Magistratura democratica

ADR e riforma del processo civile

di Maria Angela Zumpano

L’imminente riforma del processo civile conterrà anche una revisione dei mezzi di risoluzione alternativa per potenziare la loro efficienza e per incentivarne l’uso, allo scopo di realizzare un sistema di giustizia completo e versatile. L’Autrice esamina i criteri direttivi che si occupano di tali strumenti e formula alcune critiche alla disciplina della negoziazione assistita e della mediazione, pur sottolineando altri aspetti positivi della riforma, soprattutto con riguardo alle novità in tema di arbitrato.

1. Premessa / 2. Osservazioni critiche / 3. Negoziazione assistita / 4. Mediazione / 5. Arbitrato

 

1. Premessa

Conforme all’idea, sempre più largamente condivisa, che la tutela dei diritti non possa restare affidata soltanto alla giurisdizione, anche il disegno di legge delega licenziato negli ultimi giorni riserva ampio spazio ai cosiddetti ADR[1]. Si traduce così in testo normativo il progetto di offrire agli utenti un ventaglio di strumenti alternativi destinati a formare, nel loro complesso, un sistema giustizia integrato o – per usare un termine in voga – di giustizia complementare. È in questo senso che occorre leggere il titolo stesso del ddl, nella parte in cui accosta tali strumenti all’efficienza del processo civile, per farne un tassello essenziale dell’ambizioso obiettivo di “semplificazione, speditezza e razionalizzazione” del medesimo.

Se la sfida al riguardo non dev’essere più il mero abbattimento del contenzioso all’interno degli uffici giudiziari, bensì un vero e proprio ammodernamento e allineamento agli standard europei del modello italiano di processo, sembra anche congruo assegnare a quest’ultimo una funzione residuale quando la disponibilità delle situazioni sostanziali permette di scegliere vie alternative; a condizione, però, che ciascuna di tali scelte sia congegnata come opportunità da vagliare liberamente, in base alle personali esigenze da soddisfare in concreto (una sorta di abito da indossare a seconda dell’occasione) e non debba mai presentarsi né rivelarsi come un ripiego.

 

2. Osservazioni critiche

Analizzando le nuove disposizioni tramite questo criterio, pare invece che per più versi si continui a procedere nella direzione opposta. Il primo riscontro si ha dalla prescrizione[2] di estendere a numerose altre ipotesi «il ricorso obbligatorio alla mediazione, in via preventiva» e cioè come condizione di procedibilità rispetto al giudizio. L’obbligatorietà del tentativo di mediazione ha come ragion d’essere (dichiarata) quella di prospettare alle parti una differente modalità di gestione della lite, onde permettere alle stesse di testarne le potenzialità e di sperimentarne i vantaggi. Ma tutto ciò acquista senso qualora il contesto culturale e sociale sia ancora ignaro o quasi riguardo a un nuovo strumento, non dopo che sia trascorso anche quel ragionevole periodo di tempo che serve a rodarlo, in modo che chi necessita di giustizia lo possa prendere in considerazione. In Italia la mediazione civile e commerciale è operativa da oltre dieci anni, nella maggior parte dei quali ha funzionato come condizione di procedibilità per un’ampia categoria di controversie. Se in alcune di queste (condominio, locazione e diritti reali, contratti bancari e assicurativi) ci sono stati risultati discreti, per moltissime altre il regime di obbligatorietà si è semplicemente tradotto nell’inutile differimento dell’accesso al giudice. Gli stessi esiti del monitoraggio previsto dall’intervento del 2013 sulla disciplina in parola dovevano consigliare un diverso approccio: stante anche l’alto numero di mediazioni obbligatorie ex lege che si esauriscono già al primo incontro, spesso senza comparizione della parte aderente[3], ci si sarebbe aspettati un’accurata revisione delle materie implicate dal comma 1-bis dell’art. 5 d.lgs n. 28/2010, anziché questo incremento. Analoghe considerazioni valgono per la condizione di procedibilità della negoziazione assistita dagli avvocati in materia di circolazione di veicoli ex art. 3 l. n. 162/2014, della quale in un primo momento era stata prevista la soppressione proprio in virtù degli scarsi risultati prodotti[4], ma che è stata recuperata senza particolari spiegazioni nel testo approvato definitivamente. 

