Magistratura democratica
Osservatorio internazionale

Le recenti sentenze della Corte Suprema statunitense su armi, aborto e clima: una sfida alla sua sopravvivenza?

di Elisabetta Grande
professoressa ordinaria di diritto comparato, Università del Piemonte Orientale

Un'analisi di tre recentissime e controverse pronunce della Corte Suprema statunitense, destinate ad alimentare a lungo un dibattito profondo

1. Una corte delegittimata dal suo interno

Il grido di allarme per una Corte Suprema statunitense, che con le sue decisioni di fine giugno sembra aver definitivamente gettato la maschera della neutralità politica, non potrebbe oggi risuonare più forte.  L’accusa, rivolta alla SCOTUS, di essere non un corpo tecnico, bensì politico – con quel che ne consegue in termini di perdita di legittimazione a operare il controllo di costituzionalità delle leggi (perché mai, infatti, 9 politici dovrebbero arrogarsi il potere di porre nel nulla normative votate dalla maggioranza dei rappresentanti del popolo? Si chiedeva Alexander Bickel evidenziando il cosiddetto counter majoritarian problem[1]) - non è certamente nuova (si veda: https://www.questionegiustizia.it/articolo/il-caso-dell-aborto-una-buccia-di-banana-per-la-scotus) . Già prima del mese di giugno 2022 era stata avanzata con veemenza da chi aveva osservato la sempre più marcata divisione interpretativa -secondo linee squisitamente politiche- dei suoi Justices, la maggioranza (repubblicana) dei quali confermati con numeri risicatissimi in un Senato polarizzato su basi partitiche come non mai, di cui 5 – parte dell’odierna super maggioranza di 6 “repubblicani” contro 3 “democratici” - nominati addirittura da un presidente di minoranza (Bush prima e Trump poi). La decisione della fine del 2020 dell’allora maggioranza repubblicana al Senato - con a capo Mitch McConnell - di confermare la sostituzione di Ruth Bader Ginzburg con la prescelta da Trump - Amy Coney Barrett - a poche settimane dalle elezioni presidenziali, aveva poi certamente reso più incandescente il tema della politicizzazione della SCOTUS. Pochi anni prima, nel 2016, la stessa compagine politica e lo stesso leader avevano infatti rifiutato di confermare Merrick Garland, nominato da Barack Obama a mesi di distanza dalle elezioni in sostituzione di Antonin Scalia, adducendo che in anno di votazione presidenziale non sarebbe stato corretto scegliere un giudice supremo. 

La novità che giunge a fine giugno 2022, con tre sentenze destinate a cambiare il volto della società statunitense, è che l’aperta accusa rivolta alla SCOTUS di rivestire un ruolo politico è mossa con forza addirittura dal suo interno. Nel caso Dobbs v. Jackson Women’s Health Organization del 24 giugno 2022, di fronte a un rovesciamento interpretativo del XIV emendamento da parte della super maggioranza di 6 Justices, che cancella un diritto precedentemente costituzionalmente garantito –quello all’autodeterminazione riproduttiva della donna- le parole della minoranza dissenziente sono sferzanti. «La Corte cambia idea oggi per una e una sola ragione: perché la composizione della Corte è cambiata. Il rispetto dello Stare Decisis [ossia della regola del precedente], ha spesso detto questa Corte "contribuisce all’integrità tanto effettiva quanto percepita del sistema giudiziario (judicial process)", perché assicura che le decisioni siano "fondate sul diritto piuttosto che sulla predilezione degli individui". Oggi è la predilezione degli individui che regna. La Corte si allontana dal suo dovere di applicare il diritto in modo onesto e imparziale». E ancora, e senza mezzi termini: «La maggioranza ha rovesciato Roe e Casey per una ragione soltanto: perché le ha sempre disprezzate e ora ha i voti per liberarsene. La maggioranza, perciò, sostituisce oggi il governo dei giudici (a rule by judges) a quello della legge (for the rule of law)».  Durante la discussione orale (oral arguments), Sonia Sotomayor - una delle due Justices donne progressiste dissenzienti - è stata perfino più tranchante, pronosticando la morte della SCOTUS quale Corte di diritto. «Potrà mai questa nostra istituzione sopravvivere al puzzo sparso sulla pubblica percezione da questa pronuncia, che ha dimostrato come la Costituzione e la sua lettura non sono altro che un fatto politico?», si è chiesta la Justice (https://www.supremecourt.gov/oral_arguments/argument_transcripts/2021/19-1392_4425.pdf), che pur in precedenza ha a lungo creduto nella capacità della Corte Suprema di operare un controllo di costituzionalità imparziale all’interno di un sistema democratico di checks and balances[2].  La sua sconfortata risposta: «Non vedo come ciò sia possibile», contribuisce essa stessa - com’è stato fatto notare- alla delegittimazione dell’istituzione (Peter Coy, The Politicization of the Supreme Court Is Eroding Its Legitimacy, https://www.nytimes.com/2022/06/27/opinion/dobbs-supreme-court-legitimacy.html).

