Magistratura democratica
Magistratura e società

Corte costituzionale e giudici nell’Italia repubblicana. Nuova stagione, altri episodi

di Andrea Natale
giudice del Tribunale di Torino

Elisabetta Lamarque torna a raccontare la storia delle relazioni tra la Corte costituzionale e i giudici comuni – e il ruolo da essi ricoperto – nel sistema di giustizia costituzionale contemporaneo

Elisabetta Lamarque – a distanza di nemmeno dieci anni da un primo contributo sul tema – torna a raccontare la storia delle relazioni tra la Corte costituzionale e i giudici comuni – e il ruolo da essi ricoperto – nel sistema di giustizia costituzionale contemporaneo. E lo fa spinta dalla necessità di adeguare la riflessione al flusso incessante di movimenti che la contemporaneità propone agli operatori.

Sono molte le ragioni che inducono a consigliare la lettura di Corte costituzionale e giudici nell’Italia repubblicana, pubblicato quest’anno per i tipi dell’Editoriale scientifica[1]

Una prima, fondamentale, ragione è legata al fatto che la riflessione di Elisabetta Lamarque è un volumetto – come amorevolmente lo chiama l’autrice – scritto bene e che non fa perdere tempo.

Elisabetta Lamarque ci accompagna – con penna leggera, ma certo non superficiale – lungo gli oltre settant’anni del sistema di giustizia costituzionale nell’esperienza repubblicana con uno sguardo attento, capace di ripercorrerne la storia mettendo in risalto elementi di continuità e i passaggi di faglia, sempre ragionando sui fattori culturali e sugli “obiettivi” istituzionali che hanno animato i vari attori del sistema di giustizia costituzionale. E, dunque, un primo sicuro elemento di interesse è, per così dire, di carattere storico.

Il volume prende le mosse – e non potrebbe essere diversamente – dalle origini. Elisabetta Lamarque ripercorre i dati maggiormente salienti del dibattito svolto in Assemblea costituente; ricorda la difficoltà culturale di una parte dei costituenti ad accettare «quella bizzarria della Corte costituzionale, organo che non si sa che cosa sia e grazie alla istituzione del quale degli illustri cittadini verrebbero ad essere collocati al di sopra di tutte le assemblee e di tutto il sistema del parlamento e della democrazia, per esserne i giudici» (Togliatti); ricorda le oscillazioni emerse nel dibattito in ordine alla costruzione di un modello di giustizia costituzionale capace di rendere realmente la Costituzione superiore alla legge, i dubbi sul sistema da costruire, sull’individuazione delle autorità cui affidare il sindacato di costituzionalità (sistema diffuso: i giudici ordinari; o accentrato: una Corte di giustizia costituzionale?), sui canali di accesso (sistema incidentale o altri canali di accesso?). E ci ricorda infine come l’attuale sistema di giustizia costituzionale sia stato infine partorito in extremis, «con la tardiva e poco consapevole deliberazione dell’attuale sistema incidentale, avvenuta – come è noto – a Costituzione già entrata in vigore, alle ore 22.05 del 31 gennaio 1948, e, cioè, nelle ultime ore dell’ultimo giorno di vita di un’Assemblea costituente ormai stanca, sulla base di un frettoloso compromesso raggiunto dal relatore Costantino Mortati con il governo De Gasperi» (legge cost. n. 1 del 1948).

Ma, come è noto, la Corte costituzionale non entrerà in campo immediatamente. L’Autrice ripercorre allora gli anni in cui – perdurando l’inerzia del legislatore – la verifica della compatibilità tra leggi ordinarie e Costituzione repubblicana fu affidata (dalla settima disposizione transitoria) ai giudici ordinari: esaminando gli approdi raggiunti in quegli anni dalla giurisprudenza di legittimità, Lamarque mette in luce come la magistratura “sul piano delle dichiarazioni di principio” accettò la sfida di esercitare il controllo di costituzionalità sulle leggi pre-repubblicane; l’Autrice, però, registra il dato di fatto che ciò non determinò l’affermazione di un sistema di judicial review, con un sindacato diffuso di costituzionalità: vuoi per la nota distinzione tra norme costituzionali programmatiche, precettive ad efficacia differita e precettive ad efficacia immediata; vuoi, e forse soprattutto, per l’habitus mentale dei giudici ordinari che – nelle occasioni in cui si spinsero ad esercitare il sindacato di costituzionalità diffuso allora ad essi affidato – privilegiarono schemi decisori di carattere formale [«il percorso logico seguito nelle motivazioni quasi mai si impernia sull’invalidità/nullità della legge (…). Statisticamente nella stragrande maggioranza dei casi nei quali poteva in quel periodo presentarsi un dubbio di legittimità costituzionale, i giudici valutano la eventuale difformità [di una legge] da una previsione costituzionale non come un problema di legittimità costituzionale, ma  come un problema di successione delle leggi nel tempo, e procedono così all’accertamento dell’avvenuta abrogazione della legge anteriore da parte della norma costituzionale posteriore»]. Su tale atteggiamento della magistratura ha sicuramente giocato un ruolo la resistenza culturale a modificare il proprio ruolo tradizionale; ma ha probabilmente giocato un ruolo anche la «debolezza istituzionale» dell’autorità giudiziaria, in una fase storica in cui l’autonomia e l’indipendenza della magistratura non erano ancora presidiate dalla presenza del Consiglio superiore della magistratura. Notazione, quest’ultima, particolarmente acuta, che ricorda come – sui “comportamenti” delle istituzioni – pesino tanto fattori culturali, quanto gli equilibri istituzionali e di sistema.

