Magistratura democratica
Osservatorio internazionale

Trump v. Biden: il paradosso costituzionale di una poltrona per tre

di Elisabetta Grande
professore ordinario di diritto comparato, Università del Piemonte Orientale

Scenari possibili per una transizione che si preannuncia non facile, e che potrebbe presentare esiti sorprendenti

Aristotele diceva che è meglio essere governati da leggi migliori piuttosto che da uomini migliori. Le buone leggi e le buone istituzioni, si potrebbe parafrasare, sono quelle che funzionano anche se i governanti sono i peggiori fra gli esseri umani.  Mai come in questo momento la bontà delle leggi e delle istituzioni statunitensi è messa a durissima prova da un Presidente come Donald Trump, che ne ha sempre sfruttato i limiti e continua a farne esplodere le criticità a proprio vantaggio. 

Fra le norme del sistema statunitense che, per non essere delle migliori, sono strumentalizzabili a proprio favore da un “cattivo” governante ci sono certamente quelle che riguardano l’elezione del Presidente, e ciò non solo per via del farraginoso e contro maggioritario meccanismo del Collegio elettorale (come già altrove si è avuto modo di constatare https://www.questionegiustizia.it/articolo/amy-coney-barrett-nel-dilemma-democratico), ma anche a causa delle lacune contenute tanto nel dodicesimo emendamento della Costituzione, quanto nell’Electoral Count Act, emanato nel 1887, che pur avrebbe dovuto integrare il primo, eliminandone ogni incertezza e ambiguità di lettura. 

«La nostra Costituzione non assicura una pacifica transizione al potere, piuttosto la presuppone» scrive Lawrence Douglas nel suo recente libro: Will He Go? Ciò è talmente vero che nelle attuali condizioni, dopo il voto del 3 novembre scorso, non solo Donald Trump potrebbe “legalmente” ostacolare un sereno passaggio delle consegne, ma potrebbe addirittura verificarsi la surreale situazione che si arrivi al giorno dell’insediamento nella carica, il 20 gennaio 2021, con ben tre candidati per l’investitura, a nessuno dei quali il diritto conferirebbe con sicurezza il titolo di prossimo Presidente degli Stati Uniti.  La crisi costituzionale sarebbe allora conclamata con effetti difficili da prevedere. 

Nell’ordinamento statunitense il nuovo Presidente non prende immediatamente il posto del precedente, in quanto ha un periodo di “interregno” (in cui si dice sia un lame duck- un’anatra zoppa), che a partire dal 1933 -quando con il XX emendamento l’originaria data del 4 marzo è stata modificata- dura fino al 20 gennaio dell’anno successivo alla data delle elezioni, giorno che coincide con l’inaugurazione del nuovo Presidente.

Zoppo o meno che sia, il Presidente ancora in carica nel periodo dell’interregno dovrà a un certo punto fare la così detta “concession” al nuovo Presidente, ossia dovrà ammettere la propria sconfitta e deporre le armi a vantaggio dell’entrante in carica. La concessione, nelle forme di aperto riconoscimento della sconfitta come oggi la conosciamo, risale al 1896, quando il candidato democratico William Jennings Bryan alla notizia della sua disfatta, ricevuta dall’allora Presidente del Comitato Nazionale Democratico, aveva reagito inviando immediatamente all’avversario, William McKinley, un telegramma di congratulazioni. Da allora la concession non è solo una formalità, ma un dovere civico, che ha natura performativa. Non si tratta, cioè, solo di parole, ma di un atto con effetti costitutivi: «Il discorso della concession» dice lo scienziato della politica Paul E. Corcoran «non è un mero riscontro dei risultati elettorali, né una semplice ammissione della sconfitta. E’ un’approvazione con effetti costitutivi dell’autorità del nuovo Presidente».

Nessuno nella storia degli Stati Uniti ha mai negato la concession al Presidente eletto, neppure ai tempi della fine della Guerra civile quando, nel 1876, quattro Stati avevano mandato liste rivali di grandi elettori al Congresso e solo dopo un accordo nefasto, che prevedeva il ritiro dal Sud delle truppe federali inviate a tutela dei diritti dei neri appena emancipati, Samuel Tilden, democratico, a due giorni dall’Inauguration Day, aveva finalmente accettato la vittoria del repubblicano Ruthereford B. Hayes, determinando il passaggio pacifico delle consegne da Grant a Hayes. 

