1. Introduzione
Da marzo 2025 è la volta, sia su Rai Play che su Rai 2, di Mare fuori 5. È tornata così, inevitabilmente per non dire inesorabilmente, la serie-fenomeno, ambientata in un carcere minorile, che contava già quattro stagioni di successi. Anzi trionfi, su cui aggettivi e cifre si sprecano (una per tutte: 130 milioni di visualizzazioni per Mare fuori 4) tant’è che, quali che saranno gli esiti della nuova stagione (ma nessuno dubita che saranno ancora trionfali, almeno nei numeri), già a giugno 2025 inizieranno le riprese della sesta.
Ho scritto già più di una volta su Mare fuori[1], donde una domanda preliminare: è davvero utile parlarne ancora o non conviene piuttosto evitare quelle che potrebbero apparire snobistiche battaglie di retroguardia nei confronti di un “prodotto italiano” lanciato alla conquista dei mercati di mezzo mondo?[2] Ritengo, in linea con Questione giustizia, che il fatto che questo programma sia così seguito, tanto più sulle reti del Servizio pubblico italiano (si dice ancora così…), sia divenuto anche (forse soprattutto) una colossale questione di soldi e abbia sempre al centro il carcere minorile, oggetto di dibattito nella realtà, segnali la necessità di affrontare ancora questioni, legate appunto al carcere, che Mare fuori continua a proporre. Trattandosi di un discorso articolato, conviene scandirne preventivamente i punti essenziali: 1) Contenuti e connotazioni di fondo della fiction; 2) Come, in essa, vengono rappresentate le situazioni di ragazzi/ragazze che entrano e permangono in un istituto penale minorile, d’ora in poi ipm[3]; 3) Messaggi insiti in tale rappresentazione ed analisi di talune, rilevanti, distorsioni del tutto.
2. Nel dark dipinto di dark
Nessun dubbio sul fatto che l’attuale stagione abbia una connotazione accentuatamente dark, per molti un quasi doveroso ritorno alle origini dure e pure (un titolo di giornale: Mare fuori ritorna alle origini. Meno sentimentalismo, più crudezza). Tutto, naturalmente, ben studiato a tavolino. Il direttore della produzione R. Sessa ha spiegato a La Stampa: «La quota soap e melò sarà inferiore rispetto al passato, per fare più spazio alle storie di criminalità e di denuncia sociale», mentre il regista L. Di Martino ha dichiarato allo stesso giornale che si è voluto «dare un taglio nuovo, più realistico…». Di fatto, nei dodici episodi della quinta stagione le vicende dei personaggi vecchi e nuovi sono generalmente all’insegna di una violenza che si direbbe parossistica, con una costante ricerca di effetti ed effettacci. Essa è così accentuata da produrre talvolta esiti grotteschi e financo comici, ma certo la narrazione ˗ un insieme pressoché ininterrotto di fatti di sangue e violenze d’ogni genere sia all’esterno che dentro il carcere ˗ è impregnata di drammatizzazione esasperata.
La massima parte dei ragazzi e delle ragazze fa parte di clan contrapposti e comunque, anche quando agiscono isolatamente, si rendono autori o complici di omicidi efferati. Ciò riguarda in particolare, significativamente, personaggi nuovi: due ragazzi del nord (i milanesi), autori di un omicidio tanto violento quanto gratuito e poi, dentro il carcere, di spaccio e violenze assortite; una coppia di ragazze anch’esse assai violente; un ragazzo di ottima famiglia (figlio di una magistrata…) che aveva ucciso per rivalsa dopo la morte del fratellino in una “stesa” camorristica e che in carcere continua ad odiare considerando gli altri, in blocco, criminali.
