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Giurisprudenza e documenti

Reformatio in peius in appello e processo equo nella giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’Uomo da Dan c. Moldavia a Maestri ed altri c. Italia

di Daniela Cardamone
giudice del Tribunale di Milano

Nella sentenza Maestri ed altri c. Italia dell’8 luglio 2021 la Corte Europea dei diritti dell’Uomo, oltre a ribadire la necessità di procedere ad una nuova escussione dei testimoni ai fini della condanna in appello preceduta da assoluzione in primo grado, come affermato in Lorefice c. Italia del 29 giugno 2017, per la prima volta condanna l’Italia per non essere stato disposto, anche d'ufficio, l'esame degli imputati prima di procedere al ribaltamento della sentenza assolutoria di primo grado. Il testo analizza la giurisprudenza europea sul tema, cogliendo l’occasione per qualche riflessione critica sul valore del precedente nella giurisprudenza della Corte Edu.

1. La fattispecie concreta

Con la sentenza Maestri ed altri c. Italia (8 luglio 2021, ricorso n. 20903/15) la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha riconosciuto la violazione dell’art. 6 par. 1 della Convenzione in quanto la Corte di appello non aveva effettuato un nuovo esame dei testimoni dell'accusa e degli imputati prima di riformare la sentenza di assoluzione. La recente condanna segue quella inflitta con la pronuncia Lorefice c. Italia (29 giugno 2017, ricorso n. 63446/13) in un caso di mancata rinnovazione della istruttoria dibattimentale in appello, riguardante i soli testimoni. 

I ricorrenti sono stati imputati nell’ambito di una vicenda relativa all'applicazione in Italia della disciplina comunitaria delle cosiddette "quote latte", imposte dal regolamento CEE n. 856 del 1984. L’ipotesi accusatoria mossa agli imputati, quali membri degli organi amministrativi o dei collegi sindacali delle società gestite fraudolentemente nell'intento di consentire ai soci di superare le quote latte imposte dal regolamento citato senza, però, versare allo Stato i contributi dovuti in caso di superamento (ad eccezione di Maestri Cristina, cui i reati sono ascritti quale consulente fiscale delle società), è stata quella di associazione per delinquere e truffa aggravata. Il Tribunale di Saluzzo, dopo aver assunto nel contraddittorio delle parti le testimonianze, aveva assolto i sei ricorrenti dal delitto di associazione per delinquere ed li aveva condannati per il delitto di truffa aggravata; la ricorrente Maestri, invece, era stata assolta da tutte le accuse. 

La Corte di appello di Torino aveva confermato la condanna dei sei ricorrenti per il delitto di truffa e li aveva ritenuti colpevoli anche del reato di associazione per delinquere, ribaltando la sentenza di primo grado su tale punto. Per quanto riguarda la Maestri, la sua assoluzione era stata completamente ribaltata ed era stata condannata sia per la fattispecie associativa che per truffa. I giudici del gravame avevano analizzato il materiale raccolto in primo grado ed avevano ritenuto che, diversamente da quanto ritenuto dal Tribunale, si trattava di elementi sufficienti per ritenere integrata la fattispecie di associazione per delinquere non solo da un punto di vista oggettivo ma anche per quanto concerne l’elemento soggettivo del reato. Nel giudizio dinanzi alla Corte di appello, la ricorrente Maestri era stata presente, mentre gli altri sei ricorrenti, citati in giudizio, non erano comparsi ed erano stati giudicati in contumacia. 

I ricorrenti hanno presentato ricorso per cassazione lamentando, tra l’altro, che la Corte di appello aveva effettuato una reformatio in pejus della sentenza di primo grado, senza disporre un nuovo esame dei testimoni dell'accusa e senza ascoltarli personalmente. Con sentenza del 24 ottobre 2014, la Corte di cassazione ha respinto il ricorso. 

I ricorrenti hanno adito la Corte di Strasburgo, lamentando la violazione dell'articolo 6 della Convenzione che prevede che: 

«Ognuno ha il diritto che la propria causa sia ascoltata equamente (...) da un tribunale (...) che deciderà (...) nel merito di qualsiasi accusa penale mossa contro di loro».

