Magistratura democratica

Il pane, le rose, la concorrenza*

di Daniele Mercadante

Che cosa rende dissonanti, cacofoniche, le previsioni sulla giustizia, e in particolare sulla giustizia civile, inserite nel «Piano Nazionale per la Ripresa e la Resilienza» rispetto al resto dello spartito? Per cercare di dare una risposta a questo interrogativo e comprendere la natura della disarmonia, si analizzerà il contenuto del PNRR, proponendone una chiave interpretativa che aiuti a farsi un’idea del punto al quale è giunta la notte della separazione tra umanesimo giuridico e costituzione materiale.

1. Introduzione / 2. In che cosa consiste il Piano / 3. Piano e giustizia /4. L’equivoco giustizia / 5. Che cosa è successo? / 6. Che cos’è la concorrenza?

 

1. Introduzione

L’esperienza indica che il termine “riforma”, nel contesto giuridico, viene sovente associato a interventi di adeguamento normativo che, successivamente alla riforma stessa, si rivelano inadeguati in misura tale da richiederne una ulteriore, con il conseguente regressus ad infinutum che ormai, all’udire la parola, ci appare tanto prevedibile quanto poco confortante.

Quest’attitudine è almeno in parte dovuta a un’ambiguità semantica propria del termine, il quale si addice tanto al ritocco estetico, quanto al rivolgimento più radicale. Generalmente, i proponenti dell’iniziativa riformistica la promuovono come solidamente innovatrice, per poi riformare ulteriormente, o contro-riformare, quello che si sarà rivelato un modesto e, col senno del poi, neppure ben diretto intervento manutentivo.

Il «Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza» (nel seguito, semplicemente, “Piano”)[1], almeno in quelle parti che riguardano l’amministrazione della giustizia, e quella civile in particolare, oggetto principale di questo scritto, non rappresenta uno di questi casi. Come si cercherà di argomentare, l’intervento appare caratterizzato da un notevole ardimento concettuale, dall’intenzione di voltare pagina rispetto ad alcuni presupposti della materia, anche assai significativi e ritenuti per lungo tempo pressoché indiscutibili.

La filosofia confuciana individua nella “rettificazione dei nomi” – nella pratica di «agire sui nomi in modo che essi si applichino solamente a quelle realtà che li meritino, ma anche agire sulla realtà delle cose in modo che esse coincidano con i nomi convenzionali»[2] – uno dei più efficaci strumenti di armonizzazione sociale. L’intervento annunciato dal Piano in materia di giustizia se, come anticipato, può ritenersi conforme a tale pratica nel suo non “promettere” più di quanto possa offrire, deve tuttavia riscontrarsi difettoso in un senso inusuale e contrario, ovverosia nel suo “celare” quanto effettivamente sottende di dirompente dietro la facciata di un’esposizione apparentemente asettica e normalizzante, condotta – e ciò alimenta l’equivoco, almeno tra i giuristi – in quell’italiano-pensato-in-inglese che è ormai tanto diffuso nell’ambiente degli affari e della finanza[3].

Questo scritto, dopo una descrizione del Piano nel suo complesso e, più specificamente, delle sue previsioni relative alla giustizia, in particolare civile, tenterà di rendere conto del giudizio che precede riguardando il Piano stesso attraverso un filtro concettuale, forse cronologicamente datato, ma che si ritiene per molti versi quanto mai attuale e chiarificante, consistente nell’analisi della politica neoliberale che Michel Foucault effettuò nel corso che tenne al Collège de France negli anni 1978 e 1979[4]. L’efficacia di questo strumento, aggiornato sulla scorta di talune considerazioni sull’attualità e sulle prospettive d’evoluzione del quadro valoriale-ordinamentale, dovrebbe manifestarsi nella sua capacità di rendere conto delle caratteristiche principali del Piano, del suo rapporto con le previsioni relative alla giustizia e, infine, di quei disagi che tali previsioni, nel loro concreto svilupparsi, lasciano trasparire.

 

2. In che cosa consiste il Piano

Allo scopo di «porre rimedio ai danni economici e sociali immediati causati dalla pandemia di coronavirus e rendere l’UE più preparata per il futuro», la stessa Unione ha varato un programma di assistenza economica – denominato Next Generation EU (“Unione europea prossima generazione”) – che consiste, per la quasi totalità (723,8 miliardi di euro su un totale di 806,9, la rimanente parte essendo destinata a finanziare programmi europei già in fase applicativa), nella Recovery and Resilience Facility (linea di credito per la ripresa e la resilienza), articolata in finanziamenti senza obbligo di restituzione (per un ammontare di 338 miliardi) e prestiti a «condizioni favorevoli» agli Stati membri (385,8 miliardi). Questa mole di denaro dovrebbe reperirsi sui mercati finanziari, attraverso l’emissione di titoli di credito con scadenza fino all’anno 2058, in maniera da «evitare di porre immediatamente pressioni sulle finanze degli Stati membri»[5].

Quanto all’impiego dei fondi, la metà di essi è destinata: 1) alla ricerca e all’innovazione (attraverso il programma Horizon Europe – “Orizzonte Europa”); 2) alla «transizione ecologica e digitale» (attraverso il Just Transition Fund - “Fondo per una transizione equa” - e il programma Digital Europe – “Europa digitale”); 3) alla «preparazione, ripresa e resilienza» (attraverso lo EU Civil Protection Mechanism – “Meccanismo per la protezione civile europea” -, e il programma sanitario EU4Health – “Unione europea per la salute”); un ulteriore 30 per cento è diretto alla lotta al cambiamento climatico, attraverso «un importante piano di investimenti» destinato ad avvalersi di fondi europei e nazionali, pubblici e privati; il restante 20 per cento è destinato alla «trasformazione digitale europea»[6].

La gestione dei fondi verrà supervisionata con particolare cura dall’Unione, in quanto «per la Commissione europea è una priorità proteggere il denaro dei contribuenti, e assicurarsi che ciascun euro del bilancio venga speso rispettando le regole e generi valore aggiunto»[7]. A questo scopo, i tre quarti della spesa complessiva, gestiti congiuntamente dalla Commissione europea e dagli Stati membri, faranno oggetto di controlli di gestione generali e mirati, all’esito dei quali i pagamenti potranno essere sospesi, interrotti o revocati, prescindendo dall’accertamento di comportamenti fraudolenti[8].

Il Piano espone il quadro generale di gestione e di spesa – suscettibile di venire precisato in documenti settoriali – dei fondi che venissero effettivamente destinati all’Italia, quadro che include una programmazione – anch’essa destinata, come nel settore della giustizia, a essere meglio specificata in altre sedi – degli interventi normativi e regolamentari necessari a promuovere, accompagnare e realizzare pienamente i programmi di “spesa per la ripresa” che stanno alla base dell’intervento europeo[9].

Qualora il Piano venisse finanziato dalle istituzioni europee nella sua interezza, l’Italia si vedrebbe assegnare complessivamente 191,5 miliardi di euro, dei quali 68,9 a titolo di “sovvenzioni”, e 122,6 nella forma di «prestiti a tassi agevolati»[10].

Il denaro verrebbe impiegato per finanziare sei “missioni”, ulteriormente articolate in sedici “componenti”. Le missioni sono denominate: i. digitalizzazione, innovazione, competitività, cultura e turismo[11]; ii. rivoluzione verde e transizione ecologica[12]; iii. infrastrutture per una mobilità sostenibile[13]; iv. istruzione e ricerca[14]; v. inclusione e coesione[15]; vi. salute[16].