Un secondo riscontro proviene da quelle disposizioni che tendono a favorire il trasferimento in sede processuale dell’attività svolta in ambito stragiudiziale. Corrispondono a tale disegno la prevista possibilità di produrre in giudizio la relazione tecnica effettuata all’interno del procedimento di mediazione[5] come pure la possibilità di fare istruttoria stragiudiziale nel corso della negoziazione assistita, utilizzabile nel giudizio iniziato, riassunto o proseguito dopo la negoziazione[6]. In entrambi i casi è richiesto l’accordo delle parti, ma è facile che queste saranno consigliate in tal senso dai rispetti avvocati[7], facendo leva sull’opportunità di contrarre i costi nonché di restringere i tempi di un successivo eventuale processo. L’idea non è nuova, essendosi già palesata in alcune pronunce di merito[8] e fatta propria anche da organi rappresentativi dell’avvocatura[9]. Non è considerato, però, che con essa vengono erosi fondamentali principi come la spontaneità e la riservatezza, che dovrebbero caratterizzare l’intera gestione di questi procedimenti alternativi: gestione alla quale certamente non giova la consapevolezza di avere acconsentito allo svolgimento di atti esportabili, prima ancora di conoscerne i risultati[10]. Negoziare e mediare significa, prima di tutto, dedicare del tempo a sondare le dinamiche interne al conflitto, impegnarsi a sviscerare i bisogni effettivi celati e a testare le soluzioni che li possano soddisfare, in ottiche che vanno al di là della fissazione dei singoli fatti idonei a sostenere le pretese e difese in giudizio. Strumentalizzare simili procedure finalizzandole, sia pure indirettamente, alla semplificazione e alla celerità del processo non significa affatto rispondere in modo efficace all’esigenza di giustizia dei cittadini. Viene anzi il sospetto che, per gli ideatori di questa riforma, le procedure ADR costituiscano non soltanto degli utili deterrenti riguardo al processo, ma anche una ghiotta occasione per delocalizzarne le fasi più impegnative. Ora, pur senza entrare nel merito di un disegno del genere, va da sé che, se il tempo guadagnato dal processo è sottratto a un’attività che ontologicamente dovrebbe esser destinata ad altro, se le parti anziché dialogare schiettamente si trovano nella condizione di procurarsi argomentazioni da spendere in giudizio, per di più col timore di compiere scelte foriere di ricadute sulla futura decisione, evidentemente qualcosa non torna e non si dà un buon servizio né all’una né all’altra via di tutela. Il fatto che il giudice possa disporre la rinnovazione delle prove raccolte nella negoziazione assistita e che valuti liberamente la relazione tecnica della consulenza avvenuta in mediazione rappresenta sì un correttivo, sul quale però non conviene fare troppo affidamento fin quando continuerà a dominare la logica della semplificazione a ogni costo. 

 

3. Negoziazione assistita

Intendiamoci, semplificare non è male di per sé, tutto sta nel vedere qual è il vantaggio che si ottiene e a cosa si rinuncia. Prendiamo le nuove disposizioni in tema di negoziazione assistita. La semplificazione della procedura attuale, specialmente per ciò che riguarda la fase di avvio, è senza dubbio positiva e non ha controindicazioni[11]. La possibilità di inserire patti di trasferimento immobiliare con efficacia obbligatoria nell’accordo di separazione o divorzio negoziato con l’assistenza degli avvocati, come pure l’attribuzione ai legali della valutazione di congruità sull’assegno di mantenimento, hanno il pregio di sciogliere annose questioni e, in sostanza, confermano l’attitudine dell’accordo medesimo a sostituire il provvedimento giudiziale anche per ciò che riguarda la determinazione degli effetti economici[12]. Il discorso ci sembra più delicato quando si tratta dell’istruttoria stragiudiziale riutilizzata all’interno del processo, che se da un lato abbrevia la fase di trattazione, dall’altro riduce le garanzie difensive e il contraddittorio consegnandoli nelle mani dei difensori[13], e per quanto i principi di oralità e immediatezza tendano a diventare sempre più un simulacro, a questo punto bisogna accettare di averne sancito il colpo di grazia per via normativa; ci si augura almeno che questa pratica non divenga troppo frequente nella materia di lavoro[14], snaturando anche il rito che di tali principi doveva essere il baluardo. 

