Magistratura democratica
Magistratura e società

Pio La Torre

di Luca Tescaroli
procuratore aggiunto della Repubblica presso il Tribunale di Firenze

Nel quarantesimo anniversario dell'uccisione di Pio La Torre

Premessa

Nel mentre il vento della guerra attraversa l'Europa, generato dall'aggressione della Russia nei confronti dell'Ucraina, ricorre il quarantesimo anniversario dell'assassinio di Pio La Torre, segretario regionale siciliano del Partito comunista. Un uomo, protagonista di primo piano della nostra storia più recente, che ha speso le sue energie per salvaguardare il valore universale della pace tra i popoli - che in questi giorni il pericolo della propagazione planetaria del conflitto bellico rende ancora più prezioso - e profondamente segnato lo sviluppo del contrasto alla criminalità mafiosa.  

Figlio di contadini, La Torre era nato nella borgata Altarello di Baida, una frazione di Palermo, era diventato comunista nel 1945, si era distinto nelle lotte contadine di quegli anni. Nel 1950 era finito in carcere “scopo preventivo”, come si diceva allora, al termine di una manifestazione bracciantile nel paese di Bisasquino, in provincia di Palermo. Si impegnò nell’attività sindacale (nel 1959 divenne segretario regionale della CGIL) e poi in quella politica. Segretario dei comunisti siciliani dal 1962 al 1967, più volte consigliere comunale a Palermo, deputato all’assemblea regionale siciliana dal 1963 al 1971, nel 1969 si era trasferito a Roma per ricoprire alti incarichi di partito. Deputato per tre legislature (1972, 1976, 1979), fece parte della commissione parlamentare antimafia, per la quale preparò la relazione conclusiva di minoranza. Era un uomo che usava un linguaggio semplice e schietto che andava subito al cuore delle cose. Chiese alla direzione del PCI, della quale faceva parte, di essere inviato ancora una volta a Palermo ad assumere le redini di quel partito in Sicilia. Ottenne ciò che voleva, ma segnò inconsapevolmente la sua fine. “La Torre non era uomo da limitarsi ai discorsi e alle analisi, era un uomo che faceva sul serio, per questo lo hanno ucciso”, disse di lui Enrico Berlinguer. 

Egli sapeva bene i rischi che correva, ma rimase al suo posto e proseguì nella sua azione, nonostante le minacce e la consapevolezza che prima o poi gliela avrebbero fatta pagare.

 

L’uccisione di Pio La Torre e l’individuazione dei responsabili

Alle 9,20 del 30 aprile 1982, in via Li Muli, una stradina stretta e poco frequentata di Palermo, un commando di mafiosi, costituito da Giuseppe Lucchese, Antonino Madonia, Giuseppe Greco "Scarpuzzedda" (non processato perché già deceduto), Salvatore Cucuzza e altri non identificati con certezza, a bordo di una moto e di un'auto, tese un'imboscata a Pio La Torre, mentre stava andando a bordo della sua Fiat 132 alla sede del Partito comunista, in compagnia dell'autista-guardaspalle Rosario Di Salvo, che invano cercò di reagire, estraendo la pistola che portava con sé. Fu un delitto politico, punitivo e preventivo, esemplare per ferocia, che, grazie soprattutto al fondamentale apporto dei collaboratori di giustizia, ha un movente e ha visto l'individuazione dei responsabili quali esecutori e mandanti (i componenti della commissione provinciale di cosa nostra palermitana[1]), in virtù di tre verdetti definitivi della Corte di Cassazione (l'ultimo dei quali del 4 marzo 2008[2]). Tommaso Buscetta fu il primo e spiegò come la sua uccisione fosse stata deliberata dagli appartenenti alla commissione provinciale di Palermo. Il reggente del mandamento di Porta Nuova Salvatore Cucuzza, nel 1996, ha confessato il proprio coinvolgimento quale esecutore materiale e il suo racconto ha trovato puntuali conferme nelle precedenti rivelazioni di Francesco Marino Mannoia e di Giuseppe Marchese. 

