Magistratura democratica
Magistratura e società

Il giallo, la verità e la legge. Ricordando Leonardo Sciascia (1921-1989)

di Luigi Cavallaro
consigliere della Corte di cassazione

L’8 gennaio 1921 nacque Leonardo Sciascia. Nella ricorrenza del centenario un personale, intenso ricordo del grande scrittore e delle sue riflessioni a proposito della “dolorosa necessità” del giudicare.

Molti anni fa, ebbi la ventura di assistere ad una conferenza di Giuseppe Petronio, italianista illustre sulla cui Attività letteraria in Italia avevo principiato, negli anni del liceo, a studiare la letteratura italiana. Tema della conferenza: Leonardo Sciascia, di cui oggi ricorre il centesimo anniversario della nascita.

Sciascia lo avevo conosciuto fin da quando ero bambino: e non per ciò che scriveva, ovviamente, ché le mie letture infantili non esorbitavano dai fumetti, ma più semplicemente perché veniva spesso a trovarci nella nostra casa di campagna, a Racalmuto, in contrada Noce, nei cui pressi era l’unico posto telefonico pubblico di tutta la zona. Lo vedevamo comparire dal fondo della stradella, a braccetto con la moglie, percorrerla fino a salire su per la rocca e quindi infilarsi nel bugigattolo adiacente alla casa che fronteggiava la nostra, dove appunto c’era il telefono; poi, sbrigate le chiamate, veniva a sedere nella terrazza di casa nostra: su una poltroncina di vimini, coll’immancabile bastone tra le ginocchia e lo sguardo acuto che trapelava dalle fessure degli occhi, in mezzo alle volute di fumo disegnate dalle non meno immancabili Chesterfield; e con espressione sorniona ascoltava i discorsi dei “grandi”, come noi piccoli chiamavamo quegli adulti che con lui facevano cerchia chiacchierante e ci obbligavano, nostro malgrado, ad andare a giocare altrove; e di tanto in tanto vi interveniva, la voce tipicamente arrochita dal fumo e l’inflessione (e direi perfino la metrica) volutamente dialettale: di chi sa bene come si parla la lingua di Dante e di Manzoni, ma si compiace di parlarla da siciliano.

E mi stupì apprendere che Petronio, del quale non conoscevo ancora i magnifici scritti sul “giallo”, propriamente “giallista” considerava Sciascia: e anzi, perfettamente ignorante com’ero, allora, delle ricchezze talora nascoste nella letteratura che Arnoldo Mondadori aveva diffuso nel nostro Paese fin dagli anni ’30 in quei volumi dalla copertina gialla (molti dei quali, peraltro, mi guardavano giusto da uno scaffale di una piccola libreria a parete della casa di campagna), mi parve, per Sciascia, una capitis deminutio. Ma Petronio, ovviamente, sapeva quel che diceva; e col tempo mi son fatto persuaso che Sciascia stesso, che di gialli era stato grandissimo lettore e una breve storia del genere aveva persino più volte abbozzato nei suoi scritti, di quella definizione avrebbe sorriso, compiaciuto e sornione come spesso l’avevo visto sorridere sulla nostra terrazza; e ancor più per come Petronio l’ebbe ad argomentare. 

Il “giallo” – disse all’incirca Petronio – si costituisce come genere letterario nella seconda metà dell’Ottocento: approssimativamente, dai Delitti della Rue Morgue di Edgar Allan Poe ai romanzi di Sherlock Holmes di Sir Arthur Conan Doyle. Ed è genere invariabilmente organizzato intorno ad un trittico: il crimine, l’indagine e la detection, ossia la spiegazione dell’enigma da parte dell’investigatore. Che è tutta fondata sull’impiego della ragione rischiaratrice dell’Illuminismo, alla quale innalza un monumento nient’affatto secondo all’Encyclopédie di Diderot e D’Alembert: ché è compito suo mostrare come gli indizi apparentemente slegati che affiorano nel corso dell’indagine si compongano in un quadro armonico e coerente di verità.

Ma questa ragione, già negli anni ’30 dello scorso secolo, è andata in crisi: e nessuna fiducia si può più accordarle in un mondo in cui, dopo il macello della Grande Guerra e nell’incombere di un’altra e più terribile carneficina, persino i fisici si sono schierati accanto ai filosofi e ai politici per revocarne in dubbio le capacità ordinatrici (di lì a qualche anno Lukács lo dirà da par suo – e cioè brutalmente – in quell’altro monumento che è La distruzione della ragione). E anche il giallo, ovviamente, ne è colpito a morte: e le sopravvivrà o ridotto a pura maniera (com’è già in Agatha Christie o in Rex Stout) o affidando la detection a qualcosa d’altro (come la “sensitività” di un Maigret o di un Philip Marlowe). Oppure, ed ecco la novità, abbandonando ogni pretesa di detection: ossia trasformandosi in espediente formale per raccontare di una società in cui la verità è diventata impossibile.

