Magistratura democratica
Osservatorio internazionale

Amy Coney Barrett nel dilemma democratico

di Elisabetta Grande
professore ordinario di diritto comparato, Università del Piemonte Orientale

Amy Coney Barrett in Corte: crollo di legittimazione per la Supreme Court Of The United States o un nuovo Earl Warren?

1. La fragile legittimazione della SCOTUS quale giudice delle leggi

Amy Coney Barrett, 48 anni[1], nominata da Trump quale giudice della Corte Suprema statunitense in sostituzione di Ruth Bader Ginzburg, ha -in tempi straordinariamente rapidi- da poco ottenuto la conferma del Senato, con 52 voti a favore e 48 contrari.

Forse mai come in questo momento è attualissima negli Stati Uniti la spinosa questione che, nel 1962, un professore della Yale Law School -Alexander Bickel-  aveva chiamato la “counter-majoritarian difficulty[2]. Da quando, nel lontano 1803, con il famoso caso Marbury v. Madison, la Corte Suprema degli Usa -grazie al genio del suo Chief Justice John Marshall - si è affermata quale garante della costituzionalità delle leggi (e poi anche degli atti dell’esecutivo) diventando un terzo potere effettivo, si è posto -implicitamente o esplicitamente- il tema della legittimazione democratica del suo operato. In forza di quale principio nove giudici, nominati in via indiretta, invalidano le leggi emanate dai tanti, eletti invece in via diretta, che rappresentano il volere della maggioranza dei cittadini?  

Al cuore della questione sta il tema della considerazione di quei nove giudici come politici o piuttosto come tecnici.  Nominati dal Presidente con l’advice e il consent del Senato, essi -così come tutti i giudici federali- sono infatti l’ovvia espressione di una scelta politica, che tuttavia viene oscurata da un contorno simbolico di modi e forme, ma anche da tecniche e da equilibri decisionali, che accreditano invece un’immagine di quei giudici come puri tecnici. In quanto tali essi si spoglierebbero da subito di ogni “vizio” politico di origine e, come mera “bocca” della Costituzione, come puri tecnici per l’appunto, interpreterebbero la volontà dei costituenti, ossia del popolo tutto nella sua più alta espressione di democrazia.

A conferma della loro veste di tecnici del diritto essi hanno il divieto di esprimere pubblicamente la propria opinione politica. D’altronde, se -proprio perché espressione di una visione che va al di là dell’estrazione politica dei suoi giudici- le sentenze più autorevoli della Corte sono sempre state quelle prese all’unanimità, fra di esse alcune si sono addirittura caratterizzate per essere state davvero rivoluzionarie. Un esempio è Brown v. Board of Education, con la quale com’è noto sono state dichiarate incostituzionali le c.d. Jim Crow Laws, ossia quelle leggi che nel sud del paese segregavano i neri. Per evitare di apparire “politicamente orientata” e troppo invadente rispetto ai legislatori, quella stessa Corte ha poi aspettato più di 10 anni prima di dichiarare incostituzionali (con Loving v. Virginia del 1967) le leggi che punivano i matrimoni c.d. “interraziali”.  Né si smette di ricordare come Earl Warren, già governatore repubblicano della California, nominato Chief Justice della SCOTUS da Eisenhower, abbia a sorpresa (soprattutto per il Presidente che lo aveva nominato) dato vita alle decisioni più progressiste della storia statunitense, fra cui proprio Brown e Loving, ma non solo.

L’eccezione, per quanto importante, non è tuttavia la regola e il self-restraint rispetto al proprio “vizio” politico di origine non è certamente pratica costante.  

Le recenti audizioni di fronte alla commissione giudiziaria del Senato per la conferma come giudice di Amy Coney Barrett, nominata il 26 agosto da Donald Trump a ridosso di un’elezione presidenziale che appare foriera di possibili serissimi conflitti, testimoniano la forte tensione fra la veste politica e la veste tecnica dei componenti del supremo organo giudiziario statunitense. Le domande rivolte alla Barrett dai 22 senatori della commissione e le risposte da lei fornite hanno, da un lato, messo chiaramente in luce il desiderio dei senatori di captare la linea politica delle sue future interpretazioni della Carta Costituzionale – dando coì per scontato il ruolo inevitabilmente anche politico che i giudici della Corte rivestono. D’altro lato è la veste formalmente solo tecnica, che andrà a ricoprire, ad aver consentito alla candidata di eludere ognuna di quelle domande. Io non ho un’“agenda” (politica), ha risposto la Barrett alla senatrice Feinstein, che la incalzava per conoscere la sua posizione relativa al diritto di abortire -sancito nel 1973 con Roe v. Wade dalla Corte in cui siederà. La mia “agenda”, Amy Coney ha avuto facile gioco ad affermare, “è di applicare il diritto, ossia di seguire la rule of law”. Poco dopo, d’altronde, il senatore democratico del Vermont Patrick Leahy le chiedeva: “sei d’accordo che nessuno è al di sopra del diritto, né il Presidente, né io e neppure tu?”, svelando così la forte preoccupazione che la sua conferma, in un momento delicatissimo sotto il profilo politico, possa rivelarsi cruciale per un’interpretazione tutt’altro che tecnica della Costituzione.  

