Magistratura democratica
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Sul confine tra etica e disciplina. Note a margine del caso Sinatra

di Maria Giuliana Civinini
già Presidente del Tribunale di Pisa

1. I fatti

La Sezione Disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura, con sentenza del 21 febbraio 2023 n. 33, ha condannato Alessia Sinatra alla sanzione della censura, avendola ritenuta responsabile dell’illecito disciplinare di cui agli artt. 1 e 2, co. 1 lett d) D.Lgs. n. 109/2006, «per avere tenuto, in violazione dei doveri di correttezza ed equilibrio, un comportamento gravemente scorretto nei confronti del magistrato, dott. Giuseppe Creazzo, che aveva presentato domanda per il conferimento dell'ufficio direttivo di Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma, in quanto coinvolgeva Luca PALAMARA in una "missione" finalizzata a condizionare negativamente i componenti del Consiglio Superiore della Magistratura chiamati a esprimere la loro valutazione in sede di assemblea plenaria e rivolto a soddisfare l'avvertita necessità di ottenere in tal modo una giustizia riparativa». 

La vicenda che ha portato a tale pronuncia è nota e, come tutte le sentenze intervenute sulla stessa riconoscono, ha provocato grande clamore dentro e fuori la magistratura, per l’ampia diffusione che ha avuto sui media, sollevando preoccupazione e sconcerto nel pubblico. 

La riassumiamo. Dall’inesauribile cilindro costituito dall’hard disk del telefono cellulare di Luca Palamara saltano fuori messaggi scambiati tra lo stesso e la collega e amica Sinatra, la quale gli chiede di parlare con i membri del CSM per evitare che un «porco», «un essere immondo e schifoso» sia nominato Procuratore di Roma. Aperto un procedimento disciplinare nei confronti della Sinatra, la persona così qualificata è identificata in Giuseppe Creazzo, il quale anni prima avrebbe sessualmente molestato la donna. Viene iniziato allora un procedimento disciplinare anche nei confronti di Creazzo per l’illecito di cui all’art. 4, comma 1, lettera d), del d.lgs. n. 109 del 2006, in relazione agli artt. 61, 609-bis e 609-septies c.p., per avere compiuto atti sessuali nei confronti della dott.ssa Sinatra, per i quali non era intervenuto procedimento penale per mancanza di querela. Con sentenza 18 gennaio 2022 la Sezione Disciplinare del CSM dichiara Giuseppe Creazzo responsabile dell’illecito contestato condannandolo alla sanzione della perdita di anzianità di due mesi, decisione confermata dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione. Nel frattempo, il procedimento contro Alessia Sinatra procede con passo un po' esitante fino alla recente condanna, emessa a fronte di una richiesta del Procuratore Generale di assoluzione per scarsa rilevanza del fatto.

 

2. La sentenza

Profili problematici: l’incolpazione e i fatti costitutivi dell’illecito. Le ragioni dello sconcerto provocato dalla sentenza balzano agli occhi alla sola lettura dei titoli dei giornali, che ne danno notizia: “Molestata, ma colpevole”. Il CSM sanziona la PM Sinatra (Il Manifesto, 22.02,2023); Caso Alessia Sinatra, il ministro Roccella: "Surreale censurare la vittima di una molestia" (PalermoToday, 22.02.2023); Ribaltone al Csm, “censura” per la PM Sinatra molestata dall’ex procuratore Creazzo: “Sono sconvolta” (Il Riformista, 21.02.2023); Condannata la PM che subì molestie sessuali. Il Csm: “Si è fatta giustizia privata” (La Stampa, 21.02.2023); «Sinatra doveva denunciare»: ecco perché il Csm l’ha punita (Il Dubbio, 27.03.2023). Sembra stridere col comune buonsenso che le parole, seppur scomposte, di chi ha subito molestie sessuali da un collega e non vorrebbe vederlo cogliere gli onori di una carriera, che appare immeritata, possano condurre a una condanna disciplinare.

