Magistratura democratica

Un orizzonte aperto su una nuova forma di vita giudiziaria: l’ufficio per il processo

di Remo Caponi

Il rafforzamento dell’ufficio per il processo, ormai ai blocchi di partenza, mette in campo un dispositivo a metà strada tra l’amministrazione della giustizia e la formazione professionale dei più giovani giuristi. Si auspica che dia vita a un intreccio fecondo di relazioni tra il conoscere, il saper fare e il saper essere e che si profili come letto per la maturazione di nuove identità e la crescita di un pluralismo ordinato di culture della giurisdizione[1].

 

1. Il testo riproduce la parte essenziale di un breve intervento a un seminario di Astrid su “Il PNRR e la riforma della giustizia” (18 ottobre 2021).

I fattori che contribuiscono a rendere efficiente l’amministrazione della giustizia sono tre: leggi scritte bene, risorse adeguate e cultura. Il terzo è il fattore più importante, poiché la cultura è alla base dei primi due fattori: lo è della capacità di scrivere e interpretare bene le norme, così come della competenza nel gestire adeguatamente le risorse. L’esordio è un luogo comune? Certamente, ma esso può essere liberato dalla sua scorza di ovvietà, se ne esplicitiamo la prima conseguenza logica.

Quando è approvata una riforma, siamo abituati a considerarla innanzitutto come un testo da studiare, diverso da noi e dal modo in cui lo studiamo. Ciò non aiuta, poiché suggerisce l’idea che chi studia una riforma, lo faccia da un punto di vista esterno ad essa. Non è così, specialmente quando si commenta una riforma della giustizia. Non facciamo un’operazione che si colloca in un luogo diverso dalla riforma stessa. Siamo già dentro, e cioè nel bel mezzo. Contribuiamo a fare – o a disfare – la riforma con le nostre parole. Per prendere in prestito un’immagine suggestiva (di Giorgio Pressburger), le nostre parole si inseriscono negli spazi bianchi tra l’una e l’altra lettera della legge.

Talvolta, fra i giuristi, specialmente fra i processualisti, circola un’idea bizzarra. L’idea che nel mondo del diritto teoria e prassi siano dimensioni originariamente distinte che ad un certo punto, misteriosamente, giungono a conciliarsi oppure, in tutto o in parte, a scontrarsi. Non è così. I discorsi sul diritto e sulla giustizia sono prassi teoriche che, nel momento in cui ricostruiscono la normatività giuridica, non ne offrono unicamente un fondamento o una critica razionale, ma ne costituiscono un momento di concretizzazione. In altre parole, i discorsi dei giuristi sono il modo principale in cui il diritto si fa (o non si fa). Non è un caso se, da Roma antica, vi è un rapporto strettissimo, di reciproca implicazione, tra la giurisprudenza, il ceto che la pratica e il linguaggio, che ne costituisce appunto la prima pratica. Nel mondo della giustizia è della massima importanza la cura delle parole, accanto alla cura dei luoghi. La forma degli edifici, così come la forma delle parole, parlano direttamente all’animo di chi li frequenta e di chi le ascolta.

Tra qualche mese entrerà nei palazzi di giustizia la prima ondata di giovani che daranno vita all’ufficio per il processo (non tutti saranno giovanissimi, ma questo è un altro discorso). A un certo punto, la legge chiede la loro cooperazione «per l’attuazione dei progetti organizzativi finalizzati a incrementare la capacità produttiva dell’ufficio» (corsivo aggiunto). Cerchiamo di non offrire pretesti linguistici a chi desidera lamentare che la riforma adotti un approccio aziendalistico. Le parole strutturano la nostra vita interiore, promuovono emozioni e sentimenti positivi o fomentano passioni tristi. Scegliamo altre parole per questi giovani. Molti di loro entreranno per le prime volte nei palazzi di giustizia. Diciamo loro che sono chiamati ad aumentare la risposta dell’ufficio alla domanda di giustizia. Non è dire una cosa ipocrita: è fare segno con le parole alle aspettative reali con cui le persone si rivolgono all’avvocato e ricorrono al giudice. Lasciamo la terminologia aziendalistica nelle bocche di coloro ai quali questa terminologia appartiene. Il nostro temperamento e la nostra cultura sono altre.