Se dunque i giudici federali -e per quanto qui interessa i componenti della SCOTUS-  almeno in parte decidono secondo linee politiche coerenti con la scelta di campo operata da chi li nomina e li conferma, occorre capire fino in fondo in cosa consista oggi quella counter-majoritarian difficulty, denunciata sessant’anni fa da Alexander Bickel quale limite democratico di un sistema che affida alla politica la designazione degli interpreti ultimi della Carta che definisce i diritti e le libertà fondamentali di cui godono i cittadini statunitensi.

La questione della legittimazione del potere di nove giudici, politicamente scelti in via indiretta, di porre nel nulla leggi votate da chi dà voce alla maggioranza dei cittadini si combina, infatti, con un deficit maggioritario ancora più serio quando, come oggi accade, una parte consistente di loro è nominata e confermata da chi neppure rappresenta la volontà popolare.

 

2. Un’unione non solo di popoli, ma anche di Stati: il deficit democratico si ripercuote sulla SCOTUS

Nel lontano 1787, i padri costituenti decisero di fondare una Unione che non fosse solo di popoli, ma anche di Stati. A tal fine diedero vita a una camera bassa – la House of Representatives- in cui, a sugello del primo tipo di Unione, ciascuno Stato avrebbe avuto un numero di seggi proporzionale al numero dei suoi abitanti (anche se ai fini di quel conto si prescrisse che i neri schiavi – che ovviamente non votavano- valessero soltanto tre quinti di un bianco).  Il Senato, viceversa, quale camera espressione del secondo tipo di Unione -quella fra Stati cioè- si stabilì fosse composto da due senatori per ogni Stato, indipendentemente dalla numerosità della corrispondente popolazione: ciò avrebbe consentito a ciascuno di avere la stessa importanza e ai più piccoli, e meno numerosi, di mantenere così peso politico.

Quando poi i padri fondatori dovettero immaginare in quale modo il secondo potere, quello esecutivo, e quindi il Commander in Chief -ossia il Presidente- sarebbe stato eletto, scelsero di renderlo contemporaneamente espressione dei due tipi di Unione e prescrissero l’istituzione di un collegio elettorale in cui ciascuno Stato fosse rappresentato attraverso un numero di grandi elettori uguale al numero dei seggi che gli sarebbero spettati nel Congresso tutto.

Certamente nel 1787, quando fu scritta la Costituzione statunitense, nessuno poteva immaginare quanto imponente sarebbe stata l’espansione dell’Unione (allora limitata a 13 Stati), né quanto notevole sarebbe stata nel futuro la diversità fra Stato e Stato, in termini tanto di caratteristiche degli abitanti, quanto soprattutto di popolosità.  Il numero da allora quasi quadruplicato degli Stati dell’Unione e il notevolissimo aumento delle diversità della popolazione all’interno degli stessi -bianca, nera ispanica, asiatica, vecchia o giovane, più istruita o meno- ma soprattutto più o meno numerosa, creano oggi problemi di rappresentanza democratica quasi inesistenti nel 1787. 

La differenza demografica in termini numerici fra il Wyoming e la California -il primo con una popolazione di 586.107 abitanti e l’altra di 39.144.818- fa ad esempio sì che, nell’elezione al Senato, il voto di un cittadino del Wyoming conti circa 67 volte di più di quello di un cittadino della California (https://www.theatlantic.com/ideas/archive/2019/01/heres-how-fix-senate/579172/). D’altronde la differenza in termini di istruzione, età od origine etnica delle popolazioni dei diversi Stati dell’Unione favorisce generalmente il partito più conservatore, giacchè gli Stati più piccoli e meno popolosi, in cui il peso del voto elettorale è più forte, sono anche quelli i cui cittadini sono più vecchi, più bianchi e in maggior misura senza laurea rispetto alla media nazionale: caratteristiche, tutte queste, associate ad una predisposizione a votare il partito repubblicano[3].  Quale esempio della sproporzione “razziale” si pensi che in California -stabilmente a maggioranza democratica a partire dagli anni ’90 del secolo scorso- solo il 38 per cento della popolazione è bianca, mentre nel Wyoming -stabilmente a maggioranza repubblicana dalla fine degli anni ’70 del secolo scorso- lo è addirittura l’’86 per cento.  E’ per questo che, come osserva un giornalista del Washington Post, Philip Bump, «Il Senato statunitense è dal 2014 controllato dai Repubblicani, che cumulativamente rappresentano meno di metà del paese: si tratta dello iato fra rappresentati e rappresentanti più duraturo dell’ultimo secolo» (https://www.washingtonpost.com/politics/2020/09/21/supreme-court-fight-highlights-new-political-reality-america-under-minority-rule/). 

