1. E' opinione diffusa che la categoria dei magistrati goda, a differenza di molti altri settori pubblici o professionali, di una sostanziale immunità per i propri errori, di cui solo molto raramente sarebbe chiamata a rispondere.
A prescindere dalla significatività statistica di questa affermazione, che non tiene in debito conto il numero sempre crescente di procedimenti disciplinari promossi nei confronti di magistrati in relazione all'esercizio delle loro funzioni, occorre tener conto di alcuni dati fondamentali per accostarsi al tema della responsabilità giudiziale.
Il primo è che il sistema di amministrazione della giustizia è concepito secondo una logica di gradualità tale per cui è sempre possibile, sia in materia civile sia in materia penale cercare rimedio ad una decisione fino a rivolgersi in ultima istanza alla Corte di Cassazione. Ed allora potrà parlarsi di errore consolidato ed irreparabile (tranne alcune ipotesi straordinarie) solo al termine dell'intero percorso giurisdizionale.
In secondo luogo il concetto di errore giudiziario non può di per sé corrispondere alla semplice difformità tra i giudizi espressi dai vari giudici che su uno stesso caso si sono pronunciati in diversi stati e gradi.
Se questa tesi fosse esatta si tornerebbe all'infausto sistema vigente nell'Inghilterra dei secoli scorsi durante il periodo in cui la famigerata Star Chamber condannava a pesanti sanzioni, compresa quella capitale, i giudici le cui pronunce in materia penale venivano annullate da una Corte superiore.
Ed infatti è del tutto inaccettabile l'idea che possa essere fonte di responsabilità per un magistrato la circostanza che in relazione ad un proprio provvedimento dissentano uno o più suoi colleghi.
Il sistema disciplinare che riguarda gli errori giudiziari è scandito da regole che permettono di perseguire soltanto i casi in cui le pronunce siano immotivate o solo apparentemente motivate, emanate all'infuori dei casi previsti dalla legge, ovvero adottate con negligenza grave ed inescusabile.
Non si tratta, quindi, di ipotesi di errore di giudizio, sempre emendabile attraverso un'impugnazione, ma di comportamenti professionali qualificati dalla contrarietà ai doveri di diligenza, cautela, documentazione, attenta osservanza della legge.
Esiste poi una particolare ipotesi di illecito disciplinare consistente nell'errore macroscopico o nella grave e inescusabile negligenza: ipotesi ripetutamente passata al vaglio della giurisprudenza che ha elaborato un corteo di principii stabili ed affidanti in materia, con il sicuro intento di fugare qualunque tentazione di sviamento strumentale dal perimetro della norma e di conseguente sua applicazione in relazione all'intrinseco contenuto del provvedimento (art.2, comma 1 lettera ff d.lgs.109/2006).
2. E' proprio questa la violazione contestata dal Ministro della Giustizia ai tre Consiglieri della Corte d'Appello di Milano che si sono occupati del caso Uss, adottando nei suoi confronti la misura degli arresti domiciliari con l'applicazione del braccialetto elettronico.
La singolarità, forse sarebbe il caso di dire l'eccezionalità, della contestazione risiede nel fatto che ,applicando la norma da ultimo citata, il promotore dell'azione disciplinare abbia addebitato ai magistrati incolpati ,in via incidentale di essersi espressi in contrario avviso rispetto a quello manifestato dalla Procura Generale distrettuale, ed in via principale la mancata considerazione di circostanze, analiticamente indicate, «che avrebbero potuto portare ad una diversa decisione, se opportunamente ponderate».
L'atto di incolpazione si arricchisce di un ulteriore elemento integrativo della concreta fattispecie, di fatto elevata al rango di illecito di evento in quanto si ritiene che, non valutando tali elementi, che avrebbero conclamato un elevato e concreto pericolo di fuga, si sarebbero in sostanza determinate le condizioni agevolatrici della successiva fuoriuscita dal territorio nazionale della persona sottoposta al solo regime domiciliare.