E’ d’altronde il tono particolarmente insultante con cui Samuel Alito, per la maggioranza, ha bollato come «egregiously wrong» Roe v. Wade - la pronuncia con cui nel 1973 la Corte Suprema ha radicato nel substantive due process del XIV emendamento il diritto all’autonomy privacy di cui le donne statunitensi hanno goduto fino ad oggi nel decidere se portare avanti o meno una gravidanza- e come «exceptionally weak» il ragionamento sottostante - nonostante quella decisione abbia per quasi mezzo secolo costituito un precedente seguito da tutte le Corti del paese e abbia, con Planned Parethood v. Casey, superato un secondo vaglio di legittimità costituzionale da parte della SCOTUS stessa nel 1992 - a far barcollare la credibilità dell’istituzione.  Nel mettere in discussione l’autorevolezza tecnica dei loro predecessori, Justice Alito e la maggioranza repubblicana che ne ha condiviso l’opinione danno, infatti, uno schiaffo all’aspetto che, dai tempi di Marbury v. Madison (da quando, cioè, nel 1803 la Corte Suprema si è auto conferita il potere di judicial review), maggiormente legittima la SCOTUS nel suo ruolo di giudice delle leggi. 

 

2. Un precedente disastroso: Dred Scott

Quanto tutto ciò possa essere pericoloso per un sistema che da più di duecento anni fonda il suo equilibrio democratico su un meccanismo di checks and balances fra poteri, di cui uno – quello facente capo alla SCOTUS - nasce per auto attribuzione, ce lo racconta il tristemente famoso caso Dred Scott v. Sandford del 1857, che portò la Corte Taney al più basso livello reputazionale mai più raggiunto fino ad oggi.  Quella decisione- ricordata come «la più disastrosa decisione costituzionale del diciannovesimo secolo»[3] o addirittura «di sempre»[4], diede la misura di quanto la percezione collettiva di una neutralità politica sia indispensabile alla Corte Suprema per mantenere il potere di controllo di costituzionalità delle leggi.  Si trattava di decidere se Dred Scott, schiavo in Missouri, avesse o meno conquistato la libertà, avendo egli vissuto per un certo periodo di tempo in due Stati che non ammettevano la schiavitù: l’Illinois e il Wisconsin. La questione era politicamente caldissima e per questo motivo per lungo tempo le Corti di tutti i livelli avevano offerto risposte ambigue e tergiversanti al problema. In Dred Scott, sotto pressione del neo-eletto Presidente Buchanan, la SCOTUS intervenne invece pesantemente nel merito, affermando che in forza della Costituzione federale i “negro” non erano cittadini degli Stati Uniti e non lo sarebbero mai stati, ragion per cui Dred Scott non aveva facoltà di adire la Corte. Non contenta di una simile asserzione -che per di più dal punto di vista dell’argomentazione tecnico-giuridica appariva illogica, contraddittoria e infondata - la Corte pensò bene di allargare la sua giurisdizione al di là del petitum, ossia di ciò che le era stato domandato di decidere. Dichiarò, infatti, incostituzionale l’intero Missouri Plan, con il quale il Congresso aveva vietato la schiavitù nei territori a nord-ovest. L’ovvia presa di posizione politica della SCOTUS, goffamente presentata come tecnica, scatenò una reazione negativa dell’opinione pubblica senza uguali. E se da un canto quella pronuncia infiammò il conflitto civile, da cui poi uscì vittoriosa la visione opposta rispetto a quella fatta propria dalla Corte (sugellata nel 1865 dal XIII emendamento), dall’altro le costò la disobbedienza immediata dei legislatori e delle Corti Supreme degli Stati del nord, che tennero in completo non cale la sua pronuncia. La sua reputazione era, infatti, andata distrutta e prima di riuscire a riconquistarla passò parecchio tempo.  Solo attraverso un’immagine di assoluta neutralità politica della Corte, che sia percepita dall’opinione pubblica come bocca della carta costituzionale voluta dal popolo statunitense, è insomma possibile superare la counter majoritarian difficulty su cui Bickel si interrogava. In Dred Scott la Corte Suprema aveva mostrato un volto assai più politico che tecnico-giuridico e per questo aveva perso la sua legittimazione. Ciò a sua volta aveva compromesso il rispetto della sua decisione da parte degli attori istituzionali che da essa avrebbero dovuto sentirsi vincolati. Senza la spada dell’esecutivo o la borsa del legislativo, la forza della SCOTUS passa solo per la sua legittimazione tecnica: è questa la lezione che Dred Scott v. Sandford aveva impartito alla Corte Suprema, la quale per lungo tempo ha saputo farne tesoro.