Ma, ad un certo punto, finalmente vede la luce la Corte costituzionale. Da qui si sviluppa il vero cuore della riflessione di Elisabetta Lamarque che – come anticipato – intende indagare sul sistema di giustizia costituzionale italiano attraverso il prisma delle relazioni tra la Corte costituzionale e i giudici comuni nel sistema istituzionale repubblicano.

Nel compiere la sua riflessione, Elisabetta Lamarque individua due grandi fasi. Il primo periodo abbraccia i primi quarant’anni di operatività della Corte costituzionale (1956-1996), efficacemente denominato da Lamarque come il periodo delle prove di orchestra.  È il periodo in cui la Corte costituzionale muove i suoi primi passi.

E, sin dal primo passo, si pone come dato ineludibile la necessaria complementarietà di ruoli tra Corte costituzionale e giudici comuni. La prima sentenza della Consulta smentisce immediatamente – e con nettezza – lo schema concettuale che sino ad allora aveva seguito la giurisdizione ordinaria: il controllo di compatibilità tra disposizioni di legge (anche pre-repubblicane) e Carta costituzionale non si risolve con il comodo criterio della successione di leggi nel tempo; al contrario, la verifica della legittimità costituzionale delle leggi ordinarie impone ai giudici di domandarsi (e di domandare alla Consulta) se queste ultime siano o meno compatibili con la Costituzione: si tratta di una sconfessione della giurisprudenza di legittimità precedente all’avvento della Corte costituzionale; ma si tratta anche di un’affermazione che coinvolge necessariamente nel sindacato di costituzionalità i giudici comuni, costringendoli ad interrogarsi non solo sul significato della legge, ma anche sul significato della Costituzione repubblicana.

Ma – essendo comune l’attività (l’interpretazione) ed essendo comuni gli oggetti (la legge e la Costituzione) –  si è immediatamente posto il tema di come regolamentare le sfere di responsabilità degli attori in campo. È, per l’appunto, la stagione delle prove di orchestra: la stagione in cui Corte costituzionale e giudici comuni hanno cercato e progressivamente costruito un sistema capace di assicurare effettività ed efficacia al controllo incidentale di legittimità costituzionale.

Diciamo – non a caso – “costruito”, perché si tratta di un periodo caratterizzato dalla costante «ricerca di regole empiriche condivise per riempire le voragini lasciate dalle scarne previsioni positive sul funzionamento del sindacato incidentale di costituzionalità». Nel ripercorrere la prima stagione, Lamarque ricorda che le regole di ingaggio tra giudici comuni e Corte costituzionale sono state elaborate in via sostanzialmente pretoria, anche perché – come annotava Andrioli - «la normativa costituzionale e no, è ben presto apparsa inadeguata alla realtà». Di qui il fiorire di una «lussureggiante casistica» di dispositivi atipici delle sentenze costituzionali (sempre Andrioli). Lamarque analizza – giuridicamente, ma anche storicamente – i vari strumenti messi in campo in quei decenni dalla Corte costituzionale nel tentativo di assicurare un buon funzionamento del sistema di giustizia costituzionale; ma oltre a descriverli, l’Autrice verifica quale sia stata la loro efficacia, quali gli aspetti disfunzionali, quale il loro impatto sull’esercizio dell’attività giurisdizionale.