La destinazione effettiva dei fondi risulterà forse più chiara dalla ripartizione percentuale della spesa, indicata dal Piano: il 32,6% dell’importo complessivo è destinato al settore delle costruzioni e dell’edilizia civile; il 18,7% a incentivi e crediti d’imposta per le imprese; il 12,4% è relativo a prodotti informatici, elettronici e ottici; il 6,9% a mezzi di trasporto; il 6,6% a «servizi di istruzione»; il 6,2% a «servizi di ricerca e sviluppo scientifici»; il 5% è destinato a trasferimenti alle famiglie; il 3,8% è relativo alla programmazione informatica e ad altri servizi analoghi; il 2,4% è destinato alla «riduzione [di] contributi datoriali»; il 2,1% a pubblica amministrazione, difesa e «servizi di assicurazione sociale obbligatoria»; il 2 % è relativo a «servizi del lavoro»; lo 0,9% è destinato alla silvicoltura; lo 0,7% a servizi di assistenza residenziale e a servizi di assistenza sociale non residenziale[17].

Come può osservarsi, il largo “spazio semantico” occupato, nella denominazione delle “missioni” e delle “componenti”, da termini direttamente o indirettamente legati al soccorso e alla solidarietà si riduce considerevolmente – a meno di un decimo del totale[18] – qualora si esamini la concreta destinazione dei finanziamenti, in larga parte diretti ad alimentare grandi progetti o grandi settori produttivi, apparentemente non troppo correlati alle perdite umane e materiali determinate dalla crisi sanitaria (120,78 miliardi, quasi i due terzi del totale, sono destinati direttamente a “componenti” aventi ad oggetto il settore edilizio, i trasporti, la logistica, gli impianti energetici e la digitalizzazione).  

Con riferimento al 10 per cento circa di spesa riconducibile a fini direttamente o indirettamente sociali, si può osservare che:

- dei 19,44 miliardi preventivati per incrementare l’offerta formativa, 11,86 sono destinati all’edilizia scolastica, al potenziamento degli asili nido e alla digitalizzazione[19]. Se su tali obbiettivi, di per sé, poco vi sarebbe da commentare, deve pur ricordarsi che l’edilizia (verde) e la digitalizzazione costituiscono lo sviluppo delle due principali “direttrici d’investimento” di Next Generation EU, laddove l’incremento dell’offerta di posti negli asili nido appare non troppo obliquamente legata a un’inespressa, ma discernibile, premessa del Piano: nell’attuale momento storico – e, forse non casualmente, in coincidenza con una diminuzione senza precedenti, almeno dal Secondo dopoguerra, delle tutele dei lavoratori – è “finalmente” bene che lavori chiunque possa effettivamente lavorare;

- del miliardo circa di euro destinato ai dottorati di ricerca – circa i quali si prende atto che i relativi posti sono calati del 40% (quaranta per cento, non è un errore) tra il 2008 e il 2019, e forse sarebbe stato il caso, vista l’importanza del problema, di indagare le cause di questa vera e propria catastrofe, di questo “suicidio del futuro” – il 60% appare principalmente destinato a finanziare ricerche “condivise” con le aziende[20];

- la missione “inclusione e coesione” presenta anch’essa un’elevata componente afferente all’edilizia[21], e appare particolarmente centrata non già su chi, irrimediabilmente escluso dalla sfera della “produttività”, è, specialmente a seguito della crisi sanitaria, affidato quasi interamente alla benevolenza altrui, bensì – come osservato poco sopra a proposito degli investimenti in asili nido – su quei disoccupati (donne, giovani, persone che hanno perso un lavoro non molto qualificato dopo diversi anni d’impiego) che, nelle attuali condizioni, “devono” essere recuperati a un mercato del lavoro finalmente “conveniente”;

- la missione “salute” è caratterizzata anch’essa da un’alta percentuale di spesa orientata verso strumentazioni informatiche-telematiche e verso l’edilizia – per un ammontare di 11,36 miliardi su un totale di 15,63[22].

Da quanto illustrato fino a questo punto possono trarsi due prime caratteristiche del Piano: la sua natura applicativa e la sua condizionalità.

Utilizzando l’espressione “natura applicativa” s’intende evidenziare il fatto che il Piano appare quale strumento di programmazione di secondo livello di una strategia economica divisata in sede di Unione europea, non già di scelte strategiche (anche in parte) statuali. Quale sia la gravità dei problemi cagionati (da ultimo) dalla crisi sanitaria, se di tali problemi sia necessario occuparsi, e di quali, in quale maniera, impiegando quali risorse, tratte da dove, e quali settori, rinvigoriti dall’intervento, dovrebbero “trascinare” un miglioramento più complessivo, e se vi sia spazio, e quale, per “interventi” che non siano necessariamente “investimenti” (in senso stretto, con la relativa attesa di un “rendimento”), sono questioni affrontate attraverso programmi di sviluppo europei che, peraltro, appaiono trasposti in sede di Next Generation EU e, conseguentemente, nel Piano, anche per una coincidenza temporale, risultando concepiti già in epoca anteriore, con la conseguenza che la crisi sanitaria sembra avere rappresentato solo l’occasione per procedere in anticipo, o in misura maggiore, a spese già preventivate.

Per “condizionalità” s’intende il carattere assai rigorosamente “orientato all’adempimento” del Piano. Il linguaggio in cui questo è redatto evidenzia con tenace continuità l’intento di dimostrare (a un creditore, a un possibile finanziatore) che le misure previste si accordano pienamente con le indicazioni ricevute, e ne colgono non solo la lettera, ma finanche lo “spirito”. Le misure vengono inserite nel quadro dei programmi europei, sforzandosi i redattori d’illustrare come ogni azione contribuisca al progresso di uno dei pilastri di Next Generation EU, di politiche eurounitarie già in corso d’applicazione, o anche, ed è particolarmente il caso della giustizia civile, delle Country specific recommendations (le raccomandazioni dirette a Paesi determinati) indirizzate all’Italia anno per anno[23].

Si è scritto che, oltre che in interventi articolati nelle indicate “missioni” e “componenti”, il Piano si sostanzia in un programma per l’adozione di misure legislative e regolamentari, non necessariamente collegate in maniera diretta o evidente ai capitoli di spesa. Tale programma si articola in quattro “riforme di contesto”, relative alla pubblica amministrazione, alla semplificazione della legislazione, alla promozione della concorrenza e, finalmente, alla giustizia.

Gli interventi relativi alla pubblica amministrazione e alla giustizia sono introdotti dalle seguenti considerazioni: «[l]a debole capacità amministrativa del settore pubblico italiano ha rappresentato un ostacolo al miglioramento dei servizi offerti e agli investimenti pubblici negli ultimi anni. (…) Gli ostacoli agli investimenti nel Paese risiedono anche nella complessità e nella lentezza della Giustizia. Quest’ultimo aspetto mina la competitività delle imprese e la propensione a investire nel Paese: il suo superamento impone azioni decise per aumentare la trasparenza e la prevedibilità della durata dei procedimenti civili e penali».

Quanto alla pubblica amministrazione, si prevede di rivedere le procedure di selezione del personale, per migliorare il “capitale umano” pubblico; di ridurre i tempi di gestione delle pratiche (mediante l’aumento dei monitoraggi); di «liberalizzare, semplificare (…), reingegnerizzare, e uniformare le procedure»[24]; di digitalizzare maggiormente i procedimenti relativi all’edilizia e alle attività produttive e, in genere, tutta l’azione amministrativa.

