Magistratura democratica
Magistratura e società

Ricordo di Rosario Livatino

di Ottavio Sferlazza
già procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Palmi

Domenica ricorre il 35° anniversario del sacrificio di Rosario Livatino in quella scarpata della SS 640 Agrigento-Caltanissetta in cui aveva cercato un disperato tentativo di fuga. 

In quella scarpata, quel giorno, il 21 settembre 1990, quale sostituto in servizio presso la procura della Repubblica di Caltanissetta, dovetti scendere e sollevare con la mano tremante il lenzuolo che pietosamente copriva il volto di Rosario.

Nella copertina interna di uno dei libri che mi sono più cari e che custodisco nella mia libreria, Apologia di Socrate di Platone (ed. Bompiani, a cura di Giovanni Reale), è riportata una profonda riflessione del grande scrittore e filosofo Albert Camus: «Perché un pensiero cambi il mondo, bisogna che cambi prima la vita di colui che lo esprime. Che cambi in esempio»[1].

Io vorrei sottolineare solo due aspetti della statura morale di Rosario Livatino.

Il primo è la sua straordinaria coerenza, tanto nella vita privata come in quella pubblica, tra i valori e i principi nei quali credeva e che aveva esposto in alcuni rari momenti in cui aveva avuto l’opportunità di esprimere pubblicamente il suo pensiero, ed il concreto modo di interpretare sia il suo ruolo istituzionale, sia la normale quotidianità di una vita vissuta cristianamente. 

Per questo ho richiamato il pensiero di Albert Camus sulla esigenza di coerenza, perché Livatino, in quanto credibile, con il suo esempio può dare un contributo per un mondo migliore. 

Il secondo aspetto riguarda il suo modo di intendere la propria funzione che egli opportunamente indicava con l’espressione «rendere giustizia»[2] che, a mio avviso, esprime qualcosa di più alto, di più profondamente interiore che il semplice “amministrare giustizia”, che nella sua accezione un po' burocratica non è in grado di esprimere quell’intimo rapporto con Dio del magistrato credente o con il corpo sociale per il magistrato non credente. 

Questo rendere giustizia era per Rosario Livatino non solo un momento di altissimo contenuto etico ma, per un profondo credente come lui, anche «un atto di amore verso la persona giudicata» ed in questa prospettiva intrinsecamente ed autenticamente cristiana il pensiero di Rosario Livatino non può non evocare l’etica della libertà come responsabilità di Emmanuel Levinas, per il quale il volto dell’altro ci rivolge un appello al quale non possiamo sottrarci, un appello che ci chiama a prenderci cura della sua esistenza.

Ma c'è un'altra riflessione, che più di ogni altra mi ha colpito perché dà la misura della sua grandezza morale e della sua capacità di saper cogliere con la sua straordinaria sensibilità l'intima essenza del nostro lavoro e la stretta correlazione tra responsabilità, libertà ed autonomia: «il magistrato nel momento di decidere deve dismettere ogni vanità e soprattutto ogni superbia; deve avvertire tutto il peso del potere affidato alle sue mani, peso tanto più grande perché il potere è esercitato in libertà ed autonomia. E tale compito sarà tanto più lieve quanto più il magistrato avvertirà con umiltà le proprie debolezze, quanto più si rappresenterà ogni volta alla società disposto e proteso a comprendere l’uomo che ha di fronte e a giudicarlo senza atteggiamento da superuomo ma anzi con costruttiva contrizione»[3].

Questo rendere giustizia come atto di amore non significa “buonismo” e non ha impedito a Rosario di esercitare le sue funzioni con fermezza e determinazione anche nei confronti di poteri criminali forti. 

C’è infine una riflessione conclusiva che riguarda la sigla S.T.D. («Sub tutela dei»).

Confesso che quando mi sono imbattuto in quella sigla, mentre visionavo le agende di Rosario acquisite nel corso di una ispezione in punta di piedi del suo studio (non oso parlare di perquisizione perché mi sembrerebbe di profanare un tempio) ho pensato a qualcosa di esoterico ma anche ad una annotazione che, chissà, avrebbe potuto offrirmi uno spunto investigativo.