Torneremo in seguito sul rapporto tra etica e disciplina, che la fattispecie evoca. Per apprezzarne a pieno le implicazioni nel caso concreto, è opportuno prima illustrare alcuni profili problematici della sentenza relativi all’incolpazione, alla corrispondenza tra incolpazione e decisione, alla frammentazione dei profili fattuali che portano la motivazione a ignorare l’antefatto e a mettere sotto i riflettori le “manchevolezze” dell’incolpata.
A questa era stata contestata la violazione dell’art. 1 e dell’art. 2 co. 1 lett d) D.Lgs. n. 109/2006.

L’art. 1 contiene una previsione cornice, un richiamo ai doveri che costituiscono l’essenza etica dell’esercizio quotidiano della professione di magistrato: «Il   magistrato   esercita   le   funzioni attribuitegli con imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo e equilibrio e rispetta la dignità della persona nell'esercizio delle funzioni». Non qualunque violazione di quei doveri dà luogo a un illecito disciplinare ma solo «i comportamenti che, violando i doveri di cui all'articolo 1, arrecano ingiusto danno o indebito vantaggio ad una delle parti» (con alcune eccezioni – omissione comunicazione sull’incompatibilità, omessa astensione obbligatoria e, a seguito della l. n. 71/2022, grave violazione di legge, provvedimento abnorme – che non interessano il caso in esame).  

L’art. 2 contiene l’elenco degli illeciti disciplinari tipici commessi nell’esercizio delle funzioni e alla lett. d) vi include: «i comportamenti abitualmente o gravemente scorretti nei confronti delle parti, dei loro difensori, dei testimoni o di chiunque abbia rapporti con il magistrato nell’ambito dell’ufficio giudiziario, ovvero nei confronti di altri magistrati o di collaboratori».

Nel caso in esame il comportamento gravemente scorretto sarebbe consistito, secondo la Sezione Disciplinare, nel coinvolgere Palamara in una “missione” di condizionamento dei componenti del CSM nella nomina del Procuratore della Repubblica di Roma in danno di uno dei candidati, allo scopo meramente privato di perseguire la riparazione di un torto subito: «la ferma volontà dell'incolpata volta a condizionare negativamente i consiglieri del Consiglio Superiore della Magistratura tentando di interferire con l'attività consiliare costituisce una grave violazione del dovere di correttezza e di equilibrio che non può trovare esimente nell'esigenza affatto privata e personale dell'incolpata, non perseguita secondo le modalità di reazione previste dall'ordinamento, di ottenere una rivincita morale per essere stata vittima quattro anni prima di condotte abusanti».

E’ evidente lo scivolamento dal comportamento scorretto nei confronti di un collega (art 2 lett d) al comportamento scorretto nei confronti del CSM, «rappresentato pubblicamente quale organo orientabile al di fuori delle corrette e trasparenti dinamiche istituzionali, in base alle esigenze personali dei singoli e delle loro improprie relazioni correntizie». 