Ma c’è un altro principio che oramai sembra destinato a cedere in nome della priorità del contenimento del contenzioso: si tratta di quel principio, di chiovendiana memoria, secondo il quale chi agisce o resiste in giudizio ha diritto di essere tenuto indenne dai costi che servono per ottenere il riconoscimento delle proprie ragioni. È noto come la disciplina in tema di spese processuali sia stata oggetto di significativi interventi, a seguito dei quali il principio di soccombenza ha perduto il suo ruolo tradizionale di criterio guida nell’attribuzione dell’onus expensarum, a favore di un più articolato concetto di responsabilità per cattiva gestione o abuso del processo[15]. Tuttavia, anche dovessimo dare per assodata questa “evoluzione”, un conto sono le scorrettezze e la distorsione negli atti di causa, ossia le condotte tenute all’interno del processo, un altro sono le scelte e i comportamenti adottati in sede stragiudiziale. Fuori dal processo, la parte dovrebbe poter negoziare in piena autonomia, senza farsi distogliere dai propri intenti a motivo delle sanzioni che incombono su chi non si adegui al tracciato legislativo. Invece qui, in un contesto ove già è stabilito che il giudice può valutare il rifiuto di negoziare come motivo di responsabilità aggravata o di concessione dell’esecutività provvisoria a un decreto ingiuntivo (art. 4, comma 1, l. n. 162/2014, non inciso dalla riforma), si provvede a estendere lo stesso regime, di «conseguenze processuali», alla parte che si sottrae all’interrogatorio stragiudiziale chiesto dalla controparte allo scopo di ottenere una confessione[16]. Siamo certi che non sia invece il legislatore a distorcere gli istituti tipici del processo facendone uso fuori dall’ambito che li contempla? 

 

4. Mediazione

Bisognerebbe farsi questa domanda anche prima di accingersi a dare corpo al riordino del procedimento di mediazione, visto che per raggiungere l’obiettivo di «favorire la partecipazione personale delle parti, nonché l’effettivo confronto sulle questioni controverse» si chiedono regole che sanciscano «le conseguenze della mancata partecipazione»[17]

Finora ogni conseguenza al riguardo è coincisa con una sanzione processuale (dichiarazione di improcedibilità, valutazione ai sensi dell’art. 116, comma 2, cpc) o con un esborso commisurato al giudizio (condanna al pagamento di una somma corrispondente al contributo unificato), ovverosia con effetti disomogenei rispetto alla condotta considerata, il che a ben guardare dimostra come si tenda più a dissuadere dal processo che a incoraggiare alla mediazione. 