 

2. La decisione nel caso concreto e il valore del precedente nella giurisprudenza della Corte Edu

A differenza della sentenza Lorefice c. Italia, che riguarda un caso di mancata escussione dei testimoni in appello, la pronuncia in commento riguarda anche la ulteriore questione del mancato esame dell’imputato, assolto in primo grado e condannato in appello. 

La sentenza Maestri ed altri c. Italia, in particolare, oltre a ribadire la giurisprudenza consolidata in relazione alla necessità di risentire i testi ai fini della condanna in appello preceduta da assoluzione in primo grado, per la prima volta - in applicazione della giurisprudenza da ultimo ribadita nella sentenza Júlíus Þór Sigurþórsson c. Islanda (16 luglio 2019, n. 38797/17),  condanna l’Italia in quanto non era stato disposto, se necessario d'ufficio, l'esame degli imputati prima di procedere alla riforma della sentenza assolutoria di primo grado. 

A tal fine, la Corte europea chiarisce che, non essendo la citazione dell’imputato alla udienza di appello equipollente alla citazione per l’esame, la prima non è sufficiente per ritenere assolto l'obbligo di esaminare l'imputato prima di condannarlo dopo l’assoluzione in primo grado. Tale obbligo, che incombe sul giudice, deve essere garantito mediante specifiche misure («mesures positives à ces fins», par. 60). 

Considerato che la Corte Edu è giudice innanzitutto del caso concreto, è interessante esaminare le fattispecie nelle quali sono stati affermati per la prima volta questi principi.

La prima volta che la Corte Edu ha affermato che è necessario sentire l’imputato è stato nel caso Ekbatani c. Svezia (26 maggio 1988, serie A n. 134) in cui, posto che il sistema giuridico svedese prevedeva che in appello non si celebrasse alcuna udienza, l’imputato lamentava che la sua assoluzione in primo grado era stata ribaltata in appello senza che, appunto, fosse stata celebrata un’udienza. 

Il principio fu poi ribadito nel caso Constantinescu c. Romania (n. 28871/95), CEDU 2000 VIII) il quale riguarda la vicenda del segretario generale di un sindacato, imputato per diffamazione per avere denunciato per appropriazione indebita i componenti del precedente organo direttivo dell’ente, assolto in primo grado e condannato in appello, e presenta degli aspetti del tutto peculiari; ad esempio, il procedimento di appello era stato caratterizzato da macroscopici errori sia in diritto che materiali; la motivazione della sentenza di appello non dava conto delle dichiarazioni testimoniali dei testi della difesa; lo stesso procuratore generale presso l’Alta Corte di cassazione e di giustizia aveva fatto ricorso per l’annullamento della sentenza della Corte di appello, a seguito del quale la sentenza era stata annullata e il ricorrente nuovamente processato e assolto nel merito. Sullo sfondo della vicenda, inoltre, vi era il dibattito sulla libertà sindacale, sulla presunta condotta antisindacale della polizia e dell’ufficio di procura, come si evince dalla parte della sentenza che tratta la ulteriore doglianza che il ricorrente aveva sollevato ai sensi dell’articolo 10 della Convenzione (parr. 70 -78). 

Anche il caso più recente Júlíus Þór Sigurþórsson c. Islanda appare, in verità, del tutto peculiare. Concerne un ricorrente accusato di “price collusion” insieme ad altri amministratori di altre società i quali, appunto, avrebbero concluso accordi finalizzati ad effettuare un aumento dei prezzi dei beni ai danni dei consumatori.

In questo caso, siamo in presenza di un unico elemento di prova, costituito da una sola conversazione intercettata, per la cui corretta esegesi, in primo grado, era stata determinante la versione di fatti fornita dall’imputato, che aveva trovato riscontro in quella di un coimputato e di un testimone; tali dichiarazioni, però, non erano state considerate in appello per la modalità irrituale con la quale erano state assunte: il fatto che gli imputati erano stati sentiti gli uni in presenza degli altri, senza distinguere la loro veste di coimputati da quella di testimoni per quanto concerne la responsabilità altrui, secondo la Corte di appello, aveva sensibilmente “diminuito il valore probatorio” delle loro dichiarazioni. In tale contesto, la Corte di Strasburgo afferma che vi è stata violazione dell’art. 6 par. 1 CEDU in quanto la Corte di appello avrebbe dovuto procedere ad una nuova escussione del ricorrente, del coimputato e del testimone, sulle cui dichiarazioni, in merito al contesto in cui si era svolta la conversazione telefonica intercettata, unico elemento di prova a carico, si era fondata l’assoluzione del ricorrente in primo grado.