Rimane aperto l’interrogativo se vi sia stata una convergenza di soggetti esterni a cosa nostra rimasti nell’ombra nella ideazione dell’assassinio. 

Al duplice omicidio di La Torre e De Salvo seguirono in Sicilia e nel Paese giorni di sgomento. La stessa sera giunse a Palermo il generale Carlo Alberto dalla Chiesa, che raccolse l'invito del Ministro dell'Interno Virginio Rognoni e del Presidente del Consiglio Giovanni Spadolini di anticipare il suo insediamento quale prefetto della città. 

 

Il contesto in cui maturò l’assassinio di Pio La Torre e le ragioni del delitto

Era esploso sul finire degli anni Settanta e ai primi degli anni Ottanta il germe della scellerata violenza, che portò gli esponenti dell’ala corleonese a soppiantare quelli della cosiddetta ala moderata nella direzione di cosa nostra. Il progetto di eliminazione del rappresentante provinciale di Caltanissetta del 21 novembre 1977, culminato nel duplice omicidio di Giuseppe Di Fede e di Carlo Napolitano, e l’omicidio di Francesco Madonia segnarono il punto di partenza di quello scontro, che trovò la sua massima esaltazione nei primi anni Ottanta e che approdò all’eliminazione fisica o, comunque, all’emarginazione dei rivali dei corleonesi: il gruppo riconducibile ai palermitani Salvatore Inzerillo (ucciso l’11 maggio 1981), Stefano Bontate (assassinato il 23 aprile 1981), Rosario Riccobono (eliminato il 30 novembre 1982) e Gaetano Badalamenti (il quale veniva espulso dall’organizzazione con l’accusa, non veritiera, e, in ogni caso, mai provata, di aver contribuito o, comunque, prestato adesione, unitamente a Stefano Bontate, all’uccisione dei Francesco Madonia), al catanese Giuseppe Calderone (deceduto l’11 settembre 1978, a seguito dell’agguato tesogli l’8 settembre), al nisseno Giuseppe Di Cristina (ucciso a Palermo il 30 maggio 1978), all’ennese Giovanni Mungiovino (assassinato il 9 agosto 1983) e all’agrigentino Nicola Di Giovanni (eliminato il 5 agosto 1978, a Sambuca di Sicilia). Un vento di guerra che ha prodotto lo sterminio o, comunque, la neutralizzazione di tutti coloro che si opponevano all’ascesa dei corleonesi e al loro predominio. Una virulenta e sanguinosa campagna di morte che i corleonesi (Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Bernardo Brusca e altri) hanno in un primo tempo rivolto contro gli alleati dei rappresentanti dell’ala moderata nelle provincie di Caltanissetta, Enna, Catania e Agrigento, in modo da indebolire gli avversari in periferia, facendo terra bruciata attorno alle loro roccaforti e impedendo la possibilità di qualsiasi sostegno esterno nel momento dello scontro finale. Al contempo, veniva favorito il consolidamento del potere di soggetti vicini ai corleonesi: così avvenne la saldatura con Catania, tramite Benedetto Santapaola, che, su sollecitazione dei corleonesi, agiva dall’interno dell’aggregato catanese per fomentare i contrasti, al punto da portare allo scioglimento della famiglia; con Agrigento, per il tramite di Antonio Ferro e Carmelo Colletti che riuscivano, opportunamente supportati dai corleonesi, e segnatamente, da Salvatore Riina e da Bernardo Provenzano, a defenestrare Giuseppe Settecase dal ruolo di rappresentante provinciale; con Caltanissetta in virtù del legame con Giuseppe Madonia di Vallelunga. In un secondo tempo, ebbe luogo un vero e proprio scontro frontale armato con gli acerrimi nemici palermitani, che trovò il suo momento apicale sul finire del 1982. Nonostante quella scia impressionante di sangue, non vi fu una reazione adeguata in tempi brevi da parte dello Stato, che aveva sottovalutato la pericolosità di quell’escalation omicida. Né è derivata una sovraesposizione di tutti coloro che, soprattutto all’interno delle istituzioni, hanno cercato di adempiere al loro dovere per far rispettare la legalità, contrastando e denunciando l’agire illecito degli appartenenti a cosa nostra e dei loro garanti. E, in questa fase, i corleonesi non esitarono a colpire gli uomini delle istituzioni siciliane, come mai era accaduto nel passato: il 9 marzo 1979, il segretario della DC Michele Reina; il 21 luglio 1979 il dirigente della squadra mobile Boris Giuliano; il 25 settembre 1979, il giudice Cesare Terranova e il maresciallo di polizia Lenin Mancuso; il 6 gennaio 1980, il Presidente della Regione Siciliana Piersanti Mattarella; il 3 maggio 1980 il capitano dei Carabinieri Emanuele Basile; il 6 agosto 1980 il Procuratore della Repubblica Gaetano Costa. 