Siamo di fronte all’attribuzione di un contenuto innovativo all’art. 2 lett. d), che poggia su alcune recenti pronunce delle SU della Corte di Cassazione, in particolare la n. 34380 del 22.11.2022 e la n. 34675 del 24.11.2022; la prima afferma il principio, condiviso dalla seconda, per cui al fine di «verificare la sussistenza del ‘comportamenti abitualmente o gravemente scorretti’, ex art.2, comma 1, lettera d), del d.lgs. n. 109 del 2006, con riguardo ad interlocuzioni tra componenti del Consiglio Superiore della magistratura e magistrati aventi ad oggetto le valutazioni procedimentali per il conferimento degli incarichi direttivi e semidirettivi degli uffici giudiziari, deve ritenersi imposto ad ogni magistrato di astenersi da qualsiasi intervento volto ad esprimere discredito o disistima, ovvero all’opposto a manifestare gradimento o sostegno, nei confronti di alcuno degli aspiranti, in chiave di pressione e di concertazione di chi debba ricoprire tali cariche, ove tale intervento non rientri fra quelli contemplati dalle regole giuridiche del procedimento dettate in via esclusiva dalla legge». La pronuncia cita come proprio precedente la sentenza SU n. 22302/2021, emanata proprio nei confronti di Palamara, ma non tiene conto che nei confronti dello stesso era formulata una duplice imputazione, ex art 2, 1° co. lett d) e ex art 3, 1° co. lett e) «che sanzionano, l'una, i comportamenti abitualmente o gravemente scorretti nei confronti di altri magistrati e, l'altra, l'uso strumentale della qualità che, per la posizione del magistrato o per le modalità di realizzazione, è diretto a condizionare l'esercizio di funzioni costituzionalmente previste»; illeciti che, secondo la SC, «non sono tra loro in rapporto di specialità, poiché la condotta scorretta del magistrato, nei riguardi dei soggetti previsti dal richiamato art. 2, prescinde del tutto dall'uso strumentale della qualità ai fini del condizionamento sull'esercizio di funzioni costituzionali, mentre la spendita (anche implicita) della qualità ai predetti fini non integra di per sé una scorrettezza nei confronti di altri magistrati». La sentenza n. 34380/2022, in presenza di un’imputazione singola, inserisce all’interno dell’art 2 lett. d) il condizionamento sull’esercizio di funzioni costituzionali, sussumendolo tra «i comportamenti abitualmente o gravemente scorretti nei confronti delle parti, dei loro difensori, dei testimoni o di chiunque abbia rapporti con il magistrato nell’ambito dell’ufficio giudiziario, ovvero nei confronti di altri magistrati o di collaboratori». La creatività dell’operazione ermeneutica va poi oltre, con la sentenza n. 34675/2022, laddove si afferma che la commissione delle condotte nell’esercizio delle funzioni non è un presupposto della fattispecie. Questa destrutturazione dell’illecito tipico si pone in contrasto coi procedenti in materia, essendo sempre stato ritenuto elemento costitutivo l’esercizio delle funzioni, di cui si era data una interpretazione ampia ma sempre ancorata al lavoro giudiziario nel senso di «comportamenti che, pur se non compiuti direttamente nell'esercizio delle funzioni, sono inscindibilmente collegati a contegni precedenti o anche solo "in fieri", involgenti l'esercizio delle funzioni giudiziarie, al punto da divenire tutti parte di un "modus agendi" contrario ai doveri del magistrato» (Cass. SU n. 28653/2018 relativa a un magistrato che, dopo aver intimato ad un c.t.u. di seguirlo nel suo ufficio, al termine di un'animata discussione gli aveva detto «lei ha chiuso», espressione allusiva circa pregiudizievoli ripercussioni in relazione al mancato conferimento di incarichi professionali; Cass. SU n. 20042/2021 relativa a un Presidente di corte d'assise che, in occasione di una cena organizzata poco prima della camera di consiglio, aveva affermato che la riforma di un'eventuale sentenza di condanna avrebbe esposto anche i giudici non togati a responsabilità civile e conseguenze patrimoniali; fornendo informazioni inesatte e esprimendosi  con modalità idonee a coartare, secondo una valutazione "ex ante", la libertà di determinazione dei giudici popolari, alla luce del contesto, estraneo alla camera di consiglio, in cui si era verificata la vicenda; Cass., SU n. 27292/2009, relativa a comportamenti inerenti alle funzioni di DG presso il Ministero della Giustizia, secondo cui «il magistrato collocato fuori ruolo mantiene tutte le connotazioni tipiche del suo status e pertanto non può essere considerato, nel suo operare, come non esercitante le funzioni caratterizzanti l'appartenenza in atto all'Ordine giudiziario»).

Se la creazione in via giurisprudenziale di un nuovo illecito disciplinare è altamente problematica, alla luce della tipicità degli illeciti introdotta dalla l. n. 109/2006 e dei profili inerenti al diritto di difesa, poco comprensibile è la scelta della sentenza di ignorare lo ius superveniens, la l. 17 giugno 2022, n. 71, che con l’art. 11, comma 1 lett. c) ha introdotto all’art. 3 l. n. 109/2022 il comma 1bis), secondo cui costituisce illecito disciplinare al di fuori dell’esercizio delle funzioni «l'adoperarsi  per  condizionare  indebitamente l'esercizio delle funzioni del Consiglio superiore della magistratura, al fine di ottenere un ingiusto  vantaggio  per  sé  o  per  altri  o  di arrecare un danno ingiusto ad altri». 