Per via dell’operare del meccanismo del collegio elettorale disegnato dai padri fondatori, la differenza nel peso del voto dei cittadini dei diversi Stati -e quindi la discrasia fra volontà popolare e rappresentanza- si ripercuote poi sull’elezione del Presidente della Repubblica. In questo caso il divario fra il valore del voto espresso dai cittadini dei diversi Stati è ovviamente meno drammatico, ma pur sempre importante. Per riprendere l’esempio precedente, il Wyoming esprime infatti un grande elettore ogni 193.000 abitanti, mentre la California ne esprime uno ogni 718.000.  Ciò significa che il voto del cittadino del Wyoming pesa nell’elezione del Presidente oltre tre volte quello del cittadino della California e, seppur con sfumature meno sconcertanti, il tendenziale vantaggio di cui -come si è visto- godono i conservatori nell’elezione dei senatori si riverbera anche nell’elezione presidenziale.  E’ sufficiente, insomma, che parecchi Stati più piccoli e meno popolati votino nella stessa direzione (che sovente è quella più conservatrice), perché si produca uno iato fra i voti popolari e chi risulta vincitore. Nel caso dell’elezione presidenziale, inoltre, nell’alterare la corrispondenza fra volontà popolare e risultato finale, gioca pure un sistema maggioritario secco che, su base statale e non di distretti all’interno degli Stati (salvo che in Nebraska e Maine)[4], attribuisce l’intero pacchetto dei seggi spettanti allo Stato nel collegio elettorale a chi vince anche di un solo voto la competizione state-wide. Un margine di scarto bassissimo a favore di un candidato negli Stati in cui la competizione fra i due partiti è più forte può così determinare la sua vittoria, anche se in altri Stati egli ha subito una sonora sconfitta con altissimi margini di scarto da chi in quello Stato ha vinto.  Nel 2016, per esempio, il sostanzioso margine di vittoria negli Stati di New York e della California non era servito alla Clinton per assicurarle un numero di grandi elettori sufficienti per una sua riuscita finale, al contrario di quanto accaduto a Trump che con la sua vittoria di strettissima misura in Pennsylvania, Michigan e Wisconsin (tutti Stati in cui l’elettorato è tendenzialmente più vecchio, più bianco e meno istruito della media nazionale) aveva superato i 270 seggi nel collegio. 

Per il gioco combinato dei pesi diversi assegnati ai voti dei cittadini dei vari Stati e del maggioritario secco state-wide (il winner takes all system), Trump è così divenuto presidente degli Stati Uniti pur avendo ottenuto più di tre milioni di voti popolari in meno rispetto a Hillary Clinton. Analogamente nel 2000 Al Gore, che ottenne mezzo milione di voti popolari in più rispetto a George W. Bush, risultò però sconfitto dopo aver perso la Florida (grazie a una decisione della SCOTUS, che impedì un nuovo conteggio dei voti contestati) per soli 537 voti. Si calcola oggi che, nelle elezioni 2020, per essere minimamente tranquillo di vincere il collegio elettorale, Biden abbia bisogno di 5 milioni di voti popolari in più rispetto a Trump. (https://www.msnbc.com/rachel-maddow-show/win-take-office-how-big-margin-does-joe-biden-need-n1239189).

 

3. Amy Coney Barrett in Corte: crollo di legittimazione per la SCOTUS o un nuovo Earl Warren?

Tornando dunque finalmente alla questione della counter-majoritarian difficulty e all’appena avvenuta conferma di Amy Coney Barrett quale giudice della SCOTUS, è evidente come al problema di un “vizio” politico di origine, cui faceva riferimento Bickel, se ne affianchi prepotentemente oggi un altro. Non solo i giudici federali sono scelti politicamente, con quel che ne consegue in termini di possibile interpretazione -altrettanto politica- della Carta fondamentale che disegna la mappa delle libertà dei cittadini statunitensi. Essi, così come è appena avvenuto, possono essere addirittura nominati e confermati da un Presidente e da un Senato che nemmeno rappresentano la volontà popolare. Il che significa che la visione dei diritti fondamentali fatta propria dai quei giudici non coincide con quella della maggioranza degli americani, le cui libertà essi sono, tuttavia, chiamati a proteggere.  Si tratta di un doppio vulnus alla legittimazione di una Corte, il cui eccessivo deficit democratico, nella disvelata consapevolezza di un suo ruolo inevitabilmente non solo tecnico, diviene insopportabile. 