Nel corpo dell'ordinanza-sentenza di rinvio a giudizio del primo maxiprocesso dell’8 novembre 1985[3], gli appartenenti al pool antimafia - guidato da Antonino Caponnetto, che aveva in Giovanni Falcone e in Paolo Borsellino i punti di riferimento - scrissero, con riferimento ai c. d. omicidi politici, Reina-Mattarella-La Torre: «Qui si parla di omicidi politici, di omicidi, cioè, in cui si è realizzata una singolare convergenza di interessi mafiosi ed oscuri interessi attinenti alla gestione della cosa pubblica; fatti che non possono non presupporre tutto un retroterra di segreti e di inquietanti collegamenti che vanno ben al di là della mera contiguità e che debbono essere individuati e colpiti se si vuole veramente “voltare pagina”».

Pio La Torre aveva presentato un progetto di legge rivoluzionario, suddiviso in trentacinque articoli, che prevedeva controlli patrimoniali per colpire le risorse finanziarie dei boss, l'introduzione del reato di associazione di tipo mafioso, nuove disposizioni in materia di appalti e dirette a vulnerare il segreto bancario che per anni aveva agevolato il riciclaggio del denaro sporco. Si fece promotore di iniziative volte a fronteggiare la controffensiva della nuova mafia dei corleonesi, che, come si è detto, aveva iniziato dal 1979 una vera e propria carneficina. 

Aveva redatto, insieme con Cesare Terranova, la relazione di minoranza della commissione parlamentare d'inchiesta sulla mafia in Sicilia, puntando l'indice accusatore contro i grandi esattori di Salemi, i Salvo - affiliati alla famiglia mafiosa di Salemi, in provincia di Trapani[4], che riscuotevano le imposte in Sicilia per conto dello Stato - quando i cugini Ignazio e Nino erano nel pieno del loro potere, e Vito Ciancimino, il quale era riuscito ad accumulare un’enorme quantità di denaro liquido con oscure interessenze in attività edilizie di privati, occultandola tra i meandri del sistema bancario. Ciancimino è stato il protagonista del cosiddetto “sacco di Palermo”: la corsa del cemento in direzione ovest, verso la piana dei Colli, dove era nata un’altra Palermo, quella dei palazzoni costruiti da cosa nostra, con le imprese edili dei suoi boss, sulla base di licenze edilizie monitorate proprio da Ciancimino. Potentissimo assessore ai Lavori Pubblici nei primi anni Sessanta e sindaco della città di Palermo, era riuscito a creare un sistema che è durato decenni. Nella sua villa di Mondello decideva, d’intesa con i mafiosi che lo sostenevano, chi dovesse aggiudicarsi gare pubbliche e concessioni: quali imprese, in quali mandamenti e a che prezzo. Venne arrestato solo nel 1984 e per la sua condanna definitiva a otto anni di reclusione per concorso in associazione di tipo mafioso e corruzione si è dovuto aspettare il 2 dicembre 1993. È stato riconosciuto responsabile di aver mantenuto costanti rapporti di affari nelle più rilevanti imprese economiche da lui avviate con soggetti mafiosi e loro parenti, indebitamente favoriti nell’esercizio della sua attività di pubblico amministratore; di essersi prodigato per il controllo dei pubblici appalti inerenti al risanamento e ai piani di recupero relativi a quattro quartieri di Palermo; di aver determinato, quale componente del consiglio di amministrazione dello Iacp di Palermo, la cessione del contratto di appalto per la costruzione di 422 alloggi popolari, in località Sperone, di cui era aggiudicataria la Delta spa, alla ditta Spatola Rosario, a fronte di un compenso di cinquanta milioni di lire.