L’introduzione di una nuova ipotesi tipica di illecito disciplinare conferma che nel testo previgente della legge non era previsto un illecito di comportamento scorretto consistente nell’interloquire col CSM in favore o contro un collega.

Varie a questo punto le questioni che si pongono: l’incolpare e condannare un magistrato per comportamenti che, al momento della loro commissione, non erano previsti dalla legge come illeciti disciplinari ma erano stati qualificati come tali in sentenze della Sezione Disciplinare e della Corte di Cassazione emesse dopo i fatti viola il principio di tipicità dell’illecito disciplinare in sistemi che, come il nostro, hanno adottato codici disciplinari tipici? Sono violati i principi di legalità e di non retroattività? 

Potrebbe forse rispondersi che l’illecito disciplinare, anche se nella fase delle indagini e davanti alla Sezione Disciplinare del CSM si applica il Codice di Procedura Penale, ha natura civile o amministrativa e che il complesso di principi inerenti al reato (nullum crimen sine lege, favor rei, applicazione retroattiva dell’abolitio criminis) non trova applicazione. 

Viene a supporto di detta classificazione la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che in via generale riporta le violazione dei diritti procedurali fondamentali avvenute nell’ambito di procedimenti disciplinari sotto l’art. 6, capo civile, della Convenzione ( si vedano, quali sviluppo dei principi enunciati in Vilho Eskelinen and Others V. Finland 19.04.2007  (GC): Tsanova-Gecheva v. Bulgaria, Pitkevich v. Russia; Baka v. Hungary [GC]; Denisov v. Ukraine [GC], Ramos Nunes de Carvalho v. Portugal, Oleksandr Volkov v. Ukraine); in particolare nella sentenza Ramos Nunes de Carvalho c. Portogallo [GC], in cui la ricorrente lamentava di non essere stata informata in modo dettagliato dell'accusa a suo carico, e di non aver avuto tempo per preparare la sua difesa, la CtEDU ha escluso che il procedimento riguardasse la determinazione di un’accusa penale sulla base del test Engels (classificazione interna dell’illecito, natura stessa dell’illecito, grado di severità della sanzione): gli strumenti amministrativi applicati fanno parte delle norme disciplinari applicabili ai giudici; le disposizioni di legge che autorizzano l'imposizione di sanzioni non sono rivolte al pubblico in generale, ma alla categoria specifica dei giudici; la sanzione (una multa di venti giorni) è puramente disciplinare». Quello che rileva per la Corte è che il procedimento disciplinare si basi sul venir meno da parte del ricorrente, nell'esercizio delle sue funzioni, ai suoi obblighi di «probità, lealtà, discrezione professionale e neutralità» (Moullet v. France); ma il confine tra natura civile e natura penale è poroso e la Corte ha qualificato le violazioni sotto il capo penale dell’art 6, ad es. per le procedure di “lustration” in Polonia (per lo squilibrio tra le parti, per i poteri investigativi uguali a quelli del PM dell’autorità che esercita l’azione, per la modulazione del procedimento sul modello penale,  per le conseguenze sanzionatorie – rimozione e interdizione di esercitare altre professioni legali, v. Matyjec v. Pologne) mentre l’esigenza di “fairness”, di equità e correttezza, nei procedimenti contro magistrati è sempre più sentita dalla Corte, per l’impatto che questi possono avere sulle garanzie di indipendenza e imparzialità (si veda l’evoluzione giurisprudenziale nei casi, collegati alle riforme degli ultimi anni, contro Ungheria e Polonia; inter alia, Grz ̨eda v. Poland).

La risposta alle formulate domande appare rinvenirsi nel generale principio tempus regit actum e nel generale divieto di retroattività della legge. Da questi consegue con certezza che il nuovo illecito di cui all’art. 3 comma 1 lett 1bis) l.cit. si applica solo ai fatti commessi dopo la sua entrata in vigore. Ciò trova conferma a contrario nella giurisprudenza della Sezione Disciplinare e della Corte di Cassazione che, proprio invocando i generali principi di irretroattività della legge e tempus regit actum propri dei procedimenti amministrativi, ha costantemente escluso la rilevanza dell’abolitio sia dell’illecito disciplinare che dell’illecito penale presupposto (Cass., SU n. 22407/2018; n. 15314/2010). 