La spada di Damocle della difficoltà anti-maggioritaria che le pende sulla testa e la conseguente preoccupazione di mantenere credibilità e legittimazione, ha nel tempo consigliato alla SCOTUS prudenza, come quando ha atteso più di dieci anni prima di decidere Loving v. Virginia dopo la rivoluzionaria pronuncia Brown v. Board of Education o come quando, con Gregg v. Georgia (nel 1976), ha restituito agli Stati, che continuavano a legiferare a favore della sua reintroduzione, la possibilità di applicare la pena di morte che con Furman v. Georgia (nel 1972) aveva precedentemente escluso. Altre volte la dimostrazione della propria autonomia rispetto al “vizio” politico di origine, e quindi il recupero di un’immagine di neutralità tecnica della Corte, è passata per l’allineamento a sorpresa di un giudice a posizioni non coerenti con la sua estrazione politica. Un recente esempio sono le ultime sentenze in tema di aborto o di dreamers, in cui John Roberts -Chief Justice conservatore nominato da George W. Bush- ha permesso alla maggioranza di assumere decisioni progressiste in contrasto con i desideri del partito repubblicano al potere (si veda sul punto: https://www.questionegiustizia.it/articolo/un-nuovo-ago-della-bilancia-i-sogni-inconfessabili-di-trump-si-scontrano-con-justice-roberts-e-la-risorta-rule-of-law).  

Fra i modi di garantire legittimazione e credibilità a una Corte, che nel 1803 si è -non senza scontri e difficoltà- auto attribuita il controllo di costituzionalità delle leggi, c’è anche sicuramente quello di seguire prassi consolidate di self-restraint di nomina e conferma dei suoi membri.  Fra queste spicca la regola aurea che richiede non si proceda a nessun nuovo insediamento di giudici laddove si sia a ridosso delle elezioni presidenziali. Il caso in cui si è andati più vicini è stato quello del Chef Justice Evans Hughes, ritiratosi a 150 giorni dalle elezioni presidenziali, nel 1916, e sostituito prima del voto di novembre di quell’anno. Con l’insediamento della Barrett in sostituzione di Ruth Bader Ginzburg, mancata un mese e mezzo prima delle elezioni 2020, Donald Trump e Mich McConnell (leader quest’ultimo della maggioranza repubblicana al Senato, che si era però a suo tempo opposto alla sostituzione da parte di Barack Obama del giudice conservatore Antonin Scalia, perché la sua morte -avvenuta 269 giorni prima delle elezioni del 2016- era stata considerata troppo vicina alla competizione elettorale) hanno invece assestato un ultimo duro colpo alla legittimazione della SCOTUS, che d’ora in poi -e per un tempo lunghissimo- vedrà una maggioranza di 6 giudici conservatori su 9, tre dei quali nominati da un Presidente e un Senato neppure rappresentativi della volontà popolare.  

Le ragioni dell’urgenza della nomina della Barrett (la cui visione dei diritti e delle libertà tutelate dalla Carta non potrebbe peraltro essere più lontana da quella fatta propria per 27 anni da Ruth Bader Ginzburg) sono d’altronde evidenti. Il rischio di un ricorso alla SCOTUS, per decidere le controversie cui con ogni probabilità daranno luogo i risultati delle imminenti elezioni, è infatti altissimo. Ma quale legittimazione per decidere avrà allora la Corte Suprema, schiacciata come non mai sotto il peso di un’anti-majoritarian difficulty a questo punto davvero non più aggirabile?  Certo la storia americana ci ha insegnato che le soprese sono spesso dietro l’angolo: così se Amy Coney Barrett dovesse mai rivelarsi un nuovo Earl Warren la Corte riconquisterebbe in un baleno la sua piena autorevolezza e il dilemma democratico potrebbe almeno momentaneamente essere accantonato.


[1] Il dato anagrafico ovviamente non mira a capire se gli anni della nuova Justice son portati bene o male, ma a mettere in evidenza la potenziale lunghissima durata della sua carica, che come si sa è a vita.

[2] A. Bickel, The Least Dangerous Branch. The Supreme Court at the Bar of Politics, Yale U. P.

[3] Uno studio sul punto è giunto alla conclusione che «i bianchi sono l’unico gruppo che risulta avvantaggiato dal sistema elettorale per il Senato» https://press.uchicago.edu/ucp/books/book/chicago/S/bo3636044.html

[4] Cosicchè ciascuno Stato acquista come tale un maggior peso politico nella elezione.

27/10/2020
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