È noto che la giurisprudenza della Corte di Strasburgo è uno strumento vivente e che i principi elaborati, che traggono la loro origine in determinate fattispecie concrete, magari caratterizzate da particolari criticità, vengono poi applicati in fattispecie il cui nucleo fattuale può anche essere molto diverso[1].

Un’evoluzione del genere si è avuta, del resto, anche con l’affermazione del principio della necessità della nuova escussione dei testimoni in appello, in caso di ribaltamento dell’assoluzione. 

Si tratta di un principio che è stato ribadito costantemente nei confronti della Romania in numerose pronunzie in cui la Corte Edu ha stigmatizzato il potere “cassatorio” dell’Alta Corte rumena la quale, fino alla riforma del 2006[2], poteva “cassare” le sentenze di assoluzione dei giudici di merito e condannare, in via definitiva e per la prima volta, senza ulteriori possibilità di difesa, trattandosi di giurisdizione di ultima istanza (ad es. tra e altre: Danila c. Romania, 8 marzo 2007; Spînu c. Romania, 29 aprile 2008; Popa e Tănăsescu c. Romania, 10 aprile 2012; Găitănaru c. Romania, 26 giugno 2012).

Anche escludendo queste numerose pronunzie che, pur se strettamente connesse alla situazione specifica dell’ordinamento rumeno, hanno contribuito non poco all’affermazione del principio della rinnovazione della istruttoria in appello, non si può fare a meno di rilevare che anche le altre fattispecie in cui tale principio si è affermato presentano caratteri del tutto peculiari a fronte dei quali, la Corte di Strasburgo, nel ribadire di non essere giudice delle prove, ha dovuto affermare che la condanna del ricorrente, nel caso concreto, non poteva prescindere da una nuova escussione dei testimoni in appello.

Ad esempio, se si analizza il famoso caso Dan c. Moldavia del 15 luglio 2011 (n. 899/07), considerato, forse non a buon diritto, un vero e proprio leading case dalle giurisdizioni interne, si noterà che il suo protagonista, il sig. Mihail Dan non aveva un occhio e che tale particolare, insieme ad altri elementi, era stato determinante nella valutazione del caso concreto.

Il sig. Mihail Dan era il preside di un liceo di Chișinău, accusato di concussione da tale C. il quale aveva denunciato alla polizia che questi gli aveva chiesto il pagamento di una tangente in cambio dell’iscrizione di un alunno. Era stata quindi organizzata un’operazione sotto copertura e, a tal fine, C. aveva chiesto al sig. Dan un incontro in un parco. Il ricorrente aveva affermato che si era seduto su una panchina insieme a C. ed aveva appoggiato tra di loro una cartellina contenente documenti. Essendo privo di un occhio, non si era reso conto che C. aveva inserito del denaro nella cartellina. La scena era stata monitorata dagli agenti e ripresa da telecamere ma, per ignote ragioni, proprio il momento dello scambio del denaro non era stato registrato.

Nel processo, celebratosi dinanzi al Tribunale di Buiucani, erano stati interrogati il ricorrente e sette testimoni dell’accusa (il denunciante C. ed i poliziotti che avevano organizzato l’operazione) ed erano stati acquisiti il verbale dell’operazione di marchiatura del denaro con una polvere speciale e la perizia che dava atto che tracce di quella polvere erano state rinvenute sulle dita del sig. Dan. 