Sotto plurimi profili, propriamente tecnici e di politica giudiziaria, l'iniziativa si presta a ragionate critiche, risolventisi nella denuncia di un'utilizzazione impropria, perché estranea allo spirito della norma invocata, dello strumento disciplinare secondo la declinazione prima riportata.
E', infatti, di immediata e non contestabile evidenza che l'accusa, pur fattasi scudo del richiamo ad una cornice normativa apparentemente giustificatrice, incorre in una non consentita eterogenesi dei fini.
Di questo è facile accorgersi considerando che, secondo una del tutto inedita chiave interpretativa, quella che nominalmente si definisce incolpazione disciplinare tende a risolversi nell'enunciazione di motivi di censura al provvedimento esclusivamente attagliabili e fruibili nel contesto della sua impugnazione a scopo caducatorio.
In sostanza, la stessa lamentela di mancata ponderazione di elementi probatori acquisiti agli atti e, in particolar modo, la prognosi che il loro accurato esame avrebbe, secondo il metro valutativo del “più probabile che non”, condotto ad un radicalmente diverso esito decisorio corrisponde, nella forma e nella sostanza, a quel gravame che nel caso ben avrebbe potuto essere proposto-senza che ciò sia effettivamente avvenuto-dall'organo titolare della legittimazione all'impugnazione.
Perché proprio questo (inaccettabile) principio l'azione disciplinare in questione sembra voler affermare: la sovrapponibilità tra la censura destinata a convogliare in una critica al provvedimento da devolvere al grado superiore di giudizio e l'addebito disciplinare.
Quasi che il titolare della potestà disciplinare potesse consolidare la propria prerogativa comodamente rivestendo i panni del giudice dell'impugnazione ed interpretandone l'ancora inespressa ed insondabile volontà.
Sembra chiaro che questo metodo di esercizio dell'azione disciplinare confonde i piani di intervento e, tra l'altro, almeno in via generale, finisce con il condizionare il futuro operato del giudice del gravame la cui decisione potrebbe essere anticipata da quella sui medesimi fatti eventualmente intervenuta in sede disciplinare.
Questa rischierebbe così di divenire una forma alternativa, se non concorrente o antagonista, rispetto a quella ordinaria di amministrazione della giustizia ed acquisterebbe un primato mai riservatole dal sistema.
Esaurito, almeno in via sommaria, il quadro delle incongruenze di natura tecnica dell'iniziativa ministeriale resta il pericolo più insidioso che traspare dall'utilizzazione in forma così irragionevolmente espansiva della formula legislativa di cui alla lettera ff) citata, ed in particolare di quella afferente alle ipotesi di grave e inescusabile negligenza.
Si tratta di pericolo che nasce da un equivoco circa le condizioni legittimanti il promovimento della contestazione disciplinare ed il fine cui essa può legittimamente tendere anche alla luce dei principii costituzionali che governano lo status magistratuale.
L'autonoma ed indipendente amministrazione della giustizia implica essenzialmente la libertà da ogni forma di condizionamenti e pressioni, esterne ed interne e, in primo luogo, dallo spettro dell'incombente leva disciplinare con riguardo non alle modalità esteriori di esercizio della giurisdizione (quelle che cioè alludono ai comportamenti e non agli atti) ma alla sostanza stessa dell'attività ed ai risultati cui essa perviene.
A questo disegno è certamente estranea l'ipotesi dell'errore di giudizio, inteso nella sua più rigorosa accezione di espressione di un provvedimento oggetto di successiva revisione per le cause previste dall'ordinamento.
Sostituire ad una pronuncia, errata, opinabile, indesiderata, il punto di vista di un osservatore esterno al circuito giurisdizionale proprio, quale quello del titolare dell'azione disciplinare, intorbida le acque di una retta decisione e non avvantaggia in alcun modo il cittadino che potrebbe ritrovarsi di fronte ad un giudice timoroso e pronto a schivare future insidie nel proprio percorso professionale.
E non, come ciascuno vorrebbe, ad un magistrato che agisce “sine spe nec metu”.