Quanto alla semplificazione normativa, essa dovrebbe concretarsi, oltre che in una riqualificazione del personale a questa specificamente addetto, nella riduzione del cd. “gold plating” (alla lettera, “placcatura in oro”: la sua diminuzione dovrebbe condurre a una trasposizione delle normative europee nell’ordinamento italiano rigorosamente “letterale”, anche laddove non richiesta dall’ordinamento dell’Unione); nella semplificazione delle norme sui contratti pubblici (all’insegna, tra l’altro, della «piena apertura e contendibilità dei mercati»[25] e del «rafforzamento degli strumenti di risoluzione delle controversie alternativi alle azioni dinanzi al giudice [amministrativo][26]»; in “alleggerimenti normativi” in materia edilizia, urbanistica, di rigenerazione urbana, di investimenti e interventi nel Mezzogiorno; nella «abrogazione e revisione di norme che alimentano la corruzione»[27] («vanno riviste e razionalizzate le norme sui controlli pubblici di attività private, come le ispezioni, che da antidoti alla corruzione sono divenute spesso occasione di corruzione. È necessario eliminare le duplicazioni e le interferenze tra le diverse tipologie di ispezioni. Occorre semplificare le norme della legge n. 190/2012 sulla prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione, e le disposizioni del decreto legislativo n. 39/2013, sull’inconferibilità e l’incompatibilità di incarichi presso le pubbliche amministrazioni e gli enti privati in controllo pubblico. Al tempo stesso, occorre evitare che alcune norme nate per contrastare la corruzione impongano alle amministrazioni pubbliche e a soggetti privati di rilevanza pubblica oneri e adempimenti troppo pesanti»)[28].

Quanto alla promozione della concorrenza, si riporta, perché ritenuto centrale a fronte delle tesi esposte in questo scritto, il seguente estratto dal Piano: «[l]a tutela e la promozione della concorrenza – principi-cardine dell’ordinamento dell’Unione europea – sono fattori essenziali per favorire l’efficienza e la crescita economica e per garantire la ripresa dopo la pandemia. Possono anche contribuire a una maggiore giustizia sociale. La concorrenza è idonea ad abbassare i prezzi e ad aumentare la qualità dei beni e dei servizi: quando interviene in mercati come quelli dei farmaci o dei trasporti pubblici, i suoi effetti sono idonei a favorire una più consistente eguaglianza sostanziale e una più solida coesione sociale. [L]a concorrenza si tutela e si promuove anche con la revisione di norme di legge o di regolamento che ostacolano il gioco competitivo. Sotto quest’ultimo profilo, si rende necessaria una continuativa e sistematica opera di abrogazione e/o modifica di norme anticoncorrenziali. Questo è il fine della legge annuale per il mercato e la concorrenza», che il Piano si propone di rendere concretamente annuale, attesto che, di fatto, non lo è[29]. L’impatto degli interventi a sostegno della concorrenza sulla crescita potenziale del prodotto interno lordo viene simulata alle pp. 261 e 262 del Piano, facendo corrispondere “algebricamente” alla de-regolamentazione dei mercati un proporzionale aumento della ricchezza.

È forse il caso di presentare anche in questa sede un supporto quantitativo dell’analisi: nel Piano la parola “investimenti”, insieme alle parole dalla stessa radice, ricorre 831 volte; le parole “impresa” e “imprese” ricorrono 197 volte; la parola “competitività” 62 volte; la parola “concorrenza” 49 volte. Le parole “aiuto” e “aiuti” ricorrono 5 volte; la parola “uguaglianza” 2 volte, così come la parola “solidarietà”. Le parole “sindacato” e “sindacati” non compaiono.

 

3. Piano e giustizia

Per quanto precede, non giungerà inaspettato il rilievo per cui anche gli interventi nel settore della giustizia si pongono esplicitamente – e forse un po’ troppo fiduciosamente, almeno nell’ottica dei redattori – in una prospettiva fortemente “imprenditoriale” (e di corretta “gestione del personale”). Anche in questo caso, si lascerà che sia il Piano, assai chiaro sul punto, a parlare: «il sistema giudiziario sostiene il funzionamento dell’intera economia. L’efficienza del settore giustizia è condizione indispensabile per lo sviluppo economico e per un corretto funzionamento del mercato. Studi empirici dimostrano che una giustizia rapida e di qualità stimola la concorrenza, poiché accresce la disponibilità e riduce il costo del credito, oltre a promuovere le relazioni contrattuali con imprese ancora prive di una reputazione di affidabilità, tipicamente le più giovani; consente un più rapido e meno costoso reimpiego delle risorse nell’economia, poiché accelera l’uscita dal mercato delle realtà non più produttive e la ristrutturazione di quelle in temporanea difficoltà; incentiva gli investimenti, soprattutto in attività innovative e rischiose e quindi più difficili da tutelare; promuove la scelta di soluzioni organizzative più efficienti. Si stima che una riduzione della durata dei procedimenti civili del 50 per cento possa accrescere la dimensione media delle imprese manifatturiere italiane di circa il 10 per cento. A livello aggregato, uno studio recente ha valutato che una riduzione da 9 a 5 anni dei tempi di definizione delle procedure fallimentari possa generare un incremento di produttività dell’economia italiana dell’1,6 per cento. Una giustizia inefficiente peggiora le condizioni di finanziamento delle famiglie e delle imprese: il confronto tra province mostra che un aumento dei procedimenti pendenti di 10 casi per 1000 abitanti corrisponde a una riduzione del rapporto tra prestiti e Pil dell’1,5 per cento. Inoltre, alla durata dei processi più elevata si associa una minore partecipazione delle imprese alle catene globali del valore e una minore dimensione media delle imprese, quest’ultima una delle principali debolezze strutturali del nostro sistema. I dati evidenziano una naturale e stretta compenetrazione intercorrente tra giustizia ed economia: qualsiasi progetto di investimento, per essere reputato credibile, deve potersi innestare in un’economia tutelata, e non rallentata, da un eventuale procedimento giudiziario, così come deve essere posto al riparo da possibili infiltrazioni criminali. Le prospettive di rilancio del nostro Paese sono, insomma, fortemente condizionate dall’approvazione di riforme e investimenti efficaci nel settore della giustizia»[30].

Deve anzitutto osservarsi che un collegamento diretto e significativo tra la “velocità” del sistema giudiziario e lo sviluppo dell’economia appare quantomeno sovrastimato – in caso contrario, non si spiegherebbe per quale motivo le grandi tendenze dell’economia italiana, di crescita come di contrazione, non abbiano visibili collegamenti con la durata dei processi (la maggiore riduzione dei quali, anzi, si è avuta proprio negli ultimi dieci anni - purtuttavia funesti per la nostra ricchezza aggregata, come sottolineato nel Piano già nel suo secondo paragrafo, a p. 2[31] -, nei quali la durata media dei procedimenti civili è passata da 471 a 429 giorni e l’arretrato si è ridotto di più di due milioni (2.000.000) di cause, come riportato sul sito dell’Osservatorio conti pubblici dell’Università Cattolica, nell’articolo generosamente intitolato «Gli insufficienti passi avanti di una giustizia civile lumaca»)[32].