A seguito di quell’evento però, nel 1887, fu emanato l’Electoral Count Act, che all’interno del periodo dell’interregno scandì il percorso da seguire per giungere al momento dell’inaugurazione con il minor numero di intoppi possibile.  Da allora l’interregno, lungo -dopo il 1933- 79 giorni, ha una serie di tappe da rispettare, la cui interpretazione tuttavia -come il famoso caso Bush v. Gore insegna- non è univoca. Fra esse c’è “il primo lunedì dopo il secondo mercoledì di dicembre” -che quest’anno cade il 14 dicembre- quando i grandi elettori si incontrano nei 50 Stati e nel Distretto della Columbia per votare per il Presidente; il sesto giorno prima di quella data, la così detta safe harbour deadline, in cui gli Stati devono indicare i grandi elettori che voteranno sei giorni dopo; il terzo giorno di gennaio, in cui si insedia il nuovo Congresso; il 6 di gennaio in cui vengono contati i voti dei grandi elettori, giunti dagli Stati al Presidente del Senato, alla presenza di Camera e Senato riuniti; infine il 20 gennaio, giorno dell’inaugurazione del Presidente. 

Si tratta di momenti che nella stragrande maggioranza dei casi hanno rappresentato dei meri passaggi formali, ma che ben potrebbero prestarsi a diventare tappe di fondamentale rilevanza qualora non vi fosse la concession da parte del Presidente (teoricamente) uscente e le liti giudiziarie, i riconteggi e l’incertezza sul risultato-creata ad arte o meno- si protraessero oltre la safe harbour deadline, che quest’anno cade l’8 di dicembre. Per quella data, dice l’Electoral Count Act, devono essere terminate tutte le controversie e le liti giudiziarie e se ciò non avviene sarà il Congresso a decidere se e quali grandi elettori voteranno per il Presidente. 

Per quanto l’Electoral Count Act sembri chiaro, a quanta ambiguità interpretativa esso invece si presti è risultato evidente nel 2000 quando, nel caso Bush v. Gore, la Corte Suprema aveva – con la maggioranza di 5 giudici a 4- bloccato il riconteggio dei voti in Florida, sull’assunto che si era ormai oltre il limiti della safe harbour deadline. A quell’interpretazione la minoranza aveva opposto l’argomento che la complessa legge indicava in verità quale ultima data utile -per l’indicazione dei grandi elettori e l’invio dei loro voti- il quarto mercoledì di dicembre, ossia il 23 di quel mese. La medesima opinione è oggi espressa dai costituzionalisti più accreditati che, come Laurence Tribe, anche per quest’anno indicano la stessa data quale vero termine ultimo dato agli Stati per inviare al Congresso i risultati della votazione e il 6 di gennaio quale data per il loro spoglio di fronte a Camera e Senato.  Se, insomma, il 13 dicembre del 2000, ossia il giorno dopo la decisione della Corte Suprema, Al Gore non avesse deciso di effettuare la concession – come peraltro alcuni dei suoi sostenitori gli avevano consigliato di fare- avrebbe potuto continuare a far valere le sue ragioni di fronte a un Congresso, in cui per di più rivestiva la carica di Presidente del Senato, in quanto ancora vice Presidente. 

Nella descritta situazione di poca chiarezza normativa, la concession -quale comportamento dagli effetti concludenti - appare dunque l’unica vera garanzia per un tranquillo e ordinato passaggio di consegne da un Presidente a un altro. Che, tuttavia, Donald Trump non abbia alcuna intenzione di concedere la vittoria a Joe Biden è altrettanto sicuro, soprattutto di fronte a un risultato elettorale che, per il ridottissimo margine di scarto a favore di Biden nei battleground States, gli consente di mettere in atto strategie di lotta giuridico-politiche che potrebbero perfino rivelarsi vincenti, nonostante gli oltre 5 milioni di voti popolari in più ottenuti da Joe Biden. 

Intanto la non concessione della vittoria da parte di Trump sta permettendo a Emily W. Murphy, amministratrice del General Services Administration, di non riconoscere formalmente Joseph R. Biden Jr. come Presidente entrante, con quel che ne consegue in termini di mancato trasferimento dei poteri nelle sue mani e quindi di accesso, oltre che ai 6.6 milioni necessari per incominciare a lavorare,  anche agli uffici governativi e soprattutto ai riservatissimi documenti concernenti la sicurezza nazionale. 