L’ufficio per il processo è delineato come una struttura organizzativa coordinata dal magistrato. Se ne prevedono poi i compiti. Tra l’una e l’altra disposizione, c’è di nuovo uno spazio bianco dal quale si può aprire una finestra su un panorama inaspettato, ma non per questo meno reale. Un piccolo atto che, se non può compiere il legislatore, di certo può compiere l’interprete. Offrire una definizione dell’ufficio per il processo che ne restituisca un’immagine che si affianchi a quella – pur importante – che ne scaturisce dalla teoria dell’organizzazione. Porgere un concetto che non rinunci a delineare delle relazioni funzionali tra le persone, ma che parli al loro cuore e ai loro sentimenti, prima che al loro intelletto: l’ufficio per il processo è un orizzonte aperto su una nuova forma di vita giudiziaria.

È un dispositivo che si colloca a metà strada tra l’amministrazione della giustizia e la formazione professionale dei più giovani giuristi. Potrà dar corpo a un intreccio di relazioni tra il conoscere, il saper fare e il saper essere; a un intersecarsi di azioni su azioni altrui. Potrà scavare un letto per la maturazione di nuove identità e per la crescita di un pluralismo ordinato di culture della giurisdizione. Potrà rivelarsi come un agglomerato simbolico, composto da parole, immagini, ambienti, edifici.

Per molti magistrati sarà impegnativo. In ogni caso ci sarà un cambiamento del modo di lavorare. A taluni apparirà perfino come un fastidio, se non come un intralcio. Per mitigare l’impressione, proviamo a evitare di racchiudere l’ufficio per il processo entro il perimetro degli obiettivi di breve/medio periodo, pur rimarchevoli, per i quali esso è stato rafforzato (abbreviazione della durata del processo, abbattimento dell’arretrato, etc.). Esso può riaprire la prospettiva di lungo periodo in vista della quale erano state varate più di venti anni fa le scuole di specializzazione per le professioni legali. Con la forza d’impatto del numero delle persone coinvolte nell’arco degli anni, l’ufficio per il processo potrà avere successo dove le scuole di specializzazione, purtroppo, hanno fallito: nell’impedire che la fisiologica contrapposizione di ruoli processuali trasmodi in un generalizzato conflitto tra categorie professionali. Intorno ai colloqui partecipi con le persone che cercano giustizia, alla ricerca di un’equa soluzione consensuale, all’affaccendarsi intorno ai fascicoli, agli approfondimenti giurisprudenziali e dottrinali: intorno al cuore delle attività che animano l’ufficio per il processo i magistrati e i giovani addetti riconosceranno la cornice unitaria che racchiude il lavoro dei giuristi. Pertanto, sarà opportuno che l’ufficio per il processo, così strutturato, diventi un patrimonio permanente dell’amministrazione della giustizia, laddove la permanenza di quell’obiettivo culturale di lungo periodo sarà assicurata proprio dal periodico avvicendarsi dei giovani che ne sono chiamati a fare parte e che poi imboccheranno i loro sentieri professionali, con la mente e il cuore carichi del ricordo di quella esperienza.

Una nota conclusiva di ordine generale. Alla fine, tutto ciò è stato occasionato da un’emergenza sanitaria. Come dice il Poeta (Friedrich Hölderlin), là dove c’è il pericolo, cresce anche ciò che salva. Non ho trovato particolarmente felice la metafora della pandemia come guerra, ma certo da qualche mese si avverte un’energia nuova nel Paese, quale quella che segue di solito al superamento di eventi catastrofici. Ognuno di noi sta collegando questa energia ai propri desideri e alle proprie aspettative.

Personalmente, mi auguro che intorno a questo Piano nazionale di ripresa e resilienza si crei un’atmosfera simile a quella che, settantacinque anni fa, dette vita al compromesso tra le principali correnti e forze politiche del Paese, dal quale nacque la Costituzione italiana.