A costo di apparire impertinenti, si osserva, sulla scorta dell’ascesa della “economia comportamentale” (nella quale il Piano ripone alcune speranze in vista dell’incremento d’efficienza della pubblica amministrazione), che la propensione all’imprenditorialità (come, prima ancora, quella a frequentare la scuola, a non assumere droghe pesanti, o a non emigrare dall’Italia) potrebbe giovarsi, molto maggiormente e più direttamente che di una “velocizzazione” della giustizia civile, di una riduzione del condizionamento amministrativo, politico, giudiziario ed economico-finanziario da parte della narco-criminalità organizzata che, se non si vuole considerare altro (l’umiliazione della legalità e del Paese intero), visibilmente dirotta l’impegno di centinaia di magistrati i quali, in presenza di una criminalità “nella media europea” (ma su questo difettano analisi quantitative), potrebbero essere senz’altro adibiti a ruoli maggiormente “orientati al mercato” (sia sufficiente porre mente agli obbligati squilibri tra gli organici civili e penali, soprattutto nelle zone dove la narco-criminalità interferisce seriamente sul controllo del territorio). Insomma, la pista delle “possibili infiltrazioni criminali” (che appare negletta nel resto del Piano) meritava forse maggiore considerazione (anche al fine di evitare che, all’interno delle “catene globali del valore”, il nostro Paese finisca per occupare il posto del Messico, o della Colombia).

Ci si domanda con una qualche perplessità, inoltre, in quale modo i magistrati si frapporrebbero all’incremento del numero medio di dipendenti delle imprese (“toghe contro fusioni e acquisizioni”?) e inibirebbero l’erogazione di finanziamenti (sempre che si debba accedere alla tesi, smentita dal nostro ostacolante mestiere, che chi ricorre a un prestito lo faccia sempre, o anche solo nella maggior parte dei casi, per realizzare il proprio sogno imprenditoriale).

Deve poi osservarsi che la contrapposizione, alla quale si accenna nel brano citato da ultimo, tra una giustizia che “tutela” l’economia e una che la “rallenta” appare piuttosto semplicistica, e meriterebbe anch’essa un maggiore approfondimento, che peraltro né in questa sede, né nel Piano è comprensibilmente lecito attendersi, ma sulla quale sia consentito almeno osservare che: a) la “tutela” offerta dal sistema giudiziario “all’economia” (mi si scuserà se preciserò, da giurista quale cerco, con notevole modestia, di essere: “ai diritti degli attori economici”), si “misura” (se è possibile farlo con qualche attendibile precisione) soprattutto nei processi (civili, penali, amministrativi, tributari) che non si celebrano, nei contratti che vengono spontaneamente onorati, nelle tasse che vengono pagate, nei crimini “economici” che non vengono commessi, nei regolamenti che vengono osservati e, dunque, non tanto in ragione della rapidità del processo, quanto della prevedibilità delle decisioni assunte nelle cause (e delle politiche pubbliche adottate nei settori) a maggiore componente “patrimoniale” e a minore componente “valoriale”; b) l’idea che il processo possa “tutelare” senza “rallentare” (posto che, in caso di patologie del sistema, esogene ed endogene, può senz’altro “rallentare” senza neppure “tutelare”) è francamente irrealistica: in questo senso, la positività del processo può discendere solo da un conveniente bilanciamento tra oneri e vantaggi.

Gli interventi programmati vengono discussi su questa Rivista, nella loro articolazione di dettaglio, in numerosi, autorevoli scritti. In questa sede, coerentemente all’intento di analisi complessiva del Piano, s’intendono passare in rassegna le sue principali tendenze di fondo.

Le priorità possono elencarsi come segue: incrementare il ricorso all’arbitrato, alla mediazione e alla negoziazione assistita; contrarre i tempi del processo attraverso modifiche del rito e un maggiore ricorso alla digitalizzazione, con particolare riferimento al processo esecutivo («[i]l settore dell’esecuzione forzata merita un’attenzione particolare in ragione della centralità della realizzazione coattiva del credito ai fini della competitività del sistema Paese»)[33]; migliorare la capacità dei dirigenti di fare rispettare “programmi di gestione” volti a “produrre di più e più in fretta” (anche nel settore penale). Si segnala anche come il Piano indichi «la riduzione dei possibili passaggi di funzioni da incarichi giudicanti a quelli requirenti» come una riforma idonea a «produrre effetti di efficienza nella complessiva gestione delle risorse umane»[34] (insomma: i problemi costituzionali “demistificati” e ridotti alla loro effettiva consistenza di questioni di fraternizzazione tra il personale). La speditezza delle procedure civili viene in buona parte affidata alla realizzazione compiuta dell’ufficio per il processo («affiancare al giudice un team di personale qualificato di supporto», consistente di «risorse, reclutate a tempo determinato con i fondi del [Piano], (…) impiegate dai Capi degli Uffici giudiziari secondo un mirato programma di gestione idoneo a misurare e controllare gli obiettivi di smaltimento individuati»[35]). A tale ultimo proposito, non può farsi a meno di notare che, sebbene il processo civile venga definito «lento e disfunzionale», tanto da avvisare che l’intervento riformatore potrà, al più, «contrastare le più evidenti disfunzioni registrate nella prassi applicativa»[36], le predette “risorse” vengono avvertite che il loro apporto non sarà necessario – e non sarà richiesto – per troppi anni (dopo avere “smaltito”, verranno “smaltite”).

 

4. L’equivoco giustizia

Posto quanto precede, il primo, ovvio disagio discende dalla quasi assente considerazione, da parte del Piano, di prospettive non economiciste sulla giustizia. Chi opera nel settore civile, come del resto qualunque altro magistrato, avvocato, notaio, funzionario, giurista, è quanto mai sensibile alla componente “patrimoniale” inestricabilmente connaturata al proprio mestiere. È, d’altronde, altrettanto consapevole che un numero assai elevato di controversie, di procedure, ha quale oggetto concorrente, principale o anche esclusivo la tutela d’interessi (la protezione di soggetti deboli, di diritti umani fondamentali, la salvaguardia dell’onore e della dignità, la protezione da abusi odiosi, la prevenzione di attentati alla sicurezza, alla salute, all’incolumità) che, resi oggetto di un’econometria autoreferenziale, finiscono sviliti, fraintesi, persino profanati, e che il giudizio della pubblica opinione sull’amministrazione della giustizia è influenzato da tali aspetti[37] in misura anche maggiore rispetto a quelli strettamente organizzativo-finanziari.

Si potrebbe tuttavia venire indotti a ritenere che il Piano si astenga volutamente dall’addentrarsi nell’intrico “malsano” del “diritto legalistico e parolaio”, privilegiando la mono-dimensione economica del fenomeno giuridico.

Cercherò di mostrare che, se anche così fosse (e non ritengo che le cose stiano esattamente in questo modo), il senso di disagio non scemerebbe, anzi, acquisterebbe una diversa e maggiore consistenza. Ma supponiamo che il Piano si concentri realmente sulla sola giustizia-in-quanto-economia. In questo caso, dovremmo osservare quanto segue:

- se nel processo civile “il tempo è denaro” (e non c’è dubbio: il tempo è veramente denaro, e anche molto di più, e non solo nel processo civile), è anche vero che l’economia (almeno secondo il catechismo più diffuso) è “mercato e concorrenza” (ovverosia, scambio e confronto), e il processo civile non pone di fronte a ciascuna delle classi di parti in lite lo stesso bilanciamento (lo stesso scambio e lo stesso confronto) tra tempo e altri valori (ascolto, riflessione, compassione, confronto, consacrazione istituzionale del conflitto);