Salvo distinguere. Si può credere che la verità sia inattingibile per ragioni ontologiche oppure per motivi pratici; detto altrimenti, perché la verità non esiste o perché c’è chi ha interesse a che non la si scopra. E se Dürrenmatt è magnifico esponente della prima tendenza (e infatti «Requiem per il romanzo giallo» recita in sottotitolo La promessa), Sciascia lo è tipicamente, e non meno magnificamente, della seconda: ché si capisce benissimo, nel Giorno della civetta o in A ciascuno il suo, qual è la verità, e si capisce altrettanto bene che una forma storicamente data del potere ambisce ad occultarla, purtroppo riuscendoci; e in tal guisa il giallo diventa racconto documentario sulla società e sul potere che la domina: un’interpretazione del mondo che tiene fermo il fine di cambiarlo.

Così, all’incirca, disse Petronio: e mi scuseranno i lettori se ho reso banale un discorso che, ascoltato dalla sua viva voce, era assai più ricco e fascinoso.

Debbo dire che, negli ormai lunghi anni trascorsi da quella mirabile lezione, più volte son tornato a chiedermi se, nella prospettiva sciasciana, quel “potere” interessato ad occultare la verità costituisse davvero una forma storicamente determinata dell’ordinamento sociale o se piuttosto ogni potere abbia un interesse in tal senso; e diverse mi son parse le risposte che possono trarsi dal Giorno della civetta o da A ciascuno il suo rispetto a quelle che zampillano dal Contesto o da Todo modo: dove, ad un potere condizionato dalla presenza della mafia, sembra piuttosto sostituirsi – come leggiamo appunto nel Contesto – un potere «che sempre più digrada nella impenetrabile forma di una concatenazione che approssimativamente possiamo dire mafiosa». E di questa diversità m’è parsa retrospettivamente spia la stessa vicenda politica di Sciascia, nei quasi vent’anni che scorrono dal Giorno della civetta all’Affaire Moro: dalla rottura con il Partito Comunista (di cui più che un’eco è in Candido, ovvero un sogno fatto in Sicilia) all’approdo nelle file dei radicali, con i quali condividerà non soltanto le molte battaglie per una “giustizia giusta”, ma, più ancora, il pessimismo nei confronti di una qualsiasi prospettiva di rigenerazione della “Repubblica dei partiti” scaturita dal Secondo dopoguerra.

Ma assai più rilevante, per chi fa il mestiere di giudice, mi sembra l’idea che Petronio scorge comunque in Sciascia: che la realtà, cioè, si presti ancora ad essere letta e decifrata con gli strumenti della ragione e che la verità che in essa si cela sia pur sempre rintracciabile, anche se magari non interessa più a nessuno. Sciascia stesso ne diede prova, cimentandosi in proprio a rileggere vecchie carte processuali (o semplicemente “atti relativi”) in alcune sue celebri “inquisizioni” (Morte dell’Inquisitore, I pugnalatori, La scomparsa di Majorana, Atti relativi alla morte di Raymond Roussel, L’affaire Moro, Dalle parti degli infedeli, La strega e il capitano, 1912+1); e soprattutto mantenendo metodologicamente ferma la possibilità di distinguere tra verità ed errore: ché di “errore”, a suo avviso, poteva parlarsi solo quando le apparenze che lo generano resistano in qualche modo al vaglio critico dei principi, delle regole e degli strumenti di accertamento di cui si dispone, diversamente trasmodandosi in ciò che Manzoni, nella Storia della colonna infame, non più errore chiamava, ma “ingiustizia”: «un’ingiustizia che poteva esser veduta da quelli stessi che la commettevano, un trasgredir le regole ammesse anche da loro, dell’azioni opposte ai lumi che non solo c’erano al loro tempo, ma che essi medesimi, in circostanze simili, mostraron d’avere».

Ed è punto, questo, che varrebbe la pena di tornare a meditare: e non solo rispetto alle ben note (e mai superate, né forse superabili) difficoltà del giudizio di fatto, ma anche e soprattutto nei riguardi del giudizio di diritto; e massimamente nel giudizio di legittimità, dove – e lo diciamo con le parole del Giorno della civetta – si attinge «quella trasparenza formale in cui il merito, cioè l’umano peso dei fatti, non conta più; e, abolita l’immagine dell’uomo, la legge nella legge si specchia». 