L’Autrice si sofferma allora sui vari schemi decisori via via adottati dalla Consulta:  sulla natura e sugli effetti delle sentenze interpretative (di rigetto e di accoglimento); sulla successiva affermazione di schemi decisori francamente manipolativi del dettato legislativo; sul seguito che esse hanno avuto da parte dei giudici comuni (ed altri). E, per ciascuno di tali strumenti, l’Autrice si interroga sulla loro adeguatezza a rispondere all’esigenza per cui erano stati elaborati, soffermandosi anche sui casi in cui emersero aspetti disfunzionali (ripercorrendo i momenti di “incomprensione” tra Corte costituzionale e Corte di cassazione e la c.d. prima guerra tra le corti).

Non ci si può soffermare sulla traiettoria disegnata dall’analisi di Lamarque. Qui basti dire che l’Autrice registra come – progressivamente – giudici comuni e Corte costituzionale abbiano infine “trovato” un equilibrio, in cui tutti gli attori in campo sono messi in grado di cooperare per assicurare il costante ed effettivo adeguamento del tessuto legislativo a quello costituzionale.

La stagione delle prove di orchestra si conclude – nella schematizzazione dell’Autrice – nel 1996, con il più ampio coinvolgimento dei giudici comuni nell’attività di diffusione e penetrazione della Costituzione in tutto l’ordinamento. È la fase in cui la Consulta spinge i giudici ad esperire al massimo livello l’attività di interpretazione conforme a Costituzione [spinta adeguatrice che è icasticamente rappresentata dal calembour che si legge nella sentenza n. 356 del 1996, secondo cui «le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali (e qualche giudice ritenga di darne), ma perché è impossibile darne interpretazioni costituzionali»].  

La fine della stagione delle prove di orchestra segna il momento di passaggio alla fase attuale, in cui i rapporti tra Consulta e giudici comuni sono descritti da Elisabetta Lamarque come una danza (il tango). Una fase che, a sua volta, può suddividersi in due stagioni.

La prima stagione del tango vede la Consulta operare «nei confronti dei giudici la più ampia devoluzione di funzioni di controllo sulla legge o, comunque, lascia che essi facciano da soli il più possibile». È la stagione della c.d. briglia sciolta. La stagione della briglia sciolta nasce con nobili intenzioni e per rispondere ad esigenze contingenti (su cui si tornerà): in questa fase, la Corte costituzionale riconosce ai giudici comuni una piena consapevolezza delle implicazioni della carta costituzionale e finisce con l’attribuire loro una larga fetta di responsabilità nell’assicurare l’inveramento della Costituzione in tutto l’ordinamento. Ma la stagione della briglia sciolta presenta anche uno suo dark side: la spinta all’interpretazione conforme finisce con l’indurre i giudici ad avvertire «in misura indubbiamente meno cogente il vincolo con la legge, e con la lettera della legge, manifestando preoccupanti tendenze a discostarsene, tramite interpretazioni “libere”, nella ricerca di un obiettivo assiologicamente percepito come superiore» (Bignami); determina risultati interpretativi che hanno effetti solo inter partes (e non erga omnes, come le decisioni della Consulta); comporta una significativa contrazione degli incidenti di legittimità costituzionale (Lamarque registra  – in questa stagione – la netta decrescita delle ordinanze di rimessione alla Corte e la netta diminuzione delle decisioni della Consulta che entrino nel merito e una netta diminuzione delle decisioni rese in forma di sentenza, sottolineando come ciò finisca con l’indebolire la capacità conformativa della giurisprudenza costituzionale rispetto agli indirizzi interpretativi della giurisdizione comune).  

Un risultato che porta taluno a paventare un non auspicabile declino del giudizio in via incidentale e del rischio di una «complessiva perdita di effettività del controllo di costituzionalità» (Manes).

Il rischio di marginalizzazione della Corte costituzionale nel controllo di legittimità costituzionale è reso ulteriormente concreto dalle molteplici interferenze che si danno – in punto di tutela dei diritti fondamentali – tra le previsioni costituzionali e le fonti sovra-nazionali (l’ordinamento UE e il sistema della Convenzione EDU). Fonti sovranazionali che, da un lato, assegnano al giudice comune persino il potere di disapplicazione della legge, con il rischio di escludere dal circuito di controllo la Corte costituzionale (si pensi alle norme UE dotate di effetto diretto); fonti sovranazionali che, dall’altro lato, non sempre sono maneggiate dai giudici comuni con piena consapevolezza di tutte le implicazioni sistematiche.

La Consulta si rende conto che tutti i fattori appena enumerati (la stagione della briglia sciolta e l’impatto delle fonti sovranazionali nel nostro ordinamento) rischiano di marginalizzarla e, pertanto, impone un diverso andamento alla danza, proponendo nuove figure.