- si pensi, in questo senso, al singolo che vede il proprio unico bene patrimoniale di una qualche consistenza convertirsi nella “posta economica” dell’unica causa che, presumibilmente, lo interesserà nell’intera vita; alla vittima di molestie sessuali subite sul posto di lavoro che domanda un risarcimento civile a chi le ha rovinato l’esistenza; al lavoratore licenziato; all’individuo fragile in attesa di una decisione sull’ammissione all’amministrazione di sostegno; al piccolo imprenditore che, nel corso della sua carriera, dovrà vedersela in aula con meno di una mezza dozzina di clienti insolventi, o di controparti non corrette; all’istituto bancario impegnato nell’ennesima azione revocatoria; alla compagnia di servizi di base (acqua, elettricità, gas, telefonia) coinvolta in un qualunque momento in cause con migliaia di clienti in ritardo nei pagamenti; alla compagnia assicurativa alle prese con decine di migliaia di sinistri. Affermare che per tutti questi soggetti “il tempo (del processo civile) è denaro” è così ovvio che finisce per non significare, in concreto, quasi nulla, atteso che significa qualcosa di molto diverso per ciascuno di loro e, quindi, proporre una soluzione valida per tutti significa deludere tutti;

- a pensarci meglio, non proprio tutti. Chiediamoci: chi è quasi “uscito” dal (o non è quasi entrato nel) girone della giustizia civile ordinaria? In un senso assai significativo, le grandi istituzioni economiche. Queste risolvono le dispute tra loro, e al loro interno, attraverso sofisticati servizi legali e arbitrali; quelle con gli Stati mediante l’arbitrato internazionale, o nel “salotto buono” della giurisdizione amministrativa (sebbene, come anticipato, il Piano affermi che anche il ricorso a quest’ultima debba diminuire, nel settore dei contratti pubblici, a favore di procedure alternative); quelle con i piccoli e medi attori economici attraverso la tutela preventiva e dissuasiva offerta dalla predisposizione di contratti “a prova di processo”, all’esito di negoziazioni nelle quali il potere di avvalersi di consulenza legale altamente qualificata è distribuito in maniera assai poco simmetrica. Anche in molte occasioni, tra quelle nelle quali sono “costrette” a ricorrere alla giustizia civile ordinaria, gli è riservata la “sala VIP” (o quanto meno una sala meno “lenta e disfunzionale” delle altre) delle sezioni specializzate in materia di impresa, proprietà intellettuale, concorrenza;

- il “problema” delle grandi istituzioni economiche nei confronti del processo civile ordinario è allora principalmente, se non solamente, quello del contenzioso endemico con individui e piccole e medie imprese, un contenzioso “non arbitrabile” per la sua proliferazione pressoché incontrollabile, la sua frammentazione sul territorio e la scarsa rilevanza monetaria delle sue singole componenti; un contenzioso relativo sia a singoli inadempimenti che a situazioni d’insolvenza o para-insolvenza (particolarmente accentuato in contesti di austerità e di crisi - supponendo che i due termini abbiano significati non coincidenti, anche se l’adesione al canone della “rettificazione dei nomi” ci suggerirebbe altrimenti);

- appare chiaro che, per gli individui e per la quasi totalità delle piccole e medie imprese, il bilanciamento tra un processo reso “un po’ più veloce un po’ dappertutto” da misure non calibrate sulle diverse “domande di giustizia” e un peggioramento della qualità dei verdetti (inevitabile, laddove si continui a coltivare una miniera, quella della “resa giornaliera” della “risorsa umana” rappresentata dal magistrato “uberizzato”, che non si vede, al netto del linciaggio mediatico qualunquistico imperante, peraltro ricusato dal Piano[38], quanto possa garantire in più di quanto già garantisca, a risorse invariate - e con l’apporto di personale che egli stesso dovrà, almeno in parte, formare, s’immagina durante l’orario di lavoro, e assunto nella prospettiva dello “smaltimento”) non possa ritenersi soddisfacente (perché chi rischia in una sola causa, o in pochissime cause, tutto il proprio “destino giudiziario” individuale non può che privilegiare un giudice “decidente” ad un giudice “cronometrato”);

- questo nuovo equilibrio avvantaggia invece senz’altro i promotori di quel contenzioso pletorico e seriale al quale ci siamo riferiti in precedenza – perché questo è già “statisticamente” anticipato nel suo esito “medio”, che resta assicurato nella sua stabilità dall’alta serialità delle cause, e dunque una sua accelerazione, anche contenuta, non può che apportare un giovamento netto a chi vi è continuamente coinvolto;

- le considerazioni che precedono appaiono confortate dal fatto che gli altri importanti settori d’intervento del Piano, nella materia che ci occupa, sono rappresentati dall’insolvenza e dalle esecuzioni – per i quali valgono, con poche differenze, le medesime osservazioni.

In definitiva, si trae l’impressione che gli interventi in materia di giustizia civile abbiano l’effetto di “ricentrare” le “risorse umane” magistratuali sul contenzioso “al dettaglio” delle grandi imprese o, se si vuole, sul “recupero crediti allargato” (uno dei settori degli affari in maggiore crescita, in questo tempo del “grande balzo all’indietro”), con sacrificio del contenzioso promosso dai singoli e dalle piccole e medie imprese (eccettuate le poche alle quali capita di essere impegnate in vertenze seriali con un numero assai elevato di controparti contrattuali).

Possono, a questo punto, illustrarsi le altre due caratteristiche che si ravvisano complessivamente nel Piano (oltre a quelle, già trattate, consistenti nella natura applicativa e nella condizionalità): il pan-economicismo e il concorrenzialismo.

Con l’espressione pan-economicismo s’intende designare non già il fatto che il Piano sia centrato sull’economia (questa è la sua principale ragione d’essere, e stupirebbe il contrario), quanto il fatto che, investendo anche, e non del tutto marginalmente, campi che non sono solo, e non sono neanche principalmente, economici, e che afferiscono alla sfera dei bisogni e delle fragilità degli individui (la giustizia, l’assistenza sanitaria, l’istruzione, l’inserimento sociale, l’integrazione lavorativa), guarda a tali bisogni e fragilità principalmente attraverso il prisma  del giudizio sulla “recuperabilità” o meno della persona al meccanismo produttivo-economico, come se la spesa diretta a trasformare in un lavoratore un disoccupato, un giovane che ha abbandonato gli studi, una donna relegata, contro le sue aspirazioni, nella casa, avesse un maggiore “valore sociale” (e non solo una maggiore “redditività attesa”) della spesa diretta a sopperire ai bisogni di chi è, per malattia, per l’età assai avanzata o per altre ragioni, definitivamente escluso dal mercato del lavoro (un individuo che, peraltro, difficilmente ha visto la propria condizione migliorare, o peggiorare meno della media, dall’inizio della crisi sanitaria, che pure è l’occasione del Piano). La Costituzione italiana conferisce chiaramente pari dignità sociale a tutti i predetti bisogni, ed è bene chiarire ogni equivoco sul punto, particolarmente mentre ancora uccide un’epidemia durante la quale parole odiose hanno osato farsi udire mentre “misuravano” – apertamente o velatamente – il grado di “utilità e sacrificabilità relativa” delle decine di migliaia di vite che venivano dolorosamente e orribilmente perdute (e sia chiaro: questa ripresa è per la vita, ma non vi sarà ripresa, né futuro - costituzionale, sociale, economico o di altro genere - senza la memoria, la pietà e il rispetto per i morti).