In realtà Rosario con quella frase intendeva esprimere l’esigenza di porsi sotto lo sguardo di Dio, sotto la sua luce.

Non dunque, a mio avviso, un ombrello protettivo per un lavoro difficile e rischioso ma un affidarsi, nel difficile compito di rendere giustizia, alla luce di Dio che rischiara la mente del giudicante per aiutarlo nell’ardua impresa di accertare la verità e rendere giustizia.

Qui c’è tutta l’umiltà per le proprie debolezze, la consapevolezza della propria finitezza, dei propri limiti, quella «costruttiva contrizione» che deve ispirare l’attività del giudice «proteso a comprendere l’uomo che ha di fronte»[4]

La tutela di Dio non è dunque solo un affidarsi alla sua amorevole protezione ma alla fede nella sua immensa capacità e bontà - non essendo, direbbe Cartesio, un «Dio Ingannatore» – che, pertanto, mi dà la speranza certa di conseguire la verità. 

Ecco dunque il «piccolo giudice» - dal titolo del libro della professoressa Ida Abate, di cui Rosario fu allievo al liceo classico (Il Piccolo Giudice. Fede e giustizia in Rosario Livatino, Ed. AVE) - mutuandolo dall’appellativo che Leonardo Sciascia aveva dato al protagonista di un suo romanzo, Porte Aperte, in cui narra la storia di un magistrato del periodo fascista che si rifiutò di infliggere la pena di morte. perché era contrario a tale sanzione, ad un imputato reo confesso, che aveva ucciso un gerarca fascista posto a capo dell’ufficio dal quale era stato licenziato per far posto ad un altro.

Sciascia spiegò: «Mi è venuto di chiamarlo il piccolo giudice non perché fosse notevolmente piccolo di statura ma per una impressione che di lui mi è rimasta da quando per la prima volta l’ho visto. Il dirlo piccolo mi è parso che ne misurasse la grandezza: per le cose tanto più forti di lui che aveva serenamente affrontato».

Rosario Livatino, con il suo sacrificio ha rafforzato in ciascun magistrato la ferma determinazione di raccoglierne la testimonianza e onorarne ogni giorno la memoria sia nell’esercizio delle nostre funzioni che nella vita privata.

Sono fermamente convinto che per la coerenza che ne ha contraddistinto la vita professionale e privata, costituisca un esempio per le generazioni future e che le sue idee contribuiranno a cambiare non solo la mia Sicilia ma anche il nostro Paese.

Ho diretto le indagini e sostenuto l’accusa nel giudizio di primo di grado; per questo voglio qui ricordare anche Piero Nava, il testimone che, dimostrando altissimo senso civico e coraggio, si recò subito alla Questura di Agrigento.

Lo voglio qui ricordare e ringraziare perché grazie alla sua coraggiosa testimonianza ed al riconoscimento, reiterato in sede di formale ricognizione di persona, ha consentito la condanna degli esecutori materiali, sconvolgendo in tal modo la sua privata perché costretto a vivere con altre generalità all’estero con tutta la sua famiglia. 

Ma lo voglio ringraziare, anche in questa sede, perché più volte nel corso di toccanti colloqui telefonici nel corso di commemorazioni di Rosario Livatino, alla mia domanda se trovandosi nella stessa situazione avrebbe tenuto lo stesso comportamento collaborativo, senza alcuna esitazione ha sempre risposto: certo che lo rifarei, perché non potrei guardare negli occhi i miei figli.

Per l'enorme valore pedagogico del messaggio che Piero Nava ha voluto trasmetterci ricordo sempre quelle parole ai giovani studenti delle scuole in cui vado spesso a parlare di legalità.


 
[1] A. Camus, Taccuini, II, p. 139.

[2] «Ed è proprio in questo scegliere per decidere, decidere per ordinare, che il magistrato credente può trovare il suo rapporto con Dio. Un rapporto diretto perché il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio. Un rapporto indiretto per il tramite dell’amore verso la persona giudicata». Cfr. Fede e Diritto, relazione svolta da Rosario Livatino nella sala conferenze dell’Istituto delle Suore Vocazioniste, a Canicattì il 30/4/1986.

[3] Cfr. Fede e diritto.

[4] Cfr. Fede e diritto, cit. 

22/09/2025
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