In effetti, l’idea che non possa logicamente ammettersi alcun “errore giudiziario” non rampolla necessariamente dal cinismo spregiudicato con cui, nel Contesto, il Presidente della Corte Suprema, nel memorabile dialogo con l’ispettore Rogas, argomenta che sempre e in ogni modo la giustizia deve transustanziarsi nella sentenza del giudice, così come l’ostia levata dalle mani del sacerdote deve obbligatoriamente trasformarsi in corpo di Cristo. In modo affatto speculare, quell’idea può affacciarsi come conseguenza (magari indesiderata, perfino non voluta) di una critica della capacità ordinatrice della fattispecie legale: e sia pure di una critica “progressiva”, che di contro alla cieca volontà politica del legislatore statuale invochi i metavalori di un “diritto mite”. Nell’uno come nell’altro caso, infatti, il giudice diventa pressoché onnipotente: e la necessaria “creatività” di ogni interpretazione che si mantenga entro i confini del testo della legge, che è ciò che la rende in ultima istanza controllabile in virtù delle regole che presiedono all’ermeneutica giudiziale, inevitabilmente deborda nell’esercizio arbitrario delle ragioni di cui il giudice decide di farsi garante, trovino o meno appiglio nel testo normativo. 

Proprio per ciò Sciascia diffidava di un esercizio della giurisdizione che non fosse orientato «ad altro che non sia, caso per caso, quello della giustizia secondo la legge, secondo lo spirito della legge: spirito – si vorrebbe – mai disgiunto dalla lettera». Fuori della legge non ci può essere né verità, né giustizia, ma solo arbitrio; ed è tanto più vero in un ordinamento come il nostro, che appresta il rimedio del giudizio incidentale di costituzionalità per il giudice che ritenga una legge contrastante con i valori e i principi positivizzati nella Costituzione, sia direttamente che per il tramite delle carte sovranazionali dei diritti; ed anzi lo esorta a ricorrervi quand’anche solo sfiorato dal dubbio.

Si è detto spesso che Sciascia guardasse i giudici con sospetto: e certamente non lusinghiero è il ritratto che di molti di essi emerge dalle sue opere narrative e saggistiche (sempre ammesso che sia possibile distinguere con precisione le une dalle altre: «credo di essere saggista nel racconto e narratore nel saggio», disse di sé in un’intervista). Ma questa sospettosità è figlia dell’idea che lo scrittore racalmutese aveva del giudicare: più precisamente, dell’idea che il potere di giudicare i propri simili «non può e non deve essere vissuto come potere», e anzi, per paradossale che possa apparire, «dovrebbe avere radice nella repugnanza a giudicare, nel precetto di non giudicare; dovrebbe cioè consistere nell’accedere al giudicare come ad una dolorosa necessità, nell’assumere il giudicare come un continuo sacrificarsi all’inquietudine e al dubbio»; e invece, «una parte della magistratura non riesce a introvertire il potere che le è assegnato, ad assumerlo come dramma, a dibatterlo ciascuno nella sua coscienza, ma tende piuttosto ad estrovertirlo, ad esteriorizzarlo, a darne manifestazioni che sfiorano, o addirittura attuano, l’arbitrio»: e quando ciò accade, quando cioè «i giudici godono il proprio potere invece di soffrirlo», allora «la società che a quel potere li ha delegati, inevitabilmente è costretta a giudicarli».

E severo fu, spesso, il giudizio di Sciascia; ma sereno, come d’altronde il riconoscimento tributato a chi aveva risolto «secondo verità, secondo giustizia» i casi su cui s’era trovato a indagare: come scrisse di un giudice «acuto, tenace, sicuro», e la cui acutezza e tenacia venivano «dal candore: di mettersi di fronte a un caso candidamente, senza prevenzioni, senza riserve» (giusto come aveva fatto Mortara di fronte al problema di attribuire il diritto di voto alle dieci maestre di Senigallia, che gliene avevano fatto giudizialmente domanda: «Chiamato però, come magistrato, a decidere la questione, mi son dovuto spogliare di ogni prevenzione personale per esaminare serenamente il testo della legge»). 

Ed è singolare che anche quel giudice per il quale Sciascia disse di nutrire «stima e simpatia» fosse nato giusto cent’anni fa e in terra di Sicilia: ma in provincia di Palermo, invece che a Racalmuto, e di Ferragosto, invece che in pieno inverno. Si chiamava Cesare Terranova.

08/01/2021
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