Non c’è, in genere, differenza fra dentro e fuori. Extra moenia imperano camorra, malaffare, violenza e sopraffazione; dentro nulla cambia se non, di solito, in peggio perché la situazione di fondo è analoga, la concentrazione di ragazzi e ragazze in spazi ristretti e chiusi moltiplica aggressività e occasioni di scontro e i soggetti istituzionali sono, al di là di agenti di custodia che non brillano per efficienza (uno, d’altronde, si è invaghito di una detenuta e si presta a traffici vari), pochi e parecchio “incasinati” di loro. La direttrice viene raggiunta da una figlia adolescente non meno problematica dei detenuti e che ne combina di tutti i colori; il comandante della polizia penitenziaria (O’ Comandante) ˗ onnipresente, non sempre proficuamente, dentro e fuori il carcere ˗ lega sentimentalmente con la madre di una giovane boss detenuta; l’educatore Beppe, altro factotum, continua la sua relazione con la direttrice, che adesso, però, deve pensare anche a quella dannata figlia che riesce pure a falsificare relazioni per l’autorità giudiziaria…
3. Fantasia e realtà
Ci sarebbe da sorridere e talvolta, liberatoriamente, da farsi una bella risata, alla faccia del dark. Ma l’aspetto assai serio della faccenda è che, come sempre in Mare fuori, c’è quale superprotagonista il carcere minorile, raffigurato, in questa stagione in particolare, come l’indispensabile contenitore di giovani sempre più violenti, che fuori sono incontenibili (prima di quello che di solito è l’ennesimo e più grave delitto, ma anche in occasione di permessi di uscita dal carcere) e dentro, in massima parte, refrattari a percorsi di impegno e recupero. Ciò è fortemente negativo perché coincide con l’ottica di molti ˗ dai nostri governanti a chi è convinto che si debba “gettare via la chiave” già per fatti assai meno gravi ˗ per cui la restrizione carceraria è ben più che un’extrema ratio. Ed è paradossale che sia il regista, nella già citata intervista, a dichiarare la volontà di «restituire la situazione in cui versano oggi le carceri minorili», spiegando che «Con il decreto Caivano c’è stato un aumento del 50% degli ingressi nelle carceri che però non corrisponde a un aumento dei reati. Purtroppo si sta facendo largo un’idea di detenzione sempre più punitiva, mentre la vera sfida è educativa».
Paradossale perché in Mare fuori i “ragazzi dentro” non sono affatto quelli che prima del decreto Caivano[4] non avrebbero potuto subire la custodia cautelare in carcere bensì giovani autori di reati generalmente assai gravi, che in carcere ci finivano già. Sono loro il vero volto della fiction, quello che va incontro agli umori di un pubblico allarmato dall’effettivo aumento (anche) in ambito minorile dei casi di aggressività particolarmente violenta ma anche confuso sulle effettive cause, proporzioni, specificità e localizzazioni di un fenomeno da analizzare con molta attenzione e vari distinguo. Ovviamente non è questo il compito di una fiction, ma essa, proprio perché così seguita dalla gente e perché gli stessi responsabili dicono di voler restituire la reale situazione attuale delle carceri minorili, avrebbe dovuto quantomeno collocare l’invenzione filmica su uno sfondo più aderente alla realtà. Che non sia stato così emerge palese da qualche dato statistico (fonte il SISM -Sistema Informativo dei Servizi Minorili). Al 31.12.2024 i numeri più elevati relativi alle presenze nel complesso degli ipm italiani riguardavano, come del resto intuibile, giovani ristretti per rapine (662), stupefacenti (222), furto (287) e lesioni personali dolose (261), mentre quelli per omicidio volontario consumato erano 23.
Continua, d’altronde, ad essere evidente e macroscopico (ma non per il grande pubblico, che pensa a varie migliaia di detenuti e detenute) lo scarto tra fiction e realtà quanto alle ragazze ristrette negli ipm. Nella realtà erano, sempre alla fine del 2024, 26, di cui 17 in un’unica struttura (quella di Pontremoli, solo per utenza femminile) e le altre 9 divise fra Casal del Marmo (Roma) e Nisida (Napoli), in massima parte per reati di furto (66) e rapina (29), mentre altri e più gravi sono del tutto residuali (3 omicidi volontari consumati, 1 tentato). Tutto ciò mentre Mare fuori continua a proporre l’immagine di un carcere minorile dove le detenute sono in numero ragguardevole e sol di poco inferiore a quello dei maschi (che, al 31.12.2024, erano invece 562, a fronte delle già citate 26 femmine), contendono ai maschi la cruenta leadership sia dell’intra moenia (in realtà solo 2 strutture su 17 sono ad utenza mista e una è, come già accennato, solo per donne) che del territorio, quali eredi o comunque congiunte di boss, vecchi e giovani, defunti (nella realtà i trapassi del potere camorristico/mafioso sembrano seguire ben altri percorsi).