La Torre aveva in sostanza capito cos’era cosa nostra, quali erano la sua pericolosità e i suoi punti di forza: la capacità di produrre ricchezza illecitamente e i suoi rapporti con la politica, la pubblica amministrazione e l’imprenditoria, che le avevano consentito di raggiungere risultati qualitativamente superiori rispetto a quelli che il nucleo militare del consesso criminale sarebbe stato nelle condizioni di attuare. Perciò aveva intrapreso iniziative davvero efficaci. 

Non bastarono tuttavia il suo assassinio e la scia di sangue che ne seguì. Fu necessaria l'uccisione del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, della moglie Emanuela Setti Carraro e dell'autista Domenico Russo che li seguiva, per far approvare il 13 settembre del 1982 la proposta di legge (che porta il suo nome e quello di Virginio Rognoni), la prima seria normativa antimafia dal dopoguerra (la legge n. 646/82), una vera rivoluzione copernicana che ha fattivamente contribuito all'erosione delle enormi ricchezze accumulate dalla criminalità organizzata, grazie all'introduzione delle misure di prevenzione patrimoniali (sequestri e confische), che oggi molti vorrebbero ridimensionare. Per la prima volta il nostro Paese, dopo circa 120 anni dall’unità d’Italia, riconobbe l'esistenza della mafia, inserendo nel codice penale un articolo bis (il 416 bis), che cancellava finalmente la vergogna di tanti interessati proclami secondo cui la mafia era soltanto un'invenzione di politici in vena di provocazione.

In questo contesto, a distanza di quarant’anni dal delitto, rimangono inesplorati moventi ulteriori, alimentati da condotte anomale, come l’essere stato Pio La Torre schedato dagli appartenenti ai servizi segreti italiani, dall’essere in atto una linea politica protesa ad aprire al partito Comunista il governo della Sicilia e dalla piena operatività in quel periodo dell’organizzazione paramilitare appartenente alla rete internazionale Stay-behind (“restare indietro”) - in Italia denominata Gladio, promossa dalla CIA per contrastare una possibile invasione nell'Europa occidentale da parte dell'Unione Sovietica, dei Paesi aderenti al Patto di Varsavia e, in particolare, della non-allineata Jugoslavia titina, attraverso atti di sabotaggio, guerra psicologica e guerriglia dietro le linee nemiche, con la collaborazione dei servizi segreti e di altre strutture (Falcone avrebbe voluto acquisire gli atti d'indagine su Gladio per approfondire la questione).

Commemorare responsabilmente La Torre implica un richiamo alla società e alle forze politiche di oggi a non dimenticare quel che è accaduto, soprattutto quando il loro comportamento entra in rotta di collisione con valori insopprimibili e con la necessità di porre in essere iniziative anche legislative serie di contrasto alle strutture mafiose e alle relazioni che esse coltivano con le aree permeabili del potere. 