Il Piano, infine, deve essere definito concorrenzialista per due distinte ragioni. La prima, esoterica, che si collega a quanto scritto sul pan-economicismo, appare a questo punto piuttosto chiara: il Piano si riallaccia in maniera ben distinguibile a una “scala di valori” costituzionali al vertice della quale sembra collocarsi la concorrenza, quale massimo principio regolatore della vita sociale e dell’azione dei pubblici poteri (diretta, quest’ultima, a lasciarla sviluppare al massimo grado, eliminando gli ostacoli che a ciò si frappongono), e anche gli interventi non immediatamente afferenti, per loro natura, allo sviluppo della concorrenza vi sono attratti, direttamente (come è il caso per la giustizia e per la semplificazione della legislazione) o indirettamente (si consideri, in questo senso, che gli interventi volti all’incremento della “coesione sociale” vengono inquadrati in una cornice retorica che vuole l’individuo in difficoltà diretto, quale suo “scopo sociale” principale, al recupero della propria “capacità concorrenziale”, non già solo lavorativa, finendo per sovrapporre quasi interamente questa capacità alla dignità e all’autonomia della persona).

Quanto all’accezione esoterica del concorrenzialismo, a questa si farà cenno alla fine di questo scritto.

 

5. Che cosa è successo?

Nel 1978 Michel Foucault intitola il proprio corso annuale presso il Collège de France «Nascita della biopolitica» (le lezioni verranno recuperate fortunosamente molti anni dopo, e saranno stampate solo nel 2004). Confesserà, nel riassunto finale del corso[39], che il vero oggetto di esso è il neoliberalismo, in quanto l’analisi di tale modo di organizzazione e di esercizio del governo (Foucault utilizza a questo proposito il termine «governamentalità»), destinata a costituire la premessa della trattazione “biopolitica” vera e propria, aveva finito per interessarlo sempre di più, e diventare così l’oggetto esclusivo delle lezioni. Il lavoro non è ostile verso quella tendenza il cui nome è oggi perfino abusato: il corso, pressoché privo di giudizi di valore sulla dottrina neoliberale, è stato finanche letto come indicativo di un’adesione, o quanto meno di un’apertura ad essa da parte del filosofo[40].

La tesi centrale consiste nella prefigurazione di una società nella quale, venute meno le fondazioni mitiche, religiose, o comunque idealistiche – insomma, politiche – della comunità, «[il quadro istituzionale ha] la funzione non di esercitare la sovranità – proprio perché, allo stato attuale delle cose, nulla può fondare un potere giuridico di coercizione –, ma semplicemente di assicurare la libertà; non la funzione di costringere, dunque, ma soltanto di creare uno spazio di libertà, di assicurare uno spazio di libertà, e di farlo proprio nell’ambito economico». In questo contesto, «la forma generale del mercato diventa uno strumento, un mezzo di discriminazione nel dibattito con l’amministrazione (…). Nel neoliberalismo (…) il laissez-faire viene rovesciato in un non lasciar fare il governo, in nome di una legge del mercato che dovrà permettere di misurare e di valutare ciascuna delle sue attività. [I]l mercato smette di essere un principio di autolimitazione del governo, per diventare un principio che si ritorce contro di esso. Diventa una sorta di tribunale economico permanente di fronte al governo. Mentre il XIX secolo aveva cercato di stabilire, di fronte e in contrapposizione alla dismisura dell’azione di governo, una sorta di giurisdizione amministrativa che doveva permettere di misurare l’azione della potenza pubblica in termini di diritto, ora invece abbiamo a che fare con una sorta di tribunale economico che pretende di misurare l’azione del governo rigorosamente in termini di economia e di mercato»[41].

La teoria, figlia dei pensatori ordoliberali e degli esponenti delle “scuole” di Vienna e Friburgo, avrebbe trovato una prima, concreta realizzazione nella Germania dell’Ovest del Secondo dopoguerra. Il governo tedesco occidentale, alla ricerca di una legittimazione costituzionale impolitica – l’unica pensabile dopo l’orrore nazista – avrebbe assunto la costruzione di un mercato efficiente e ben regolato a proprio obbiettivo legittimante: «nella Germania contemporanea [del 1979], l’economia, lo sviluppo e la crescita economica producono sovranità politica attraverso l’istituzione e il gioco istituzionale che fanno funzionare questa economia. L’economia produce legittimità per lo Stato, che ne è il garante. In altri termini (…) l’economia è creatrice di diritto pubblico»[42].

Quale la differenza con lo Stato del benessere? Questa: «il governo neoliberale non deve nemmeno correggere gli effetti distruttori del mercato sulla società. Non deve fungere, per così dire, da contrappunto o da schermo tra la società e i processi economici. Deve intervenire sulla società in quanto tale, nella sua trama e nel suo spessore. [D]eve intervenire sulla società per far sì che i meccanismi concorrenziali, in ogni istante e in ogni punto dello spessore sociale, possano svolgere il ruolo di regolatore»[43].

Ne discende il primato del “valore concorrenza”, anche sul “valore mercato”: «[l]a società regolata in base al mercato, a cui pensano i neoliberali, è una società in cui a dover costituire il principio regolatore non è lo scambio delle merci ma sono i meccanismi della concorrenza. Sono questi meccanismi che devono avere la superficie più estesa e il maggiore spessore possibile, che devono occupare inoltre il maggiore volume possibile nella società. Ciò significa che non si cerca di ottenere una società sottomessa all’effetto-merce, bensì una società sottomessa alla dinamica della concorrenza»[44]. E questa dinamica deve modellare anche i rapporti sociali non economici (sempre che siano ancora concepibili rapporti di questo genere): «si tratta (…) di costituire una trama sociale in cui le unità di base dovrebbero avere la forma dell’impresa, poiché cos’altro è la proprietà privata se non un’impresa? Che cos’è una casa singola se non un’impresa? Che cos’è la gestione delle piccole comunità di vicini se non [un’altra] forma di impresa? [Si] tratta di fare del mercato, della concorrenza, e dunque dell’impresa, quella che si potrebbe chiamare la potenza che dà forma alla società»[45].

Non occorre illustrare in quale modo e misura quelle che erano profetiche anticipazioni abbiano trovato effettiva applicazione.

Gli strumenti d’intervento economico e sociale (in ordine d’importanza, lo si sarà compreso), divisati quale reazione alla devastazione recata dalla crisi sanitaria, appaiono rispecchiare un tardo sviluppo della realizzazione di questo progetto, anzi, cercano di porlo al riparo dalle ricadute, potenzialmente distruttive, della grande disgregazione del 2020-2021, seguita a quella, non minore, del 2007. Con alcune precisazioni, la cui omissione renderebbe forse le citazioni foucaultiane che precedono scontate e ridondanti:

A) in Europa il neoliberalismo si è singolarmente affermato (e potrebbe venire ridiscusso, se questa fosse la volontà degli elettori) non già all’interno di un ordinamento conchiuso, bensì nell’articolazione (e a cavallo della cesura) istituzionale e costituzionale tra un ordinamento superiore, quello unionale, garante dell’esatta applicazione delle leggi dell’economia, del mercato e della concorrenza, e quelli inferiori, degli Stati membri, incaricati della gestione (“a saldi invariati” e “a concorrenza crescente”) della “governamentalità non economica”. Da qui la principale fonte delle tensioni alle quali è sottoposto il campo della giustizia, e della giustizia civile in particolare, dal Piano. Quest’ultimo, strumento di attuazione dell’indirizzo di governamentalità economica, investe significativamente, proprio nel dominio della giustizia, aspetti di quella “sociale” e “istituzionale” (e dunque recessiva). Nel settore della giustizia (come in altri), il congegno della “doppia sovranità”, europea e nazionale, appare al limite della rottura: il livello di governo che può finanziare i cambiamenti politici non può intervenire politicamente (ovverosia, non-economicamente) per promuoverli, sotto pena del sollevamento della questione del superamento della sovranità degli Stati membri e della comparsa dello “spettro” (evocato e temuto ad un tempo) della completa federalizzazione; d’altra parte, gli Stati membri non dispongono (più) delle risorse economiche per la realizzazione di quegli interventi puramente politici, in merito ai quali sarebbero pure (ancora) competenti. La giustizia civile, regolatrice sia dei diritti che degli affari, si trova su questa attiva, scomoda, pericolosa faglia.