Ebbene, non c’è alcun dubbio che la partecipazione attiva del diretto interessato permette di realizzare al meglio gli scopi di questo strumento, dato che se costui neanche si presenta o comunque non collabora non si può avere una mediazione effettiva. Solo che la partecipazione personale è tanto più facile da ottenere quanto più la mediazione è voluta dal soggetto che deve comparire, mentre se questi è costretto è anche abbastanza probabile che cerchi di delegare. Non a caso, le situazioni che sotto questo profilo si sono rivelate più critiche sono quelle dove è prevista la condizione di procedibilità ex lege, poiché molti giudici di merito hanno ritenuto che il tentativo di mediazione svolto alla sola presenza dell’avvocato non assolvesse alla condizione. D’altro canto, in materia di diritti disponibili non sarebbe plausibile sottrarre ai privati la libertà di farsi sostituire da persone di propria fiducia, potendosi al massimo esigere che la delega sia adeguata rispetto ai poteri conferiti e rivesta la forma più idonea ad assicurarne la verifica. È pertanto condivisibile che la riforma, nel recepire quanto indicato da autorevole giurisprudenza[18], chiarisca che la rappresentanza in mediazione è ammissibile a condizione che la persona incaricata sia a conoscenza dei fatti e abbia i poteri necessari a risolvere la controversia. E rientra nelle prerogative del legislatore anche restringere ulteriormente tale facoltà, prescrivendo che le persone fisiche la possano esercitare solo in presenza di giustificati motivi[19]. I dubbi sorgono quando dall’ambito prescrittivo si passa a quello sanzionatorio. A logica, la parte che non aderisce alla mediazione o che non vi partecipa di persona senza addurre un giusto motivo dovrebbe subire conseguenze (solo) sul piano del procedimento medesimo. Se, ad esempio, la parte assente fosse tenuta a versare comunque l’indennità di mediazione e a rifondere l’altra parte per gli importi da questa versati o dovuti all’organismo, si avrebbe lo stesso effetto di deterrente senza incidere sul giudizio. Tra l’altro, il quadro sanzionatorio attuale presuppone necessariamente che un processo si faccia, perciò, se la controversia su cui è stata tentata la mediazione non viene portata davanti al giudice perché fuoriesce dai casi previsti nell’art. 5, comma 1-bis, d.lgs n. 28/2010, o per qualsiasi altra ragione, la condotta non collaborativa alla fine resta impunita benché ritenuta vietata. Conviene allora riflettere, nel momento in cui si decide di stabilire nuove sanzioni, se queste servono veramente a corroborare la mediazione o se, invece, ci si accontenta di scongiurare un processo. Altrimenti sarà difficile credere che si voglia davvero ampliare la risposta di giustizia.

Finché l’approccio normativo alla mediazione resterà permeato dall’utilizzo in chiave punitiva, finché la disciplina che le riguarda non cesserà di piegare i comportamenti e le scelte fatte in sede stragiudiziale allo scopo di intimidire le parti e di farle desistere dal rivolgersi alla giurisdizione, non si potrà veramente parlare di complementarità e coesistenza delle due vie. Ben vengano, dunque, le disposizioni che mirano a incentivare il ricorso alla mediazione incidendo sui costi[20] e, soprattutto, sulla capacità e sulla professionalità di coloro che offrono il relativo servizio[21]. Ma allora perché non si vuole compiere il passo decisivo, che è quello di mettere tale servizio nelle condizioni di piena operatività? Ci vuol poco a capire che solo una mediazione completamente staccata dai risvolti processuali permetterebbe agli utenti e agli operatori di mettersi in gioco totalmente, di sperimentare ogni pratica idonea a sviluppare ad ampio raggio le potenzialità dell’autonomia privata. E che, viceversa, il mantenimento dell’apparato sanzionatorio riduce i margini di quest’ultima relegandola a una sorta di deminuta iustitia

Proviamo a immaginare come sarebbe una mediazione depurata da interferenze con il processo. I primi vantaggi si coglierebbero già sul piano della libertà delle forme e quindi di una concreta semplificazione: non ci sarebbe bisogno di strutturare l’istanza all’organismo sulla falsariga della domanda giudiziale e nemmeno di equipararne gli effetti riguardo alla prescrizione e alla decadenza; gli incontri col mediatore non verrebbero per lo più verbalizzati, evitando così anche le discussioni sui contenuti e sulle dichiarazioni da omettere o da riportare; sparirebbe pure quel monstrum della proposta formalizzata del mediatore, ideata in termini esclusivamente aggiudicativi e deterrenti, al punto che occorre avvisare le parti delle conseguenze cui vanno incontro se la rifiutano. Per non dire, poi, dei vantaggi che ne verrebbero dall’affrancare il procedimento da tutta una serie di questioni intricate che distolgono la mediazione dal suo reale obiettivo[22]. Questo non significa che affidare il conflitto a un mediatore equivalga a dismettere la tutela dei propri interessi e ragioni, anzi, sotto questo profilo, non sembra nemmeno congruo prescrivere l’assistenza legale esclusivamente laddove «l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale»[23], dal momento che la presenza dell’avvocato all’interno della mediazione è importante, non solo perché con il suo contributo è possibile avere un accordo immediatamente esecutivo, ma anche per comprendere meglio le ragioni dell’altra parte e per valutare ogni soluzione negoziata alla luce dei possibili risvolti giuridici. 