 

L’impegno per il mantenimento della pace tra i popoli

C'è ancora un'altra ragione di enorme gratitudine nei confronti di Pio La Torre. Nel pieno della “guerra fredda”, egli fu il promotore di una serrata campagna a favore del disarmo, lanciando una petizione popolare per la raccolta di un milione di firme, che toccò l'apice il 4 aprile 1982, nella manifestazione dei centomila a Comiso, per impedire la costruzione della base missilistica in prossimità dell'aeroporto. In poche settimane trecentomila firme si aggiunsero in calce alla sua richiesta, così formulata: «Chiediamo al governo italiano di non dare inizio alla costruzione della base per i missili Cruise presso l’aeroporto di Comiso. Sospendendo la costruzione della base, l’Italia darà un contributo positivo alla riduzione progressiva degli armamenti nucleari, All’Ovest come all’Est, fino alla totale eliminazione, stimolando inoltre positivamente la trattativa di Ginevra». Egli fu molto esplicito il 14 gennaio 1982, in occasione della sua relazione introduttiva al nono congresso regionale del PCI, durante la quale affermò: «Occorre respingere questa prospettiva, chiamando il popolo siciliano alla lotta per dire no ad un destino che, prima ancora di farla diventare bersaglio della ritorsione atomica, trasformerebbe la nostra isola in terreno di manovra di spie, terroristi e provocatori di ogni risma al soldo dei servizi segreti dei blocchi contrapposti. Né trarrebbero nuovo alimento il sistema di potere mafioso e i processi degenerativi delle istituzioni autonomistiche, mentre la Sicilia sarebbe condannata alla degradazione economica e sociale». 

Centomila persone parteciparono ai funerali di La Torre. La petizione per Comiso raggiunse il milione di firme che aveva voluto, ma i lavori per la costruzione della base continuarono.

Con il suo operato e con le sue battaglie ha dato un contributo notevole al movimento pacifista mondiale. 

 

Conclusioni

A quest'uomo la società civile, a prescindere dall'appartenenza politica, deve essere profondamente grata. Il suo esempio di vita e il suo coraggio devono costituire oggi momento di riflessione per molti. 

L'impegno e la condotta di Pio La Torre sui fronti del contrasto alla criminalità mafiosa e del mantenimento della pace devono costituire un insegnamento esemplare in ogni tempo per ogni cittadino e, soprattutto, per gli uomini politici di tutto il mondo. Rappresentano un modello per ricordare la necessità di un impegno a mantenere, a rafforzare e a incrementare gli strumenti di contrato al crimine mafioso che ha fortemente voluto, che in questo quarantennio hanno consentito di ottenere straordinari risultati nell’attività repressiva, che taluni cercano, invece, di neutralizzare con improvvide iniziative. Si pensi ai propositi, a mero titolo esemplificativo, di modificare il regime delle misure di prevenzione patrimoniali (sequestri e confische). Sarebbe, per converso, auspicabile un’accelerazione delle procedure per il riutilizzo sociale dei beni confiscati. 

Non si può e non si deve essere inclini al compromesso quando si entra in rotta di collisione con valori insopprimibili come quello della pace, che esige il no incondizionato a ogni conflitto, il disarmo e una convivenza democratica, e del contrasto al crimine mafioso, che impone di fare terra bruciata nei confronti degli esponenti mafiosi e dei loro garanti. La guerra e la criminalità mafiosa, come due facce di una stessa medaglia, impediscono a tutti di fruire delle fondamentali garanzie collettive della libertà in ogni sua sfaccettatura e della sicurezza.  


 
[1] Sono stati riconosciuti colpevoli come mandanti Salvatore Riina, Michele Greco, Bernardo Brusca, Bernardo Provenzano, Giuseppe Calò, Francesco Madonia e Nenè Geraci.

[2] Sentenza della Corte di Cassazione della seconda sezione penale del 4 marzo 2008, n. 248/08, la cui motivazione è stata depositata in cancelleria il 31 marzo 2008, pres. Secondo Libero Carmenini, estensore relatore Franco Fiandanese, che ha rigettato i ricorsi di Giuseppe Lucchese e di Antonino Madonia. Salvatore Cucuzza è stato giudicato separatamente con rito abbreviato, in separato giudizio.

[3] Ordinanza di rinvio a giudizio, emessa nel procedimento penale nei confronti di Giovanni Abbate + 706.

[4] Ignazio Salvo era vicecapo della Famiglia, mentre Antonino (inteso Nino), per un certo periodo, aveva rivestito la carica di capodecina della stessa cosca mafiosa.

30/04/2022
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