 

3. Dobbs come Dred Scott?

La decisione della maggioranza repubblicana in Dobbs, cui Samuel Alito dà voce, sembra invece dimenticare quell’insegnamento e -mentre rovescia un precedente consolidato con argomentazioni insolenti nei confronti della stessa istituzione che rappresenta, poco convincenti sotto il profilo logico-giuridico[5], seguendo per di più pedissequamente l’orientamento politico di chi l’ha nominata- mostra un ulteriore tratto di similitudine con Dred Scott. Anche in Dobbs la Corte allarga la sua giurisdizione oltre il petitum, laddove la questione da decidere riguardava una legge del Mississippi che vietava l’interruzione volontaria di gravidanza oltre la 15ma settimana, in contrasto con la libertà per la donna, affermata in Roe e confermata con Casey, di abortire fino alla viability del feto, ossia fino alla 24ma settimana circa. Samuel Alito- la cui impostazione è sul punto esplicitamente sostenuta da Kavanaugh nella relativa concurring opinion, da cui però il Chief Justice Roberts si discosta - ritiene, infatti, sbagliato circoscrivere la pronuncia allo specifico caso sollevato. A differenza di Roberts, che vorrebbe limitarsi a dichiarare incostituzionale la legge del Mississippi, la maggioranza abolisce invece tout court il diritto delle donne statunitensi di abortire (perché, dice, non è menzionato nel testo della costituzione né è profondamente radicato nella storia e nella tradizione degli Stati Uniti), lasciando completa libertà agli Stati di regolare come meglio credono la questione. Diversamente «la confusione creata da Roe e Casey si prolungherebbe. E’ meglio, sia per la Corte che per il paese tutto, affrontare una volta per tutte il tema senza ulteriori ritardi», scrive Alito. Meglio insomma tagliare la testa al toro. Quella testa però non si stacca, perché la scia di incertezza che la decisione genera non riguarda solo le mille problematiche interpretative subito apertesi sul terreno statale per comprendere i nuovi perimetri delle possibili scelte delle donne, vieppiù ristretti da normative che vietano in radice l’interruzione di gravidanza, perfino in ipotesi di stupro o incesto. Anche a livello di garanzie costituzionali federali restano, infatti, aperte questioni cruciali. Potrà uno Stato obbligare per esempio un’adolescente a partorire? O imporre di portare avanti la gravidanza anche nel caso di pericolo di vita per la madre, o di grave malformazione del feto? E che succede se uno Stato decide di sanzionare penalmente anche la donna e non solo chi su di essa pratica l’aborto, o di sanzionarla se va ad abortire in uno Stato in cui l’interruzione volontaria di gravidanza è consentita? O ancora di sanzionare chi, da un diverso Stato, invia alla donna la pillola abortiva?  Né il rational basis standard, enunciato da Alito quale criterio all’uopo da applicare potrà risolvere incontrovertibilmente e alla radice simili questioni.