Il Tribunale aveva assolto il sig. Dan perché: 1) le testimonianze erano state divergenti proprio sulle modalità con le quali lo scambio di denaro sarebbe avvenuto; 2) la videoripresa dell’operazione non aveva registrato proprio il momento di consumazione del presunto reato; 3) la perizia sulla polvere speciale con cui era stato marchiato il denaro aveva accertato che le tracce di questa polvere rinvenute sulle dita del ricorrente potevano essere dovute indifferentemente alla stretta di mano con C., all’utilizzo della penna per firmare il verbale di arresto, al contatto con la cartellina contenente il denaro che il ricorrente aveva raccolto da terra; 4) la circostanza che il ricorrente era privo di un occhio rendeva credibile che egli non aveva visto che C. aveva infilato il denaro nella cartellina; 5) C., che era l’unico testimone diretto, era indagato in due separati procedimenti istruiti dagli stessi poliziotti che avevano organizzato l’operazione sotto copertura. Si tratta, quindi, di una fattispecie in cui le testimonianze erano contraddittorie e in cui gli elementi oggettivi acquisti durante le indagini giustificavano il dubbio sulla colpevolezza del ricorrente. 

Adita su ricorso dell’ufficio di procura, la Corte di Appello di Chișinău con sentenza del 23 marzo 2006, all’esito di un’udienza celebrata alla presenza del ricorrente, del suo difensore e del pubblico ministero, ribaltava la sentenza di assoluzione ritenendo attendibili le testimonianze, senza rinnovare l’istruttoria.

La Corte di Strasburgo ha ritenuto che tutti questi elementi, complessivamente considerati, hanno costituito un grave vulnus del principio di parità delle armi, a discapito dei diritti della difesa, e che tale situazione di grave sbilanciamento doveva essere riequilibrata mediante la nuova escussione dei testimoni in appello, anche in assenza di una specifica richiesta di parte. Da non sottovalutare anche la circostanza che un’ulteriore doglianza era stata sollevata ai sensi dell’articolo 3 della Convenzione, per i maltrattamenti subiti dal ricorrente ad opera della polizia al momento dell’arresto.

Un altro caso, anch’esso riguardante la Moldavia, citato a fondamento della condanna dell’Italia nel caso Lorefice, e più volte richiamato dalla Corte Edu quale precedente, è Popovici c. Moldavia (27 novembre 2007, ricorsi 289/04 e 41194/04) in cui il ricorrente era stato accusato di gravi reati quali associazione per delinquere, cinque tentati omicidi e tre omicidi ed era stato assolto dalla Corte di appello per mancanza di prove (in particolare: dichiarazioni fondate su mere supposizioni o che si erano basate su affermazioni de relato, che a loro volta non erano state confermate dalle presunte fonti); tale assoluzione era stata ribaltata in condanna con una sentenza che non conteneva alcun riferimento alle conclusioni della giurisdizione di prima istanza riguardo alla mancanza di prove e alla non colpevolezza del ricorrente né alcun riferimento alle osservazioni della difesa. Tale vicenda, inoltre, si inscriveva in un contesto allarmante, ben descritto dai giudici europei (part. 37) che danno conto della vicenda di un coimputato, G.D., che era fuggito dalla Moldavia per rifugiarsi in Germania e la cui estradizione era stata negata dalla Corte Suprema del Land di Thuringia in quanto il procedimento che aveva portato alla sua condanna non aveva rispettato le regole fondamentali di equità, non perché non erano stati sentiti i testimoni in appello bensì perché si poteva fondatamente ritenere che gli imputati fossero stati sottoposti a torture e pressioni per confessare i reati loro ascritti o per incriminare altri coimputati. Inoltre, in un rapporto del governo tedesco, relativo alla Repubblica di Moldavia, si affermava che il sistema giudiziario moldavo non era indipendente dal governo e che il maltrattamento e la tortura da parte della polizia erano pratiche ampiamente diffuse. La Corte Suprema tedesca si era basata anche su diversi rapporti di Amnesty International e di organismi dell'ONU e dell'UE, specializzati nella prevenzione della tortura, recanti accuse simili riguardanti la Moldavia. La Corte Suprema tedesca aveva, inoltre, rilevato che il giudice della Corte di appello che aveva assolto G.D. era stato successivamente licenziato.