Se a questo punto è certa l’inapplicabilità del nuovo illecito a fatti commessi in precedenza, deve anche escludersi la sussumibilità della condotta come descritta nell’incolpazione e nella motivazione della sentenza – con la sua stretta correlazione tra denigrazione del collega e tentato condizionamento del CSM - sub art 2, 1 comma lett. d). La creazione giurisprudenziale dell’illecito – ispirata forse all’esigenza di coprire condotte che non potevano ricadere sotto l’art. 3, 1 comma lett. i) – non costituendo naturale evoluzione di filoni giurisprudenziali già consolidati e conosciuti, era certamente inidonea a punire condotte realizzate in precedenza ed è stata evidentemente valutata dal legislatore anche inidonea a fornire idonea base legale per punire comportamenti futuri.

 

3. La sentenza. Profili problematici: la ricostruzione fattuale

La problematicità della sentenza in punto di fatto non è minore a quella in punto di diritto. 

Sconcerta l’approccio fattuale (§5 della motivazione): si premette che a seguito delle dichiarazioni di Sinatra, è stato aperto un procedimento disciplinare contro Creazzo conclusosi con la sentenza n. 12/2022 della Sezione Disciplinare confermata dalle Sezioni Unite, che lo ha «condannato alla sanzione della perdita di anzianità di mesi due, peraltro più grave di quella irrogata in questa sede alla dott.ssa Sinatra»; si afferma quindi: «Oggetto del presente giudizio disciplinare nei confronti della dott.ssa Sinatra non può che essere, pertanto, unicamente perimetrato sul disvalore della condotta posta in essere dalla dott.ssa Sinatra, alla quale si addebita di aver tenuto un comportamento gravemente scorretto nei confronti di un collega magistrato poiché volto ad interferire indebitamente nell'attività propria del Consiglio Superiore della Magistratura…». 

Come per magia, tutto quel che è successo prima, la causa del comportamento asseritamente scorretto – ricordiamolo: l’abuso sessuale di un collega anziano, prestigioso, considerato amico - scompare, diviene irrilevante. Ci si concentra sull’effetto – i messaggi a Palamara -, scollegando la condotta dai suoi motivi e dai suoi fini (pur rilevanti). L’indubbia natura di vittima (ben delineata nelle sentenze disciplinari nei confronti del molestatore) non è presa in considerazione neppure al fine di valutare, come richiesto dal PG, la sussistenza dell’esimente ex art 3 bis l.cit. La ragione di tale operazione valutativo-motivazionale sembra risiedere nel fatto che, non avendo la vittima dell’abuso sessuale proposto querela né azione civile di risarcimento del danno (sic!), nessun’altra reazione (come l’informare il CSM della condotta abusante di un certo candidato) sarebbe ammissibile o legittima. Il reato di violenza sessuale è perseguibile a querela per scelta del legislatore che lascia alla vittima la difficile decisione di tacere o affrontare il trauma secondario del processo e una non sovente aggressiva pubblicità. Valutare la mancanza di querela come un elemento di pregiudizio per la donna è argomento contenente un inammissibile elemento di disvalore e connotato da chiaro pregiudizio di genere. Ma non basta: la vivisezione della fattispecie con utilizzo dei soli elementi funzionali alla condanna si spinge fino ad affermare che, non esperendo querela né chiedendo i danni in sede civile «la dott.ssa Sinatra, nonostante il suo status di magistrata, ha dimostrato evidente e profonda sfiducia nell'istituzione giudiziaria così direttamente colpendone il prestigio e, contestualmente ledendo la sua stessa immagine di magistrata attraverso l'indebita via dell'appartenenza correntizia, ponendo in essere una condotta che rileva anche sul più generale versante deontologico»: un impasto argomentativo che usa l’etica per rafforzare e riempire di contenuti una contestazione disciplinare inconsistente.