Quanto a lungo questa Corte, che appare oggi the most dangerous branch -in antitesi a ciò che il padre fondatore Alexander Hamilton aveva pronosticato, qualificandola come «the least dangerous branch…having neither force nor will, but merely judgment» - e che sta rivoluzionando il volto della società americana, potrà dunque ancora arrogarsi il potere di farlo? La domanda che Sonia Sotomayor si pone è tanto più puntuale se si considera che questa fine di giugno ha visto aggiungersi a Dobbs altre due pronunce, altrettanto potentemente influenti sulla vita (e sulla morte) delle persone.  Si tratta di New York State Rifle & Pistol Association v. Bruen del 23 giugno e di West Virginia v. Environmental Protection Agency del 30 dello stesso mese.

 

4. Il nuovo diritto costituzionalmente protetto di girare armati: New York State Rifle & Pistol Association v. Bruen

Nella prima delle due pronunce la stessa prospettiva originalista e testualista con cui la Corte ha letto la Costituzione in Dobbs (i diritti in essa contenuti sono solo quelli in essa espressamente enunciati o che possono essere desunti dalla tradizione giuridica del paese nel momento precedente o immediatamente successivo all’introduzione degli emendamenti) la conduce questa volta ad affermare la costituzionalizzazione del diritto dei singoli non solo di armarsi in casa propria (già avvenuta nel 2008 e nel 2010 rispettivamente con Heller e McDonald, su cui in questa rivista cfr. https://www.questionegiustizia.it/articolo/stati-uniti-le-armi-da-fuoco-le-stragi-e-un-diritto-da-far-west_12-09-2018.php), ma altresì di girare con l’arma indosso. Il medesimo approccio interpretativo originalista della law of the land conduce, dunque, nei due casi a risultati pratici opposti. Non solo la vita, anche del feto appena formatosi, viene tutelata in Dobbs, mentre con Bruen è negata quella dei tanti, nati vivi, ma morti ammazzati da chi si aggira armato, in un paese in cui vengono commesse circa due stragi armate al giorno.  Anche l’autonomia statale protetta con Dobbs, viene cancellata con Bruen, laddove nessuno Stato potrà più domandare ai propri cittadini di offrire un motivo plausibile per ottenere il porto d’arma. In Bruen, la SCOTUS era, infatti, chiamata a decidere sulla costituzionalità di una legge di New York, che stabiliva che per ottenerlo occorresse dimostrare un valida ragione (proper cause). Si trattava, come dice la Corte di una “may issuejurisdiction, ossia di uno Stato in cui l’autorità in base alla legge poteva discrezionalmente decidere di non dare il permesso di porto d’armi qualora non ritenesse giustificabile il motivo della richiesta. Se il secondo emendamento garantisce il diritto di difendersi con un’arma, ciò deve valere non solo quando il cittadino è a casa propria, ma anche quando egli o ella è fuori casa, scrive per tutta la Corte Clarence Thomas, il più conservatore fra i suoi membri.  E ancora, il diritto ad armarsi per difesa, una volta riconosciuto, non può essere un diritto di serie B: «Non esiste diritto costituzionale che un individuo può esercitare solo dopo aver dimostrato una valida ragione per farlo valere». Sta, quindi, alla pubblica autorità dimostrare che ci sono ragioni valide per limitarlo e queste non possono che ricavarsi dall’intenzione dei padri fondatori e dalla «tradizione storica della nazione». Solo attraverso una interpretazione originalista gli Stati potranno dunque, secondo la Corte, legittimamente circoscrivere un diritto altrimenti illimitato di girare armati, in una nazione in cui ci sono più armi che cittadini (compresi vecchi e bambini) e dove i morti ammazzati da un’arma si contano in decine di migliaia l’anno (https://www.gunviolencearchive.org/). E se è certamente vero che, come dice Justice Alito, non è limitando il porto di un’arma - che si può comunque legalmente acquistare e tenere a casa a propria- che si evitano le stragi come quelle recenti di Uvalde, Texas o Buffalo, New York o, da ultimo, quella dell’Indipendence Day di Chicago, è pur vero che più si è liberi di comprarle e di andare in giro con le stesse, più è inevitabile che aumenti il numero dei morti per mano armata. I tanti casi in cui improvvisati vigilantes ammazzano persone (soprattutto, ma non solo, nere) innocenti - come il giovane Treyvon Martin (https://edition.cnn.com/2013/06/05/us/trayvon-martin-shooting-fast-facts/index.html) - supponendo erroneamente di doversi difendere o di dover difendere la collettività, insegnano.  Così, mentre cresce il numero degli Stati in cui addirittura il permesso di portare l’arma non è mai richiesto (ciò soprattutto se l’arma è in bella vista), col risultato che nessun controllo preventivo viene effettuato sulla stabilità mentale o la pericolosità sociale di chi si aggira magari con un fucile d’assalto, quei pochi Stati che -come New York- consentivano ai propri cittadini di girare con un’arma addosso solo se avessero avuto una valida ragione per farlo, devono oggi cancellare le loro normative dichiarate incostituzionali. Se, insomma, è sempre costituzionalmente legittimo per uno Stato consentire a chiunque di andare in giro armato, o concedere il porto d’armi anche ai pregiudicati per reati perfino violenti -come accade in almeno venti Stati-, è invece assoggettata a forti limiti costituzionali la possibilità per uno Stato di restringere il diritto costituzionalmente protetto di portare l’arma fuori casa. E’ questo il parere di una Corte i cui membri – in particolare Clarence Thomas e Samuel Alito- da parecchi anni spingevano affinché le lobbies delle armi sollevassero un caso che permettesse loro di andare oltre Heller e McDonald. Così, mentre negli Stati Uniti il diritto di armarsi prevale oggi sul diritto di vivere, subito dopo la decisione della SCOTUS i produttori di armi hanno visto impennarsi i rispettivi titoli azionari (https://www.forbes.com/sites/sergeiklebnikov/2022/06/23/gun-stocks-surge-higher-as-supreme-court-rejects-new-yorks-concealed-carry-law/?sh=5cfbc8e4039f) e finalmente la società americana – inondata di armi, la cui regolamentazione è insufficiente o del tutto assente, e afflitta da tassi insopportabili di omicidi e suicidi a mano armata- risulta essere ciò che essi hanno sempre voluto. Le eventuali regolamentazioni che Stati, come la California o New York, tenteranno di implementare per limitare i danni, saranno soggette al vaglio di una Corte la cui ottica, restrittivamente originalista, lascia pochi dubbi in ordine a un cambiamento di passo.

