendoci ancora più consapevoli della parzialità della nostra prospettiva e anche meno critiche. Al di là di retoriche sterili, infatti, la corrispondenza tra reo-cattivo e vittima-buona non sempre è immediata e non sempre, soprattutto, fotografa fedelmente la fattispecie in analisi. Decifrare il ruolo dell’indagato/imputato all’interno della scansione fenomenica dei fatti è più complicato di quanto un’ANSA possa far sembrare.

Spesso il “cattivo” non è tale per scelta, ma per riflesso a un contesto familiare, sociale, culturale ed economico molto povero, o comunque scarno. Comminare una pena a un soggetto del genere può, dunque, diventare anche un’opportunità. Infatti, lungi dal giustificare la condotta delittuosa col vissuto del reo, una volta che la sussistenza del reato è stata saldamente argomentata, si giunge alla fase più delicata della determinazione della pena. Nella scelta del trattamento sanzionatorio, il giudice modella quanto previsto in via generale e astratta dalla fattispecie di reato al caso di specie, passando al vaglio i diversi strumenti punitivi previsti dall’ordinamento e scegliendo quello che più si confà a soddisfare tanto l’interesse general-preventivo, quanto quello relativo alla risocializzazione del soggetto colpevole. Il fine primario della pena, e l’unico che abbia espresso rilievo costituzionale, è, per l’appunto, il fine rieducativo. Non di rado, insieme al nostro giudice affidatario ci siamo interrogate sulla bontà di una misura punitiva in una prospettiva futura rispetto alla vita del condannato, in modo che, oltre a pagare lo scotto delle proprie azioni, si schiudesse per lui anche la possibilità di una riabilitazione. Individuare la strada più consona da percorrere a livello sanzionatorio non è mai banale e, soprattutto, dal momento che il giudice dispone per la vita di altri, il suo lavoro lo costringe a mettere in discussione più volte il proprio pensiero, al fine di assicurarsi che non vi siano falle o alternative preferibili.

Il mestiere tanto dell’organo giudicante, sia in ambito penale che in ambito civile, quanto dell’organo inquirente/requirente, è dunque, in prima battuta, un mestiere di forte responsabilità. Sovente invece, il ruolo del magistrato nelle menti degli studenti di Giurisprudenza, persi nello studio di tesi contrapposte sostenute dalla dottrina più autorevole o immersi nella lettura di complicate sentenze della Suprema Corte di Cassazione o della Corte Costituzionale, sfuma in una figura dal ruolo meno attivo di quello che in realtà ricopre quotidianamente. 

È proprio questo quello che intendiamo quando affermiamo che il tirocinio ha dato concretezza ad una serie di idee, piuttosto sbiadite, col senno di poi, che avevamo circa il ruolo del magistrato. 

Vivere quotidianamente la realtà del Tribunale ci ha permesso di soppesare meglio la scelta di intraprendere questo percorso, facendoci confrontare ripetutamente con l’interrogativo relativo al possibile sposalizio tra la carriera in magistratura e il tipo di vita che avremmo voluto condurre in futuro. Tra le altre esperienze del quale siamo riuscite a far tesoro, infatti, abbiamo anche vissuto la drammaticità di un Ufficio all’interno del quale il personale lavora da diversi mesi sotto organico, toccando con mano cosa significa lavorare non solo sotto pressione per la delicatezza della funzione, ma anche per il carico di lavoro più alto del dovuto. Il ruolo dei diversi giudici è infatti ricco di processi anche molto corposi, i quali richiedono un adeguato grado di approfondimento e studio, ma anche una riflessione e una sedimentazione della questione di volta in volta analizzata che si può raggiungere solo prestando la dovuta attenzione agli elementi specifici del caso, dedicandovi un notevole quantitativo di tempo.

Spesso ci siamo chieste se un domani, immaginandoci all’inizio della carriera presso il Palazzo di Giustizia, saremmo state in grado di sopportare un tale carico di lavoro, sebbene l’Ufficio GIP nel quale abbiamo trascorso i nostri diciotto mesi di tirocinio fosse un ambiente altamente collaborativo, dove spesso i magistrati interrogano i colleghi sulle questioni che li occupano per accertarsi della bontà dei propri ragionamenti e si supportano l’un l’altro al fine di ottimizzare tempo e lavoro.

Per quanto la convinzione di intraprendere questo percorso sia ancora più viva in noi al termine dell’esperienza come tirocinanti, lo è in modo indubbiamente diverso e più maturo rispetto a quanto non fosse alla conclusione della carriera universitaria. Il sogno è stato calato in una dimensione concreta, dove abbiamo assaporato i lati positivi di questo lavoro, confrontandoci però anche con i risvolti più problematici che gli sono propri. La nostra visione è più realistica e questo ci permette di affrontare con maggiore consapevolezza lo studio che ci separa dalle prove scritte.

Tra le varie attività in cui abbiamo affiancato il nostro giudice affidatario, sicuramente una delle più travolgenti è stata quella di osservare il giudice, in camera di consiglio, impegnato a riflettere sulla definizione del giudizio. È un momento solenne, accompagnato da un silenzio religioso, nel quale la singola persona del giudice porta su di sé tutta la responsabilità della decisione che andrà a formulare. Avere un’eccellente conoscenza del diritto, padroneggiandolo nella sua interezza, è la base imprescindibile per permettere al giudice di pronunciare qualsiasi tipo di provvedimento. L’aver assistito a questi momenti ha mutato il nostro approccio allo studio: paradossalmente oggi il nostro obiettivo principe non è tanto superare il concorso, quanto piuttosto studiare in modo da riuscire a dissipare qualsiasi tipo di questione e saperci orientare all’interno del sistema come se dovessimo già ora prendere decisioni giuridiche delle quali assumere la relativa responsabilità. 

Il bilancio finale di questa esperienza è dunque quello di aver acquisito un quid pluris difficilmente assimilabile altrimenti. Grazie a questa opportunità siamo maturare sotto molteplici punti di vista, sia come persone, sia come giuriste. Il nostro ragionamento giuridico si è affinato, abbiamo imparato a scrivere in modo più chiaro ed esaustivo, utilizzando termini precisi e confacenti alle diverse questione incontrate. Inoltre, abbiamo dato forma ad una figura prima conosciuta solo attraverso idealizzazioni, rendendoci conto dell’importanza del lavoro che svolge, di come questo si rifletta sulla società e anche di come sia accolto da quest’ultima. 

Per quanto il tirocinio presso gli Uffici Giudiziari non sia più richiesto come requisito ai fini della partecipazione al concorso di Magistratura (cfr. l’art. 4, comma 1, lett. a) della legge delega 71 del 2022), il caloroso consiglio che sentiamo di esprimere ai neolaureati è quello di mettersi in gioco con una prova tanto ambiziosa, quanto gratificante: diciotto mesi dopo la differenza si vede e soprattutto si sente.

16/12/2022
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