Sembrano infatti sfuggire alcuni elementi di fondo che differenziano la fattispecie da quelle citate come precedenti e che ben avrebbero dovuto esser valutate (tanto più attentamente quanto più la contestazione si allontanava dal dettato normativo).

La dr. Sinatra non ha intavolato alcuna interlocuzione con i consiglieri del CSM, non ha discusso con gli stessi i criteri di nomina del Procuratore di Roma, non ha soppesato con gli stessi i candidati. La dr. Sinatra, a differenza dei protagonisti delle sentenze n. 34380 e 34675 della SC (due presidenti di tribunale operanti, secondo la prospettazione, come referenti di Palamara per l’individuazione dei “migliori” candidati dei rispettivi distretti), ha scambiato messaggi con Palamara quando questi non era più membro del CSM e, quand’anche uomo potente, non incarnava direttamente l’organo costituzionale. La dr. Sinatra ha chiesto a Palamara, come amico a conoscenza dell’abuso, che tanto l’ha segnata, e magistrato dotato di indubbia influenza, di informare i membri del CSM che non dovevano votare il “porco” in ragione del gravissimo comportamento da questi tenuto nei suoi confronti; lo ha avvertito che altrimenti lo farà lei personalmente. Palamara, con risposte laconiche («appunto», «assolutamente», «non mollo di un cm») l’ha assecondata ma non si è mai impegnato né risulta se e come abbia dato seguito alle richieste della collega. Siamo dunque di fronte non ad un’azione di pressione o concertazione col CSM ma a uno scambio di messaggi con un terzo con cui si chiede che una certa informazione (rilevante) sia trasmessa al CSM perché questi ne tragga le conseguenze. La differenza di comportamento rispetto ai “signori delle nomine” non potrebbe essere più abissale.

 

4. Etica e disciplina

Siamo con tutta evidenza davanti a comportamenti che non si attagliano alla fattispecie disciplinare ma che rilevano piuttosto dell’etica del magistrato. 

Si potrà discutere se l’incolpata avrebbe dovuto usare un linguaggio meno colorito, se avrebbe dovuto riferirsi al molestatore con parole più gentili che “porco”, se invece di messaggiare con Palamara avrebbe dovuto inviare una nota informativa al CSM o parlare direttamente con un consigliere che avrebbe poi riportato formalmente nei lavori del Consiglio quanto riferitogli, se l’esperienza vissuta abbia avuto un tale impatto negativo da innescare una reazione così sofferta e un po' scomposta a fronte delle possibilità di ulteriore carriera dell’uomo. 

La condotta rientra tutta nell’ambito dell’art 10 del Codice Deontologico dell’ANM, laddove si prevede che: «Il magistrato si astiene da ogni intervento che non corrisponda ad esigenze istituzionali sulle decisioni concernenti promozioni, trasferimenti, assegnazioni di sede e conferimento di incarichi. Si comporta sempre con educazione e correttezza; mantiene rapporti formali, rispettosi della diversità̀ del ruolo da ciascuno svolto; …».

Sembra opportuno a questo punto ricordare che etica e disciplina sono ambiti nettamente distinti, che tra i due possono esservi spazi di sovrapposizione ma che quel che ha rilevanza etica non necessariamente ha rilevanza disciplinare, che mai la violazione del codice etico o deontologico in sé può dar luogo a procedimenti disciplinari, che le valutazioni etiche non competono all’organo disciplinare che non dovrebbe utilizzarle neppure a sostegno dell’ipotesi accusatoria.

La Magna Carta dei giudici, adottata dal Consiglio Consultativo dei Giudici Europei (organo del Consiglio d’Europa), specifica: «18. I principi deontologici, distinti dalle regole disciplinari, devono guidare le azioni dei giudici. Devono essere elaborati dai giudici stessi ed essere inclusi nella loro formazione. 19. In ogni Stato, lo statuto o la carta fondamentale applicabile ai giudici definiscono i comportamenti scorretti che possono portare a sanzioni disciplinari sanzioni disciplinari e la procedura disciplinare» [TdA].