 

5. West Virginia v. Environmental Protection Agency: un diritto costituzionalmente garantito di inquinare?

L’ultima decisione di giugno della SCOTUS, per quanto meno pubblicizzata dai media, rappresenta un vulnus notevole alla possibilità per le autorità amministrative di limitare con proprie regolamentazioni le attività delle corporation, laddove esse siano in contrasto con l’esigenza collettiva di mantenere pulite l’aria e l’acqua, di godere di cibi, farmaci, veicoli e in generale prodotti commerciali sicuri e di far rispettare le regole alle società finanziarie. Si trattava in questo caso di valutare la legittimità costituzionale del piano dell’EPA (Environmental Protection Agency) di imporre dei tetti all’emissione di biossido di carbonio alle centrali elettriche. Di fronte alla questione se il Clean Air Act consenta o meno all’agenzia amministrativa di emanare regolamenti per tutto il settore energetico, anche laddove si tratti di una «major political and economic question», o se ci sia bisogno in tali casi di un’autorizzazione specifica da parte del Congresso, la Corte risponde scegliendo la seconda alternativa, dichiarando che il Clean Air Act emanato dal Parlamento statunitense non è sufficientemente specifico sul punto, nonostante il testo della normativa sia tale da ricomprendere senz’altro in via generale un simile potere dell’EPA.  «In certi casi straordinari», scrive, per la solita maggioranza di 6 repubblicani, questa volta il Chief Justice Roberts «c’è bisogno di qualcosa di più una mera base testuale plausibile» per convincere la Corte che l’autorità amministrativa abbia effettivamente competenza ad emanare una regolamentazione. «L’autorità amministrativa (the agency) deve dimostrare che il Congresso ha chiaramente autorizzato il potere che rivendica (must point to clear congressional authorization for the power it claims)». Sul punto il commento di Elena Kagan, Justice della minoranza progressista, è pungente: «La Corte odierna è testualista solo quando le conviene. Quando questo metodo interpretativo frustrerebbe i suoi più ampi obiettivi, canoni particolari come la "major question doctrine" appaiono come per magia, quali vie per sconfessare il testo (as get-out-of-text-free cards)». In questo caso gli obiettivi più ampi sembrano coincidere con l’interesse da sempre manifestato da parte dei conservatori di ridurre il potere delle autorità amministrative, viste come un ostacolo per il business e i profitti delle corporation.  Già nel 1971, Lewis F. Powell Jr., che dopo pochissimo tempo sarebbe stato nominato da Nixon Justice della Corte Suprema, avvisava con un memorandum riservato la Camera di Commercio che le autorità amministrative rappresentavano un vero e proprio attacco alle libertà dell’impresa statunitense (https://lawdigitalcommons.bc.edu/cgi/viewcontent.cgi?article=1078&context=darter_materials). La sua linea di pensiero fu sostenuta da élites economicamente potenti, che finanziarono organizzazioni conservatrici come l’American Enterprise Institute o la Heritage Foundation, allo scopo di creare un’opinione pubblica sfavorevole alle agenzie di regolamentazione. Il movimento anti autorità amministrative fu poi appoggiato con forza da personaggi come i fratelli Koch, finché - al tempo della presidenza Trump - la Federalist Society si è addirittura assicurata che i giudici da lui nominati fossero allineati a quelle posizioni. 