La Consulta inaugura così una nuova stagione nei rapporti con i giudici comuni (la stagione dell’ogni lasciata è persa) e – nel tentativo di accentrare a sé un maggior numero di casi – muta linea di indirizzo nel vaglio delle questioni di legittimità costituzionale (diminuendo le declaratorie di inammissibilità per mancato esperimento dell’interpretazione conforme) e declina in termini diversi il proprio punto di vista con riferimento alla penetrazione nel nostro ordinamento delle norme sovranazionali (con una giurisprudenza che, da un lato, spinge ad un “uso consapevole” delle fonti sovranazionali e che, dall’altro lato, favorisce l’accentramento del controllo di costituzionalità, anche quando entrino in gioco principi condivisi dalla Costituzione e dalle carte sovranazionali).

Il risultato è presto detto: aumenta il numero di decisioni “di merito” della Corte costituzionale; aumenta il numero di decisioni che – con effetti erga omnes (o comunque capaci di ottenere un più largo seguito nella giurisdizione comune) – assicurano il raggiungimento di un risultato interpretativo della legge conforme a Costituzione; si affinano gli strumenti che assicurano la tutela di diritti che trovano presidio nella Costituzione e nelle fonti sovranazionali; si inaugura un dialogo che coinvolge – in modo quasi circolare – la Consulta, le Corti sovranazionali e i giudici comuni.

I pregi del volume di Elisabetta Lamarque non sono però limitati alla capacità descrittiva della traiettoria storica dipinta dall’Autrice. Molti altri sono gli elementi di interesse.

La panoramica che l’Autrice ci propone, infatti, permette infatti di registrare ulteriori elementi di interesse.

Un primo elemento di interesse ulteriore è rappresentato dal fatto che – nel dare conto dell’evoluzione storica del sistema di giustizia costituzionale – Elisabetta Lamarque si sofferma non di rado sulla cultura costituzionale dei protagonisti dei vari passaggi storici descritti: dei padri costituenti; della magistratura formatasi in età pre-repubblicana; dei primi giudici della Consulta e quella (anche nella sua dimensione sovra-nazionale) degli attuali giudici costituzionali; dei giudici comuni contemporanei, immersi in una dimensione anche globale.

Ripercorrere gli atteggiamenti culturali lungo una traiettoria settantennale – rilettura possibile anche grazie ad un ricchissimo apparato di note – permette anche di apprezzare la solidità e l’utilità (o meno) di buona parte del lavoro intellettuale che quotidianamente ciascuno di noi produce. Si legge in un acuto passaggio della riflessione di Lamarque: «negli anni cinquanta e sessanta, alla straripante abbondanza degli interventi dottrinali corrisponde la loro qualità media piuttosto bassa. Leggerli di seguito è un'impresa faticosa e, bisogna confessarlo, un po’ noiosa, perché molti di essi presentano schemi di ragionamento ripetitivi, salvo sottili, ma gli occhi di un lettore odierno inutili distinguo. Gli interventi degli autori dell’epoca che tutti noi ricordiamo come nostri maestri ideali, e a cui tutt’oggi facciamo riferimento, sono infatti, dal punto di vista quantitativo, solo un’esigua minoranza» (p. 98).

Si tratta di un utile ammonimento che, da un lato, vedo rivolto a chi – come spesso capita al sottoscritto – si affatica sempre sulle questioni di lana caprina, ritenendone la centralità dei dettagli negli equilibri del cosmo, finendo però con il perdere di vista la prospettiva di sistema.

Si tratta, dall’altro lato, di un ammonimento che impone di riconoscere la storicità di qualunque riflessione e la relatività e provvisorietà di qualunque conclusione. Il che finisce con il costringere il lettore ad interrogarsi su quale sia la propria cultura costituzionale, esortandolo a fare autocoscienza, ma anche a maturare consapevolezza che essa – in ogni caso – non potrà che portarlo ad approdi relativi e da rimettere sempre dinamicamente in discussione.

Un secondo elemento di interesse ulteriore è dato dal fatto che l’analisi di Elisabetta Lamarque – pur conservando rigore sul piano dell’analisi giuridica – non trascura mai di considerare le questioni in una prospettiva di sociologia delle istituzioni. Come già fecero Elia, Amato, Cheli, Pizzorusso, Rodotà in alcuni loro contributi dei primi anni settanta (ricordati dall’autrice a p. 101), Elisabetta Lamarque osserva le dinamiche descritte nel libro non tanto e non solo come passaggi che sollevano questioni giuridiche; al contrario, l’analisi dei vari passaggi è tesa a verificare anche – e forse soprattutto – quali effetti abbiano avuto quei “passaggi” sull’assetto dei vari poteri coinvolti in una certa dinamica istituzionale.