In definitiva, per costruire quella giustizia complementare che la riforma dichiara di volere, non occorre sbarrare, sia pure velatamente, l’accesso al processo: serve molto di più rafforzare il terreno e le dimensioni della via alternativa. La mediazione funziona quando il servizio è efficiente e i mediatori sono capaci, quando gli avvocati che assistono le parti sanno distinguere le occasioni in cui l’atteggiamento avversariale non paga, e sanno calarsi in un ruolo diverso perché lo conoscono bene. Allora non si tratta (sol)tanto di “revisionare” gli strumenti alternativi; è venuto il momento di investire drasticamente sulla formazione e sulle strutture. Già istituire un insegnamento universitario specifico per mediazione e negoziazione sarebbe il primo passo, ma di certo non è sufficiente. Se la via alternativa dev’essere preferita, piuttosto che subita, bisogna portarla a un valore che sia almeno equivalente a quello dell’altra opzione. Non si può pretendere che i litiganti scelgano di praticare seriamente la negoziazione assistita o la mediazione se non trovano nei rispettivi operatori lo stesso livello di professionalità che riscontrano nel processo. Pensare che basti aumentare le ore dei corsi di formazione e di aggiornamento attuali, o che sia sufficiente introdurre un “percorso di approfondimento giuridico” per soggetti che non hanno un titolo di base specifico è pura illusione, ed è facile rendersi conto che anche questa riforma non va oltre un rifacimento di facciata quando si legge che il tutto dovrà avvenire «senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica»[24]. Parimenti, se davvero si intende valorizzare la mediazione demandata (istituto che ha maggiori potenzialità di successo rispetto alla semplice mediazione obbligatoria per legge, ed è senz’altro preferibile al tentativo di conciliazione ex art. 185-bis, cpc), sarà indispensabile che lo Stato impegni risorse adeguate in un progetto a lungo termine anziché limitarsi a sfruttare per breve tempo i finanziamenti del PNRR[25] e che, specie in quest’ambito, non si aspetti di scaricare interamente all’esterno i costi di formazione degli operatori[26]

 

5. Arbitrato

Le criticità evidenziate riguardo ai metodi alternativi a carattere negoziale ovviamente non si ritrovano in quella parte della riforma che attiene all’arbitrato. Le ragioni sono abbastanza scontate: anzitutto, la scelta di questo strumento è sempre e soltanto volontaria; la professionalità dei soggetti implicati (arbitri e camere arbitrali) è piuttosto elevata e comunque, salvo rare eccezioni, sono le stesse parti a determinare lo standard richiesto e a individuare chi lo possiede; inoltre, dato che questo ADR garantisce una soluzione della controversia, automaticamente contribuisce a ridurre il carico della giurisdizione. L’insieme di queste caratteristiche fa sì che lo Stato abbia tutto l’interesse a migliorare l’arbitrato e a favorirne concretamente l’utilizzo. 

A parte alcune previsioni in cui l’intervento si limita a precisare, risistemare o aggiornare la disciplina vigente[27], le altre disposizioni introducono delle novità positive. La più rilevante è certamente quella che legittima gli arbitri rituali ad adottare provvedimenti cautelari. Questa possibilità era già stata implicitamente annunciata con la riserva finale inserita nell’art. 818, cpc dalla riforma del 2006, che a sua volta teneva conto dell’apertura operata con l’art. 35, comma 5, d.lgs n. 5/2003 in tema di arbitrato societario. Tuttavia, in quel caso, trattandosi di classico provvedimento self-executive, non c’era stata una vera e propria inversione di rotta né si era reso necessario affrontare la questione dal punto di vista dei rapporti con l’autorità giudiziaria. 