Forte della sua posizione di Presidente -per quanto azzoppato- ancora in carica, Trump ha già intentato o fatto intentare una serie di cause nei diversi battleground States che, persi per una manciata di voti, proprio per questo ben si prestano ad essere terreno di scontro giudiziario e, soprattutto, mediatico, con l’obiettivo di alimentare la convinzione che le elezioni non siano state condotte con onestà e che il voto per posta, da tempo accusato da Trump di essere fonte di brogli, abbia fraudolentemente avvantaggiato Biden. 

Le liti intentate per le più varie ragioni e pendenti di fronte ai giudiziari degli Stati a ridotto o ridottissimo margine di scarto, come in Arizona (in cui lo scarto di voti è stato dello 0.3 per cento) o in Michigan (+3 per cento per Biden); i riconteggi manuali dei voti -già annunciati in Georgia (in cui lo scarto fra i contendenti è dello 0.28 per cento), o in procinto di essere richiesti come in Wisconsin  (in cui il margine di scarto è stato dello 0.6 per cento e se inferiore all’uno per cento consente la richiesta sia pur a pagamento) o in Pennsylvania (in cui è per ora superato il margine di differenza dell’0.5 per cento sotto il quale il nuovo conteggio è automatico, ma può a pagamento essere richiesto da Trump che ha perso per lo 0.8 per cento); o ancora  l’autorizzazione data da William Barr a investigare le possibili frodi nello spoglio dei voti, paiono allora costituire altrettanti modi per tenere alta la tensione il più a lungo possibile, fino al momento in cui, avvicinandosi la fatidica safe harbour deadline, i parlamenti degli Stati a maggioranza repubblicana, tanto in Senato che nella Camera dei rappresentanti, potrebbero essere convinti -nel nome della tutela della volontà dei loro cittadini, tradita dalla mancanza di risultati credibili-  a mettere in campo uno strumento desueto da ormai più di cent’anni . 

Si tratta della possibilità concessa dalla Costituzione ai parlamenti degli Stati -e ribadita dalla Corte Suprema in Bush v. Gore- di indicare direttamente i grandi elettori. La sezione 1 dell’articolo II della Costituzione, stabilisce, infatti, che «ciascuno Stato nominerà, nel modo in cui il parlamento riterrà opportuno, un numero di elettori uguale al numero dei Senatori e dei rappresentanti alla Camera a cui ha diritto nel Congresso».  Da tantissimo tempo a questa parte in tutti gli Stati dell’Unione i membri del Collegio Elettorale sono scelti tramite votazioni popolari su base nazionale, ma la particolare situazione -determinata dallo scarto assai ridotto di voti e dall’eventuale ingenerata impressione che le votazioni siano state truccate o quanto meno assai poco trasparenti- potrebbe convincere i parlamenti dei battleground States a maggioranza repubblicana a decidere di prendere in mano la situazione nominando direttamente i loro grandi elettori, che ovviamente voterebbero a favore di Trump.  

Il caso vuole che tutti gli Stati, in cui lo scarto di voti a vantaggio di Biden è ridotto o ridottissimo, siano a maggioranza parlamentare repubblicana e -salvo una decisione della Corte Suprema che dicesse che gli Stati non possono intervenire con una nomina dei grandi elettori dopo che i cittadini si sono espressi tramite votazione popolare- una designazione parlamentare dei grandi elettori loro spettanti sembrerebbe costituzionalmente legittima.  Se dunque i parlamenti di Arizona (11 grandi elettori), Michigan (16), Pennsylvania (20), Wisconsin (10) e Georgia (16), tutti quanti o anche solo una parte di essi con combinazioni variabili - quando le battaglie legali (pur non vinte e magari procrastinantesi) avessero permesso di mettere in dubbio la bontà di risultati così al margine- decidessero in tal senso, il risultato in termini di grandi elettori potrebbe facilmente ribaltarsi a favore di Trump. Salvo che in Georgia e in Arizona, i governatori di tutti quegli Stati sono però democratici, così come lo è il segretario di Stato dell’Arizona (ma non della Georgia), cosicché si potrebbe anche verificare il caso che l’8 dicembre essi certifichino come buono il voto popolare e il 14 di dicembre due gruppi di grandi elettori, su opposti fronti, votino ciascuno un diverso Presidente. Toccherebbe allora al nuovo Congresso, in riunione plenaria il 6 gennaio, dirimere la questione. Né il dodicesimo emendamento, né l’Electoral Count Act chiariscono, però, a chi spetti davvero la decisione.    