«La Corte oggi si sostituisce al Congresso e all’autorità degli esperti quale decisore delle politiche climatiche. Non riesco ad immaginare nulla di più preoccupante», scrive ancora la Kagan, accusando una volta di più la SCOTUS di assumere un ruolo politico che non le compete. E mentre appare sempre più forte il pericolo che -come ai tempi funesti di Lochner v. New York - la nuova composizione della Corte tuteli nuovamente la libertà di impresa al pari o addirittura di più di quella individuale, aumentano le preoccupazioni che la SCOTUS decida secondo criteri squisitamente politici -che avvantaggiano solo i potenti ai danni del mondo intero- questioni di vita o di morte non solo degli americani, ma perfino del globo intero.   

 

6. Quale futuro per la SCOTUS?

Dopo le tre sentenze della fine di giugno 2022, il dubbio che la SCOTUS non sopravviva a se stessa si fa sempre più strada. Mentre i sondaggi ci dicono che la fiducia dell’opinione pubblica nella Corte Suprema, percepita vieppiù come corpo politico piuttosto che tecnico, è ai minimi storici -crollata perfino prima delle recenti decisioni al 25% rispetto al già basso 36% dell’anno precedente (https://news.gallup.com/poll/394103/confidence-supreme-court-sinks-historic-low.aspx)  -  e che Dobbs e Bruen non rispecchiano l’opinione della maggioranza o addirittura della stragrande maggioranza degli americani -il 60% di loro non approva Dobbs (https://www.washingtonpost.com/politics/2022/06/27/overturning-roe-is-unpopular-and-viewed-largely-political/)  e nientemeno che il 79% avrebbe voluto vedere salvaguardata la legge di New York dichiarata invece  incostituzionale in Bruen (https://scri.siena.edu/2022/06/16/%C2%BE-of-nyers-say-new-law) – il rischio che, come ai tempi di Dred Scott, gli attori istituzionali possano smettere di tenere in considerazione le decisioni della Corte Suprema non è irrilevante. Né le soluzioni finora immaginate per restituirle credibilità sembrano essere in grado di raggiungere lo scopo.  Un Court Packing Plan, come quello minacciato da Roosevelt nei confronti di una Corte che, da Lochner in poi, non smetteva di bocciare le legislazioni sociali a tutela dei lavoratori, adducendo la costituzionalizzazione di una libertà economica (di sfruttare) dell’imprenditore radicata in quel XIV emendamento che oggi non tutela più la libertà della donna di abortire, non avrebbe, per esempio, alcuna seria possibilità di essere emanato per mancanza di numeri in un Congresso oggi in grande stallo. Una soluzione del genere -che, tramite normativa parlamentare, aumentasse cioè il numero dei giudici supremi per modo da garantire a un Presidente e a un Senato a maggioranza democratica la possibilità di nominare nuovi membri che controbilanciassero i 6 repubblicani che dominano oggi la Corte- non restituirebbe comunque alla SCOTUS la credibilità tecnica di cui ha bisogno. Al contrario, la scelta di nuovi giudici sulla scorta dell’estrema polarizzazione partitica che ne caratterizza oggigiorno la nomina, non farebbe che accentuarne la veste politica. Neppure la ventilata possibilità, che si scontra tuttavia con la necessità di una modifica della Costituzione, di rendere a tempo la carica –oggi a vita- di giudice supremo, cambierebbe sotto questo profilo le cose. La sezione 1 dell’art. III della Costituzione, che conferisce a tutti i giudici federali il diritto di mantenere carica e stipendio «during good behaviour», assicurando