La soluzione prevista dal comma 15, lett. c riproduce il modello maggiormente diffuso fra gli ordinamenti europei, vale a dire distingue la fase di concessione del provvedimento, presieduta dal potere dichiarativo e perciò attribuibile all’arbitro, dalla fase attuativa della misura, che in quanto richiede poteri coercitivi, deve sempre avvenire «sotto il controllo del giudice ordinario». Al potere arbitrale in fase dichiarativa non vengono messi limiti, pertanto agli arbitri dovrà essere consentito emanare provvedimenti sia anticipatori che conservativi, né sembra che sia necessario un decreto di esecutività per procedere all’attuazione. 

Sotto altri profili, vi è stata particolare prudenza; infatti il potere cautelare non viene riconosciuto in linea generale, ma solo in seguito a esplicita pattuizione nella convenzione arbitrale o in separato atto successivo; si poteva forse disporre all’inverso, prevedendo il potere medesimo e facendo salva la volontà contraria delle parti. Inoltre, anche a pattuizione avvenuta, finché non c’è stata l’accettazione degli arbitri resta ferma la competenza giurisdizionale ex art. 669-quinquies, cpc. 

L’impressione che l’antica diffidenza non sia del tutto superata trova conferma anche nella previsione di un reclamo[28] che viene affidato alla giurisdizione. Sebbene tale mezzo di controllo sia proponibile solamente per vizi processuali e per contrasto con l’ordine pubblico, il rischio di interferenze poco opportune rimane e fa sorgere qualche dubbio (si pensi ai rapporti fra il giudizio di reclamo e le valutazioni di revoca o modifica del provvedimento, che dovrebbero restare di pertinenza arbitrale). Altri nodi potranno poi essere sciolti dal legislatore delegato, ad esempio chiarendo se anche per la tutela cautelare valga la regola dell’art. 816-bis, cpc con riguardo alla facoltà delle parti, o in subordine degli arbitri, di stabilire le regole del procedimento e con quali limiti. Comunque sia, nel dotare gli arbitri di potestà cautelare la riforma compie un passo in avanti, perché accresce le opportunità di tutela degli interessati nella sede da loro prescelta e senza intaccarne la libertà di determinazione.

A completare l’opera di miglioramento di questo ADR provvede un altro gruppo di norme che intende rafforzare la terzietà degli arbitri e assicurare la trasparenza del sistema di nomina[29]. Di particolare interesse è la previsione del duty of disclosure già diffusamente adottato negli arbitrati internazionali e amministrati, nonché dai codici deontologici. Oltre a essere più moderna, la dichiarazione di indipendenza ha il pregio di responsabilizzare maggiormente sia le parti che l’arbitro e di prevenire l’insorgere di problemi relativi anche a situazioni non contemplate dalla disciplina della ricusazione. La scelta di mantenere anche quest’ultima non sembra molto felice in termini di semplificazione e razionalizzazione, tanto più quando si prevede, al contempo, di reintrodurre la clausola generale delle gravi ragioni di convenienza in aggiunta ai motivi specifici dell’art. 815, cpc. Il nuovo metodo presenta, inoltre, il vantaggio di ovviare agli angusti termini di ricusazione, divenendo possibile far valere anche successivamente la responsabilità dell’arbitro che, avendo reso la dichiarazione[30], non abbia rivelato la propria parzialità originaria o sopravvenuta; difatti in quel caso ricorre l’omissione di un atto dovuto e, coerentemente, si stabilisce che tale omissione configura un’ipotesi di decadenza, rilevante ai sensi dell’art. 813-ter, comma 1, n. 1, cpc. 

 

 

1. Più con precisione, all’interno dell’art. 1 – emendamento completamente sostitutivo del ddl n. 1662, intitolato «Delega al Governo per l’efficienza del processo civile e per la revisione degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie e misure urgenti di razionalizzazione dei procedimenti in materia di diritti delle persone e delle famiglie nonché in materia di esecuzione forzata», approvato in Senato il 21 settembre 2021 –, il comma 4 è interamente dedicato alla mediazione e alla negoziazione assistita, mentre dell’arbitrato si occupa il comma 15.