B) il neoliberalismo “reale” (non solo libresco), appena nascente nel 1979, è oggi al suo epilogo o, quantomeno, si trova di fronte a una crisi esistenziale. Next Generation EU e il Piano, strumenti in qualche modo in linea con la governamentalità descritta da Foucault, si inseriscono in un tessuto sociale che continua, più di quarant’anni dopo, a mostrarsi refrattario a una piena “normalizzazione” pan-economicista. Le convulsioni globali, già dolorose in precedenza, si sono acuite con la crisi finanziaria, prima, e con la crisi sanitaria, poi. Di fronte al neoliberalismo non si trovano più, come ai tempi in cui insegnava Foucault, l’infrequentabile e moribondo comunismo sovietico e quello strano uccello, rivelatosi un dodo commoventemente indifeso, non già una fenice la cui immortalità avrebbe dovuto essere garantita dai diritti costituzionali di seconda generazione, che era lo Stato del benessere. Gli avversari dello status quo sono oggi il neo-autoritarismo, il nichilismo istituzionale della disinformazione “virale”, e quell’anarco-liberalismo “all’americana” al quale Foucault, nel suo corso, dedica poco spazio, ma che appare oggi vincente nel confronto con l’ordoliberalismo neoliberista[46], e le cui derive estreme appaiono riguardare la democrazia liberale – e lo stesso meccanismo di funzionamento del mercato – come “attrezzi” provvisori, transeunti, funzionali a una “distruzione creativa” indiscriminata, dalla quale dovrebbe emergere quello che non pare possibile qualificare altrimenti che come il “superuomo” imprenditoriale-politico (e messianico)[47];

C) il tentativo di un recupero di quello che, dunque, potrebbe definirsi ormai un vetero-neo-liberalismo, è contrastato sia dalle tendenze “crepuscolari” (se non “apocalittiche”) di cui sopra che dalla (ancora timida) riscoperta del carattere “socializzante” o “keynesiano” di molte costituzioni europee, e questa torsione indebolisce Next Generation EU e il Piano, sottraendogli il terreno costituzionale sul quale attecchire.

 

6. Che cos’è la concorrenza?

Ho scritto che la decisione di affidare il “raddrizzamento” del legno storto della giustizia civile a un programma di generica “velocizzazione”, con una qualche attenzione particolare al procedimento esecutivo, segnala come la priorità dell’azione intrapresa sia quella, nei fatti, se non negli intenti, di migliorare la “resa” di corti e tribunali – che si potrebbero ormai ri-definire “aziende locali per il servizio giustizia”, con la Suprema corte di cassazione a fare da (quanto mai oberata) “Agenzia per la legittimità” –, a beneficio, soprattutto, dei grandi “clienti” societari impegnati in contenziosi seriali con singoli e piccole e medie imprese.  

Chi riprendesse il corso foucaultiano potrebbe, peraltro, osservare che la prospettiva di un indebolimento del potere giudiziario in conseguenza dell’affermarsi del neoliberalismo è contraria alle previsioni che vi si fanno: «tra una società orientata verso la forma dell’impresa (…) e una società in cui il principale servizio pubblico è l’istituzione giudiziaria, esiste un legame privilegiato. Più moltiplicate l’impresa, più moltiplicate le imprese, più moltiplicate i centri di formazione di qualcosa come un’impresa, più forzate l’azione di governo a lasciar agire queste imprese, e più, ovviamente, moltiplicherete anche le superfici di frizione tra ciascuna di queste imprese, più moltiplicherete le occasioni di contenzioso, più moltiplicherete inoltre la necessità di un arbitrato giuridico. Società d’impresa e società giudiziaria, società orientata verso l’impresa e società inquadrata da una molteplicità di istituzioni giudiziarie, sono le due facce di uno stesso fenomeno»[48].

È qui, ritengo, che le analisi di Foucault, alla luce dell’evoluzione pluridecennale del fenomeno che prendeva in considerazione, necessitano di un aggiornamento. Nel sorriso di Monna Lisa di quella prospettiva – forse rivolto al neoliberalismo, forse no – s’intravvedeva una concezione “geometrica”, “algebrica” della chiave di volta del nuovo regime di governo, della concorrenza. Questa veniva riguardata, come lo fu il cristianesimo europeo occidentale fino alla Riforma, o il comunismo fino al termine dell’Ottocento, come un’architettura teorica saturante, come un edificio concettuale onnipervasivo, che si possono ammirare o meno, ma che devono essere indiscutibilmente riconosciuti come perfetti, coerenti, incapaci di deviazione, e che possono essere contestati solo “dall’interno”.

L’esperienza concreta ci mostra che così non è più. L’insistenza, in Next Generation EU così come nel Piano, sul fatto che, anche in una congiuntura altamente drammatica e paradigmaticamente emergenziale come quella nella quale ci troviamo gettati, il migliore aiuto – non solo all’economia in generale, ma anche ai più deboli e poveri di risorse, materiali e personali, tra noi – stia nell’intensificare la nostra fiducia, la nostra partecipazione, l’investimento delle nostre risorse e delle nostre vite nella concorrenza, sembra tradire, per la sua stessa pervasività, il superamento della “fase nascente” del neoliberalismo, dopo la quale – dissolta la “trasparenza accecante” dell’ideologia – s’inizia a sospettare che il campo del possibile, del pensabile, del “dicibile”, non sia confinato al “principio costituzionale-teologico naturale”, alla lotta per la sua purezza e a quella contro eresie e deviazionismi, ma possa abbracciare finalmente una revisione della patente di “naturalità” già conferita al principio stesso.

Ancora – si potrebbe suggerire – “l’evo concorrenziale”, nella fase in cui appare in via di superamento, per scivolare, forse, nella già paventata fase di “distruzione (sociale) creativa” radicale e indiscriminata, svela la concorrenza – ancora “principio supremo di governamentalità” – come criterio meramente “gerarchizzante”, e non più “legittimante” in senso assiologico. In altri termini: la concorrenza, quale dispositivo di governo, non discrimina più (almeno principalmente) tra competitori “migliori” e “peggiori”, ma tra chi, investito del diritto di “applicare”, “modulare”, “dichiarare”, “contrattare” il modo d’intendere e di fare rispettare la concorrenza stessa, ascende nella gerarchia sociale e costituzionale (così sottraendosi al relativo campo gravitazionale), e chi, limitandosi a “subirla”, discende (e non ha altra scelta se non competere).

Se così è, riesce meno disagevole spiegarsi la pan-economizzazione della giustizia civile.

Molto semplicemente, l’applicazione che la magistratura civile ordinaria è chiamata a fare della concorrenza è troppo triviale – troppo lontana dai veri centri del “potere concorrenziale” – perché i suoi esponenti possano accostarsi all’empireo dei mandarini dell’interpretazione e della “diffusione” del “principio fondante”, e possano perciò attendersi che le specificità “non economiche” (“improduttive”, in quanto “non concorrenziali”) della loro istituzione e del loro lavoro acquistino valore “simbolico” (in quanto inscritte nella simbologia di quel Potere che non compete, che lascia che a competere siano gli altri) e vengano trattate con un qualche riguardo. Tale privilegio spetterà al circuito dei grandi arbitrati, al “diritto mite” mercatorio, in qualche misura anche alla giustizia amministrativa, non già a quel giudice che – eccettuato il seriale “recupero crediti” da parte delle grandi aziende – è ormai relegato a rendere giustizia a chi la concorrenza non la impone, non la condiziona (neppure in piccola misura), non la modula, non l’attualizza, non la contratta, ma si limita a subirla.