Altri due casi richiamati nel caso Lorefice c. Italia, sono Manolachi c. Romania (5 marzo 2013) e Hanu c. Romania (4 giugno 2013), i quali pure sono caratterizzati essenzialmente dalla rivalutazione dell’attendibilità intrinseca dei testimoni in fattispecie nelle quali gli unici elementi oggettivi acquisiti durante le indagini non fornivano elementi utili alla tesi accusatoria ed erano anche più che discutibili quanto a modalità di acquisizione, producendo quindi un vulnus al principio della parità delle armi di così grave portata da poter essere sanato solo mediante una nuova escussione in appello delle fonti dichiarative. Ad esempio, nel caso Manolachi c. Romania, la Corte di appello aveva ribaltato la sentenza di assoluzione utilizzando le dichiarazioni accusatorie dei due coimputati rese durante le indagini alla polizia, nonostante essi le avessero ritrattate in dibattimento, ammettendo di essere gli autori della rapina e negando che il ricorrente vi avesse preso parte nonché motivando questo loro comportamento sulla base delle coercizioni fisiche subite dalla polizia durante gli interrogatori.

Il caso Hanu c. Romania riguarda un ufficiale giudiziario accusato di corruzione e abuso di ufficio sulla base di una denuncia presentata da due soggetti che lo accusavano di aver loro chiesto del denaro in cambio di favori, ed arrestato nell’ambito di un’operazione sotto copertura organizzata per coglierlo in flagranza. Il Tribunale aveva ritenuto che gli elementi di prova non erano sufficienti per fondare una pronuncia di colpevolezza in quanto l’unica prova “diretta” erano le dichiarazioni dei denuncianti e gli altri testimoni – tutti de relato - erano i familiari degli stessi denuncianti che avevano appreso i fatti da questi ultimi; il Tribunale, inoltre, rilevava che non era stata mai prodotta agli atti la registrazione dell’operazione sotto copertura, nonostante più volte richiesta dal ricorrente, che professava la sua innocenza.

Un altro caso ripetutamente citato quale precedente è Destrehem c. Francia del 18 maggio 2004 (ricorso n. 56651/00) in cui la rinnovazione almeno parziale dell’istruttoria è stata ritenuta necessaria perché la Corte di appello aveva rivalutato in maniera opposta rispetto al Tribunale l’attendibilità  intrinseca dei testimoni escussi in primo grado e gli unici elementi oggettivi acquisiti durante le indagini non fornivano riscontri univoci ma, anzi, erano stati acquisiti in maniera irrituale e lesiva dei diritti della difesa, ponendo seri dubbi anche sulla corretta identificazione dello stesso autore del reato (ad esempio, il riconoscimento era stato effettuato ponendo il ricorrente, che aveva i capelli lunghi, accanto a quattro persone con i capelli corti; par. 44 della sentenza[3]).

Un ulteriore caso citato quale precedente in Lorefice c. Italia è Marcos Barrios c. Spagna (21 settembre 2010, n. 17122/07) in cui il ricorrente, accusato di omicidio, era stato assolto in primo grado e condannato in appello con sentenza della Audiencia Provincial di León senza celebrazione di alcuna udienza, in base all’art 795 comma 6 del codice di procedura penale, all’epoca vigente, che prevedeva la celebrazione dell’udienza in appello quale meramente eventuale («Cuando estime que es necesario para la correcta formación de una convicción fundada, la Audiencia podrá acordar la celebración de vista, citando a las partes»).

Nonostante la eterogeneità di questi casi concreti rispetto alla fattispecie oggetto della sentenza Lorefice c. Italia, la Corte Edu ha applicato questa giurisprudenza, affermando che la valutazione della prova presuppone sempre il “contatto diretto” tra la fonte dichiarativa e il giudice della condanna, senza considerare che, data l’abbondanza di dati oggettivi rivalutati dalla Corte di appello (ad es. la sentenza irrevocabile nei confronti del coimputato, le acquisizioni documentali concernenti l’eseguito pagamento del prezzo dell’estorsione, la registrazione audio di un colloquio, le conversazioni telefoniche intrattenute dall’imputato, le annotazioni di Polizia Giudiziaria, i tabulati e le intercettazioni telefoniche)[4], “l’osservazione del contegno dei testi”, verosimilmente, non avrebbe apportato alcun contributo conoscitivo ulteriore ai giudici del gravame, considerato che il raffronto del dichiarato con il restante compendio probatorio era consistito essenzialmente un sindacato ex actis.