È in questa chiave che Lamarque spiega certi movimenti registrati nel periodo delle prove di orchestra;  è sempre nella chiave di lettura delle dinamiche istituzionali e degli equilibri tra poteri che Lamarque spiega (seppur non in modo esclusivo) la decisione della Consulta di spingere i giudici comuni ad esperire al massimo grado l’interpretazione adeguatrice (ipotizzando che sulla affermazione di una simile linea giurisprudenziale possa avere influito anche la necessità di non coinvolgere la Corte in controversie con il legislatore, espressione di un potere politico fortemente polarizzatosi con il passaggio a un sistema elettorale di tipo maggioritario); è sempre in una chiave di rapporti istituzionali tra legislatore e Consulta che, poi, Lamarque spiega il recente affermarsi di strumenti processuali sino a pochi anni orsono del tutto inediti (per lo più legati alla modulazione nel tempo degli effetti dell’accertamento di una illegittimità costituzionale o alla necessità di dettare una regolamentazione dei rapporti tra Corte costituzionale e legislatore, in linea con le rispettive responsabilità istituzionali).

L’ultima notazione che precede – quella relativa all’affermazione di strumenti processuali inediti – permette poi di sottolineare un aspetto che, ripetutamente, emerge dalle pagine della riflessione di Elisabetta Lamarque. A fronte di un dato normativo povero di regole positive, la Corte costituzionale ha elaborato – in via pretoria – una pluralità di schemi decisori e processuali: le sentenze interpretative; le sentenze manipolative; le sentenze additive e quelle additive di principio; le sentenze che modulano nel tempo gli effetti di un accertamento di incostituzionalità, la sospensione del processo costituzionale onde lasciare spazio e tempo al legislatore per esercitare la sua discrezionalità politica (con il monito che, in difetto, provvederà la Corte); e via seguitando. Lamarque descrive tutti questi strumenti giuridicamente; ma provvede anche a contestualizzarli storicamente, spiegandone senso e funzione.

Qualcuno osserva che l’esercizio di questa elasticità processuale può determinare lo sconfinamento della Corte costituzionale in giardini che le sarebbero proibiti. Tuttavia, chi paventa questo rischio sembra anteporre la purezza delle procedure alla necessità di costante adeguamento della giustizia costituzionale alla contemporaneità.

L’esame della traiettoria disegnata da Lamarque permette allora di registrare una conclusione: il diritto è una scienza pratica.

È in forza di questo postulato che si deve prendere atto (come si prende atto di un dato di fatto) che – nel dialogo con tutti i suoi interlocutori (siano essi i giudici comuni, le Corti sovranazionali o il legislatore) – la Consulta mette in campo gli strumenti, spesso concettualmente e giuridicamente raffinati e sempre adoperati con il necessario self restraint, che ritiene “non incostituzionali”, e più adeguati all’obiettivo ultimo che la Costituzione repubblicana le ha assegnato: assicurare l’efficacia del sistema di giustizia costituzionale.

Sembra dunque che l’analisi svolta nel volume finisca con il confermare una delle tesi formulate all’inizio del libro qui presentato: con il progressivo affinamento degli strumenti di dialogo con i giudici comuni, «Corte costituzionale e autorità giudiziaria [hanno] progressivamente dato vita a un unico grande potere giudiziario (…) [in cui] la giurisdizione costituzionale e quella comune si suddividono il compito di assicurare il costante adeguamento del tessuto legislativo a quello costituzionale, in vista della risoluzione in senso non incostituzionale delle concrete controversie, e ciascuna delle due collabora al migliore esercizio della funzione affidata in via esclusiva all’altra, fino a diventarne perfettamente complementare» (p. 43).

L’esito di questo incessante dialogo tra la Consulta e i giudici comuni è solo provvisorio. Elisabetta Lamarque si ferma qui e non ci dice quale sarà il futuro di questa storia; ma è certo che la sua riflessione consegna al lettore una pluralità di stimoli, chiavi di lettura e strumenti concettuali per partecipare alla costruzione di un futuro che, forse, è ancora da scrivere.


 
[1] E. Lamarque, Corte costituzionale e giudici nell’Italia repubblicana. Nuova stagione, altri episodi, Editoriale scientifica Napoli, 2021; il precedente volume cui si allude nel testo è E. Lamarque, Corte Costituzionale e giudici nell'Italia repubblicana, Laterza, 2012.

27/11/2021
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13/11/2020