loro la possibilità di spezzare il cordone ombelicale che li lega alla parte politica che li ha scelti, rappresenta infatti la garanzia che essi potranno prendere posizioni assai diverse rispetto a quelle del Presidente e dei senatori che li hanno nominati e confermati. Non soltanto perché nessuno potrà mai mandarli via, ma soprattutto perché delle decisioni prese non dovranno mai rispondere politicamente, come capiterebbe invece se l’incarico fosse conferito a tempo determinato, giacché la loro carriera successiva potrebbe risultarne compromessa. A conferma della bontà della scelta del costituente stanno i tanti casi di Justices della Corte Suprema la cui linea interpretativa della Costituzione si è discostata radicalmente o parzialmente da quella del Presidente che li aveva nominati e della sua parte politica. Si pensi a John Marshall e all’autorevolezza che gli derivò come giudice tecnico dall’aver -con Marbury v. Madison - dato una lettura alla Costituzione in contrasto con gli interessi del suo partito. Sotto questo profilo nessuno più di Earl Warren ha saputo mostrare quanto radicale possa essere la trasformazione da politico a tecnico di chi diviene membro della Corte Suprema. Provenendo dalle fila del partito repubblicano e nominato da Eisenhower, egli diede le interpretazioni più progressiste alla carta fondamentale della storia statunitense, non solo in tema di eguaglianza razziale, ma anche di giusto processo, convincendo spesso della loro bontà l’intera Corte. Anche Harry Blackmun è noto per essere stato uno dei giudici più liberal della storia della Corte, nonostante fosse stato nominato da Nixon. Si pensi d’altronde ai tanti altri casi in cui nel passato supremi giudici, pur scelti da presidenti repubblicani, hanno poi assunto posizioni liberali e progressiste, come Paul Stevens o David Souter, o si sono collocati a metà strada, a volte votando con i liberali a volte con i conservatori, come per esempio Sandra O’Connor o Anthony Kennedy. 

La storia pare dunque insegnare che la soluzione per restituire credibilità alla Corte non possa prescindere dalla Corte stessa. Sormontare il proprio “vizio” di origine, quello di essere stati nominati dal Presidente in carica con il consenso della maggioranza dei senatori; presentarsi cioè come tecnici, e non come politici, per superare la difficoltà contro maggioritaria -e giustificare così la propria autorità a porre nel nulla in via definitiva l’operato del legislatore, sia esso statale o federale- è un compito che spetta prima di tutto agli stessi Justices. Solo loro potranno riconquistare la fiducia persa, recuperando il senso dell’istituzione che paiono aver dimenticato: è questa la sfida di sopravvivenza che attende la Corte Suprema degli Stati Uniti nel prossimo futuro.


 
[1] A. Bickel, The Least Dangerous Branch. The Supreme Court at the Bar of Politics, Yale U. P., 1962.

[2] Si legga: Sonia Sotomayor, Il mio mondo amatissimo. Storia di giudice dal Bronx alla Corte Suprema, 2014, trad.it. Il Mulino, 2017.

[3] Robert H. Bork, The Tempting of America: The Political Seduction of the Law, p. 28 (The Free Press, 1990).

[4] Christopher L. Eisgruber, Dred Again: Originalism's Forgotten Past, 10 Const. Comm. 37, 41 (1993).

[5] Perfino volendo seguire l’interpretazione originalista che propone: sul punto si veda la dissenting opinion della minoranza.

12/07/2022
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