2. Contenuta nel comma 4, lett. c.

3. Per i dati, cfr. www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_14.page?selectedNode=0_10_3_2.

4. Art. 2, comma 1, lett. f delle Proposte elaborate dalla Commissione ministeriale

5. Comma 4, lett. i.

6. Comma 4, lett. s e t

7. Peraltro, dall’articolato finale è scomparsa la previsione di una maggiorazione economica del compenso per l’avvocato che ha fatto ricorso all’istruttoria stragiudiziale (cfr. ddl 1162-A, testo proposto in Commissione al 14 settembre 2021, art. 2, comma 1, lett. t, n. 5).

8. Vds., per tutte, Trib. Roma, ord. 16 luglio 2015, ove si legge che il giudice, adito con ricorso ex art. 696-bis cpc, prospetta alle parti, in alternativa, l’avvio di una procedura di mediazione poiché «anche nel caso di mancato accordo, la consulenza in mediazione ed in particolare la relazione dell’esperto elaborata e depositata in quel procedimento non è un atto privo di utilità successive, potendo essere prodotto ed utilizzato nella causa che segue alle condizioni, nei limiti e per gli effetti che la giurisprudenza ha motivatamente elaborato».

9. Così la mozione n. 30 elaborata al Congresso nazionale del CNF, Rimini, 6-8 ottobre 2016, dal gruppo congressuale “Negoziazione e altre ADR”, che proponeva di acquisire agli atti del successivo giudizio la consulenza espletata in mediazione e di prevedere «un accertamento tecnico stragiudiziale o altro ed ulteriore strumento di istruzione stragiudiziale assistita».

10. In base alle rispettive previsioni, la producibilità in giudizio della relazione dell’esperto deve essere stabilita al momento in cui questi viene nominato dal mediatore; il possibile riutilizzo dell’attività istruttoria compiuta nella negoziazione assistita va pattuito fin dalla stipula del contratto che impegna le parti a negoziare.

11. La lett. r del comma 4, cit., in realtà non specifica quali aspetti della procedura dovranno essere semplificati, ma l’eccesso di formalismo e la farraginosità della fase iniziale rappresentano certamente il suo punto più debole, tant’è che viene previsto di mettere a disposizione delle parti un modello di convenzione elaborato dal CNF. 

12. Vds. C. Irti, L’accordo di corresponsione una tantum nelle procedure stragiudiziali di separazione e divorzio: spunti di riflessione sulla gestione patrimoniale della crisi coniugale tra autonomia delle parti e controllo del giudice, in Nuove leggi civili commentate, n. 4/2017, pp. 819 ss. 

13. Senza contare le complicazioni che possono derivarne allorché si contestino abusi nell’acquisizione (comma 4, lett. t, n. 4).

14. Ora anch’essa sottoponibile alla negoziazione assistita finalizzata a raggiungere accordi soggetti al regime dell’art. 2113, comma 4, lett. q, cc.

15. Cfr. F.P. Cordopatri, Un principio in crisi: victus victori, in Riv. dir. proc., n. 1/2011, pp. 265 ss.

16. Comma 4, lett. t, n. 2.

17. Così il comma 4, lett. e.

18. Cass., sez. unite, 27 marzo 2019, n. 8473, ha difatti escluso che partecipare alla mediazione sia un atto strettamente personale in mancanza di esplicita previsione in tal senso, per concludere che la parte può delegare anche il proprio difensore purché lo munisca di una procura sostanziale speciale. 

19. Comma 4, lett. f. Altri chiarimenti opportuni si trovano nella lett. h, circa i poteri rappresentativi dell’amministratore condominiale nelle liti che riguardano il condominio e i rapporti con l’assemblea per le attività che si svolgono in mediazione: in particolare, si stabilisce che soltanto l’accordo conciliativo e la proposta del mediatore debbano essere sottoposte all’approvazione del consesso, mentre non è necessaria autorizzazione specifica per introdurre il procedimento e per prendervi parte, diversamente da ciò che avviene de iure condito in applicazione dell’art. 71-quater, disp. att. cc (cfr., da ultimo, Cass., sez VI civ., ord. 8 giugno 2020, n. 10846).