4. Fiction e finzione
A ben vedere Mare fuori si regge, oltre che su una fiction ben congegnata e realizzata sul piano della scrittura, della sceneggiatura, della resa filmica e dell’interpretazione, su un insieme di finzioni nel senso più proprio e “italico” del termine.
La visione è formalmente consigliata dalla Rai solo ad un pubblico adulto, mentre è di tutta evidenza che il prodotto è stato creato per venire incontro, in particolare, al gusto di giovani e giovanissimi[5] e sottrarre alla concorrenza questa consistente fascia di pubblico (la stessa per cui “funzionano” cantanti che un tempo non sarebbero mai saliti sul palco dell’Ariston a Sanremo, dove, guarda caso, “quelli di Mare fuori” sono ospiti fissi dell’evento nazionalpopolare per eccellenza). Si vuole far pensare al carcere minorile di Nisida, ma la location effettiva è una struttura della Marina Militare. Un consolidato messaggio, sul sito di Mare fuori, recita che «Tra quelle mura a picco sul mare hanno la possibilità di navigare nel loro mare interiore, crescere, innamorarsi e cambiare». Peccato che ciò venga manipolato con scelte funzionali ai gusti del pubblico anziché, come ovvio, degli ospiti dell’immaginaria struttura detentiva. E così per questa stagione si è puntato sul dark, mentre in precedenza si era puntato di più sulle “quote” di melò e soap… Le vicende amorose sono da sempre fonte d’attrazione per il pubblico e così si è inventato un carcere minorile promiscuo in tutti i sensi. Proprio questa ambientazione di love stories in un contesto atipico e complicato, se non impossibile, come quello di un carcere è stata la “genialata” di fondo che ha conferito originalità e particolare forza attrattiva all’intera serie.
Nulla o quasi di quanto rappresentato in Mare fuori potrebbe avvenire in una vera struttura detentiva, ancorché minorile. Nei veri ipm direttori/direttrici, educatori e personale di polizia penitenziaria portano avanti fra mille, notori, problemi, di fatto aggravati dagli effetti delle scelte politiche e governative, percorsi di recupero difficili, incerti, ma comunque seri. Molto spesso sorgono problemi che richiedono l’intervento di operatori specializzati (per abuso di sostanze e/o alcool, disturbi sul piano della salute mentale, necessità di mediazione culturale, attivazione di percorsi lavorativi e riparativi…) e tutto è complicato da svariate problematiche (carenza di risorse, scoperture nei Servizi, carceri sovraffollate, rapporti problematici fra giovani di provenienze e culture anche molto diverse, spesso privi di congiunti in Italia). Ma almeno esistono delle linee di condotta frutto di una cultura minorile che in Italia ha radici profonde e per cui il carcere non è un’isola ma parte di una rete, quella dei Servizi della giustizia minorile, abituata ad interloquire da un lato con i Servizi del territorio e dall’altro con la magistratura minorile.
Tutto ciò, in Mare fuori, non esiste: dall’inizio della serie non è mai comparsa una figura di magistrato, ragazzi e ragazze entrano in carcere, e talvolta ne escono, interagendo unicamente fra loro e con l’improbabile triade direttrice-comandante-educatore. Questa si incarica di chiedere talvolta dei permessi a un giudice lontano e misterioso ˗ che in quel carcere non ci ha mai messo, né mai ci metterà, piede e chissà se e cosa ne capisce ˗ e per il resto fa e disfa con logiche improvvisate e impregnate di emotività non molto dissimili da quelle di chi è ristretto.