Pur venendo da molto lontano, il principio della rinnovazione della istruttoria dibattimentale in appello è stato recepito nel nostro sistema processuale sia a livello giurisprudenziale (Sez. U, n. 27620 del 28 aprile 2016, ric. Dasgupta; Sez. U n. 18620 del 19 gennaio 2017, ric. Patalano; Sez. U, n. 14426 del 28 gennaio 2019, ric. Pavan; Sez. U, n. 14800 del 21 dicembre 2017, ric. Troise[5]) che normativo, essendo tale principio codificato nell’art. 603 c. 3 bis cpp, introdotto dalla legge n. 103 del 23 giugno 2017.

Deve, quindi, ritenersi che anche il principio ribadito dalla sentenza Maestri ed altri c. Italia, che afferma come necessario l’esame dell’imputato in caso di ribaltamento della sentenza assolutoria di primo grado, anche qualora non sia comparso né abbia mai chiesto di essere sentito, verrà anch’esso recepito, sebbene eccentrico rispetto all’impostazione di fondo del nostro sistema processuale e nonostante, come si è visto, l’obbligo di sentire l’imputato è stato originariamente affermato in fattispecie concrete in cui il sistema processuale di riferimento non prevedeva la celebrazione di alcuna udienza in appello o, in cui, a fronte di rilevanti criticità del procedimento sin dalla fase delle indagini, e nonostante l’imputato avesse chiesto espressamente di essere sentito, la Corte di appello aveva ribaltato l’assoluzione senza procedere ad alcuna rinnovazione. 

 

3. Effetti concreti della sentenza Maestri ed altri c. Italia

La giurisprudenza europea distingue i casi nei quali la Corte di appello debba procedere unicamente ad una rivalutazione dal punto di vista giuridico di elementi fattuali da quelli in cui debba, invece, procedere ad una rivalutazione del fatto[6].

In particolare, l’obbligo di acquisire nuovamente le prove dichiarative non sussisterebbe qualora la Corte di appello debba unicamente rivalutare questioni di diritto sulla base del dato fattuale così come accertato in primo grado[7].  

Nel caso concreto della sentenza in commento, la Corte Edu afferma però che, nonostante la Corte di appello non avesse proceduto ad una diversa ricostruzione degli elementi fattuali bensì unicamente ad una rivalutazione giuridica dei fatti, così come accertati in primo grado, sussisteva l’obbligo di sentire gli imputati in quanto, nell’affermare la colpevolezza per la fattispecie associativa,  il giudice del gravame si era pronunciato “per la prima volta” anche sulla sussistenza dell’elemento soggettivo del reato (part. 52). 

Si tratta di un aspetto molto rilevante in quanto viene sancito l’obbligo del giudice di appello di sentire personalmente l’imputato quando si debba procedere ad una valutazione della sussistenza dell’elemento soggettivo.

In sostanza, emerge dalle pronunzie della Corte Edu sul tema della rinnovazione della istruttoria in appello, da un lato, l’affermazione di principio che non è compito della Corte europea imporre un determinato sistema processuale né indicare ai giudici nazionali i criteri di valutazione delle prove al fine di non atteggiarsi quale “quarta istanza” ma, di fatto, il risultato che si va ottenendo è esattamente quello.

Dal punto di vista processuale, appare poco chiaro come possa conciliarsi la ineluttabilità dell’esame dell’imputato con il diritto costituzionalmente garantito  di non presenziare al processo e soprattutto di rimanere in silenzio e, quindi, di non sottoporsi ad esame, oltre che di difendersi mentendo, sul quale si fonda il sistema processuale italiano; tale problematica appare molto rilevante se solo si considera che, come rilevato dalla stessa Corte Edu nella sentenza in commento, l’imputato che è stato assolto in primo grado non ha verosimilmente alcun interesse a rendere dichiarazioni in appello su quei fatti sui quali vi è stata una pronuncia di non colpevolezza (par. 59).

Dal punto di vista sostanziale, il principio affermato dalla sentenza Maestri ed altri assume l’aspetto di una indicazione abbastanza precisa, rivolta alle giurisdizioni interne, di un criterio di valutazione della prova dell’elemento soggettivo del reato, nonostante la Corte Edu non sia un giudice della prova. 