20. Comma 4, lett. a, dove si prevedono, a favore delle parti, l’introduzione del patrocinio a spese dello Stato, l’aumento dell’esenzione dall’imposta di registro sull’accordo raggiunto e i nuovi crediti di imposta per il compenso dell’avvocato e per il contributo unificato versato nel giudizio estinto a seguito dell’avvenuta conciliazione; mentre per gli organismi, oltre al credito di imposta per l’indennità non riscossa dai beneficiari del patrocinio gratuito, la stessa norma prevede una più generica riforma delle spese di avvio e delle indennità, senza dare indicazioni circa la direzione che debbano prendere tali misure – aumentarle per valorizzare adeguatamente il servizio o ridurle per renderlo ancora più accessibile? – né specificare se investiranno unitariamente organismi creati da enti pubblici e da enti privati o se verrà invece mantenuta l’attuale diversificazione.

21. Vanno in questo senso gli interventi sulla formazione dei mediatori (comma 4, lett. l), sugli obblighi dei responsabili degli organismi e degli enti formatori (lett. n), sulla qualità e sulla trasparenza degli enti abilitati a costituire organismi di mediazione (lett. m).

22. Si pensi alla necessità di chiarire il significato e la consistenza del primo incontro allo scopo di ritenere assolta la condizione di procedibilità (comma 4, lett. c), o all’esigenza di individuare quale sia la parte onerata nel caso di opposizione a decreto ingiuntivo in considerazione delle possibili ricadute sulla sorte del provvedimento (questione che, in base alla lett. d, dovrà essere sciolta in maniera esplicita dal legislatore delegato).

23. Comma 4, lett. c.

24. Così il comma 4, lett. l. Altro sintomo di scarsa sensibilità verso i reali bisogni del sistema giustizia si rileva dalla lett. a, dove viene prescritto l’aumento del contributo unificato al superamento del limite di spesa previsto, in ragione del maggior credito di imposta e del patrocinio a spese dello Stato istituito per la mediazione e la negoziazione assistita.

25. La stessa titolare del dicastero Giustizia ha precisato che il reclutamento dei collaboratori all’Ufficio per il processo, ai quali verrà affidato lo studio delle controversie e la predisposizione delle bozze dei provvedimenti, avverrà con contratti a tempo determinato poiché tutto dovrà esaurirsi nell’arco temporale che il Piano prevede.

26. Soprattutto poiché questa formazione deve essere continua e stabilmente conseguita, è impensabile che essa continui a gravare sui soli soggetti ai quali adesso si chiede di collaborare (cfr. il comma 4, lett. o, dove parla di «collaborazione necessaria» e individua come destinatari le università, gli organismi di mediazione, l’avvocatura, gli enti e le associazioni professionali e di categoria presenti sul territorio).

27. Fra gli aggiornamenti è degna di nota la previsione di una disciplina della translatio iudicii da arbitrato a giudizio ordinario e viceversa (comma 15, lett. g), resasi necessaria dopo la pronuncia di Corte cost., 19 luglio 2013, n. 223. Di minor rilievo, almeno sul piano teorico, è la riduzione da un anno a sei mesi del cd. termine lungo per impugnare il lodo per nullità (lett. e). Rappresentano, invece, mere precisazioni di effetti che già si potevano dare per acquisiti gli interventi prescritti dalla lett. d, sul potere delle parti di scegliere la legge applicabile al merito della controversia quando la decisione arbitrale è secondo diritto, e dalla lett. b, sull’esecutività del decreto con cui il lodo straniero di condanna viene reso efficace in Italia. 

28. Reclamo che, ai sensi del comma 15, lett. f, sarà esperibile anche nei confronti della pronuncia che decide sulla domanda di sospensione della delibera assembleare impugnata nell’arbitrato societario (previsione forse non necessaria, essendo contestualmente prescritta la trasposizione della disciplina di tale arbitrato all’interno del codice di procedura civile e l’abrogazione della normativa speciale).

29. Comma 15, lett. a e h

30. Qualora invece non l’abbia resa, ai sensi della lett. a, viene invalidata l’accettazione della nomina.