5. Conclusioni
In Mare fuori c’è, certo, anche nell’attuale stagione, qualche storia che “finisce bene” nonostante tutto. Ma è emblematico come ciò avvenga. In un caso l’innocenza di una ragazza viene riconosciuta non all’esito di indagini e di un qualche giudizio ma essenzialmente perché, per dinamiche tutte interne al circuito dei giovani detenuti, l’effettivo colpevole decide improvvisamente di urlare, nel cortile del carcere, la propria responsabilità. In un altro, un giovane esce, parrebbe per fine pena, con una prospettiva per il dopo scaturita proprio e solo in carcere, grazie ad attitudini musicali e canore stimolate decisivamente dall’esperienza detentiva; in pratica dallo “stare dentro” immerso nel turbinio di relazioni costantemente e gravemente perturbate ma che, è il messaggio, possono comunque far uscire “meglio di come si era entrati”.
Insomma, il fulcro di tutto è sempre il carcere, che in qualche modo finisce per essere, comunque, salvifico. Esso ha un rilievo tale che sembra difficile, se non impossibile, potersene fare a meno, quasi che fosse un passaggio obbligato per poter avere qualche chance di futuro. Ciò quasi indipendentemente da se e quale reato è stato effettivamente commesso, dalla pena concretamente comminata, da un’effettiva presa di coscienza collegata, oltre che con la propria interiorità, con corrette relazioni con altri (in particolare le vittime) e da progetti che, per poter contare su basi solide, dovrebbero essere non solo individuali ma costruiti con chi può farli planare sul territorio, già così difficile, evitando che vadano a schiantarsi contro di esso.
Sono questioni che certo non si pone chi sta già lavorando, bruciando i tempi, alle stagioni di Mare fuori successive alla quinta. Il produttore, fissato il calendario della sesta (set a Napoli, da giugno, per sei mesi), assicura che la settima è già in cantiere e conclude speranzoso «Potremmo arrivare a Mare fuori 10, chissà…»[6]. Per come funziona e rende il prodotto non sembra, comunque, dubbio che le sue caratteristiche di fondo non muteranno. La serie televisiva, d’altronde, ha trainato e traina un musical, un libro, un film dato in uscita entro il 2025 (Io sono Rosa Ricci, una delle protagoniste della fiction) e perfino un album con le figurine dei personaggi, che ho visto in edicola. Sono certo che nei menu di certe pizzerie figura già la pizza mare fuori. Tutto ciò è coerente con la genesi e la natura, mi verrebbe da dire di prodotto tipico (lasciamo perdere il livello qualitativo), di Mare fuori, che ha ben poco da spartire, ad es., con Adolescence, la serie di cui pure si parla in questo periodo e dove la tematica dei fatti di sangue tra giovanissimi è ambientata in Inghilterra con taglio e approfondimento ben diversi.
[1] La recensione riguardante la prima stagione fu pubblicata online da Minorigiustizia nel n. 4/2020, sotto il titolo Un carcere minorile senza giustizia e con poca speranza. Almeno nella fiction. Le recensioni della terza e della quarta stagione sono state invece pubblicate da Questione giustizia online, rispettivamente il 18.3.2023 (titolo: Mare fuori: pregi e limiti di una fiction da record) e il 23.3.2024 (titolo: Mare fuori, sempre più lontano dalla realtà del carcere minorile).
[2] Il produttore della serie ha dichiarato al Venerdì di Repubblica del 14.3.2025: «Mare fuori è amato in America Latina ma anche in Israele e Scandinavia. Con la terza stagione a Napoli è arrivato anche il New York Times, siamo andati sulla Abc…».
[3] Mario Abrate, già direttore dell’ipm di Pontremoli e autore del libro Le ragazze di Pontremoli (ed. Impremix, Torino, 2024), sottolinea giustamente in tale testo che già il dpr n. 448/88 non parlava più di carceri minorili bensì di istituti penali per minorenni.
[4] Cfr. decreto legge n. 123 del 15.9.2023, convertito con modifiche nella legge 13.11.2023, n. 159.
[5] Nell’articolo sul Venerdì di Repubblica citato in nota 2 e scritto da Ilaria Urbani si segnala che la metà dei fruitori di Mare fuori ha meno di 25 anni.
[6] V. ancora il già citato articolo di I. Urbani sul Venerdì di Repubblica, p.113.