Affermare che la rivalutazione dell’elemento soggettivo del reato non può prescindere dall’esame dell’imputato equivale invero a dettare una regola di valutazione della prova che diverge da quella applicata dalle giurisdizioni interne - in base alla quale l'elemento psicologico del reato si deve desumere da fatti e circostanze obiettive che manifestino l’atteggiamento dell’agente nei confronti del fatto criminoso - la quale peraltro non si vede per quale motivo non dovrebbe essere applicata anche dal giudice di primo grado, chiamato a valutare la sussistenza degli elementi costitutivi del reato, oggettivi e soggettivi.

Rilievi critici a parte, non si può fare a meno di rilevare che la sentenza in commento si colloca in un percorso, già tracciato dalla Corte Edu, nell’ambito del quale possono essere agevolmente individuati chiari segnali di insofferenza verso un giudizio penale che si svolga senza la partecipazione dell’imputato e in cui le azioni positive dirette ad assicurare il diritto dell’imputato di partecipare al processo non siano improntate ad un criterio di effettività, fatto sempre salvo il diritto di rinunciare espressamente e inequivocabilmente alle garanzie difensive.

Inoltre, è innegabile che, nell’ambito di un giudizio penale, l’apporto conoscitivo fornito dalle dichiarazioni dell’imputato è di grande utilità e, non sempre, nel senso favorevole alla difesa. La pratica giudiziaria dimostra che la narrazione dei fatti condotta dall’angolo visuale dell’imputato fornisce elementi importanti per scandagliare la sua personalità e per capire su quali basi argomentative è imperniata la rivendicazione della sua innocenza. Le dichiarazioni autodifensive dell’imputato, non di rado, offrono notevoli vantaggi per l’accusa, alla quale viene offerto un quadro delle circostanze a discolpa e dei temi offerti per contrastare gli elementi a carico, sui quali concentrare le argomentazioni utili a confutarli. 

Si tratta, quindi, di vedere come la sentenza Maestri ed altri c. Italia verrà recepita a livello interno; essendo lo Stato membro tenuto ad adottare anche misure di carattere generale per dare esecuzione al giudicato europeo, è verosimile che verranno introdotte delle modifiche nel codice di procedura penale al fine di rendere effettivo l’obbligo di procedere all’esame dell’imputato in caso di ribaltamento della assoluzione in appello. 

Si tratterà, quindi, di vedere come dovrà essere interpretato il silenzio dell’imputato il quale decida di non sottoporsi ad esame; se non si vorrà che la citazione per rendere l’esame si traduca in un mero adempimento di carattere processuale, privo di conseguenze pratiche, occorre domandarsi se tale giurisprudenza europea condurrà ad un ulteriore ripensamento del valore processualmente neutro che si attribuisce alla decisione dell’imputato di rimanere in silenzio, sulla base di quella giurisprudenza di legittimità che già ha affermato la possibilità che l’organo giudicante tenga conto, nell’ambito del proprio libero convincimento, della condotta tenuta dall’imputato e, in particolare, del silenzio dello stesso in relazione agli elementi a suo carico[8].

Si tratta però di una direzione non auspicabile in quanto, salvi casi eccezionali, l’attribuzione alla decisione di serbare il silenzio del valore di elemento probatorio, valutabile ai fini della formazione del libero convincimento del giudice, contraddice i principi costituzionali fondanti del nostro sistema processuale e andrebbe nella direzione opposta rispetto all’ampliamento delle garanzie difensive.

 


 
[1] M.G. Civinini, Il valore del precedente nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, in Gli Speciali di Questione Giustizia, La Corte di Strasburgo, a cura di F.Buffa e M.G. Civinini. https://www.questionegiustizia.it/speciale/articolo/il-valore-del-precedente-nella-giurisprudenza-della-corte-europea-dei-diritti-dell-uomo_49.php 

[2] La legge n. 356/2006 ha modificato il codice di procedura penale, prevedendo, tra l’altro, che la corte di appello abbia l’obbligo di interrogare l’imputato quando questi è stato assolto in primo grado (articolo 385-14 e 385-16 così come modificati).