Il codice etico, o deontologico che dir si voglia, costituisce un abito mentale, il codice della nostra condotta quotidiana, quello che ci rende rigorosi e sobri nel nostro comportamento, quello che ha come premessa la piena consapevolezza della fisionomia costituzionale della funzione esercitata. Le sue prescrizioni sono ampie, sovente costruite come norme aperte nutrite di concetti giuridici indeterminati; possono includere in tutto o in parte comportamenti che sono puniti da norme del codice disciplinare, come avviene tra l’art. 10 Codice Deontologico dell’ANM e il nuovo art. 3, comma 1 lett 1 bis) l. n. 109/2006. Sta all’interprete, alla Sezione Disciplinare come alla Corte di Cassazione distinguere ciò che è etica e ciò che è disciplina. E ciò devono fare con grande attenzione assicurandosi di non disperdere la tipicità dell’illecito disciplinare riempiendolo di elementi deontologici, di tracciare linee chiare di demarcazione, di non limitare l’indipendenza dei magistrati.

 

5. Osservazioni conclusive, non finali e personali

La sentenza disciplinare Sinatra può essere l’occasione per una nuova riflessione sul sistema disciplinare dei magistrati. Essa è espressione di quel movimento di reazione allo scandalo “Hotel Champagne” e alla perdita di credibilità della magistratura, che ha visto nel disciplinare l’arma primaria di contrasto.

La disciplina, anche se può rispondere alla “voglia di sangue” della piazza, è strumento necessario di contrasto delle patologie individuali e di lotta all’impunità. Non è strumento per costruire e garantire la qualità della giustizia e la qualità dei giudici e dei pubblici ministeri. Queste sono il risultato di un lavoro più grande e più faticoso che non il disciplinare: un esame di ingresso selettivo; un serio controllo sulle risorse economiche e finanziarie; una formazione iniziale e continua in incessante miglioramento e pervasiva presenza nella vita del magistrato; valutazioni di professionalità non stereotipate basate su ampie fonti di conoscenza interne ed esterne; valutazioni dei dirigenti degli uffici giudiziari non stereotipate né autocelebrative ma basate su ampie e riscontrabili fonti di conoscenza tra cui una valutazione dei magistrati che la loro dirigenza hanno sperimentato; procedimenti di nomina dei dirigenti basati su dati conoscitivi confrontabili, sulle valutazioni ottenute, su criteri di selezione omogenei mettendo al bando la logica dei “due pesi e due misure”; trasparenza e non discriminazione nell’organo di autogoverno.

Mentre si deve lavorare in questa direzione (molto è stato fatto ma molto resta da fare), è necessario operare per il rafforzamento dell’etica. 

E’ giunto il momento di istituire un organo ad hoc, un Comitato Etico, indipendente ma costituito e supportato amministrativamente dal CSM, composto da magistrati e rappresentanti della società civile di specchiata moralità e competenza, con la funzione di fornire risposte ai magistrati, giovani e non, che si confrontano con dilemmi deontologici, di elaborare raccomandazioni, di preparare pubblicazioni e rapporti, di collaborare con la Scuola per elaborare curricula formativi avanzati, di favorire la discussione tra i magistrati e la diffusione di principi etici condivisi. Si tratta di un tipo di organo presente in molti ordinamenti (i pionieri ne sono stati i Canadesi) e che può dare un contributo importante in specie in tempi difficili di perdita di fiducia da parte della società.

E’ giunto il momento anche di ripensare la politica di anonimizzazione delle sentenze disciplinari della Sezione Disciplinare e della Corte di Cassazione. Se i dati di terzi possono essere resi anonimi, va ripensato il bilanciamento tra il diritto alla privacy dei magistrati colpiti da sanzioni disciplinari e il diritto alla conoscenza e alla trasparenza da parte dei magistrati e dei cittadini. Sono infatti in gioco la credibilità della magistratura e la credibilità degli organi disciplinari e, in questo momento, la tutela di questi interessi dovrebbe prevalere. Ci sarà poi il tempo per il diritto all’oblio.

08/05/2023
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