Pence, come vice Presidente ancora in carica e quindi Presidente del Senato, avrebbe nelle sue mani i certificati elettorali dei due gruppi rivali di ciascuno Stato in discussione, ma il dodicesimo emendamento dice soltanto che «il Presidente del Senato dovrà, in presenza del Senato e della House of Representatives, aprire tutti i certificati e i voti saranno contati». Ma chi conterà quei voti e quali certificati saranno considerati validi non è detto. 

Una lettura potrebbe essere che sia Pence a decidere, un’altra che il dodicesimo emendamento insieme all’Electoral Count Act impongano invece che sia il Congresso tutto a prendere quella decisione. Il Congresso tuttavia, se almeno uno dei due Senatori della Georgia che saranno eletti il 5 gennaio risulterà repubblicano- apparirà politicamente diviso fra Camera e Senato. L’Electoral Count Act non aiuta a chiarire cosa succederebbe in un simile caso, giacché un’interpretazione di quest’ultima legge potrebbe essere nel senso che prevalga la certificazione dei governatori (o dei segretari di Stato) a meno che Camera e Senato si accordino diversamente. Ma in mancanza di accordo si tratterebbe di capire se prevarrebbero i governatori oppure se i voti di tutti gli Stati, che non avessero espresso in modo univoco la loro preferenza, dovrebbero essere esclusi. Quest’ultima interpretazione troverebbe certamente il favore di Pence.

A questo punto, escluse che fossero le votazioni dei grandi elettori su cui non c’è accordo, poiché nessuno dei due candidati avrebbe raggiunto la maggioranza dei voti dei grandi elettori, la palla passerebbe per Costituzione alla House of Representatives, che con un voto per Stato dovrebbe decidere a maggioranza[1]. Siccome gli Stati repubblicani sono nella Camera più numerosi, seppur di pochissimo, rispetto a quelli democratici, la vittoria spetterebbe a Trump.

L’ultimo colpo di scena potrebbe però essere rappresentato dall’allontanamento - al momento del voto -dalla House of Representatives (dove si svolge la seduta) di tutti i Senatori da parte di Nancy Pelosi, che ne avrebbe il potere in quanto speaker della Camera.  Determinando uno stallo della situazione a tempo indefinito, la Pelosi diventerebbe la terza possibile candidata Presidente per il giorno dell’inaugurazione. La Costituzione stabilisce infatti con chiarezza che la conta dei voti debba necessariamente avvenire in presenza anche del Senato e che il 20 gennaio, a mezzogiorno, il Presidente in carica termina indiscutibilmente il proprio mandato. In mancanza per allora di un Presidente eletto, la Pelosi, quale più alta carica dello Stato, sarebbe per legge Presidente. 

Nel frattempo Pence potrebbe, tuttavia, riconvenire in un altro luogo il Senato e i Representatives repubblicani potrebbero introdurvisi, completando così le procedure per nominare Trump Presidente.

A questo punto ben tre persone avrebbero titolo per chiedere di entrare nell’ufficio ovale, uno dei quali però –Donald Trump- con il potere ancora nelle sue mani, se per allora non avesse ancora permesso la transition. La Corte Suprema potrebbe in tale eventualità rappresentare l’unica e ultima istanza capace di risolvere un tale incredibile dilemma.

Una tempesta perfetta, insomma, nella quale se non si entra, o se se ne esce, non è certo per merito delle istituzioni o delle leggi, che tutto sono fuorché le migliori. Non resta allora che sperare che gli uomini non siano proprio i peggiori. 

 
[1] Dice il dodicesimo emendamento: «The person having the greatest number of votes for President, shall be the President, if such number be a majority of the whole number of Electors appointed; and if no person have such majority, then from the persons having the highest numbers not exceeding three on the list of those voted for as President, the House of Representatives shall choose immediately, by ballot, the President. But in choosing the President, the votes shall be taken by states, the representation from each state having one vote».

17/11/2020
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