[3] Par. 44: «Par ailleurs, la Cour observe que le tribunal correctionnel a considéré que la plupart des éléments autres que les témoignages figurant au dossier, et résultant de l’enquête de police, étaient insuffisants pour déterminer de façon certaine l’identité de l’auteur des faits».

[4] Si veda sentenza Cass. pen. Sez. I, n. 3570 del 27 marzo 2013 (dep. 29.8.2013), ric. Lorefice.

[5] Quest’ultima evidenzia, però, che, talora, la Corte Edu ha ritenuto sufficiente una motivazione particolarmente accurata, cioè “rinforzata”, in uno con adeguati «safeguards against arbitrary or unreasonable assessment of evidence or establishment of the facts» (Corte edu. 24-4-16, Kashlev c. Estonia; Corte edu., 27 giugno 2017, Chiper c. Romania).

[6] Júlíus Þór Sigurþórsson c. Islanda, n. 38797/17, par. 36 e 37, 16 luglio 2019.

[7] Bazo González c. Spagna, n. 30643/04, par. 36, 16 dicembre 2008, Keskinen e Veljekset Keskinen Oy c. Finlandia, n. 34721/09, par. 39, 5 giugno 2012, Leș c. Romania (déc.), no 28841/09, par. 18-22, 13 settembre 2016, e Dumitrascu c. Romania, n. 29235/14, 15 settembre 2020.

[8] In tal senso Cass. Pen. Sez. 2, Sentenza n. 6348 del 28/01/2015 Ud.  (dep. 13/02/2015) Rv. 262617; Sez. 2, Sentenza n. 22651 del 21/04/2010 Ud.  (dep. 14/06/2010) Rv. 247426; Sez. 5, Sentenza n. 12182 del 14/02/2006 Ud.  (dep. 06/04/2006) Rv. 233903; Sez. 5, Sentenza n. 2335 del 21/12/1988 Ud.  (dep. 15/02/1989) Rv. 180527.

07/09/2021
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22/12/2023
Ancora due condanne dell’Italia per i suoi hotspot

Sadio c. Italia,  n. 3571/17, sentenza del 16 novembre 2023, e AT ed altri c. Italia, ricorso n. 47287/17, sentenza del 23 novembre 2023. Ancora due condanne (una di esse, anzi, doppia e l’altra triplice) per l’Italia in tema di immigrazione, con specifico riferimento alle condizioni di un Centro per richiedenti asilo in Veneto e di un Centro di Soccorso e Prima Accoglienza in Puglia.

14/12/2023
I criteri probatori della violazione del principio del giusto processo di cui all'art. 6 Cedu. Una visione comparatistica

La Supreme Court del Regno Unito ha fornito, in una propria recente sentenza, un contributo di essenziale rilevanza su questioni il cui intreccio avrebbe potuto portare, se non si fosse saputo individuare l'appropriato filo di cucitura, esiti disarmonici sia nel diritto di common law inglese sia, con anche maggior gravità, nel diritto europeo convenzionale. Si trattava di coordinare il fondamentale principio del giusto processo, fissato dall'articolo 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti umani del 1950, con il più solido dei ragionamenti circa la sufficienza del materiale probatorio raccolto a divenire indice della violazione dello stesso articolo 6. I supremi giudici inglesi si sono collocati saldamente sulla linea della giurisprudenza di Strasburgo, fissando, in un caso dalle irripetibili peculiarità, affidabili parametri che sappiano, come è avvenuto nel caso sottoposto al loro esame, felicemente contemperare l'esigenza di garantire costantemente condizioni di svolgimento dei processi rispettose dei diritti umani con quella, altrettanto meritevole di apprezzamento, di evitare l'abuso del ricorso allo strumento di tutela convenzionale fondato su motivi puramente congetturali e tali, pertanto, da scuotere la stabilità del giudicato, lasciandolo alla mercé di infinite, labili impugnazioni, contrarie allo stesso spirito del fondamentale precetto del giusto processo.

13/12/2023
Sentenze di luglio-agosto 2023

Le più interessanti sentenze emesse dalla Corte di Strasburgo nei mesi di luglio e agosto 2023

24/11/2023