Per tornare, da ultimo, alla “rettificazione dei nomi”, riprendiamo dal punto nel quale l’abbiamo interrotta la citazione del passo riportato in apertura: «[q]uesta ricerca di un adeguamento rituale fra nomi e realtà è la forse tarda traduzione del sogno confuciano di un mondo non sottoposto all’egida di un governo, foss’anche ideale, ma capace di darsi da sé equilibrio e armonia, come al tempo del mitico sovrano Shun, che si limitava a restar seduto rivolto a sud, incarnando così un non-agire di stampo prettamente taoista. V’è in Confucio una grande nostalgia dell’originario accordo della vicenda umana con il corso naturale delle cose in cui il Dao si manifestava spontaneamente, senza dover essere esplicitato in discorsi e principi»[49].

Il Dao dei nostri ultimi quarant’anni, il mito di una competizione che avrebbe “agito senza agire” (e dunque “normato senza normare”), si sta dimostrando un sovrano ormai assai indaffarato a simulare la propria immobilità e che, per chiamare le cose col loro nome, dovrebbe “rettificare” il termine “concorrenza” in “antagonismocrazia” (il governo sui partecipanti alla “lotta” concorrenziale, in quanto distinti dai soggetti “signori” della, e dunque “esentati” dalla, concorrenza), un ordinamento nel quale il magistrato civile è un ben modesto funzionario, molto più lontano dalla corte imperiale di quanto lo fosse nell’età dei diritti. 

 

 

*  Il presente contributo è stato pubblicato in anteprima su questa Rivista online, in data 28 settembre 2021 (www.questionegiustizia.it/articolo/il-pane-le-rose-la-concorrenza).

1. Il Piano, documento di 266 pagine, è consultabile all’indirizzo elettronico: www.governo.it/sites/governo.it/files/PNRR.pdf.

2. A. Cheng, Storia del pensiero cinese, Einaudi, Torino, 2000 (prima ed. francese: Seuil, Parigi, 1997), p. 69.

3. Per una scelta di metodo, il presente articolo non utilizza termini inglesi (o altri termini stranieri), a meno che non sia necessario riportare passi letterali o denominazioni che richiedano senz’altro l’utilizzo della lingua originale, e in questi casi viene fornita una traduzione in italiano. Non si vuole con questo criticare in alcun modo la scelta stilistica dei redattori del Piano, bensì rivolgersi a un lettore che, contrariamente a questi o a chi scrive, può non avere recente esperienza di un ambiente di lavoro legale-bancario-finanziario ordinariamente bilingue e del suo particolarissimo gergo, o può non gradirlo al di fuori della sede di lavoro.

4. M. Foucault, Nascita della biopolitica, Feltrinelli, Milano, 2005 (prima ed. francese: Seuil/Gallimard, Parigi, 2004).

5. Commissione europea, The EU’s 2021-2027 long-term Budget and NextGeneration EU (Il bilancio di lungo periodo dell’Unione Europea 2021-2027 e Unione Europea prossima generazione), pp. 8-9, disponibile all’indirizzo https://op.europa.eu/en/publication-detail/-/publication/d3e77637-a963-11eb-9585-01aa75ed71a1/language-en.

6. Ivi, p. 11.

7. Ivi, p. 13.

8. Loc. cit.

9. Piano, p. 4.

10. Ivi, pp. 10 e 245.

11. Le cui componenti sono: a) digitalizzazione, innovazione e sicurezza nella pubblica amministrazione; b) digitalizzazione, innovazione e competitività nel sistema produttivo; c) turismo e cultura 4.0.

12. Le cui componenti sono: a) agricoltura sostenibile ed economia circolare; b) transizione energetica e mobilità sostenibile; c) efficienza energetica e riqualificazione degli edifici; d) tutela del territorio e della risorsa idrica.

13. Le cui componenti sono: a) rete ferroviaria ad alta velocità/capacità e strade sicure; b) intermodalità e logistica integrata.

14. Le cui componenti sono: a) potenziamento dei servizi di istruzione: dall’asilo all’università; b) dalla ricerca all’impresa.

15. Le cui componenti sono: a) politiche per il lavoro; b) infrastrutture sociali, famiglie, comunità e terzo settore; c) interventi speciali per la coesione territoriale.

16. Le cui componenti sono: a) reti di prossimità, strutture e telemedicina per l’assistenza sanitaria territoriale; b) innovazione, ricerca e digitalizzazione del servizio sanitario nazionale.

17. Piano, p. 250.

18. Ivi, p. 22.

19. Ivi, p. 176.

20. Ivi, pp. 176 e 189.

21. Ivi, p. 208.

22. Ivi, pp. 224 e 228.

23. Su quest’ultimo punto, ivi, p. 51.

24. Ivi, p. 47.

25. Ivi, p. 66.

26. Ivi, p. 67.

27. Ivi, p. 69.

28. Loc. cit.

29. Ivi, p. 75.

30. Ivi, p. 52.

31. «[T]ra il 1999 e il 2019, il Pil in Italia è cresciuto in totale del 7,9 per cento. Nello stesso periodo in Germania, Francia e Spagna, l’aumento è stato rispettivamente del 30,2, del 32,4 e del 43,6 per cento».

32. Vds. https://osservatoriocpi.unicatt.it/cpi-archivio-studi-e-analisi-gli-insufficienti-passi-avanti-di-una-giustizia-civile-lumaca.

33. Piano, p. 58.

34. Loc. cit., p. 62.

35. Loc. cit., p. 55.

36. Loc. cit., p. 57.

37. Oltre che da quelli “sensazionalistici”.

38. I magistrati italiani avrebbero «un alto profilo di professionalità» e la Commissione europea ha dato atto «dei progressi compiuti negli ultimi anni» – Piano, p. 51.

39. M. Foucault, Nascita della biopolitica, op. cit., pp. 261-267.

40. G. de Lagasnerie, «Michel Foucault et le néolibéralisme (la dernière leçon)», documento audio, 1° dicembre 2012, www.franceculture.fr/emissions/la-suite-dans-les-idees/michel-foucault-et-le-neoliberalisme-la-derniere-lecon (cfr. Id., La dernière leçon de Michel Foucault. Sur le néolibéralisme, la théorie et la politique, Fayard, Parigi, 2012). 

41. M. Foucault, Nascita della biopolitica, op. cit., pp. 80 e 202.

42. Ivi, p. 81.

43. Ivi, p. 128.

44. Ivi, pp. 129-130.

45. Ivi, p. 131. 

46. R. Nozik, Anarchia, stato e utopia, Il Saggiatore, Milano, 2000 (prima ed. statunitense: Basic Books, New York, 1974).

47. In questo senso, segnalo la «sacralizzazione dei miliardari», concetto introdotto da Thomas Piketty in Capitale e ideologia, La nave di Teseo, Milano, 2020 (prima ed. francese: Seuil, Parigi, 2020), pp. 815-818.

48. M. Foucault, Nascita della biopolitica, op. cit., p. 132.

49. A. Cheng, Storia del pensiero cinese, op. cit., pp. 69-70.